Copertina
Autore Stefano Faure
Titolo Io sono l'ultimo
SottotitoloLettere di partigiani italiani
EdizioneEinaudi, Torino, 2012, Stile Libero Extra , pag. 332, cop.fle., dim. 13,8x21,5x2 cm , Isbn 978-88-06-21137-0
CuratoreStefano Faure, Andrea Liparoto, Giacomo Papi
LettoreRenato di Stefano, 2013
Classe storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia: 1940 , guerra-pace , biografie
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  V  Introduzione di Giacomo Papi
 XV  Nota dei curatori
XIX  Nota dell'Anpi

     Io sono l'ultimo

  3  Aldo Sodero «Nano»
  6  Felice Migali «Baffetto»
  8  Luigi Grossi «Gin»
 11  Pierina Tavani «Stella»
 14  Liliana Benvenuti Mattei «Angela»
 17  Ofelio Biagetti «Mitra»
 i8  Giovanna Stanka Hrovatin «Stanka»
 20  Nello Quartieri «Italiano»
 23  Giovanni Vacchiero «il Pirata»
 26  Leandro Agresti «Malco»
 28  Natalino Paone
 31  Miretta Busia «Moscerino»
 33  Emo Ghirelli «Pino»
 36  Valerio Signorini «Vespa»
 38  Luciano Manzi «Francia»
 40  Corrado Ori «Barba»
 41  Mario Bisi «Franco»
 42  Ugo Berga «Fabbro» «Testa» «Invisca»

     [...]

266  Giulio Giordano
268  Cesare Mondon «Rino»
270  Domenico Benedetti
273  Walkiria Terradura «Walkiria»
274  Drago Slavec «Tito»
283  Carlo Varda «Charles»
285  Olinto Raggi
287  Ester Riposi «Irina»
290  Milan Štoka
292  Ivo Germani «Ragazzino»
294  Elio Ferrero
295  Gildo Guerzoni
296  Gilberto Malvestuto
299  Arturo Allemand
302  Ferdinando De Leoni «Falco»
307  Ferruccio Mazza
311  Giovanna Marturano
319  Giorgio Vecchiani «Lungo»

321  Ringraziamenti
323  Nota bibliografica


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina V

Introduzione

di Giacomo Papi


Questo libro è nato quando Annita Malavasi, la partigiana «Laila», ha incominciato a parlare d'amore. Era entrata nella Resistenza come staffetta a ventidue anni, a Reggio Emilia, dopo l'8 settembre 1943. Il nome di battaglia lo aveva preso da un romanzo che raccontava di una ragazza sudamericana in guerra al posto del fidanzato ucciso. Non ricordava il titolo. Probabilmente era uno di quei libri edificanti per fanciulle, pieni di avventure, slanci d'amore e atti di eroismo che andavano di moda negli anni Trenta e di cui oggi si è persa la memoria e l'abitudine. Ci teneva a dire una cosa, soprattutto: fu tra i partigiani che, per la prima volta, uomini e donne ebbero pari dignità e che l'uguaglianza, sancita dalla Costituzione a guerra finita, non fu un regalo, ma una conquista e un riconoscimento.

Raccontò che per passare in bici ai posti di blocco mostrava le gambe ai tedeschi e quelli, «fessacchiotti», fischiavano. Per diventare partigiana aveva lasciato il fidanzato. Non si era piú risposata. Poi disse: - In montagna, avevo trovato un ragazzo... lui sí, lo avrei sposato se non me lo avessero ucciso -. Fece una pausa, quasi per ricordare, e quando ricominciò a parlare il suo tono di voce era diverso: - Si chiamava Trolli Giambattista, nome di battaglia «Fifa», anche se era coraggiosissimo. È morto nella battaglia di Monte Caio nel 1944, a ventitre anni. L'ho saputo solo sei mesi dopo, quando a primavera la neve si sciolse e il corpo fu ritrovato. Gli porto ancora i fiori. Dev'essere stato importante per me, se anche adesso me lo rivedo davanti agli occhi. L'unico nostro bacio è stato d'addio -.

La testimonianza di Laila fu pubblicata su «D - la Repubblica» il 24 aprile 2010. Arrivarono molte lettere. Alcune erano di vecchi partigiani, e parlavano d'amore. Erano ricordi che riaffioravano a quasi settant'anni dai fatti, un attimo prima di perdersi per sempre. La storia di Annita Malavasi aveva rivelato che la guerra partigiana è una miniera di storie tragiche e meravigliose in procinto di essere dimenticate. E aveva mostrato che la Resistenza è stata soprattutto una rivolta di giovani. Per questo ascoltare, oggi, la voce di chi c'era significa adottare lo sguardo di chi in quegli anni aveva piú o meno vent'anni.

