Copertina
Autore Eileen Favorite
Titolo Il bosco delle storie perdute
EdizioneElliot, Roma, 2008, Scatti , pag. 318, cop.fle., dim. 14,5x21,4x2 cm , Isbn 978-88-6192-023-1
OriginaleThe Heroines [2008]
TraduttoreChiara Brovelli
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe narrativa statunitense
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Pagina 13

CAPITOLO 1


Le angustie di un'adolescenza in ritardo
Deirdre, una seccatura
Fantasie di ragazza
L'apparizione del Cattivo



Ero così arrabbiata con mia madre! Correvo lungo il sentiero che attraversava la prateria, i sandali infradito che sbattevano contro i calcagni. Camminare lungo quel tratto di prato falciato, in mezzo alla distesa di cinquanta acri, era l'unico modo per far sbollire la rabbia. L'inferno non conosce una furia pari a quella di una tredicenne incazzata, soprattutto se non è ancora sbocciata ed è impaziente di vedere il suo corpo trasformarsi. Treccine, ginocchia sporgenti e una tavola al posto del petto: avevo tredici anni, ma fisicamente ne dimostravo dieci.

Ritirarmi nel bosco era un atto di ribellione. Mamma mi aveva proibito di andarci, quando scendeva la sera, e quindi non vedevo l'ora di attraversare la prateria e raggiungere quei sentieri bui ricoperti di foglie. Il sole si stava tuffando dietro gli alberi e le cicale frinivano come maracas elettriche. L'erba e i fiori di campo mi arrivavano alle spalle, la vegetazione era così fitta che nemmeno qualcuno furioso quanto lo ero io in quel momento si sarebbe sognato di attraversarla. Mi tenni sul sentiero. A mano a mano che ti addentravi nella prateria, la temperatura scendeva di qualche grado, ma l'afa non cessava. I rumori provenienti dalla Statale 41 erano più forti, la sera: filtravano attraverso il bosco e i fili della linea elettrica. Una motocicletta, in lontananza, sfrecciava a tutta velocità; probabilmente stava sorpassando una macchina. Il motore fischiava, andava su di giri e poi svaniva. Il suono dell'impazienza. E della fuga. Un suono che conoscevo anch'io. Il boato di un petardo che esplodeva. Se ne sentivano sempre meno, una volta passato il 4 luglio; ma poi verso la fine del mese, ad esempio, ne arrivava un altro. Boom! Qualcuno non riusciva proprio a fermarsi.

Nemmeno io ci riuscivo. Il profumo di trifoglio, il cinguettio di qualche strano uccello. Questa volta mamma si era spinta troppo oltre con Deirdre, e io proprio non riuscivo a sopportarlo. Quella se ne doveva andare! Perché non si trovava un altro bed and breakfast da colonizzare? Anche se, a tredici anni, non avrei usato quel verbo. Probabilmente, all'epoca avrei detto: «Alza le chiappe e vattene, mocciosa!». I servizi dedicati allo scandalo Watergate e la nostra ospite si contendevano strenuamente l'attenzione di mia madre, che io bramavo come la tipica adolescente. Quando lei non lo faceva, avrei voluto che mi circondasse di premure, ma quando tutto andava a meraviglia mi infastidivo se mi toccava i capelli o mi chiedeva come stavo. Un tempismo perfetto, non c'è che dire.

Quella sera, però, aveva davvero esagerato. Quell'irlandese lamentosa aveva pianto così tanto da indurre un altro cliente a protestare, così mamma le aveva dato la stanza più lontana dalla sua: quella della sottoscritta. Il mio rifugio con gli abbaini, la camera più fresca di tutta la casa! E non si era nemmeno preoccupata di chiedermi se per caso mi dispiacesse. Gliel'aveva offerta come se fosse sua. Avevo passato l'estate a spostare i poster e i cuscini come piaceva a me: c'era la mia collezione di album dei Led Zeppelin, sempre più nutrita, e la mia poltrona a fagiolo viola. Tutto comprato con i soldi guadagnati in cambio di qualche faccenda in casa. E adesso dovevo lasciarla a un'irlandese musona che possedeva tutto ciò che avrei desiderato: una cascata di capelli biondi, una pelle angelica e delle curve perfette. Sarei finita su un materassino nel sottotetto ammuffito, pieno di di ragnatele e tafani morti. A differenza di alcuni clienti che si fermavano una settimana o due, Deirdre non aveva specificato la data di partenza. Ci sarei potuta rimanere un mese, là dentro. Guardai le lucciole che brillavano debolmente tra le erbacce, dall'altra parte della prateria. Forse mi sarei accampata nel bosco.

