Copertina
Autore Roberto Farneti
Titolo Il canone moderno
SottotitoloFilosofia politica e genealogia
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2002 , pag. 320, dim. 146x220x18 mm , Isbn 978-88-339-1416-9
LettorePiergiorgio Siena, 2003
Classe filosofia , politica , scienze sociali , storia
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Indice

  7 Avvertenza
  9 Ringraziamenti

    Il canone moderno

 13 Introduzione

 29 Contingenza e comunità. Filosofia politica
        come genealogia
    La storia della ragione politica moderna.
    Il canone e la trasmissione dell'identità,
    «La ritrasmissione di ciò che è stato
        letto»,
    Le memorie latenti,
    Hobbes,
    Il personaggio concettuale,
    Filosofia politica e genealogia,
    «Una tecnologia drammaturgica assai più
        efficace di ogni altra oggi
        disponibile»,
    «Decifrare nei testi ciò da cui siamo già
        stati scritti».

 91 Ricanonizzazioni. Il pensiero politico in
        Europa e Stati Uniti dal 1945 a oggi
    «Nostalgia delle piramidi». Le origini del
        processo di canonizzazione e la
        ricostruzione del canone dopo il 1945,
    1957-68, 1969-79; 1980-88; 1989-2000,
    Prospettive sulla ricanonizzazione.

166 Il «fondamento mitico» dello Stato.
    La tradizione recepta del Leviathan
        (1651-1750)
    Un libro in tutto e per tutto esoterico.
    I  «nemici teologici» dello Stato.
    Il leviatano dopo il leviatano
    Il contesto emblematico dell’inimicizia,
    All’infinito gli esseri del mondo si
        odieranno,
    Mitologizzazione di un simbolo politico,
    La crisi del canone e l’emersione del
        «fondamento mitico» dello Stato

209 Cristianesimo e tradizione minore del
        Leviathan
    «Legislatori demoniaci»
    La desacralizzazione del nomos,
    «Indipendentemente dalla legge»,
    «Ciò che è necessario alla salvazione
        eterna»,
    «Quelli che sono leali»,
    «Una tecnologia drammaturgica assai più
       efficace di ogni altra oggi disponibile»

246 Il canone classico-umanistico (come canone
        rivale) e la politica del giudizio
    La tradizione del giudizio pratico e la
        democrazia deliberativa,
    Pseudo-Livio,
    Ricanonizzazioni,
    Dislodgements,
    La crisi del cristianesimo come dottrina
        pubblica e la ricostruzione del
        curriculum,
    «Coltivare l’umanità»,

294 Epilogo. «Un pantheon fatto di cose
        dimenticate»

311 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 75

Il mio scopo è allora una analisi del pensiero liberale che discenda nel profondo del suo corpo narrativo e, attraverso una serie di smontaggi, ne riporti la trama mnemonica (che corrisponde grosso modo al concetto tayloriano di «background picture») sulla superficie cosciente. Una critica radicale dell'autocomprensione liberale delle istituzioni politiche occidentali deve scendere nella prossimità di questa «struttura profonda» e svelare quella «concezione metafisica del soggetto e della società» che è divenuta trasparente all’analisi: è giusta l’osservazione di Mangabeira Unger, secondo cui «finché non avremo tracciato la mappa del sistema saremo condannati a fraintendere le nostre stesse idee, non essendo in grado di renderci conto dei loro presupposti e implicazioni».

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Pagina 91

Ricanonizzazioni. Il pensiero politico in Europa e Stati Uniti dal 1945 a oggi


Il canone moderno, che all’esordio del XX secolo costituiva ancora un piano di ricanonizzazione del pensiero politico, è rimasto per un lunghissimo tempo ai margini, cominciando solo in un tempo avanzato a centralizzarsi, ad acquisire una propria eminenza culturale. La ricanonizzazione novecentesca del pensiero politico e la corrispondente centralizzazione della «tradizione hobbesiana» nel curriculum standard dei corsi di teoria politica, corrispondono in linea di principio a uno scivolamento dell’attenzione filosofica (con una impressionante accelerazione nel secondo dopoguerra) dallo Stato all’individuo (con enfasi sulla sua autonomia morale e sui suoi diritti). Si trattava in altre parole di ricostruire i repertori di riferimento per articolare la presenza - in una discussione pubblica riorientata ideologicamente rispetto al passato - di un nuovo soggetto filosofico.