Gli ultimi testimoni diretti della guerra di Liberazione nel biennio '43-45 erano ragazzi e ragazze poco piú che adolescenti che, come Laila, sceglievano il nome di battaglia nei libri di avventure, e avevano appena smesso di giocare, persone a cui capitò di innamorarsi e dare il primo bacio, mentre erano in guerra. Nel corso di quei due anni, per la prima volta nella storia d'Italia, maschi e femmine si trovarono a dormire insieme all'aperto, a dividere la paura, l'entusiasmo, il coraggio, a combattere, uccidere e morire fianco a fianco. Raccogliere in un libro le lettere dei partigiani italiani ancora viventi avrebbe significato cogliere l'ultima occasione di farsi raccontare la Resistenza dai testimoni diretti e ascoltare centinaia di storie. Avrebbe significato raccogliere una testimonianza collettiva e diretta del biennio in cui quasi tutto sembrò accadere per la prima volta. Per raggiungerli e invitarli a scrivere un ricordo e lasciare un messaggio a chi, oggi, ha l'età che loro avevano allora, è stato necessario convincere l'Anpi a offrire la propria collaborazione. Non è stata un'impresa difficile.

[...]


Perfino di fronte all'invadenza e ai successi indubbi del revisionismo, i vecchi partigiani piú che rabbia sembrano provare malinconia. «Si è cominciato a dire che la guerra mica l'hanno vinta i partigiani, che senza gli alleati sarebbe stata una lotta vana. Chi lo nega? Ma non è che la libertà ti viene regalata. [...] Poi dicono che i morti sono tutti uguali. Chi ha mai detto il contrario? Ma da vivi: era da vivi che si era diversi» A distanza di tanti anni si reagisce con le modalità secondo cui si è lottato: dire di nuovo per una volta ancora come sono andate davvero le cose e riaffermare l'orgoglio di avere combattuto dalla parte giusta. La consapevolezza che la guerra spinge tutti gli uomini alla violenza, a volte anche ingiustificata, non può coincidere con un giudizio di equivalenza morale o storica. Gli ultimi testimoni della Resistenza, pur nelle loro radicali differenze, sanno che dietro i partigiani c'era un'idea di democrazia, di libertà e giustizia, e che agiva una visione del mondo in cui la parola popolo si riconnetteva a un'ideale di eguaglianza, mentre dietro i nemici c'era il mito del piú forte, della razza e un'idea di popolo che si riconnetteva al concetto di sangue, suolo e nazione.

Per decenni il dibattito sulla guerra di Liberazione è stato animato dalla contrapposizione ideologica e politica tra rossi e neri. Una contrapposizione che c'è stata davvero, ma che forse ha rappresentato anche un velo che ha impedito di vedere. Le lettere raccolte in questo libro raccontano che la Resistenza nacque, almeno per la maggioranza degli ultimi testimoni, da una rabbia atavica stratificata negli anni che non poteva piú essere contenuta. Fu una rivolta contro l'ottusità bestiale e ridicola del Regime e contro la guerra. Fu una rivolta contro lo stato delle cose che incrociò le ideologie piú forti, il comunismo e il socialismo, in primo luogo, l'insegnamento cristiano, l'ideale democratico di Giustizia e libertà. Non viceversa. Era semplice, in fondo: «L'Italia doveva essere liberata dal fascismo e io l'ho fatto, il dovere mio, l'ho fatto davvero». I partigiani erano i vettori di una rivendicazione democratica, ancora prima che potessero padroneggiarne il termine. Nella maggior parte dei casi, la coscienza politica è stata una conseguenza, non una motivazione: un impianto ideologico che si è innestato su presupposti di carattere ideale.

Ma non solo. A unire le lettere è anche la coscienza di vivere insieme, il ricordo di essersi concepiti come organismo collettivo prima che come individui. È una percezione acuta che scorre in molte pagine e che, oggi, ci giunge come qualcosa di sconosciuto che, però, suscita nostalgia. «Allora si pensava: quando avremo vinto, avremo vinto tutti. Non solo noi, ma anche i nostri avversari». La constatazione della scomparsa di una coscienza collettiva in Italia, l'avere dimenticato nei decenni che seguirono alla Liberazione che si vive tutti insieme e si è sempre legati costituisce una implicita delusione, quando non si ribalta in una condanna esplicita dell'Italia di oggi.

La presente raccolta si ispira e costituisce un ideale complemento, quasi un'ultima parola, delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana che Einaudi pubblicò nel 1952, sessant'anni fa esatti. In quelle lettere il tempo si fermava. I messaggi dei condannati a morte proclamavano un tempo liberato, ma si affacciavano su un futuro invisibile e invocato. Nel caso di questo libro, invece, il futuro prende luce e viene giudicato sulla base del passato che lo ha generato, come la promessa mantenuta o tradita di quegli anni e delle azioni di allora. I partigiani si trovano, cioè, nelle condizioni di fare un bilancio e rispondere alla domanda: ne valeva la pena? È il punto su cui, forse, hanno piú dubbi. C'è chi dice «abbiamo perduto» e chi si sforza di ricordare ai giovani che la loro libertà esiste grazie alla Resistenza, ma va allevata e custodita sempre perché è indipendente dalla vittoria. C'è chi prova sdegno davanti al presente e invita i ragazzi a ribellarsi.