L'umidità offuscava la falce di luna color pesca. Di solito non uscivo così tardi per la mia passeggiata, ma i piagnucolii di Deirdre avevano monopolizzato l'attenzione di mamma, e io avevo dovuto pulire tutta la cucina da sola. Mentre gettavo nell'immondizia gli avanzi dell'insalata di patate e dell'arrosto di Gretta, la nostra cuoca, loro due si erano sedute nel tinello a sorseggiare ginger ale. Deirdre blaterava di un tizio morto. Gretta aveva la serata libera e mamma non si schiodava di un centimetro, così ero dovuta correre a impilare i piatti, pulire i piani di lavoro e spazzare il pavimento di linoleum.

Mi schiaffeggiai un braccio per ammazzare un insetto e attraversai di corsa il bosco per raggiungere lo stagno, dove ogni sera al tramonto arrivava un meraviglioso airone blu. Horace, l'avevo chiamato così. Cercavo sempre di vederlo prima che lui vedesse me, ma Horace si alzava in volo se solo sentiva un ramoscello spezzarsi; spiegava le ali, che aperte raggiungevano il metro e ottanta, e scivolava sull'acqua torbida. Si stava facendo tardi. Stasera l'avevo mancato e non era stato un incidente. Era colpa di mamma. E anche di Deirdre.

Non ero molto lucida, per via della canna che quel pomeriggio mi ero fumata con Albie, il vicino. Albert Gallagher, quindici anni, uno sfigato di vecchia data che di recente si era trasformato in un fattone. Io non ero una gran fumatrice: un paio di tiri e, all'improvviso, mi sembrava che gli uccelli facessero vere e proprie conversazioni. Potevo affrontare la realtà alterata del rumore del ruscello, ma il goffo e foruncoloso Albie era tutta un'altra storia. Il sorriso troppo largo, l'apparecchio per i denti che scintillava... in un attimo, rivedevo lo sfigato che l'anno prima giocava con il piccolo chimico. Doveva essere proprio disperato, per uscire con una come me. Non ero una di quelle ragazzine di tredici anni che ne dimostrano ventidue. Ma gli ero grata perché mi teneva compagnia, soprattutto d'estate, e mamma non si era accorta affatto che non era più il ragazzino innocente di un tempo. Aveva allentato la sorveglianza proprio nel momento in cui avrebbe dovuto intensificarla. Sapeva che Albíe e io di pomeriggio "facevamo delle passeggiate", ma non aveva il minimo sospetto sulle mie escursioni notturne nel bosco.

Era da sempre un luogo proibito, di notte, e fino a qualche mese prima mi ero ben guardata dall'avvicinarmici dopo il tramonto. Mamma non mi aveva mai spiegato con precisione perché non ci dovessi andare e, a mano a mano che cresceva la mia irritazione nei suoi confronti, aumentava anche il desiderio di avventurarmi nel folto del bosco. Stavo superando la fase di vigilanza costante e, ogni volta che tornavo da una passeggiata notturna senza incidenti, mi sentivo più audace e provavo a spingermi oltre nell'oscurità.

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CAPITOLO 9


Un passato ancora più lontano
La crisi filosofica di un'Eroina del XX secolo
Mamma prova a indottrinare Franny
Franny scompare



Mamma non aveva molta esperienza con la psichiatria. I suoi genitori aderivano alla filosofia secondo cui "una vita non analizzata era una vita che meritava di essere vissuta". Quando lei rimase incinta, non le avrebbero mai permesso di discutere dei suoi problemi con uno psichiatra. All'epoca, solo i pazzi e i nevrotici totali avevano bisogno di un aiuto in tal senso. Gli Entwhistle erano abituati a risolvere da soli i propri problemi, anche se, in seguito, mamma mi confidò che le avrebbe fatto piacere ricevere un supporto psicologico durante la gravidanza. Autodidatta da sempre, e sprezzante nei confronti dell'approccio dei genitori, per capire come occuparsi di me aveva letto diversi testi di psicologia spicciola pubblicati in quegli anni. Grazie al dottor Benjamin Spock, mi stringeva al seno ogni volta che piangevo, mi insegnava pazientemente a usare il vasino e mi incoraggiava a diventare un "individuo". Con le Eroine, però, restava fedele alle banalità in voga all'epoca di ciascuna: per curare un esaurimento nervoso, usava brodo e riposo.

