Autore Marta Fana
CoautoreSimone Fana
Titolo Basta salari da fame!
EdizioneLaterza, Bari-Roma, 2019, tempi nuovi , pag. 166, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-581-3887-8
LettoreGiorgia Pezzali, 2020
Classe lavoro , economia , economia politica , storia economica












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                             XI


Viaggio al centro della terra                             3

Le prime lotte: dal dopoguerra allo sviluppo economico    8

L'età della sconfitta: 1973-1984                         26

Futuro passato: dal 1993 a oggi                          36

La struttura dell'occupazione                            69

Salari e produttività: il grande inganno                 84

Salari e profitti: a che serve la tecnologia?            93

Il prossimo agnello da sacrificare                      105

Il salario minimo fa bene                               115

Il salario minimo in Italia:
    tabù a sinistra, proposte a destra                  138


Conclusioni: la posta in gioco                          144


Note                                                    147
Bibliografia                                            157
Indice dei nomi                                         165


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina XIV

Di fronte a un ribaltamento della storia, di come vanno le cose e di come sono andate non per un evento imprevisto, ma per un susseguirsi di scelte deliberate tese a favorire i profitti più che la dignità del lavoro; di fronte ai fatti che ormai mordono la cronaca e non c'è alibi che tenga - non è colpa della rigidità del mercato del lavoro, dei sindacati, degli immigrati o della tecnologia - la classe dirigente italiana, quella che decide delle scelte aziendali e politiche ormai da troppi decenni, fa spallucce, si chiude in un cinismo quasi volgare.

Oggi in Italia si guadagna meno di trent'anni fa, a parità di professione, a parità di livello di istruzione, a parità di carriera. Vale per tutti, tranne per quella minoranza che sta in alto. Non è una casualità, né un fatto nuovo. Perché la questione salariale nel nostro paese, ma non solo, è un pezzo di storia politica che può essere raccontata con le retoriche di chi continua a comandare o dalla viva voce di quanti quel comando lo subiscono sulla propria carne viva. Abbiamo quindi deciso di ripercorrerla, connettendo il filo che lega il passato con il presente, dove il futuro appare una proiezione di un tempo lontano, ma il cui volgere non è affatto scontato.

Il nostro punto di partenza è il dopoguerra, quando la frantumazione del lavoro e le condizioni di sfruttamento intensivo, dentro e fuori i settori privilegiati della nuova industrializzazione, erano la norma. Per due decenni uomini e donne, dalle campagne alle città, tornarono a unirsi in organizzazioni politiche e sindacali, a fare inchieste, a denunciare, a lottare per un salario minimo dignitoso. La crisi internazionale di metà anni Settanta fu colta come momento propizio per sferrare un duro colpo a quella maggioranza che pareva indomita, accerchiandola con una retorica che attribuiva agli aumenti salariali la causa della galoppante inflazione e la perdita di competitività e, di fatto, decretando la sconfitta di quel movimento. Su queste basi ideologiche furono portate avanti le politiche di austerità sia monetaria che fiscale, permettendo alle imprese di procedere alle proprie ristrutturazioni fatte di esternalizzazione e frantumazione dei processi produttivi. Un meccanismo che nel tempo, dai primi del Novecento fino ai giorni nostri, caratterizza la strategia aziendale di protezione dei profitti e gestione del ciclo economico, facendo del costo del lavoro un fattore variabile su cui scaricare il rischio aziendale e le fluttuazioni della domanda interna ed esterna.