Moltissimi vanno nelle scuole e nelle lettere ripetono le domande dei ragazzi. In alcuni casi si rivolgono ai nipoti e pronipoti. Ovunque, scorre la consapevolezza che il tempo sta per finire e cancellerà molte storie. «Per chi vuole ascoltarle, non c'è piú tanto tempo però: a novant'anni milioni di neuroni se ne sono già partiti e anche io, come tutti i miei compagni di allora, me ne sto per andare».

Ma per quanto si faccia fatica, per quanto poco tempo rimanga, tutti condividono il bisogno di testimoniare. Fino all'ultimo giorno. «Tra di noi siamo ancora pieni di speranza. E di certezza. Non siamo ancora morti».

All'inizio del 2012 i partigiani italiani viventi sono qualche migliaio. L'intervista ad Annita Malavasi - quella da cui questo libro è nato - si concludeva cosí: «Sarebbe bello se, per legge, ognuno fosse obbligato ad ascoltarne uno».

[...]

Milano, febbraio 2012.

GIACOMO PAPI

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 8

Luigi Grossi «Cin»

Arona (Novara), 7 aprile 1926, impiegato

partigiano, II Divisione Pajetta, Brigata Alpina d'Assalto Filippo Beltrami, Brigata Remo Servadei, Valle Strona, provincia di Novara


Quanti, entrando in Milano da nord, sanno che il Monte Stella, quella verde collina che lasciamo a destra dopo piazzale Kennedy, è l'enorme cumulo di insanguinate macerie degli edifici distrutti dai bombardamenti del '43 e '44?

Non posso fare a meno di pensarlo, ogni volta che ci passo.

Quando entrai in Milano, da nord, quella collina non c'era.

Le macerie erano ancora ammucchiate ai bordi delle vie, nell'interno dei palazzi sventrati, nei loro cortili senza bimbi e senza vita. Anche da li ci sparavano.

Quando entrai in Milano, era la prima volta che ci andavo.


Neppure un anno prima, a Gravellona Toce, un milite e due partigiani uccisi mi avevano mostrato l'orrore e la pietà che mi accompagnarono per tutta la lotta di Liberazione.

Mentre osservavo quella visione pietosa vidi l'asfalto sollevarsi a pezzi. Fu un attimo: mi stavano inquadrando.

Con un salto mi trovai al lato della strada, riparato dietro un muretto, disteso fra le ortiche. Altri compagni mi avevano preceduto, c'era anche quel tipo magro e lungo, di Ornavasso, che per la sua calma chiamavamo «Tranquil». Poi seppi che Tranquillo era proprio il suo nome.

Tranquil stava trascinando una mitragliatrice Saint-Etienne, vecchio residuo della Prima guerra mondiale, come lo erano anche i novantuno che alcuni di noi impugnavano.

- Aiutami, - mi disse, indicando una cassetta con lunghi caricatori, - e seguimi.

Sembrò cosí naturale che quasi mi passò la paura appena provata.

Ci portammo strisciando in un boschetto di robinie, vicino alla ferrovia, e da li il Tranquil cominciò a sparare, a battere la zona da dove partivano i tiri che cercavano di fermare i nostri che entravano.

Lui era seduto dietro l'arma, io gli passavo i caricatori prima della raffica.

- Guarda la terza finestra della stazione, - disse il Tranquil.

Un attimo e la finestra era una nube di calcinacci, poi da li non sparavano piú.

Dopo poche raffiche ci avevano localizzati e arrivavano i loro tiri.

Ero sdraiato al suolo e guardando il Tranquil, quando gli passavo il caricatore, vedevo che i rami di robinia sopra la sua riccia testa venivano tritati. E quello imperterrito a sparare.

- Adesso guarda la finestra di quella casa, là dietro.

Poi anche da là non sparavano piú.

Il rintronare della Saint-Etienne, l'odore della balestite bruciata, il sibilo delle pallottole, il cuore in gola per la paura e al tempo stesso l'ebbrezza di certe situazioni, le urla e l'incoscienza erano entrate di prepotenza nei nostri giorni.

Mi affidai totalmente al Tranquil, quasi ricevendo la sua calma.


Finita la guerra ci rivedemmo una decina di volte.

Il Tranquil lavorava, tranquillamente, al suo paese, e invecchiava bene. Pochi anni fa ero tornato ancora, come altre volte, in Val d'Ossola, dove per me il ricordo della guerra partigiana e dei tanti personaggi conosciuti allora è sempre vivo, quando, a Ornavasso, mi dissero che il Tranquil era morto. Avevo diciotto anni quando ci siamo conosciuti, e lui ventitre.

Quando lo penso lo rivedo sempre come allora, seduto dietro alla vecchia Saint-Etienne dalle lucide impugnature di ottone, con i rametti di robinia che cadono tritati sopra la sua riccia testa di montanaro buono.


