Copertina
Autore Graham Farmelo
CoautoreR. May, O. Morton, P. Galison, A. Irwin, A.I. Miller, F. Wilczek, J.M. Smith, R. Penrose, I. Aleksander, C. Sutton, S. Weinberg
Titolo Equilibrio perfetto
SottotitoloLe grandi equazioni della scienza moderna
Edizioneil Saggiatore, Milano, 2005, Nuovi saggi scienza , pag. 384, ill., cop.fle., dim. 140x215x29 mm , Isbn 978-88-428-1147-3
OriginaleIt Must Be Beautiful. Great Equations of Modern Science
EdizioneGranta, London, 2002
TraduttoreLibero Sosio
LettoreCorrado Leonardo, 2006
Classe matematica , fisica , storia della scienza
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Prefazione                                    9
    Dev'essere bella
    di Graham Farmelo


Una rivoluzione senza rivoluzionari          21
    L'equazione di Planck-Einstein
    per l'energia di un quanto
    di Graham Farmelo


Il tempo migliore in cui vivere              56
    La mappa logistica
    di Robert May


Uno specchio in cielo                        78
    L'equazione di Drake
    di Oliver Morton


L'equazione del sestante                    107
    E=mc^2
    di Peter Galison


Una favola ambientale                       132
    Le equazioni chimiche di Molina-Rowland
    e il problema dei CFC
    di Aisling Irwin


Erotismo, estetica e l'equazione d'onda
    di Schrφdinger                          163
    di Arthur I. Miller


Una magia                                   192
    L'equazione di Dirac
    di Frank Wilczek


Equazioni della vita                        228
    La matematica dell'evoluzione
    di John Maynard Smith


La riscoperta della gravità                 254
    L'equazione di Einstein
    della relatività generale
    di Roger Penrose


Capire l'informazione, bit a bit            295
    Le equazioni di Shannon
    di Igor Aleksander


Simmetria nascosta                          318
    L'equazione di Yang-Mills
    di Christine Sutton


Postfazione                                 345
    Come sopravvivono le grandi equazioni
    di Steven Weinberg


Note e altre letture                        353
Indice analitico                            373

 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Prefazione
Dev'essere bella


di Graham Farmelo



            La scienza è per chi impara; la poesia per chi sa.
                       JOSEPH ROUX, Pensées, parte I, numero 7



In un'intervista alla radio concessa nel maggio 1974 per presentare la sua collezione di poesie Finestre alte, Philip Larkin sottolineò che una buona poesia è come una cipolla. Esteriormente sono entrambe gradevoli e invitano a procedere oltre, man mano che dischiudono livelli successivi di significato. L'intento di Larkin era quello di scrivere la cipolla perfetta.

La poesia della scienza è incarnata, in un certo senso, nelle sue grandi equazioni che, come dimostrano i saggi contenuti in questo libro, possono essere scoperte uno strato dopo l'altro. I loro diversi livelli rappresentano però non i loro significati, bensì i loro attributi e le loro conseguenze.

Nonostante i migliori sforzi profusi da poeti e critici letterari, nessuno ha mai trovato una definizione universale di poesia. Non si imbattono invece in alcun problema del genere i matematici quando viene chiesto loro di definire il termine "equazione". Un'equazione è fondamentalmente un'espressione di perfetto equilibrio. Per il matematico puro — che si solito non si occupa di scienze della natura — un'equazione è una formulazione matematica che non ha nulla a che vedere con gli aspetti concreti del mondo reale. Così, quando un matematico vede un'equazione come y = x + l, pensa y e x come simboli completamente astratti, e non come se rappresentassero qualcosa che esiste nella realtà.

Θ perfettamente immaginabile un universo in cui le equazioni matematiche non abbiano nessuna attinenza col funzionamento della natura. La cosa meravigliosa è però che esse ce l'hanno. Di solito gli scienziati formulano le loro leggi nella forma di equazioni con simboli, ognuno dei quali rappresenta una quantità che può essere misurata per mezzo di esperimenti. Θ attraverso questa rappresentazione simbolica che l'equazione matematica è diventata uno degli strumenti più efficaci nell'armamentario dello scienziato.

La più nota fra tutte le equazioni scientifiche è E = mc^2, che fu proposta per la prima volta da Einstein nel 1905. Come tutte le grandi equazioni, afferma un'uguaglianza sorprendente fra cose superficialmente del tutto diverse: l'energia, la massa e la velocità della luce nel vuoto. Attraverso quest'equazione Einstein predisse che, per qualunque massa (m), il suo prodotto per il quadrato della velocità della luce (denotata con la lettera c) è esattamente uguale alla sua energia (E): E = m x c x c = mc^2.

Come ogni altra equazione, la E = mc^2 mette in equilibrio due quantità nello stesso modo di una bilancia a due piatti, col segno = che assolve la funzione di fulcro o coltello. Ma mentre una bilancia mette in equilibrio dei pesi, la maggior parte delle equazioni mette in equilibrio altre quantità: E = mc^2, per esempio, mette in equilibrio energie. Questa famosa equazione cominciò a esistere come una congettura di Einstein, ed entrò a far parte del corpus del sapere scientifico solo a distanza di qualche decennio, dopo che gli sperimentatori ebbero dimostrato che è in effetti in accordo con la natura. L'equazione. che è oggi un'icona del XX secolo, è una delle poche cose scientifiche che si suppone conoscano tutti i partecipanti a quiz televisivi.