Ma è grazie all'ingente apparato retorico e ideologico, a corredo di tale offensiva, che i salari tornarono ad essere l'agnello da sacrificare in nome dell'interesse aziendale, eretto ad unico interesse nazionale. Se ne convinsero persino i sindacati, accettando non soltanto di congelare i salari ma anche di assestarsi lungo una dinamica di compatibilismo con le richieste del mercato. Non più agente politico che morde e attacca, ma soggetto che smussa gli angoli e cura le ferite più laceranti di un processo trentennale di riforma del lavoro che si è spinto talmente oltre da aver istituzionalizzato anche il lavoro gratuito, considerandolo pratica del tutto normale. Nonostante tutto questo, le aziende continuano tenacemente a esigere sconti fiscali, sgravi e ovviamente salari più bassi. In un paese che conta il 14% di forza lavoro in condizioni di povertà lavorativa, dove il 30% dei giovani occupati non guadagna più di 800 euro al mese - come ha dichiarato l'Inps - e dove ex ministri dello Sviluppo economico sbandierano tra le virtù del Made in Italy quanto poco vengono pagati i laureati italiani rispetto ai colleghi europei.

Milioni di persone sono già vittime di queste politiche che rischiano di coinvolgere strati sempre più ampi della società, perché l'avidità dei profitti non guarda in faccia nessuno e sfrutta tutti i meccanismi di oppressione di cui dispone per costringere a una condizione di vulnerabilità sempre più individui e famiglie, di qualsiasi genere, età ed etnia. Ma per farlo ha bisogno che la possibile unità di questa parte della società venga quotidianamente celata e la frantumazione sfruttata a proprio vantaggio, facendo credere che le identità dei singoli lavoratori siano irriducibilmente distinte e non possano coalizzarsi. Quando la frammentazione interna al mondo del lavoro non è sufficiente a contenere il conflitto sociale, bisogna trovare comunque argomenti che spostino il centro dell'attenzione dalle sue vere cause, da chi sfrutta e decide di sfruttare. Da qui il mito della tecnologia che separa i bravi, meritevoli di salari elevati, da quelli poco produttivi, che invece non hanno diritto che a salari da fame. Ma, anche questa volta, la teoria a monte di una retorica sempre più diffusa si rivela, quando non del tutto inefficace, parziale e incompleta a spiegare i divari salariali esistenti. E allora è giusto andare a guardare oltre, scoprire e riscoprire quali teorie riescono a dare spiegazioni soddisfacenti dei fatti che accadono nella società, in che modo è possibile e doveroso aggiornarle e/o contestualizzarle meglio. Ad esempio, a qualcuno potrà sembrare sorprendente, ma ad altri no, che il problema non sia la tecnologia in sé ma il suo governo: chi ha il potere di comandare quali macchine e in che modo queste devono entrare nei processi produttivi, affiancarsi e/o sostituire i lavoratori, e quali? È una scelta politica, non tecnica.

Le pagine che seguono non hanno alcuna pretesa di esaustività sulla storia anche attuale della questione salariale. Hanno però come obiettivo la ricostruzione, seppure parziale, di un pezzo della nostra storia attraverso le immagini del passato e i numeri del presente, analizzati con gli occhi di chi crede che una battaglia non combattuta è una battaglia persa in partenza. Ma per lottare bisogna sapersi riappropriare di strumenti teorici e retorici che permettano di avanzare e di costituire un fronte più vasto possibile, sapendo che le condizioni attuali non sono sicuramente favorevoli.

Siamo partiti qualche anno fa con l'idea che l'Italia aveva bisogno di una campagna a tutto spiano contro il lavoro povero in tutte le sue forme, dagli appalti al lavoro gratuito, dai tirocini al demansionamento. Crediamo sia necessario dire senza mezzi termini che nessun lavoratore, neppure part time, può essere povero, può cioè guadagnare meno di mille euro al mese. Niente di rivoluzionario, ma si tratta di un primo obiettivo - per quanto moderato - che sfida l'aumento delle disuguaglianze che dai luoghi di lavoro e non lavoro si estendono a tutta la società.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 84

Salari e produttività: il grande inganno



Da trent'anni il mantra che si diffonde dai principali organi di stampa alle sedi istituzionali è sempre lo stesso: la bassa crescita dell'economia italiana è dovuta all'andamento stagnante della produttività, vale a dire il rapporto tra valore della produzione e il costo dei fattori impiegati per ottenerla. Una tesi che si è affermata nel senso comune come una verità assoluta, fissata nella coscienza collettiva, un dato di fatto, immodificabile, estraneo ad interrogativi critici. Un totem che ha spinto culture politiche lontane a ritrovare in questa diagnosi dei malanni del paese un punto di convergenza duraturo. L'assunto incontrastato che domina il dibattito pubblico è che ogni provvedimento del governo deve fungere da stimolo alla produttività del lavoro per rendere le imprese più competitive.