L'Eroina "sconvolta" più contemporanea, tra quante erano venute a farci visita, era Franny Glass, la ragazzina depressa di Salinger che si era rifugiata sul divano con una copia dei Racconti di un pellegrino russo, un libro che parlava di un pellegrino che imparava a pregare incessantemente. Mia madre, come tutte le ragazze istruite degli anni Cinquanta, aveva letto tutto di Salinger. Fu molto felice di vedere Franny, che arrivò nel 1972, quando io avevo undici anni. Le piaceva il fatto che non si trattasse della solita Eroina romantica che si struggeva per un uomo, ma che era nel pieno di una crisi filosofica. Mamma riteneva che i suoi problemi fossero sociologici, più che psicologici. La femminista che albergava in lei si preoccupava per quella ragazzina che se ne stava sdraiata a pancia sotto sul divano, passiva; mentre Zooey cercava di costringerla a rinsavire. Franny si rifiutava di prendere decisioni importanti. In un altro libro di Salinger, Alzate l'architrave, carpentieri, Franny raccontava di aver volato nel salotto. Era una persona "oggettivata, vista come l'altro da sé": una bambina, senza dubbio adorata, che si era trasformata in una donna problematica. La cosa che più di tutte colpiva mamma era il fatto che la sua storia non avesse una fine. Non se ne andava mai dall'appartamento disordinato della famiglia Glass, nell'Upper West Side. Alla Fattoria lanciava continue invettive a Zooey; pertanto l'impressione era che, anziché nel punto centrale della narrazione, fosse arrivata alla fine.

Avevo letto i classici di Salinger l'estate che precedette l'arrivo di Franny, ma li avevo compresi solo superficialmente (Seymour. Introduzione era stato particolarmente noioso). Non riuscivo proprio a capire il motivo della sua depressione e mi piaceva soprattutto l'inizio, quando lei e Lane andavano al ristorante per mangiare escargots e lui si metteva ad annusare la sua giacca di procione. Mi sembrava tutto stranamente sofisticato.

Mamma era più energica con Franny di quanto non fosse mai stata con le altre Eroine. Forse era per gli ultimi numeri della rivista Ms. sparsi in salotto o per la sua giovane età. Oppure, il motivo poteva essere la mancanza di una conclusione nella sua storia. In ogni caso, qualcosa nella sua situazione riuscì a sormontare il consueto muro di controllo eretto da mia madre e, per la prima volta, la vidi mentre tentava di persuadere un'Eroina a riesaminare i propri fatti.

«Non puoi lasciare che siano i tuoi fratelli a pensare al posto tuo!» le disse. «Non fare da sostegno al loro ego».

Eravamo sedute in salotto, dopo pranzo. Franny era raggomitolata sul divano, mamma era sulla sua poltrona e io ero distesa sulla panca sotto la finestra, fingendo di leggere. All'epoca mia madre mi aveva insegnato a tacere e, di solito, il tono monotono delle Eroine mi faceva venire voglia di schiacciare un pisolino dopo mangiato. Ma Franny era diversa, in qualche modo. Moderna. Mi piaceva il colore nero e il taglio dei suoi capelli, da folletto, e mi piaceva il suo lieve accento newyorkese. Il suo viso era un miscuglio sorprendente di tratti irlandesi ed ebrei: pelle chiara, occhi azzurri, capelli folti.

«Sono persone brillanti, perché non dovrei farmi guidare da loro?» chiese Franny. «È capzioso accomunare un intero genere. Forse è un po' troppo superficiale come interpretazione, no?».

«Noi donne dobbiamo trovare un nostro potere!»

«Il potere è un illusione. Spesso, potere e saggezza si manifestano attraverso i più umili... i poveri, i bambini».

«Sono proprio le categorie che il patriarcato vuole mettere sotto silenzio!».