Come tutte le grandi equazioni scientifiche, E = mc^2 è simile sotto molti aspetti a una grande poesia. Come la perfezione di un sonetto viene guastata se si cambia una parola o anche solo una virgola, così non si può cambiare un singolo dettaglio di una grande equazione come E = mc^2 senza renderla inutilizzabile. E = 3mc^2, per esempio, non ha alcuna attinenza con la natura.

Le grandi equazioni condividono con la più bella poesia anche un potere straordinario: la poesia è la forma di linguaggio più concisa e più pregnante, così come le grandi equazioni della scienza sono la forma più succinta di comprensione dell'aspetto della realtà fisica che descrivono. Quanto alla E = mc^2, è estremamente potente: i suoi pochi simboli includono una conoscenza che può essere applicata a qualsiasi conversione di energia, da quelle che hanno luogo in ogni cellula di tutti gli esseri viventi sulla Terra fino alla più remota esplosione cosmica. Meglio ancora, pare che essa sia stata valida fin dall'inizio del tempo.

Nello stesso modo in cui lo studio approfondito di una grande equazione può permettere agli scienziati di vedere cose sfuggite loro all'inizio, così ripetute letture di una grande poesia suscitano invariabilmente nuove emozioni e associazioni. Le grandi equazioni sono per l'immaginazione preparata altrettanto ricche di stimoli della poesia. Shakespeare non avrebbe potuto prevedere i molteplici significati che i lettori hanno percepito in "Ti comparerò dunque a una giornata d'estate?", più di quanto Einstein avrebbe potuto prevedere la miriade di conseguenze delle sue equazioni della relatività.

Nulla di quanto ho detto finora intende suggerire che poesia ed equazioni scientifiche siano la stessa cosa. Ogni poesia è scritta in una lingua particolare e perde la sua magia in traduzione, mentre un'equazione è espressa nella lingua universale della matematica: E = mc^2 è uguale in inglese come in urdu. Inoltre i poeti cercano significati e interazioni multipli fra parole e pensieri, mentre è intendimento degli scienziati che le loro equazioni trasmettano un singolo significato logico.

Il significato che una grande equazione scientifica ci fornisce di solito è quello di una cosiddetta legge di natura. Ci aiuta a chiarire questa relazione tra equazioni e leggi un analogia resa popolare dal fisico Richard Feynman. Immaginiamo delle persone che osservino una partita a scacchi. Se nessuno ha mai insegnato loro le regole di questo gioco, potrebbero ben presto congetturarle osservando in che modo i due giocatori muovono i vari pezzi. Immaginiamo ora che i due avversari non giochino su una scacchiera comune ma su una scacchiera molto più grande, e che muovano i pezzi secondo un insieme di regole molto più complicato. Per poter accertare le regole del gioco, gli osservatori devono seguire attentamente le fasi della partita, alla ricerca di regolarità e di qualsiasi altro indizio che possano padroneggiare. Θ questa essenzialmente la situazione dello scienziato. Egli osserva la natura – i movimenti dei pezzi sulla scacchiera – e cerca di ricavarne le leggi sottostanti.

Schiere di pensatori sono stati sconfitte dall'enigma di come sia possibile che leggi di natura fondamentali siano scritte in modo così comodo sotto forma di equazioni. Come mai un così gran numero di leggi possono essere espresse nella forma di un imperativo categorico che due quantità apparentemente prive di alcuna relazione fra loro (il primo e il secondo membro dell'equazione) siano esattamente uguali? Non è chiaro neppure perché esistano leggi fondamentali in generale. Una spiegazione popolare, un po' ironica, è che Dio sia un matematico, idea che sostituisce senza alcun vantaggio domande profonde con una proposizione doppiamente inverificabile. Eppure il disegno divino è stato per molto tempo una spiegazione popolare dell'efficacia delle equazioni nella scienza. Lo attesta la citazione iscritta sul busto che commemora la prima donna astronomo di professione in America, Maria Mitchell (1818-1889), esposto nella Hall of Fame, nel Bronx: "Ogni formula che esprime una legge di natura è un inno in lode di Dio", parole scritte dalla Mitchell nel 1866.

Ancora più controversa dell'origine delle equazioni scientifiche è la questione se esse vengano inventate o scoperte. L'astrofisico statunitense di origine pakistana Subrahmanyan Chandrasekhar si espresse probabilmente a nome dei maggiori teorici quando notò che, ogni volta che trovava qualche nuovo fatto o qualche nuova idea, gli sembrava che non fosse una sua "scoperta", bensì piuttosto "qualcosa che esisteva da sempre e in cui ebbi solo la fortuna di imbattermi". Secondo questa concezione, le equazioni alla base del funzionamento dell'universo esistono in un certo senso nella realtà fisica, indipendentemente dall'esistenza umana, cosicché gli scienziati sono una sorta di archeologi cosmici, i quali cercano di riportare in luce leggi che sono nascoste dall'inizio dei tempi. L'origine delle leggi rimane un totale mistero.

Fra le centinaia di migliaia di ricercatori esistiti finora, ben pochi hanno potuto associare il loro nome a un'importante equazione scientifica. Due scienziati che furono molto bravi a scoprire equazioni fondamentali e particolarmente acuti a percepire il ruolo della matematica nella scienza furono Albert Einstein e il quasi altrettanto brillante fisico teorico inglese Paul Dirac. Nessuno dei due era primariamente un matematico, ma entrambi furono notevoli per la capacità di scrivere nuove equazioni che furono altrettanto feconde della massima poesia. Ed entrambi erano profondamente convinti che le equazioni fondamentali della fisica devono essere belle.