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Pagina 166

Il «fondamento mitico» dello Stato. La tradizione recepta del Leviathan (1651-1750)


Già nell’Introduzione ho sostenuto che il mio obiettivo in questo libro sarebbe stato quello di ricostruire un «segmento del processo» di canonizzazione. Ciò avrebbe consentito di rilevare un livello di forte opacità (rimasto non percepito) nell’autocomprensione liberale delle nostre istituzioni politiche (istituzioni di cui i nostri comuni idiomi normativi fanno parte). Queste istituzioni liberali (che quanto più i nostri idiomi di riferimento razionale si irrigidivano nella loro prevalente autocomprensione canonica, tanto più progressivamente si trasformavano nel nostro unico ambito di esperienza) si autocomprendono stabilmente attraverso quell’unico idioma razionale che sembrerebbe costituire, al termine del processo, l’unico sapere del «tipo» liberale di coscienza.

I testi canonizzati sono documenti attraverso cui la coscienza certifica a se stessa la potenza e l’irresistibilità di quella ragione alla quale i commentari moderni attribuiscono una capacità originaria di neutralizzare la violenza umana. Eppure un esame più attento di quei commentari, che ne metta in luce le linee d’ombra e le appena percettibili espulsioni interne, rivela che la dinamica moderna di canonizzazione e linearizzazione della storia del pensiero politico ha fornito un quadro rassicurante dell’azione di questa ragione, omettendo di citare i documenti che più radicalmente hanno messo in discussione quella irresistibilità e quella potenza. I commentari moderni sono divenuti - specie nel corso della seconda metà del XX secolo - tutto il sapere della coscienza.

In questo capitolo cerco di mettere in evidenza in che modo la coscienza stabilizza le proprie «opinioni sui fondamenti politici» provvedendo da sé alla conservazione razionale della propria immunità identitaria (l’identità di una coscienza comune a un umanità razionale). Cerco di mostrare come l’espulsione di un dato problematico a un livello profondo di coscienza si rifletta a un livello più superficiale di discorso, sotto forma di criterio o ‘ideologia’ di redazione di una determinata istituzione testuale.

Il Leviathan di Hobbes costituisce, in ragione della sua posizione seminale e di un imponente investimento ideologico da parte dei suoi lettori moderni, un indicatore particolarmente rilevante dei meccanismi di formazione del canone. Ma, come scrivevo nel primo capitolo, qualche cosa avanza dalla sua autocomprensione filosofica. Sono convinto che Hobbes avesse una conoscenza più precisa della nostra del fatto che all’associazione umana inerisce originariamente una componente mitico-simbolica. Hobbes sembra condividere la convinzione occidentale secondo cui la violenza ha sempre una ragione e per questo mette a punto un congegno razionale di grande precisione. Ma Hobbes è l’autore che con maggiore radicalità pensa il tema della violenza umana ponendolo a punto di partenza di tutta la sua speculazione teologica e filosofica. Hobbes indica nel mito (che lui conosceva sotto forma di un «residuo della religione dei gentili») il nucleo generativo di una violenzà sopravvissuta incapsulata nel cristianesimo; ma di una violenza che satura 'senza ragione’ il proprio contenitore istituzionale fino a esplodere come un meccanismo a tempo. Ma Hobbes è consapevole del funzionamento di questo meccanismo di conservazione della violenza al punto da consacrare due interi libri del suo Leviathan a una possibile soluzione (che prenderò in esame nel quarto capitolo) non immediatamente razionale ma teologico-politica della sua neutralizzazione. In questo capitolo intendo mostrare che proprio il testo fondazionale della politica moderna nasconde, sul suo lato rimasto non esposto alla storia degli effetti, una cifra che i suoi lettori moderni stentano a riconoscere. Essa consiste nella coscienza del «fondamento mitico» della politica, dell’eccedenza di un quid mitico rispetto alla grammatica (razionale e contrattualistica) che la modernità liberale ingenuamente ritiene sia un fattore capace di esaurire l'intera logica dell'associazione umana.