Franny si appoggiò al divano e notai che muoveva le labbra sottili. Stava cercando di pregare incessantemente, mentre stringeva al petto il libro che si era portata dietro, Racconti di un pellegrino russo. Era la prima Eroina che aveva portato qualcosa con sé, il che dimostrava quanto fosse legata a quel volume. Strizzai gli occhi e capii che stava mormorando: «Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me». Non eravamo religiose, mia madre e io, e come atea ero affascinata dalle persone devote. L'invocazione completa, secondo Zooey, recitava così: "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, una misera peccatrice", ma Franny aveva tagliato l'ultima parte. La sua preghiera era una sorta di tic nervoso, un tic da sindrome di Tourette, che scattava quando voleva soffocare le parole di mamma. Provai a recitarla anch'io: «Signore Gesù, abbi pietà di me». Mi piaceva l'idea di adattare le mie esperienze a quel ritornello; immaginavo di stare sul campo con la mia mazza da lacrosse e di lanciare la palla in rete sussurrando: "Abbiate pietà di me". Era un po' come chiedere scusa agli avversari per aver segnato.

Franny sollevò un gomito, improvvisamente ispirata, forse dal suo mantra. «Voglio dire, ciò che conta è vivere una vita semplice» disse. «Come il pellegrino. Siamo troppo impegnati a complicare le cose con ideologie e dottrina. Con i simboli dell'esistenza convenzionale». Indicò la stanza e io guardai i tappeti persiani sbiaditi, i vecchi divani di velluto con le frange della nonna, le lampade a stelo, le riviste. «Ma soltanto recitando questa preghiera, piu e più volte, arrivi a conoscere Dio».

«L'ultimo patriarca. Il tizio con la barba e il bastone».

«Non penso proprio che Dio sia una persona o un'entità singola. È più una forza che si avverte».

Fico. Una forza. Annuii e, anche se non dissi nulla, Franny si girò nella mia direzione e, per un attimo, i nostri sguardi si incontrarono.

«Hai così tante qualità» disse mia madre. «Sei così forte e intelligente. Detesto pensare che qualcuno possa ostacolarti».

Franny ricominciò con il suo borbottio silenzioso, premendo il libro sotto il cuscino. Mamma le stava facendo uno dei suoi discorsetti della serie "Vivi sfruttando tutto il tuo potenziale"; normalmente erano riservati a me, servivano quando tornavo a casa con un voto inferiore alla B. Era divertente guardare Franny mentre si estraniava come facevo io, e iniziai a recitare piano la sua preghiera. La mia immaginazione preferiva il misticismo di Franny al femminismo di mamma. Soprattutto, però, quella conversazione mi metteva a disagio. Ero imbarazzata da mia madre e volevo aiutare la nostra ospite a scappare. Mi venne un'idea. «Ehi, Franny» dissi «vuoi ancora che ti mostri il sentiero che attraversa il bosco?».

Lei si tirò su a sedere, sollevata per la via d'uscita che le stavo offrendo. «Oh, sì!».

Guardai mamma e le spiegai: «Volevo mostrarle il sentiero, per evitare che si perda andandoci da sola».

«Oh. d'accordo» Scrollò le spalle e cominciò a lisciare le copie di Ms., che aveva strategicamente posizionato sul tavolino per tentare l'Eroina. «Non allontanatevi troppo. Fa buio presto. E mettetevi un po' di spray, là fuori ci sono degli insetti assassini. Ah, e... Penny, torna in tempo per dare una mano a Gretta con la cena».

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CAPITOLO 12


L'incontro con le ragazze
Kristina mi trova piatta
La vita con i farmaci
I piaceri della telepatia
Jackie "salta-nel-lago"



Mentre dormivo, mi trasferirono in un'ala di un altro edificio. Mi svegliai in un letto d'acciaio, dietro una tenda bianca, con caviglie e polsi liberi. Spinsi indietro la tenda e mi ritrovai a guardare il muro pieno di finestre di un piano più alto. Attraverso i vetri vedevo un prato verde e scintillante e le cime degli alberi. Pensai alla mia notte nel bosco, all'eccitante cavalcata con Conor. Provai una tristezza immensa al pensiero che, forse, non avrei più camminato nella prateria, non avrei più aspettato Horace allo stagno e non avrei più rivisto Conor. Mi era successo qualcosa di terribile, eppure a malapena me ne rendevo conto, per via dei narcotici. Non riuscivo a percepirlo.

Lentamente mi tirai su a sedere, con la testa che mi girava, e spinsi indietro la tenda. Il letto accanto al mio era vuoto. Il pavimento era di linoleum grigio, le pareti di mattoni verde menta, come quelle della palestra dell'Accademia. Sbattei le palpebre, per essere sicura di non vederci doppio. La vista di tre porte con pomelli di metallo mi tranquillizzò. Quello al centro girò e Florence entrò svelta, seguita dalla solita scia di Jean Naté e sigarette.