Quest'affermazione può sembrare strana. Il concetto soggettivo di bellezza non è visto di buon occhio in ambienti intellettuali raffinati, e senza dubbio non ha alcun posto nelle critiche accademiche dell'arte con la A maiuscola. Eppure la parola "bellezza" è una di quelle che vengono facilmente alle labbra di noi tutti (persino dei critici più pedanti) quando siamo commossi dalla vista di un bambino sorridente, da un panorama in montagna, da un'orchidea dalla forma squisita. Che senso ha dire che un'equazione è bella? Fondamentalmente, che può provocare in noi lo stesso rapimento prodotto da altre cose che definiamo belle. Come una grande opera d'arte, una bella equazione ha fra i suoi attributi molto più che la pura bellezza: ha universalità, semplicità, necessità e una potenza elementare. Pensiamo a capolavori come Mele e pere di Cézanne, alla cupola geodetica di Buckminster Fuller, all'interpretazione di Lady Macbeth di Judi Dench, alla registrazione di Manhattan di Ella Fitzgerald. Durante la mia prima esperienza di ognuna di queste opere mi resi subito conto di essere in presenza di qualcosa di monumentale per concezione, di qualcosa di fondamentalmente puro, di essenziale, e di creato con tanta arte che qualsiasi cambiamento ne distruggerebbe la perfezione.

Un'altra qualità di una buona equazione scientifica è la sua bellezza utilitaristica. Essa deve concordare con i risultati di tutti gli esperimenti pertinenti e, ancor meglio, fare predizioni che nessuno ha mai fatto prima. Questo aspetto dell'efficacia di un'equazione è simile alla bellezza di una macchina ben progettata e costruita, del tipo di cui sentiamo parlare in Full Metal Jacket di Kubrick, quando la recluta dei marines Gomer Pyle comincia a parlare al suo fucile (sussurrandogli "bello"). Pyle, esaltato, ne loda la costruzione minuziosa, deliziandosi delle qualità che lo rendono perfetto per il suo fine letale. Quell'arma non sarebbe così bella se non funzionasse perfettamente.

Il concetto di bellezza fu particolarmente importante per Einstein, l'esteta scientifico paradigmatico del XX secolo. Secondo il suo figlio maggiore Hans, Einstein «aveva un carattere più simile a quello di un artista che di uno scienziato come lo intendiamo di solito. Per esempio, il suo elogio maggiore per una buona teoria o una buona opera non era che fosse corretta o esatta, ma che fosse bella». Una volta si spinse fino a dire che «le uniche teorie fisiche che siamo disposti ad accettare sono quelle belle», dando per scontato che una buona teoria debba concordare con l'esperimento. Dirac sostenne con enfasi ancora maggiore la sua fede nella bellezza matematica come criterio per la qualità delle teorie fondamentali, e affermò addirittura che questa era per lui «una sorta di religione». Nell'ultima parte della sua carriera spese molto tempo a girare il mondo, tenendo conferenze sull'origine della grande equazione che porta il suo nome, nelle quali sottolineò di continuo che il perseguimento della bellezza era sempre stato per lui un principio informatore e un'ispirazione. Durante un seminario a Mosca nel 1955, quando gli fu chiesto di compendiare la sua filosofia della fisica, scrisse sulla lavagna in caratteri cubitali: "Le leggi della fisica devono avere una bellezza matematica". Quella lavagna è esposta ancor oggi.

Per scienziati di levatura più modesta, un tale estetismo è un credo rigido e improduttivo. Più prosaicamente, la bellezza non è per la maggior parte degli scienziati né un concetto che li preoccupi molto né una guida utile nel lavoro quotidiano. Ι vero che le equazioni che essi usano hanno un fondo di bellezza, e che le soluzioni corrette di tali equazioni sono molto più spesso belle piuttosto che brutte. La bellezza, pero, puo essere sviante. La scienza è cosparsa dei resti di teorie percepite un tempo come belle ma che alla prova dei fatti risultarono poi sbagliate: idee diverse da quelle che aveva in mente la natura. Nel 1921 Einstein giudicò correttamente la nuova teoria della gravitazione dell'astrofisico Arthur Eddington "bella ma fisicamente priva di significato". Quarantacinque anni dopo i fisici che si sforzavano di capire la profusione di nuove particelle subnucleari furono abili a suddividerle in nuovi raggruppamenti matematici, la maggior parte dei quali, però, nonostante la loro superficiale attrazione estetica, risultarono avere poca pertinenza con la natura.

Per la maggior parte degli scienziati che esplorano una nuova teoria, il primo criterio della sua validità è se essa concordi o no con l'esperimento. Come osservò Einstein nel suo libro del 1934 Come io vedo il mondo, "L'esperienza rimane, ovviamente, l'unico criterio dell'utilità fisica di una costruzione matematica".

L'idea che la scienza progredisca attraverso una combinazione di esperimento e di teoria fondata sulla matematica è relativamente nuova. Essa ebbe origine a Firenze solo 380 anni fa, che è come dire ieri rispetto alla durata della storia umana; fu concepita da Galileo, il primo scienziato moderno, il quale si rese conto che la scienza procede nel modo migliore considerando una gamma ristretta di fenomeni, e che questo modo di operare conduce a leggi descrivibili in termini matematici esatti. Questa fu una fra le scoperte più grandi e più produttive nell'intera storia delle idee.

Dal tempo di Galileo ai nostri giorni la scienza è diventata sempre più matematica. Oggi le equazioni sono uno strumento scientifico di enorme importanza, ed è virtualmente un articolo di fede per la maggior parte dei teorici – e certamente dei fisici – che esista un'equazione fondamentale per descrivere il fenomeno che stanno studiando, o che qualcuno ne troverà un giorno una adatta. Eppure, come piaceva congetturare a Feynman, potrebbe infine risultare che le leggi fondamentali della natura non debbano avere necessariamente una formulazione matematica e che possano essere espresse meglio in altri modi, per esempio come le regole che governano una partita a scacchi.