Parlare solo di produttività del lavoro, però, e non dell'intera struttura produttiva o dei costi totali per ciascuna impresa, è un atto deliberato. Significa porre al centro della questione solo una sua parte, evitando di far accendere i riflettori sugli altri fattori produttivi che dipendono unilateralmente dalle scelte aziendali, come ad esempio il tipo di macchinari impiegati e quindi gli investimenti. Puntano sempre il dito contro il costo del lavoro. Tutti gli sforzi del governo, qualsiasi esso sia, devono necessariamente essere orientati alla compressione del costo del lavoro: salari, contributi sociali e previdenziali. Come detto, in Italia questo ritornello va avanti da diversi decenni e la scarsa dinamica dei salari è fatta dipendere proprio dagli scarsi livelli di produttività del nostro sistema economico, perché - dicono - il lavoro in un sistema che non spreca le proprie risorse deve essere pagato per il suo valore marginale, cioè il contributo che ogni unità aggiunge al valore della produzione. In gergo, il salario in un sistema efficiente deve eguagliare la sua produttività marginale. Un fatto automatico, tecnico, una legge naturale che nessuno può mettere in discussione, pena essere definito uno sprecone, un fautore dell'inefficienza, un detrattore dello sviluppo economico. Ma chi l'ha detto?

L'assunto del salario che deve seguire l'andamento della produttività trova il proprio fondamento in una scuola di pensiero che nasce alla fine dell'Ottocento in Europa e che ha goduto di indiscussa fama tra la fine degli anni Settanta e l'inizio del nuovo millennio. Ci riferiamo alla scuola neoclassica o marginalista che è stata protagonista di una rivoluzione di paradigma delle scienze sociali, prendendo il sopravvento sulle teorie critiche di estrazione marxista e keynesiana. Questa dottrina parte dall'assunto fondamentale che la società, come qualsiasi organismo naturale, tende a un suo punto di equilibrio. E l'equilibrio lo fa il mercato attraverso la mano invisibile! È il mercato, assunto nella sua dimensione neutrale, oggettiva e deterministica, che ordina dall'esterno ciò che all'interno può presentarsi come disordinato, conflittuale o addirittura anarchico seguendo la felice intuizione di Marx. Il mercato determina i prezzi dei beni, il valore dei salari, delle materie prime e della tecnologia.

Insomma, ognuno nel mercato ha quello che si merita. Tutto bene quel che finisce bene, se non fosse che a guardare i dati questa efficienza e pura neutralità di "allocazione delle risorse e dei guadagni" non è per nulla verificata. Se così fosse infatti gli aumenti di produttività dovrebbero essere assorbiti dai salari, mentre, stando ai dati Ocse, tra il 1995 e il 2013 (ma si potrebbe andare indietro nel tempo e/o usare anche altre fonti) la forbice tra la dinamica della produttività e dei salari è andata progressivamente ampliandosi: significa che i lavoratori ricevono in media meno di quanto contribuiscono a creare. O - come preferiamo definirlo noi - sono vittime di un deliberato furto salariale. Dinamica che si avvera in media, e si aggrava se ci si sofferma sui salari mediani.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 93

Salari e profitti:
a che serve la tecnologia?



[...]