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Pagina 170

I. «Un libro in tutto e per tutto esoterico»


Una analisi sul significato del mito in Hobbes non può esaurirsi all’interno del testo hobbesiano. E sarebbe sbagliato cercare di dare corpo ai fantasmi della mens auctoris, di ricercare le pure intenzioni di Hobbes, per la semplice ragione che le sue indicazioni sul mito e sulle ragioni della scelta del leviathan sono scarse e frammentarie. Si tratta allora di ricostruire quel contesto dinamico costituito dalla rete di feedback provenienti dai nemici di Hobbes. In questo senso ritengo sia possibile mettere in evidenza il modo in cui Hobbes volle fornire una soluzione al problema del disordine politico. E comprendere la ragione per cui i suoi nemici temettero, di quella soluzione, i contenuti sovversivi. In questo senso la rivelazio rimettendo in gioco la controazione polemica di questi nemici di Hobbes. Ritornare contestualmente su quella vicenda significa disseppellire una serie di rovine, riportare alla luce dati non notificati dalla «canonical story» della ragione moderna. Secondo questa vulgata moderna Hobbes sarebbe lo scopritore di una formula teorica generale che consentirebbe ‘facilmente’ (cioè razionalmente) di uscire da uno stato di guerra «di tutti contro tutti». Mentre in realtà Hobbes si interroga essenzialmente sulla valenza distruttiva del mito politico e cerca gli strumenti (non immediatamente contrattualistici) atti a neutralizzarla.

La ragione per cui Hobbes scrive la seconda metà del Leviathan è da cercare nella sua scoperta che le passioni umane sono dei contenitori di immagini mitico-simboliche facilmente fungibili da parte dei nemici dello Stato. Il mito contro cui Hobbes mette in gioco l’immagine del leviathan è il mito di una comunità mistica attualmente presente nella storia, un Regno finale di Cristo già instaurato prima della fine dei tempi, una anticipazione eucaristica della sua venuta promessa soltanto per la fine dei tempi. In Hobbes il mito è essenzialmente altro dal cristianesimo, nella misura in cui vi si installa come residuo (L, LXV, passim), come traccia residua di un Elementare mitico. Il centro testuale della fondamentale intuizione hobbesiana, la consapevolezza del carattere essenzialmente antipolitico del mito, è nel XLV capitolo del Leviathan: «Della demonologia, e degli altri residui della religione dei gentili». Hobbes è convinto che il mito, sotto forma di demoni e altri idoli, sia sopravvissuto all’interno del cristianesimo come un meccanismo a tempo, come una tara genetica capace di ammalare un corpo politico non completamente immune alle infezioni della demonologia dei gentili. Ma Hobbes riconosce altresì che l’unica maniera di rimuovere questo residuo (in altri termini l’unica maniera di attivare una ragione altrimenti ineffettuale) è mettere in gioco l’impressionante carica antimitica del cristianesimo, la fede che «l’ultima profezia» ascoltata nel mondo riferisce della prossima venuta di Cristo. Hobbes intuisce che il residuo di mitologia che inquieta la pax christiana, mai pienamente neutralizzato, riemerge sotto forma di poteri indiretti, contro forze che hanno il solo obiettivo di distruggere il grande Leviathan. La mia tesi è che Hobbes gioca contro questo mito una figura con una funzione antimitica, un negativo del mito capace di svelare e neutralizzare attivamente i residui della "religione dei gentili", di mettere a nudo la menzogna (che il regno di Dio sia la Chiesa presente) che per Hobbes costituisce non solo "il principale e più grande abuso della Scrittura (L,599;XLIV,4) ma anche l'effetto più eclatante e politicamente rischioso di una demonologia non neutralizzata.

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