Per il momento pare che le equazioni offrano il modo più efficace di esprimere le leggi scientifiche fondamentali. Le equazioni non sono però al centro delle preoccupazioni di tutti gli scienziati, molti dei quali possono cavarsela benissimo con una conoscenza solo rudimentale della matematica. Ne troviamo un esempio in una barzelletta che ha per protagonisti un matematico, un fisico, un ingegnere e un biologo. Una persona chiede separatamente a ognuno di loro il valore numerico del π. Il matematico risponde esattamente che esso «è uguale al rapporto fra la circonferenza e il diametro di un cerchio». Il fisico replica che è pari a «3,141593, più o meno 0,000001». L'ingegnere dice che è «circa 3». E il biologo domanda: «Che cos'è il π?».

Questa è ovviamente una caricatura. Ci sono fisici non molto agguerriti in matematica, ingegneri brillanti nell'applicarla al loro lavoro e biologi teorici che sono per contro bravi matematici. Come tutte le caricature, però, ha un nocciolo di verità. Gli ingegneri tendono ad avere un atteggiamento utilitario verso la matematica e considerano molto importante lavorare con buone approssimazioni. E fra tutte le scienze, la fisica è la più matematica e la biologia la meno matematica. Dal tempo di Galileo in poi, i fisici hanno ottenuto i migliori risultati semplificando le situazioni, scomponendo la complessità del mondo quotidiano nelle sue parti componenti più semplici. Un tale riduzionismo non è sempre una scelta possibile per i biologi, che studiano il mondo infinitamente complesso della vita, con le sue comunità interconnesse di organismi, ognuno dei quali ha una struttura estremamente complicata in termini molecolari. E non dimentichiamo che la teoria unificante della biologia è, almeno superficialmente, non-matematica: L'origine delle specie, l'esposizione della teoria dell'evoluzione per selezione naturale di Darwin, non contiene nemmeno un'equazione. Lo stesso vale per la teoria della deriva dei continenti dei geologi, i cui primi articoli (pubblicati subito dopo la Seconda guerra mondiale) furono virtualmente una zona franca in cui non erano ammesse equazioni.

I saggi contenuti in questo volume riflettono l'importanza della matematica nelle varie branche della scienza dal 1900 in poi, cosicché la fisica vi è ben rappresentata. Facendo riferimento alle idee di Einstein e di Dirac sulla bellezza delle equazioni fondamentali della fisica, non intendo sottintendere che tutte le grandi equazioni presentate in questo libro siano belle nel senso descritto qui. La grande maggioranza delle equazioni, tuttavia, ha secondo me un certo grado di bellezza.

Nel volume sono discussi tre fra i grandi contributi di Einstein (fra cui E = mc^2 e la sua equazione della relatività generale), e ci sono saggi su altre equazioni importanti che hanno condotto alla nostra comprensione attuale del mondo subatomico. Un posto speciale spetta all'equazione di Dirac: non solo assolve bene il compito di descrivere il comportamento dell'elettrone, ma, contro qualsiasi attesa, predice l'esistenza dell'antimateria, che un tempo costituì quasi metà dell'intero universo. Non sorprende che Dirac abbia commentato: «La mia equazione è più intelligente di me».

Le equazioni della fisica subatomica formano la base del modello standard, nome estremamente prosaico assegnato all'attuale teoria delle particelle elementari e delle loro interazioni (trascurando la forza più familiare di tutte, la gravità, che per una curiosa ironia non rientra nei limiti di questa teoria del mondo subatomico). La postfazione del libro riunisce i vari filoni che hanno contribuito alla formazione del modello, uno dei trionfi intellettuali del XX secolo.

Due saggi prendono in esame alcune equazioni della biologia moderna. Il primo spiega come le idee dell'evoluzione possano essere espresse matematicamente per fornire percezioni riccamente diversificate del mondo vivente, dal comportamento di accoppiamento del cervo rosso al rapporto numerico fra maschi e femmine nelle comunità di vespe. Il secondo riguarda la cosiddetta mappa logistica, un'equazione ingannevolmente semplice utilizzabile per capire il variare delle popolazioni dei pesci in uno stagno e il numero fluttuante delle pernici bianche nelle brughiere della Scozia, oltre a una varietà di problemi simili. Quest'equazione svolse un ruolo cruciale nella storia del caos: risultò infatti che essa ingloba sorprendentemente il comportamento caotico, un comportamento che è estremamente sensibile alle condizioni iniziali. Proprio grazie a quest'equazione — un'equazione così semplice che possono studiarla i bambini a scuola — negli anni settanta ci si rese conto che alcune equazioni che sembrano predire il futuro in termini del passato sono in realtà del tutto incapaci di compiere predizioni attendibili, contrariamente a quanto aveva creduto la maggior parte degli scienziati.

Altre due equazioni illustrate nel libro riguardano la scienza dell'informazione e la ricerca di esseri intelligenti extraterrestri. Il saggio sulla scienza dell'informazione prende in esame le equazioni del compianto decano dei teorici dell'informazione, Claude Shannon, a cui si deve l'introduzione dell'apparato matematico che è alla base dell'attuale "rivoluzione delle comunicazioni". Le equazioni di Shannon si applicano a ogni tipo di trasferimento di informazione, fra cui Internet, la radio e la televisione.