Cos'è allora che può aiutarci a spiegare come e perché la tecnologia viene adottata? Sono i rapporti di potere nella società a plasmare le scelte degli attori in campo e a determinarne gli effetti, e sta alla capacità delle istituzioni mediare in una direzione piuttosto che in un'altra questo intrinseco conflitto.

Usare genericamente le parole "tecnologia" o "innovazione" vuol dire tutto e niente, significa confondere le acque senza distinguere tra metodi e strumenti diversi. L'applicazione dell'innovazione tecnologica ai processi produttivi e di conseguenza il modo in cui attraverso questi si giunge a modificare l'organizzazione del lavoro producono effetti asimmetrici sull'occupazione e sul conflitto distributivo tra salari e profitti. La tecnologia come forma di conoscenza, sia essa incorporata nelle conoscenze umane, in una singola macchina o in un "sistema macchine", non è che un tentativo di ampliare le capacità umane, di produrre con minore impiego di lavoro una determinata operazione o di essere in grado di realizzarne di nuove. È in sintesi uno dei meccanismi attraverso cui viene stimolata la produttività tecnica e quindi la possibilità di espansione e accumulazione del capitale.

Non necessariamente le innovazioni tecnologiche comportano una riduzione della quantità di lavoro impiegata, provocando così disoccupazione; al contrario, esse possono produrre - anzi nella maggior parte dei casi producono - cambiamenti nella qualità di lavoro impiegato. Non vi è quindi alcun nesso "naturale" tra innovazione tecnologica e riduzione dell'orario di lavoro. Si tratta ancora di capire che gli investimenti di capitale seguono le curve di profitto delle imprese e non sono mai forieri di sconti per i lavoratori. La possibilità di spingere l'innovazione tecnica verso i bisogni dei lavoratori è condizionata dal potere reale di determinare le scelte dell'impresa. E oggi come ieri il potere dei lavoratori è direttamente legato alla stabilità dell'occupazione e al ruolo del salario di offrire quella protezione necessaria per rivendicare maggiori diritti nell'organizzazione del lavoro. In un sistema basato sulla totale libertà d'impresa e di movimenti di capitale, la scelta su quali tipi di tecnologia adottare e come dipende dall'imprenditore e ha come obiettivo l'aumento dei profitti, perché questo è il fine ultimo per definizione dei soggetti che popolano il tessuto industriale in un sistema capitalistico. È una scelta economico-politica e tecnica allo stesso tempo. Significa che il problema non è la tecnologia, ma il suo governo; di conseguenza, una società che ambisca alla democrazia deve fare di tutto per pretendere di arrivare a governare il modo in cui la tecnica viene applicata e i suoi sviluppi. Solo in questo modo è possibile pensare di dirigerla verso obiettivi che siano allo stesso tempo di miglioramento tecnologico e di pieno accesso universale, per tutti, ai benefici che questo genera.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 101

Cassiere, hostess e addetti al pubblico diminuiscono e il loro lavoro scade nell'assistenza ai clienti: c'è chi interviene sbloccando la cassa quando il cliente non riesce a finalizzare il pagamento, chi si limita, come nel caso delle hostess, a dire buongiorno e buonasera oppure a dettare le istruzioni ai viaggiatori, migliaia di volte al giorno. Per svolgere queste mansioni non servono più figure superprofessionali, basta il sorriso e, come sempre più spesso viene richiesto negli annunci di lavoro, "il bell'aspetto".

Fin qui dell'effetto negativo sull'occupazione non vi è grande traccia. Anzi, come detto, la struttura occupazionale italiana negli ultimi due decenni ha visto aumentare l'occupazione nei settori a basso valore aggiunto. Lo stesso è avvenuto in altri paesi, tra cui gli Stati Uniti e il Regno Unito. Se per l'Italia ciò può essere in parte spiegato con la scelta di specializzarsi in questi settori a discapito di quelli più innovativi, per gli Stati Uniti, eretti a paladini dell'innovazione e dello sviluppo tecnologico, con il mito della Silicon Valley, questo aumento può sembrare una contraddizione. Ancora una volta, per capire appieno le trasformazioni sociali bisogna introdurre altri elementi, non di complessità ma di chiarezza, che ribadiscono come la tecnologia sia solo uno dei fattori e probabilmente non il più rilevante. Ad esempio, molti studi hanno mostrato come la struttura dell'occupazione sia determinata dalla domanda e dalla sua composizione, fenomeni che sono solo l'effetto della struttura in classi della società e del modo in cui le istituzioni la plasmano.