Nell'aprile 1945, in tre giorni e due notti quasi insonni, ci aprimmo la strada per Milano.

Solo due giorni prima avevamo urlato la nostra gioia quando giunse l'ordine di calare al piano, di liberare le nostre città, di tornare a casa. Il 24 aprile Arona era tornata libera, mostrava ancora i segni dove avevamo combattuto solo dieci giorni prima, ma ora eravamo tornati per restarci.

Entrammo fra i primi, con la mia Brigata, i cecchini sparavano ancora ma i loro capi erano fuggiti lasciandoli soli.

Guardavamo il calvario delle nostre città distrutte, vedevamo le ultime vittime di quella tragica repubblica imposta alla gente di mezza Italia.

Morire in quei giorni era ancora piú disumano che non nei lunghi anni e mesi di guerra.

Poi, il 6 maggio, ci fu la grande sfilata delle brigate partigiane arrivate a Milano e due giorni dopo, l'8 maggio, la Germania crollava firmando un armistizio senza condizioni.

Vedere finire il mostro ci vaccinò per sempre contro la bestialità di tutto ciò che nega l'amore e il diritto di vivere liberi.

Ora tutto era finito, ma cominciava il difficile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 26

Leandro Agresti «Malco»

Barberino di Mugello (Firenze), 20 maggio 1924, meccanico

sergente maggiore, Brigata Garibaldi Bruno Fanciullacci, Toscana


Io a ottantasette anni non mi sento da rottamare. Ho ancora cervello. E fiato in gola per parlare. Via via che la frutta matura sugli alberi del mio giardino faccio le marmellate e le regalo a chi se le merita. Non a tutti. L'egoismo, io lo so, cosa vuole dire. E anche il contrario. Ho avuto la fortuna di conoscere grandi compagni partigiani. Quando uno di loro, poco tempo fa, è morto, ho chiesto di non chiudere la bara, per piacere. Perché io verrò. Ma lo voglio trovare aperto. E infatti arrivai, un martedí, per salutarlo. Come ho fatto con tutti i compagni.

I primi partigiani furono figlioli di antifascisti. Mio padre lo bastonarono per bene. Ecco perché sono sempre stato, coscientemente, antifascista e, fino al 1989, quando è caduto il Muro, comunista.

Ora non sono piú comunista. Ma sono ancora partigiano e vado nelle scuole a parlare. Difendo la Costituzione.

Gli ideali per cui abbiamo combattuto sono stati portati avanti e dovranno essere portati avanti dalla Costituzione italiana. Leggetela. Perché, meglio, non la si poteva fare. I padri costituenti hanno lavorato sodo per fare una cosa bellissima. Basterebbe applicarla, e non ci sarebbe piú bisogno di fare tante altre leggi. Andrebbe bene per tutti.

E allora che cosa si aspetta, a farlo davvero?

Un giorno c'erano centoventisei ragazzi delle scuole. Misero in scena uno spettacolo che parlava dal 1921 fino alla Liberazione. Mi sentii un nodo in gola. E pensai che i ragazzi avevano capito, e che volevano ancora sapere.

I ragazzi vogliono sapere. Ma non c'è piú molto tempo. Quanto possono durare, ancora, i partigiani?

Se avete qualcosa da chiedere, chiedetelo ora. Se c'è qualcosa di interessante, domandate. Io basta che chiudo gli occhi, e mi rivedo la scena.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 42

Ugo Berga «Fabbro» «Testa» «Invisca»

Casale Monferrato (Torino), 24 gennaio 1922, studente

commissario politico, CVI Brigata Garibaldi, Val di Susa


«Un gerarca fascista percorre in auto una strada di campagna e si ferma a osservare un ragazzino che costruisce qualcosa con... lo sterco di mucca. "Cosa stai facendo?", gli chiede. E quello: "Faccio un balilla". "Bravo! Ma perché non fai il Duce?", "Perché non ho merda a sufficienza", è la risposta».

Per decenni noi partigiani abbiamo rifiutato la definizione di guerra civile. Adesso, forse, si potrebbe anche ammettere che, in una sua certa parte, si trattò pure di una lotta fratricida. Ma una cosa va detta con chiarezza: noi non si considerava i fascisti come italiani. Erano truppe aggregate allo straniero invasore: come i feroci russi bianchi e gli altri reparti messi in piedi in tutti i territori dell'Europa occupata. Per noi, prima che italiani, erano alleati dei nazisti. Gli italiani, la popolazione italiana, i lavoratori, i contadini, gli abitanti dei villaggi e della città, erano quasi tutti dalla nostra parte. Senza di loro non avremmo potuto far niente.