La ricerca di esseri intelligenti extraterrestri (SETI) è un argomento per il quale non si ci attenderebbe di trovare un'equazione. Come può esserci un'equazione per qualcosa che potrebbe non esistere? La risposta è che l'equazione chiave della SETI — formulata per la prima volta dall'astronomo americano Frank Drake — non fa predizioni; essa disciplina piuttosto il nostro pensiero sulla probabilità che esistano civiltà in grado di comunicare con noi. La formula di Drake — un'equazione che non è bella nel senso inteso da Einstein e da Dirac — ha tuttavia apportato una certa coerenza in un campo potenzialmente molto nebuloso.

Le equazioni matematiche non sono l'unico tipo di equazione usato dagli scienziati. I chimici, per esempio, usano equazioni che non sono scritte con simboli matematici bensì con lettere che rappresentano atomi, molecole e i loro parenti submicroscopici. Gran parte dell'attività industriale si fonda su equazioni chimiche come queste, ognuna delle quali descrive un'interazione i cui dettagli possono essere inferiti ma quasi mai osservati a occhio nudo. Abbiamo scelto uno speciale insieme di reazioni chimiche per includerle qui, al fine di rappresentare la potenza del pensiero chimico. Queste equazioni mirabilmente semplici sono alla base della comprensione scientifica dell'assottigliamento dello strato dell'ozono e della sua causa, la presenza nell'atmosfera terrestre delle sostanze chimiche note come CFC (clorofluorocarburi). All'inizio degli anni ottanta queste semplici equazioni aiutarono a suscitare nell'umanità il senso di una catastrofe ambientale incombente.

Gli autori di questo libro sono importanti scienziati, storici e scrittori. Essi hanno considerato gli aspetti delle equazioni — gli strati di Larkin — che li hanno colpiti come i più interessanti, evitando per lo più i tediosi dettagli matematici. Ne è risultato un insieme di meditazioni personali su alcune fra le equazioni fondamentali della scienza moderna: equazioni che in virtù della loro concisione, efficacia e fondamentale semplicità possono essere considerate alla stregua di una delle forme di poesia più belle del XX secolo.

Nella mia collezione di poesia, nello scaffale sopra la mia scrivania, c'è una copia senza polvere di Finestre alte. La lessi per la prima volta quando ero un giovane studente di fisica subatomica, e mi sforzavo di capire le equazioni fondamentali di questa scienza per comprenderne la bellezza. Il libro mi fu donato da un'amica, studentessa di letteratura inglese che amava Larkin, pochi giorni dopo la pubblicazione. Il suo messaggio per me fu lo stesso che ora io trasmetto a voi: "Apprezza le cipolle".

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 21

Una rivoluzione senza rivoluzionari
L'equazione di Planck-Einstein per l'energia di un quanto


di Graham Farmelo



        Le rivoluzioni vengono celebrate quando non sono più pericolose.

                                         PIERRE BOULEZ, 13 gennaio 1989,
                                  nelle celebrazioni per il bicentenario
                                              della Rivoluzione francese



Il XX secolo ha operato in modo discutibile nella scelta delle proprie celebrità, ma ha dimostrato un gusto eccellente nel designare il proprio scienziato favorito. Albert Einstein, scienziato altrettanto brillante nell'identificare problemi scientifici quanto nel risolverli, ha fatto più di ogni altro, nel secolo scientificamente più produttivo, per far progredire il sapere umano. Θ un peccato che le sue ricerche più autenticamente rivoluzionarie siano oggi in gran parte dimenticate.

Se si domandasse a persone incontrate per strada quale sia stato il contributo più importante di Einstein alla scienza, le risposte più ricorrenti menzionerebbero la teoria della relatività. Questa fu senza dubbio un risultato importante, ma non rivoluzionario, come sottolineò più volte lo stesso Einstein. Egli era semplicemente salito sulle spalle di giganti come Newton e Galileo per produrre una nuova teoria dello spazio, del tempo e della materia che si conciliasse senza problemi con le loro. Una sola volta Einstein si discostò radicalmente dal pensiero dei suoi predecessori, e fu quando propose una notevole nuova idea sull'energia della luce.

Il senso comune ci dice che la luce entra nei nostri occhi nella forma di un flusso continuo. Alla fine dell'Ottocento gli scienziati sembravano confermare questa visione intuitiva usando la concezione ondulatoria della luce, allora universalmente accettata, la quale dice che l'energia viene fornita in modo continuo, come l'energia delle onde del mare, che avanzano in modo continuo verso un molo. Ma, come osservò Einstein: «il senso comune è formato dai pregiudizi acquisiti prima dell'età di diciotto anni». Nel 1905, quando era impiegato all'Ufficio brevetti di Berna, pubblicò un articolo in cui sosteneva che quell'immagine della luce è sbagliata, e che l'energia luminosa viene fornita non in modo continuo bensì in quantità discrete, che chiamò "fotoni" o "quanti di luce". Poco tempo dopo fece la congettura che anche le energie degli atomi in un solido siano quantizzate, vale a dire che siano possibili solo certi valori dell'energia. Anche questa quantizzazione dell'energia era contraria al senso comune. L'energia cinetica della mela che cadeva nel giardino di Newton appariva crescere in modo continuo, non in una serie di salti.

Einstein vide più chiaramente di chiunque altro che il mondo submicroscopico è pieno di quanti: la natura è fondamentalmente granulare, non continua. Anche se, quando giunse a queste conclusioni, stava lavorando da solo, esse non venivano dal nulla. Einstein attinse infatti la sua ispirazione da articoli del grande fisico tedesco Max Planck, il decano dei fisici tedeschi, di ventun anni maggiore di lui, che lavorava allora a Berlino. Planck era stato il primo a introdurre l'idea dei quanti di energia nelle ultime settimane del 1900, anche se non è chiaro se avesse capito a fondo le implicazioni del suo lavoro.