Tra gli studi seminali troviamo quello di Gøsta Esping-Andersen, secondo cui il regime di welfare adottato dai diversi paesi può essere considerato come il meccanismo centrale nella determinazione dell'occupazione nel settore dei servizi di cura e sanitari. In particolare, quando le istituzioni politiche privilegiano la liberalizzazione del welfare con l'insediamento delle aziende private, non si produrrà necessariamente una riduzione dell'occupazione nel settore - poiché il fabbisogno della popolazione per i servizi di cura rimane lo stesso - ma molto probabilmente essa sarà sempre più dequalificata e retribuita con più bassi salari.

A questo si aggiunge la possibilità per le imprese private di ricorrere a un utilizzo massiccio di contratti precari o fintamente autonomi al fine di abbattere il costo del lavoro, estraendo maggiori profitti, come spiega Daniel Oesch comparando diversi regimi di welfare tra Danimarca, Germania e Gran Bretagna. Il ruolo delle istituzioni in questo contesto è stato studiato per il caso statunitense da Erik Olin Wright insieme a Rachel E. Dwyer, i quali hanno mostrato che l'aumento dell'occupazione scarsamente retribuita e sempre più caratterizzata dalla componente migrante della forza lavoro non è in sé il risultato delle innovazioni tecnologiche, o meglio queste non avrebbero potuto raggiungere quei risultati senza la massiccia riduzione dei salari medi avvenuta negli Stati Uniti tra il 1960 e il 1990.

Gli esempi fin qui adottati considerano la penetrazione del nuovo paradigma tecnologico su occupazioni ad alto contenuto di lavoro fisico, che tuttavia non sono le uniche investite da tali innovazioni. La diffusione dell'Ict e dell'intelligenza artificiale permette di standardizzare anche i lavori di tipo impiegatizio. Anzi, le trasformazioni subite da questo tipo di occupazione possono essere considerate negli ultimi decenni ben più invasive di quelle che si applicano agli operai industriali: il lavoro non solo si riorganizza, ma cambia proprio natura sia nel contenuto che nei metodi. Se storicamente il lavoro impiegatizio è stato caratterizzato da un elevato contenuto cognitivo - ad esempio si richiedevano capacità contabili, di calcolo, amministrative ecc. -, con l'introduzione dei processi informatizzati esso si è trasformato in lavoro di tipo manuale: le funzioni intellettuali sono svolte sempre più di frequente e sempre più velocemente dall'intelligenza insita nei software mentre le mansioni che rimangono in capo ai lavoratori sono sempre più di tipo motorio: occhi, mani che si muovono. Inoltre, tali occupazioni sono ormai routinarie, cioè ripetitive.

Il combinato disposto tra standardizzazione e routinizzazione caratterizza quelle occupazioni a più alto rischio di automazione, ovvero di completa sostituzione del lavoratore con la macchina. Un processo che tuttavia avviene per gradi: il passaggio a una maggiore ripetitività e standardizzazione permette al capitale di frantumare in parti sempre più piccole il lavoro d'ufficio, sottraendo agli impiegati la conoscenza dell'intero processo ma anche l'autonomia nel gestire le informazioni e organizzarle in forma di prodotto documentale verso i livelli superiori. Di fatto, è quanto accaduto con la frammentazione delle mansioni operaie lungo la linea di produzione o catena di montaggio. E così anche in questo caso il potere decisionale su quella parte di processo passa al livello superiore.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 105

Il prossimo agnello da sacrificare



[...]