I nazisti e i fascisti ci ammazzavano, ci torturavano. C'erano delle spie, tra di noi. Le abbiamo dovute far fuori - e forse, qualche volta, abbiamo pure sbagliato. Cosí come abbiamo dovuto giustiziare chi, fra noi partigiani, approfittava delle circostanze per procurare danno alla povera gente. In tempo di pace, chi viene beccato a rubare in casa d'altri si prende tre mesi con la condizionale. È giusto. Ma in tempo di guerra lo stesso reato viene punito con la morte. Ed è giusto anche questo. Non si poteva permettere che si dicesse che i partigiani erano dei delinquenti. Non si poteva perdere l'appoggio della popolazione civile: noi si combatteva, prima di tutto, per loro: i nostri fratelli, le nostre sorelle, le nostre madri, i nostri padri.

Durante il Ventennio circolavano diverse barzellette e battute di scherno sul Regime, tra la gente, che le raccontava piú o meno a voce alta - cosí come erano piú o meno sommesse le risate che ne seguivano. Era un modo per resistere prima che la Resistenza iniziasse, per ridere anche di tutte le altre barzellette che ci raccontava il fascismo. Forse è anche da quelle storielle che è nata la lotta di Liberazione, dallo spirito di ribellione che hanno saputo tenere vivo. Alcune ce le siamo portate in montagna, come quella delle statue di sterco. Era all'inizio. Ci riscaldavano un po' e ci facevano dimenticare la paura. Altre, dopo l'8 settembre, non facevano neppure piú ridere. Una di quelle faceva cosí: «Si è sempre detto che una persona non può essere contemporaneamente intelligente, in buona fede e fascista. Perché se è intelligente e fascista, non è in buona fede; se è in buona fede e fascista, non è intelligente; se è intelligente e in buona fede non è fascista». Dopo l'8 settembre, si diceva semplicemente che chi era rimasto, o diventato, fascista, e voleva continuare una guerra persa e strapersa - una guerra che era diventata guerra contro gli italiani, si badi bene - o era scemo, oppure era pazzo. E con i pazzi e gli scemi non si può ragionare.

Tanti, tra noi, sono stati ammazzati in battaglia. Di alcuni abbiamo ricostruito la morte solo pochi anni fa. Altri sono caduti nelle imboscate organizzate dai delatori: torturati, seviziati, internati, uccisi. Abbiamo compiuto atti eroici e qualche tragico errore. Ma eravamo dalla parte giusta, con una consapevolezza che andava oltre la nostra piú o meno giovane età, il nostro credo religioso e politico, la nostra istruzione. Dai venti mesi passati con i miei compagni a fare la guerra ai tedeschi e ai loro alleati, ho imparato che le differenze sociali, culturali e di classe ci sono, ma anche che certe cose, se si vuole, le capiscono benissimo tutti, senza bisogno di spiegarle per niente.

Mi è capitato diverse volte di andare nelle scuole e di parlarne con i giovani, di queste cose. Alle volte ho trovato un pubblico attento, altre volte no. Non giudico nessuno: d'altra parte, quando eravamo giovani noi, non ne volevamo sapere dei racconti della Prima guerra mondiale... ed era passato cosí poco tempo! Senza generalizzare, sono proprio i piú piccoli, i ragazzi delle scuole medie, a dimostrare maggiore interesse, a capire meglio, a fare domande. Forse perché meno distratti da tante altre faccende. Questo mi fa pensare che non sia passato cosí tanto tempo, che le considerazioni che avevo fatto durante la Resistenza siano valide ancora oggi. E che le nostre storie possano ancora interessare a qualcuno.

Per chi vuole ascoltarle, non c'è piú tanto tempo però: a ottantanove anni, milioni di neuroni se ne sono già partiti e anche io, come tutti i miei compagni di allora, me ne sto per andare.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 57

Marcello Masini «Catullo»

Firenze, 19 giugno 1925, artigiano

caposquadra e commissario politico, XXI Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, provincia di Siena


Si sapeva che non si poteva leggere quello che avremmo voluto e sapere quello che si sarebbe voluto sapere. E se qualcuno andava a prendere dei libri che pure erano ammessi, arrivava qualcun altro a controllare quali libri si erano presi. Se uno che studiava da maestro andava vicino a uno che era operaio veniva richiamato, perché queste cose non erano possibili.

«Ma perché leggi queste cose? Che ti interessa a te, contadino, operaio?»

E poi c'era tutta la vita brutta e terribile. E una tradizione che veniva da lontano.

Quel che si voleva era quello che poteva esistere.

La ribellione fu prima morale. Quella politica venne dopo.


E cosí, nel novembre 1943, a mezzanotte, mentre pioviscolava, io e il mio amico Felicetti ce ne stavamo andando, naturalmente a piedi, in direzione del nostro recapito, che il compagno diceva essere a Cornocchia.

In quei giorni pioveva sempre, continuamente, una pioggerella insistente giorno e notte che rendeva fradici e zuppi il terreno e le piante - ma noi molto di piú.