Un'equazione ingannevolmente semplice risultò particolarmente sconcertante per i pionieri della teoria quantistica. Formulata per la prima volta da Planck, ma interpretata correttamente solo in seguito da Einstein l'equazione mette in relazione l'energia E di ogni quanto alla sua frequenza f. Essa dice E = hf, dove h è una quantità fissa, che fu chiamata in seguito da altri costante di Planck. E = hf fu la prima nuova equazione scientifica importante del secolo (il kaiser Guglielmo II aveva decretato che il 1900 era il primo anno del XX secolo, non l'ultimo del XIX). Oggi gli studenti delle scuole superiori la imparano a memoria e alcuni di loro si sforzano di capirla, ma i primi fisici quantistici impiegarono quasi venticinque anni per sbrogliarne il significato. Durante questo periodo, grazie al lavoro compiuto sulle idee che erano alla base dell'equazione E = hf, Einstein divenne il primo scienziato in grado di predire con successo l'esistenza di una particella fondamentale. Lui e altri gettarono inoltre le basi di una teoria quantistica matura, nella quale si può vedere l'idea scientifica più rivoluzionaria del secolo.

Albert Einstein e Max Planck dominano la storia di questa equazione, che fu quella scientificamente più produttiva. I due uomini erano esteriormente molto diversi. Planck era alto, magro e calvo, mentre Einstein era muscoloso, di statura appena superiore alla media e dotato di una ricca chioma. Planck era molto socievole con i suoi pari, mentre Einstein manteneva un certo distacco intellettuale; Planck era nazionalista, mentre Einstein era dichiaratamente cittadino del mondo e liberale; in politica Planck inclinava verso la destra, Einstein verso la sinistra; Planck era un amministratore puntiglioso, mentre Einstein approfittava di ogni occasione per evitare il lavoro cartaceo; Planck teneva molto alla famiglia, mentre Einstein la subordinava ad altre esigenze.

I due avevano però anche molte cose in comune. Erano entrambi fisici teorici, un tipo di scienziato relativamente nuovo, interessato soprattutto a capire la natura in termini di princìpi universali. Entrambi totalmente dediti al lavoro, concedevano la massima attenzione a nuovi risultati sperimentali, ma erano particolarmente felici quando potevano fare del lavoro teorico. Entrambi credevano che i princìpi scientifici esistessero indipendentemente dagli esseri umani e che nuovi princìpi fossero presenti in natura in attesa di essere scoperti. Come tutti i bravi scienziati, Planck e Einstein affrontavano il loro lavoro con prudenza. Consideravano con cautela i nuovi risultati sperimentali, diffidando di innovazioni che contraddicessero teorie ben stabilite, e memori che una nuova teoria, per poter essere considerata seriamente, doveva riprodurre tutti i successi delle teorie precedenti, e fare idealmente nuove predizioni proprie.

Per entrambi la fisica era il primo amore, la musica il secondo. Einstein era appassionato di Bach, Mozart e Haydn, e amava suonare il violino, che portava sempre con sé nei suoi viaggi. Sulla qualità della sua tecnica come musicista ci sono opinioni discordanti: secondo il grande insegnante di violino Shinichi Suzuki il suo suono aveva un timbro "gradevolmente delicato", mentre secondo un altro autore egli "brandiva l'archetto come un boscaiolo". Quale che fosse la verità sulle sue doti musicali, Einstein non gradiva le critiche al suo modo di suonare. Uno dei suoi conoscenti disse che «Einstein si accalorava molto di più nelle discussioni di musica che in quelle scientifiche». Planck era un musicista molto più fine e costante, e in età più avanzata un pianista abbastanza bravo da poter eseguire duetti insieme al grande violinista Joseph Joachim. Planck amava la musica dell'amico e collaboratore di Joachim, Brahms, ed era anche particolarmente appassionato delle musiche di Schubert e Bach.

Mentre stavano gettando le basi della teoria quantistica, Planck, Einstein e colleghi erano all'avanguardia anche del più vasto movimento del modernismo, reinventando la loro disciplina ed esplorando i mezzi e i limiti delle tecniche classiche. In questo senso, erano su posizioni simili a quelle di Igor Stravinskij a San Pietroburgo, di Virginia Woolf a Londra, di Pablo Picasso a Parigi e di Antoni Gaudí a Barcellona. Diversamente dagli artisti, però, Planck e Einstein erano modernisti loro malgrado, e non erano pronti a scuotere le fondamenta della loro disciplina. Mentre gli artisti erano liberi di creare nuove forme per sostituire quelle che sembravano sorpassate, gli scienziati non avevano altra scelta della creazione di nuove teorie per sostituire quelle che si erano dimostrate irrimediabilmente carenti. Fu una piccola ma angosciante disparità fra esperimento e teoria quella che condusse alla rivoluzione quantistica. Il disagio cominciò in alcuni forni a Berlino.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 254

La riscoperta della gravità
L'equazione di Einstein della relatività generale


di Roger Penrose



Introduzione

La teoria della relatività generale di Einstein introdusse una rivoluzione straordinaria nella nostra comprensione del mondo fisico. Eppure essa non ebbe origine dai risultati di esperimenti e osservazioni, ma fu semplicemente un prodotto dell'intelligenza e dell'immaginazione di un grande teorico. Fu quindi una rivoluzione che si pose in forte contrasto con l'idea convenzionale di come dovrebbe aver luogo una rivoluzione scientifica: in una tale ottica tradizionale una visione del mondo accettata in precedenza verrebbe rovesciata solo da un accumulo abbastanza impressionante di dati d'osservazione in contraddizione con essa. Nel XX secolo si verificarono in effetti alcune straordinarie rivoluzioni in fisica fondamentale, ognuna delle quali condusse a una profonda revisione di princìpi basilari e al rovesciamento di concezioni precedenti sulla natura della realtà fisica. Per lo più esse furono in accordo con tale quadro convenzionale. Vedremo pero che la relatività generale fu qualcosa di molto diverso.