Passando dalle dichiarazioni ai fatti, il teorema secondo cui il taglio del cuneo fiscale delle imprese favorirebbe la crescita dell'economia italiana e i salari dei lavoratori è falso. Così come falsa è la relazione tra meno tasse alle imprese e maggiori investimenti. I fatti presentati nell'ultimo rapporto Ocse sulle imposte sul lavoro raccontano una realtà molto diversa da quella in auge nel dibattito pubblico nostrano. In primo luogo, non è vero che l'Italia è il paese con il cuneo fiscale più alto tra i paesi Ocse. Prima dell'Italia si posizionano, infatti, il Belgio con un cuneo fiscale del 53,3%, la Germania con un valore che si attesta al 49,7% e solo al terzo posto c'è l'Italia, dove esso raggiunge quota 47,7%, molto simile a quello registrato in Francia (47,6%) e in Austria (47,4%). Insomma, l'Italia è in buona compagnia per quanto riguarda le imposte sul lavoro; peccato che il ritmo con cui crescono redditi e salari dei lavoratori francesi, austriaci, tedeschi e belgi sia da due decenni ormai ben al di sopra di quelli registrati in Italia. Inoltre, sempre l'Ocse afferma che in Italia dal 2016 al 2017 la componente non salariale del costo del lavoro è continuata a diminuire. Un trend che è iniziato proprio nel primo decennio del secolo con le manovre di taglio al costo del lavoro, portate avanti dai governi di diverso colore politico.

Dagli sgravi della legge Tremonti, che precede Prodi perché la destra ha sempre saputo fare la destra, ai provvedimenti del governo Prodi fino a quelli emanati di recente, lo spartito non cambia. Miliardi fatti risparmiare alle imprese ma pagati dagli altri lavoratori per confermare i contributi non versati dai primi. L'abbattimento del cuneo fiscale si presenta nitidamente come uno spostamento di risorse dai salari ai profitti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 115

Il salario minimo fa bene



Al primo corso di Economia del lavoro, alla domanda "che succede se aumentiamo i salari minimi?" la maggioranza degli studenti risponderebbe che l'effetto più immediato sarebbe una riduzione della domanda di lavoro da parte delle imprese, perché dovrebbero pagare prezzi più alti e quindi aumenterebbe la disoccupazione. Non è certo possibile biasimare gli studenti al loro primo anno di corso se i libri di testo ricalcano le tesi di George Stigler che nel 1946 dalle pagine dell'"American Economic Review" decretò che a seguito dell'aumento del salario minimo un incremento "diretto della disoccupazione è sostanzioso e certo; e questo conferma la presunzione secondo cui 'gli effetti netti del salario minimo sull'occupazione aggregata sono negativi' o letteralmente avversi". Contro il salario minimo e suoi aumenti, i liberisti sono sempre stati chiari e inamovibili dalle loro posizioni. Milton Friedman , altro padre della controrivoluzione neoliberista, in una celebre intervista, riutilizzata nel 2013 contro la proposta Obama per un aumento dei minimi salariali, disse:

La legge sul salario minimo è più propriamente descritta come una legge che afferma che i datori di lavoro devono discriminare le persone che hanno basse competenze. Questo è quello che dice la legge. La legge dice che qui c'è un uomo che ha un'abilità che giustificherebbe uno stipendio di $ 5 o $ 6 l'ora (aggiustato per oggi), ma non puoi assumerlo, è illegale, perché se lo assumi devi pagarlo $ 9 l'ora. Allora, qual è il risultato? Impiegarlo a $ 9 l'ora è impegnarsi in beneficenza. Non c'è niente di sbagliato nella carità. Ma la maggior parte dei datori di lavoro non è nella posizione di impegnarsi in questo tipo di beneficenza. Pertanto, le conseguenze delle leggi sul salario minimo sono state quasi del tutto negative. Abbiamo aumentato la disoccupazione e aumentato la povertà.