Una nebbia pesante avvolgeva ogni cosa non permettendoci di vedere nulla in quel fitto bosco. Si faceva la guardia a turno, ma non serviva a nulla perché non si vedeva chicchessia alla distanza di pochi metri, mentre il rumore continuo della pioggia sulle piante e da queste sul terreno ci impedivano di sentire qualsiasi cosa.

Si dormiva ammassati in sei per ciascuno dei due lati del capanno, tutti su un fianco, l'uno attaccato all'altro, dove, per di piú, data la pioggia insistente, dovevamo adattarci a stare giorno e notte.

All'entrata del capanno funzionava come porta una fascina. Per mangiare si riusciva, non ricordo piú come, a fare un po' di pulendo gialla che, senza sale, era una vera schifezza. Solo dopo qualche giorno arrivò qualche pezzo di pane.

Si vede che per me era destino avere sempre la fame come buona compagnia.

Meno male che, stranamente, e chissà poi per quale motivo, il malessere alla gola, invece di peggiorare mi passò del tutto.

Velocemente, ma molto velocemente, molto piú velocemente che se fossi stato a casa, mi passò tutto e mi sentii molto meglio.


Lo stare di guardia solo di notte, lungo il viottolo, a quel freddo, con un vecchio moschetto e un solo caricatore, a ballare come vettucci, nascosti in mezzo alla macchia e sempre immobili, magari sotto il nevischio, pochissimo coperti, era veramente una sofferenza atroce.

Le mani gronchie, un gran freddo addosso, insensibilità ai ginocchi, al naso e alle orecchie, un continuo batter di denti per quattro ore, in attesa di dare «il chi va là!» a qualcuno che poteva avvicinarsi, senza sapere affatto del tempo che passava, per poi provare un'immensa gioia nel sentire la giusta risposta alla richiesta di parola d'ordine che annunciava la venuta del cambio, e subito, quasi di corsa, nel capanno, vicinissimi al fuoco per scongelarsi e poi immediatamente addormentarsi.

I fascisti erano degli isolati. Violenti e isolati. Costituiti in un odio continuo contro la popolazione.

I contadini non si sono mai sentiti fascisti. Non ci hanno mai aderito veramente. Nelle grandi fattorie sentivano che c'era sotto qualcosa che li sfruttava al massimo. E il loro era desiderio di cambiare le cose. Era un sentimento atavico.

Ai contadini era stata promessa la terra, se avessero combattuto nella Grande guerra. Ma avevano ricevuto solo legnate e basta.

Non c'era famiglia che non avesse giovani nelle formazioni partigiane. Ci hanno salvato la vita. Se non c'è una popolazione intera che aiuta non c'è niente da fare. Per ogni partigiano che esiste ci vorrebbero almeno cinquanta persone che lo aiutano.

Io penso che la zona grigia sia una falsità. Perché anche le persone che a un certo momento si sono semplicemente nascoste, tenute da parte, nel fatto di nascondersi hanno ostacolato in ogni modo il fascismo. Erano sempre persone che si facevano in quattro per aiutare, per avvertire, per raccogliere informazioni. E questo c'era. E se non c'era, non c'erano neppure i partigiani.


Passano tanti e tanti anni.

Vado una volta per la strada. Vedo un giovane di venticinque anni che mi chiama partigiano. E come fa a saperlo?

Risponde: - Mi rammento quando avevo quattordici anni e venne alla scuola. E ricordo ancora dalla prima all'ultima tutte le domande e le risposte che si fecero.


Domandano tutti: - Ma perché lo avete fatto? - E fanno anche la domanda che non dovrebbero fare.

- Avete ammazzato?

I ragazzi vogliono sapere il periodo. E chiarire il perché.

È necessario spiegare il periodo, prima di chiarire il perché.

È quasi impossibile spiegarsi, tra noi e i ragazzi ma è l'impegno che ci mettono nel cercare di capire, l'importante.


L'interesse calò intorno agli anni Novanta. Quando calò un po' tutto. Ma non posso dire che si estinse. E infatti è covato.

Adesso la ripresa c'è stata. I giovani sono tanti e sono tornati. Le cose hanno preso una strada un po' diversa, è naturale. Quando uno vede che alle manifestazioni ci sono giovani e vecchi che cantano Bella ciao è una cosa che fa riflettere. Parliamo di questo. Parliamo degli ideali.

Cantano e nessuno li obbliga. Sento quelle motivazioni, che sono ben lungi dall'essere realizzate. E sono pericolose.

Il '68 è stata una grande cosa. Io ci ho partecipato con tre figlioli che ci erano nel mezzo. Ma adesso c'è qualche cosa che sta cambiando. C'è una rivolta morale verso la situazione. C'è stato un collasso. Sento la stessa aria che respirava la mia generazione, piú che quella dei miei figli.

Penso che la generazione nostra sia rimasta tutta cosí. Trovare qualcuno che ne abbia approfittato è ben piú difficile, rispetto a quella del '68. Non mi riesce di trovarlo.


Quello che importa è l'impegno che i ragazzi mettono nelle scuole quando preparano certe attività e certi momenti: sono veramente bravissimi.