In senso lato, nella fisica del XX secolo ci furono due rivoluzioni fondamentali distinte. La prima fu la relatività, che si occupò della natura dello spazio e del tempo, e la seconda fu la teoria quantistica, che concentrò la sua attenzione sulla natura della materia. Ma la teoria stessa della relatività comportò quelle che potremmo chiamare due rivoluzioni, le quali vanno sotto i nomi rispettivi di "relatività ristretta" e di "relatività generale".

La relatività ristretta si occupa delle strane modificazioni che si devono apportare alla fisica newtoniana quando dei corpi viaggiano a velocità prossime a quella della luce, modificazioni in virtù delle quali le coordinate dello spazio e del tempo si trasformano misteriosamente le une nelle altre, conducendo alla nozione combinata di spazio-tempo. Questa teoria ebbe origine essenzialmente dalle difficoltà di osservare un "etere" onnipresente, che avrebbe definito uno stato assoluto di quiete. Questa difficoltà emerse in modo clamoroso nell'esperimento di Michelson e Morley (1887), che tentarono di misurare la velocità della Terra attraverso l'etere, fornendo contro ogni attesa un risultato nullo. Questo e altri esperimenti analoghi resero sempre più difficile mantenere una visione newtoniana dello spazio e del tempo. La rivoluzione della relatività ristretta fu preparata dall'opera di vari scienziati: George Fitzgerald, Joseph Larmor, Hendrik Lorenz, Henri Poincaré, Albert Einstein e Hermann Minkowski. Io credo che dovrebbe essere perciò considerata un esempio di rivoluzione del tipo "convenzionale", nel senso che furono principalmente gli esperimenti a fare allontanare i teorici dal piano generale newtoniano (anche se l'approccio di Einstein verso la relatività ristretta non fu particolarmente fondato su esperimenti).

La stessa teoria quantistica ebbe una base sperimentale molto più vasta di quella della relatività ristretta. I fisici furono in effetti costretti a introdurre tale nuova teoria per rendere ragione del comportamento della materia a scale molto piccole quando si trovarono di fronte a un corpus di dati d'osservazione che erano in grave conflitto con le comuni idee newtoniane.

Di contro, sembrava quasi che Einstein avesse tratto dal nulla la teoria generale della relatività - con la sua descrizione della gravità come effetto della "curvatura dello spazio-tempo" piuttosto che della forza gravitazionale di Newton –, quando nulla sembrava richiedere un tale nuovo punto di vista rivoluzionario. Ancora alla fine dell'Ottocento il bel sistema della gravitazione universale di Newton, con la sua legge della proporzionalità inversa della forza al quadrato della distanza, era in mirabile accordo con l'osservazione, con una precisione dell'ordine di una parte su dieci milioni. Persistevano sì alcune anomalie minori, che però infine risultarono essere conseguenze di errori di osservazione o di calcolo, o del fatto di non avere tenuto conto di qualche perturbazione. Be', non proprio tutte: qualcosa di non ancora spiegato completamente rimaneva infatti in piccoli dettagli del moto del pianeta Mercurio. La cosa, però, non turbava più di tanto gli astronomi del tempo, e si riteneva che un'analisi più accurata della situazione avrebbe risolto anche questo problema apparentemente minore senza bisogno di abbandonare il sistema newtoniano. Sembrava che, sul piano dell'osservazione, nessuno si aspettasse davvero che la teoria di Newton non sarebbe bastata.

Einstein, però, si era fatto guidare da una percezione della gravità molto diversa da quella di Newton. Non furono dati d'osservazione a influire sul suo pensiero. O forse quest'affermazione non è del tutto esatta. Egli si fondò in realtà su un elemento d'osservazione, ma non del Novecento o dell'Ottocento, e neppure del Settecento o del Seicento. Quel che disturbava Einstein era stato ben stabilito da Galileo verso la fine del Cinquecento (ed era stato osservato da altri anche prima), ed era una parte familiare della fisica gravitazionale accettata. Per più di quattro secoli il vero significato dell'osservazione di Galileo (su cui torneremo nella prossima sezione) era rimasto ignorato. Einstein lo vide però con occhi nuovi, e solo lui ne percepì il significato nascosto. Esso lo condusse alla concezione straordinaria secondo cui la gravitazione sarebbe un carattere della geometria dello spazio-tempo curvo, e produsse un'equazione — oggi nota come equazione di Einstein — di un'eleganza e semplicità geometrica senza precedenti. Eppure il calcolo delle sue implicazioni presentava enormi difficoltà tecniche, anche se i risultati sarebbero stati quasi indistinguibili da quelli di Newton. Occasionalmente però se ne sarebbero differenziati, e dalla teoria di Einstein sarebbero discesi nuovi effetti degni di nota. In un caso la precisione della teoria di Einstein faceva riscontrare un progresso di un fattore di circa dieci milioni su quella di Newton!