Ancora una volta però i padri del neoliberismo e tutti i loro adepti sono stati smentiti dalla realtà, registrata nella maggior parte degli studi che analizzano gli effetti del salario minimo. Robusti e inconfutati sono infatti i risultati di uno dei lavori seminali sugli effetti del salario minimo, a firma degli economisti Alan Krueger e David Card del 1994. I due autori analizzano l'aumento del salario minimo in New Jersey e dimostrano come l'occupazione non soltanto non diminuisce, ma addirittura cresce. Una breccia che si insinua nel corpo dell'ortodossia liberista, scuotendone i capisaldi teorici che nonostante tutto sono rimasti stella polare delle maggioranze politiche che fin dagli anni Novanta hanno governato l'Occidente. Questo accade perché le scelte di governo rispondono a precisi interessi e in questi casi si tratta di proteggere quelli delle imprese e dei loro profitti, costi quel che costi, ripetendo a pappagallo narrazioni e teorie false. Non è una questione di chi ha ragione e chi torto davanti all'evidenza, è una questione di egemonia. E loro ancora oggi ce l'hanno. Un esempio plastico di come la teoria economica si fa ideologia a servizio del potere dominante.

Sarebbe tuttavia limitato e inefficace guardare agli effetti del salario minimo solo sui livelli di disoccupazione, dal momento che questa è una delle grandezze che caratterizzano il mercato del lavoro e poco dice delle condizioni di lavoro, delle cause dell'elevata e crescente disuguaglianza sociale, del rischio povertà non soltanto dei disoccupati ma anche dei lavoratori. Proprio su questi aspetti sempre a partire dalla metà degli anni Novanta si concentrano molti studi e analisi, concordi nel decretare che il salario minimo fa bene all'economia perché riduce le disuguaglianze socioeconomiche. Il discorso dominante viene così ribaltato: l'aumento delle disuguaglianze è determinato in larga parte dalla riduzione del salario minimo. Ne danno conferma gli economisti John DiNardo, Nicole Fortin e Thomas Lemieux in un saggio pubblicato su "Econometrica". Analizzando le cause dell'aumento delle disuguaglianze negli Stati Uniti tra il 1973 e íl 1992 gli autori affermano che sebbene altri fattori - come il tasso di sindacalizzazione, la composizione della forza lavoro e l'interazione tra domanda e offerta - abbiano il loro peso, la spiegazione quantitativamente più importante è la caduta del salario minimo reale tra il 1979 e il 1988. Un effetto che colpisce soprattutto le donne e i lavoratori che si trovano nella fascia bassa della distribuzione dei salari.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 138

Il salario minimo in Italia:
tabù a sinistra, proposte a destra



[...]

Mentre la direzione delle imprese si fa via via più forte al vertice, attraverso processi di fusione del piccolo e medio capitale nel grande capitale dei monopoli e degli oligopoli, il mondo del lavoro si trova disperso e diviso. Davanti a un aumento di potere nel vertice della piramide si assiste a una frantumazione del potere alla base. Un processo che ha implicazioni anche nella discussione politica. Non è un caso che i partiti politici di maggioranza e opposizione e i rappresentanti del mondo delle imprese, da Confindustria all'ex presidente dell'Inps Tito Boeri, sostengano esplicitamente o velatamente la necessità di introdurre un salario minimo per legge. L'idea di fondo di questo blocco di interessi è di poter dare alle imprese uno strumento per controllare la dinamica salariale. Il salario minimo deve diventare un meccanismo che schiacci verso il basso la dinamica dei salari, consentendo alle imprese di poter governare il ciclo economico, preservando il livello dei profitti. Una posizione espressa chiaramente da Tito Boeri che, intervenendo al Festival dell'Economia di Trento del 2017, ha proposto di trasformare il valore dei voucher in minimo salariale:

Tutte le innovazioni che si possono fare in Italia come il contratto a tutele crescenti [...] e i contratti che cercano di ridurre la precarietà sono importanti. Nello stesso tempo bisogna essere realistici: il nuovo provvedimento ha introdotto i minimi retributivi orari, per cui stiamo parlando di una cosa molto diversa dai precedenti voucher. Per cui [...] per la prima volta in Italia si può parlare di salario minimo.