Negli ultimi tempi dico loro: - Guardate, sono rimasto solo io -. Allora diventano piú interessati ancora.

Io sono l'ultimo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 73

Nazareno Peano «Cabri»

Cuneo, 7 gennaio 1924, studente

commissario, XI Divisione Garibaldi, CLXXVII Brigata Garibaldi, Piemonte


Erano morti che camminavano.

I fanatici. I muti. La Decima Mas. Quelli che ancora avevano fede. I mistici del sentimento, del sacrificio, dello squadrismo, della maniacale ossessione di non passare per vili, i nemici di ogni forma residua di ragionevolezza.

Sentivano l'odio, intorno a loro.


I tedeschi sapevano di tornare a casa.

Loro sapevano di dover morire.

I tedeschi erano soldati e agivano come soldati.

Loro agivano senza scopo attraverso una serie di fatti non consequenziali che non avrebbero portato a niente.

Sentivano gli alleati dietro le spalle e i partigiani davanti e il popolo intorno che avrebbe voluto fargli la pelle. Sentivano la Storia che sarebbe arrivata, perché molti non erano stupidi.


I tedeschi li tenevano per il guinzaglio. Sapevano di essere servi e, in quanto tali, erano molto piú cattivi dei loro padroni. Mordevano come bestie messe all'angolo. S'inebriavano dell'odore del proprio sangue e di quello del popolo.

Erano crudeli per mancanza assoluta di speranza e di amore nei loro confronti.

Si muovevano in mezzo alla gente come ombre pazze. Nessuno li avrebbe toccati, se non per intercessione della violenza.

Sapevano quel che facevano. Conoscevano il valore della propria ferocia.

Videro arrivare ogni passo, un poco piú avanti, la fine.


Fecero cosí male, a loro stessi e all'Italia.

Occorreva estirparli.

Eppure, per quell'Italia deforme e storpia che avevano creato e che riuscivano a vedere e a toccare - perché non erano ciechi, né in alcun modo menomati - erano pronti a sacrificare ogni cosa, col senso di inferiorità e disgusto che li portava, per primi, a combattere contro i loro stessi fratelli.


Dopo tanti anni, c'è ancora qualcosa che non riesco ad afferrare, nei loro pensieri. C'è qualcosa che ci impedisce ancora di guardarli in faccia. Non è la paura, o la repulsione. Non è piú l'odio - che pure c'è ancora.

È un rifiuto razionale imbizzarritosi nel tempo, che forse occorrerebbe tener fermo.

Anche per poter fare, una volta per tutte, i conti con questo Paese, e le sue facce diverse.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 111

Annita Malavasi «Laila»

Quattro Castella (Reggio Emilia), 21 maggio 1921 - 2011

staffetta, partigiana, CXLIV Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, Appennino reggiano


Mi chiamo Annita Malavasi e il mese di maggio compio ottantanove anni. Sono diventata partigiana dopo l'8 settembre 1943, a Reggio Emilia, facevo trasporto munizioni, stampa, vettovagliamento. Poi, in montagna, mi hanno insegnato le armi, come usarle e accudirle. Il mio nome di battaglia era «Laila». Lo presi da un romanzo che raccontava di una ragazza in Sud America che combatteva al posto del suo fidanzato ucciso. Ero una bella ragazza, ma noi eravamo state educate severamente, anche nel modo di vestire. Però sfruttavamo la nostra bellezza. Quando, con le armi addosso, passavo al posto di blocco in bicicletta mi mettevo la gonna stretta e fingevo di abbassarmela, loro, fessacchiotti, fischiavano e io passavo.

In montagna mi è capitato di uccidere. La donna è sempre donna. Ma nel momento del pericolo anche la donna accetta le regole della guerra. Non è facile. Nata ed educata per dare la vita, in guerra la vita la togli. È importante capire che non siamo diventate combattenti per spirito d'avventura. Ci furono torture orrende. Nella mia formazione avevo una ragazza, Francesca, che era incinta, ma era lo stesso cosí magra che scappò dalla prigione passando tra le sbarre della finestrina del bagno. Per raggiungerci camminò scalza nella neve per dieci chilometri. Quando il bambino nacque lo allattò solo da un seno perché il capezzolo dell'altro le era stato strappato a morsi da un fascista. Ho visto ragazze con le parti intime bruciate dai ferri da stiro.

Era un mondo maschilista. Soltanto tra i partigiani la donna aveva diritti, era un compagno di lotta. La Resistenza ci ha fatto capire che nella società potevamo occupare un posto diverso. I diritti paritari garantiti dalla Costituzione non sono stati un regalo, ma una conquista e un riconoscimento per ciò che le donne hanno fatto nella guerra di Liberazione. Difendere la Costituzione significa difendere la possibilità di garantire un futuro di libertà e democrazia ai figli delle donne.