Qual è questa bella equazione paradigmatica, l'equazione di Einstein che governa la relatività generale? Essa viene scritta comunemente così:


                    R   — 1/2 R g   = -8πG T
                     ab          ab         ab

ma che cosa significa? Perché questo insieme di simboli dovrebbe essere considerato bello? Θ chiaro che, senza il significato che si cela dietro di essi, non c'è né bellezza né significato fisico. Fra poco cercheremo di capire concretamente il senso di quest'equazione, ma per il momento dobbiamo accontentarci di una breve interpretazione. Le quantità nel membro di sinistra si riferiscono a certe misure di questa misteriosa "curvatura dello spazio-tempo": quelle nel membro di destra riguardano la densità di energia della materia. La famosa equazione di Einstein E = mc^2 ci dice che l'energia è essenzialmente equivalente alla massa, cosicché i termini nel membro di destra si riferiscono anche alla densità di massa. Ricordiamo, inoltre, che la massa è la sorgente della gravità. L'equazione di campo di Einstein ci dice quindi come la curvatura dello spazio-tempo (membro di sinistra) sia connessa direttamente alla distribuzione della massa nell'universo (membro di destra).

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 295

Capire l'informazione, bit a bit
Le equazioni di Shannon


di Igor Aleksander



L'informazione è oggi una merce come un metallo o il petrolio, un servizio pubblico come l'acqua o l'elettricità. Politici, esperti di borsa, futurologi e profani hanno spesso occasione di dire che "viviamo nell'epoca dell'informazione". Anche se non tutti sanno che cosa sia in realtà l'epoca dell'informazione, ne troviamo segni dappertutto: fax nei bidoni delle immondizie, messaggi e-mail spediti da aerei, e cellulari persino sulle spiagge riservate ai nudisti.

Θ opinabile se noi tutti abbiamo effettivamente molto da dirci, cosicché al centro dell'epoca dell'informazione non c'è sicuramente l'informazione reale. Il contrassegno di quest'epoca rivoluzionaria è, piuttosto, la sorprendente opportunità di collegarci l'uno all'altro o a computer da qualsiasi luogo. Cinquant'anni fa avevamo solo il telefono o la radio. Oggi ci sono computer collegati in rete a livello globale (Internet), telefoni cellulari digitali e cavi a fibre ottiche. Persino i prodotti d'intrattenimento sono cambiati in un modo inimmaginabile. Siamo passati dai dischi di etile neri a 78 giri al videodisco digitale (DVD), dalle macchine fotografiche a cassetta Brownie ai modelli digitali che fanno bella mostra di sé sugli scaffali dei negozi di macchine fotografiche.

Tutto questo sottintende immensi sviluppi nella tecnologia che è alla base della trasmissione di informazioni. Ma che cos'è l'informazione? Che cosa ne ostacola la trasmissione? Perché questi sviluppi richiesero un massiccio investimento industriale? Perché nei nomi di queste tecnologie appare così spesso la parola "digitale" (la quale significa che l'informazione è rappresentata da simboli discreti come numeri)?

Non è mia intenzione fornire una descrizione dettagliata di come funziona questa tecnologia. Mi propongo piuttosto di riscoprire un eroe dell'epoca dell'informazione, un uomo senza la cui acuta intelligenza nessuna di queste tecnologie funzionerebbe. Claude Shannon fu matematico e ingegnere, e unì queste discipline in un modo che cambiò il mondo per sempre.

Il nome di Shannon è associato a due equazioni che sono alla base della teoria della comunicazione. Esse hanno una notazione un po' scostante:


                    I = –p log  p
                              2

e

                    C = W log (1 + S/N)
                             2

La prima equazione ci dice che la quantità di informazione contenuta in ogni messaggio può essere misurata come una quantità etichettata I, dove l'unità di misurazione è il "bit". Benché i bit e la parola "digitale" appaiano spesso in queste descrizioni, le due equazioni sono continue e non digitali: ciò significa che la teoria si applica anche alle vecchie linee telefoniche e non solo alle versioni digitali più recenti. La prima equazione ci dice che la quantità di informazione I dipende dalla sorpresa contenuta nel messaggio. Questa nozione è connessa al fatto che il modo matematico per esprimere sorpresa è nella forma della probabilità p; quanto meno probabile è un evento, tanto più è sorprendente e tanta più informazione trasmette. Vedremo più avanti da dove venga il log2. Per ora basti dire che, se non ci fosse quest'equazione mancherebbe un'importante unità di misurazione, una misura che è altrettanto importante del litro, del watt o del chilometro.

La seconda equazione di Shannon è un indicatore della "qualità" di un mezzo di trasmissione, come una linea telefonica o un cavo per un'antenna televisiva. Essa ci dice che C — la quantità di informazione che può essere trasmessa (in bit per secondo) in una linea o con un altro mezzo — dipende da due fattori principali: W, l'ampiezza di banda (o la gamma delle frequenze attraverso cui può passare), e S/N, il rapporto segnale-rumore (signal-to-noise). Possiamo farci un'idea di questa situazione quando, durante un cocktail party particolarmente rumoroso, abbiamo bisogno di gridare (o aumentare S, il segnale, per superare N, il rumore). Quando parliamo a una persona un po' sorda (qualcuno la cui W sia limitata), dobbiamo urlare ancora più forte. Così, usando l'analogia dei chilometri e dei litri, C in bit per secondo è un fattore di qualità nello stesso modo in cui i "chilometri per un litro" sono un fattore di qualità per un veicolo a motore. Queste leggi sono molto generali: esse si applicano a qualsiasi cosa, dalla semplice connessione telefonica che trasmette segnali vocali tradotti in quantità elettriche alla più recente televisione digitale ad alta definizione in cui le scene visive sono tradotte da stringhe di numeri.

Il pensiero e l'opera di Shannon trascendono le stesse equazioni: esse sono semplicemente i simboli che distillano una comprensione eccezionale della natura e controllo dell'informazione.

| << |  <  |