Un ragionamento condiviso nelle sue linee di fondo dal Partito democratico - protagonista della liberalizzazione dei voucher - che nella campagna elettorale del 2018 ha avanzato una proposta di legge per un salario minimo a 9 curo l'ora al netto dei contributi previdenziali. Dalla stessa parte della barricata c'è Confindustria che, a proposito dell'introduzione del reddito di cittadinanza, non ha fatto mancare la sua dose di risentimento classista. Negli atti della Commissione permanente Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale senza mezze misure sottolineava "il livello troppo elevato del beneficio economico. I 780 euro mensili che percepirebbe un single, privo di altro reddito dichiarato, potrebbero scoraggiarlo dal cercare un impiego, considerando che in Italia lo stipendio mediano dei giovani under 30, al primo impiego, si attesta sugli 830 euro netti al mese: 910 al Nord (820 per i non laureati) e 740 al Sud (700 per i non laureati)". Insomma, il vero problema dell'introduzione del reddito di cittadinanza è che rischia di disincentivare la ricerca di un'occupazione pagata con salari da fame.

Un modo neanche troppo velato per affermare la piena subalternità dei salari alla dinamica dei profitti, che tradotto significa piena disponibilità dei lavoratori e delle lavoratrici ad accettare salari sotto la soglia di sussistenza. Non stupisce, allora, che a questo coro si sia aggiunta la Lega che propose - la scorsa estate - di arrivare a una legge che fissi in 9 euro l'ora lordi (comprensivi di Tfr, ferie, tredicesima mensilità) il nuovo minimo orario. Per non farsi mancare nulla la Lega aggiunse la volontà di garantire le imprese con un taglio del cuneo fiscale per compensare "l'aggravio" del salario minimo. Lo schema è quello classico. Si fissa un minimo salariale basso e al contempo le imprese vengono aiutate con un imponente taglio di tasse, finanziato immancabilmente dalla fiscalità generale: meno scuola, meno sanità, meno asili nido. Un vero e proprio furto di reddito dai salari ai profitti. Un furto che si fa ogni giorno più minaccioso, visto che l'obiettivo del partito di Matteo Salvini è raccogliere consenso in tutti i settori della società italiana, garantendo alla piccola e media impresa del Nord un ruolo egemone negli equilibri socioeconomici del paese. Insomma, l'interesse mostrato dalla Lega sulla partita del salario riflette una strategia più ampia della destra italiana, basata sull'allargamento della propria base elettorale, agganciando settori periferici del mondo del lavoro a cui viene offerto un piatto caldo in cambio dell'obbedienza al piccolo e medio capitale italiano.

[...]

Si è detto che una discussione sul salario minimo è aperta. Ma nessuno sembra voglia portarla a termine nell'interesse di chi lavora. Sarebbe sufficiente partire da una soglia minima tabellare fissata a 10 euro l'ora a cui aggiungere contributi, ferie, tredicesima mensilità e malattie. Sarebbe un modo per garantire a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici una soglia di dignità, da cui non si scende. Significherebbe arrestare alla base il meccanismo di sfruttamento che schiaccia le vite di milioni di persone per il profitto di pochi. Un pavimento che consentirebbe ai sindacati di aggredire spazi di potere da restituire ai lavoratori, riportando al centro della contrattazione il tema dell'organizzazione del lavoro, dal controllo sui turni alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, e, perché no?, di rivendicare ulteriori aumenti salariali come leva per la crescita della produttività, e non viceversa.

| << |  <  |