In montagna si dormiva insieme, per terra, nei boschi, uomini e donne, ma se uno mancava di rispetto veniva punito. L'amore non contava niente. L'importante per noi era aiutare. Io ero anche fidanzata, lo lasciai quando mi disse che fare la partigiana mi avrebbe reso indegna di crescere i suoi figli. Non mi sono piú sposata, anche se in montagna, avevo trovato un ragazzo... lui sí, lo avrei sposato se non me lo avessero ucciso, aveva una mentalità aperta, ma uomini cosí non ne ho piú trovati. Si chiamava Trolli Giambattista, nome di battaglia «Fifa», anche se era coraggiosissimo. È morto nella battaglia di Monte Caio nel 1944, a ventitre anni. L'ho saputo solo sei mesi dopo, quando a primavera la neve si sciolse e il corpo fu ritrovato. È sepolto al cimitero di San Bartolomeo. Gli porto ancora i fiori... Dev'essere stato importante per me, se mentre ne scrivo me lo rivedo davanti agli occhi. L'unico nostro bacio è stato d'addio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 117

Emilio Pecorari

Monticelli d'Ongina (Piacenza), 1° marzo 1926

partigiano, LXII Brigata Garibaldi Luigi Evangelista, Val d'Arda, provincia di Piacenza


Quando Grozny arrivò in montagna, tra noi partigiani c'erano già altri russi.

Io avevo diciotto anni e mi trovavo bene con questi ragazzi che erano fuggiti dai campi di prigionia tedeschi della nostra provincia. Lui scelse come nome di battaglia «Grozny» e lo mantenne fino alla sua tragica fine.

Era un uomo alto e magro, con i baffi, e portava uno strano cappello, forse tipico del suo paese, il Caucaso. Mi chiamava bambino, anzi pambino e mi voleva sempre vicino a lui, soprattutto in battaglia, perché ero il piú giovane e voleva proteggermi. «Pambino vieni qua!» mi diceva sempre.

Quando non lavorava parlava di politica. Bisogna dire le cose come stanno: lui era molto convinto delle sue idee socialiste e parlava sempre molto bene della sua terra, dell'Unione Sovietica, tanto è vero che il prete di Vernasca, pur di non farlo comunicare tanto con la gente del posto, gli parlava lui e gli diceva:

- Da voi in Russia, non ci sono le chiese!

E Grozny rispondeva: - Non è vero! Ci sono meno chiese forse, ma preti patriottici, al fronte con noi!

E quando il prete insisteva allora Grozny si arrabbiava e sbottava: - Meno chiese da noi, ma niente bordelli. Qui molte chiese e molti bordelli!

E bisticciavano sempre!

Noi eravamo una squadra volante di undici persone, ci occupavamo principalmente di fare attacchi sulla via Emilia, recuperare armi e mezzi. Quando arrivò Grozny ci rafforzammo molto perché era una persona militarmente molto preparata, un ufficiale dell'Armata Rossa, e non aveva paura di niente. Con lui cambiò anche il nostro modo di fare le incursioni sulla via Emilia, perché era un esperto di esplosivi e preparava lui le micce e tutto quello che serviva per far saltare i convogli di mezzi militari tedeschi. Poi era sempre l'ultimo a ripiegare. Ci ordinava: «Via voi! Andare via!» e poi ci raggiungeva.

Grozny era una persona preparata anche culturalmente: sapeva diverse lingue, tra cui il tedesco, ed era veramente un grande esperto di esplosivi, che maneggiava come il fornaio maneggia il pane. Era capace di fare il partigiano, che è un'arte tutta particolare della guerra: devi attaccare e poi ritirarti subito, sganciarti velocemente. E quante volte con il suo coraggio ci ha salvato la vita. Guidando le ritirate, rimaneva sempre per ultimo ad affrontare i nemici.

Aveva davvero un coraggio incredibile, forse troppo. Forse è stato proprio questo suo coraggio che l'ha portato alla morte nel novembre del 1944. Affrontato dai fascisti, ferito, ha continuato a combattere fino a quando l'hanno catturato. L'hanno ammazzato come un cane nel carcere di Fiorenzuola, insieme a un altro partigiano, Villa Albino.

Quando c'era il funerale di qualcuno caduto in combattimento sparavamo due o tre raffiche a testa e piangevamo tutti, perché eravamo come fratelli in montagna. E cosí abbiamo fatto per lui, perché è stato davvero un nostro fratello, e abbiamo intonato la canzone che anche lui cantava sempre volentieri:

    Ecco s'avanza uno strano soldato,
    vien dall'oriente, non monta destrier.
    La man callosa, il volto abbronzato,
    è il piú glorioso di tutti i guerrier.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 152

«Fiamma»

Torre Pellice, 1924


Non voglio che sia pubblicato il mio nome.

Non sono un eroe, ma una persona semplice che ha fatto il suo dovere. Come tanti altri.

Ma alla fine dei nostri racconti abbiamo lasciato molto ai giovani.

Che ne siano degni.

| << |  <  |