«E brava la mia Penny. Coraggio. Prima le medicine e poi un po' di attività».

Gettai i piedi sul pavimento freddo e lei mi passò un bicchiere di carta e una pillolina rotonda con una V incisa al centro. Me la misi in bocca e la mandai giù con l'acqua. Mi alzai. Non sentivo niente e permisi a Florence di accompagnarmi fino in fondo a un lungo corridoio. Mi teneva il gomito, mentre blaterava di una specie di sistema a gettoni. Passammo davanti a una bacheca chiusa da un vetro e mi indicò dei coni di cartone marrone che riportavano i nomi di alcune ragazze. Sopra ciascuno erano impilate delle palline, che rappresentavano il gelato.

«Suppongo che adesso ti procureremo un cono» mi disse. «È la nuova brillante idea di Peggy. Non so se sia efficace. Penso che voglia impedire che i dottori siano gli unici a concedervi dei privilegi. Ha senso, in effetti: loro non ci sono quasi mai. Ecco come funziona: se ti guadagni un numero sufficiente di palline, puoi ottenere gite di un giorno, telefonate e roba simile».

«E come me le guadagno?».

«Comportandoti bene. In fondo al corridoio c'è un elenco delle regole». Svoltammo l'angolo ed entrammo in una grande stanza, molto luminosa. «Questa è la sala diurna. È giunto il momento di presentarti le altre ragazze».

Nel salone c'erano sedie, divani e una fila di finestre. Il pavimento era nudo e c'era una tv accesa. Le altre ragazze indossavano abiti comuni, a parte una che aveva due vestaglie insieme, una allacciata sul davanti, l'altra sulla schiena. L'aria condizionata mi fece rizzare i peli delle braccia e rimasi sorpresa quando mi accorsi di avere un paio di jeans corti e una canottiera a righe. Mamma doveva avermi preparato una borsa. Ero ancora troppo incline ad abbandonarmi alle fantasie, per credere che tutta quella situazione fosse reale. Non era reale la ragazza con i capelli a ciocche che batteva sulla finestra con la mano aperta. E nemmeno quella che portava due vestaglie, con la faccia gonfia e una coda di cavallo spettinata, che fissava una scacchiera con i pezzi già sistemati e chiacchierava a bassa voce con la sedia di metallo vuota che aveva di fronte. Era una specie di tè del Cappellaio Matto a cui erano state invitate ragazze disadattate. Altre due avevano quello che, in seguito, soprannominai "sorriso della Gioconda sotto l'effetto di Torazina". Per cancellare quella scena così lugubre, tentai di concentrarmi su Conor e di rivivere ogni istante del nostro incontro. Non volevo dimenticare la sensazione delle sue braccia, il destriero al galoppo, il profumo del bosco di notte. Chiusi gli occhi e cercai di tenere i piedi ben piantati per terra.

«Penny». Florence mi scrollò il braccio. «Questa è la tua compagna di stanza, Kristina».

Era distesa sul divano, con i piedi appoggiati sul bracciolo. Stava guardando la serie L'isola di Gilligan. Portava dei calzettoni a coste, ripiegati appena sotto le ginocchia coperte di croste, e da entrambi sbucavano gli indici, con lo smalto rosso rovinato. La testa posava su un cuscino e una lunga treccia nera le scendeva su una spalla, arrivando quasi a toccare il pavimento. Attraverso l'apertura della camicia bianca, intravidi l'incavo dei seni.

Florence afferrò la sedia di metallo di fronte alla ragazza con gli scacchi e me la passò. L'altra continuò a borbottare con la sua avversaria invisibile. Mi accomodai sulla sedia fredda, le mani sotto le cosce, e rivolsi lo sguardo allo schermo. Lo skipper picchiava Gilligan con il berretto piegato. Mi sforzai di trovare una somiglianza tra Conor e lo skipper, ma quest'ultimo era troppo grasso, troppo impaziente per avere qualcosa in comune con il mio re. Avevo raggiunto quello stato di infatuazione in cui paragonavo ogni essere umano di sesso maschile a lui. Avrebbe polverizzato in un colpo solo Gilligan, lo skipper e il dottor Keller.

«Cosa fa tuo padre?». Kristina prese la treccia e se la mise sotto il naso, annusandola. Con quel vocione profondo, quasi mascolino, e i suoi occhi verdi enormi e sporgenti, mi fece subito pensare a un rospo. Un rospo dallo sguardo intelligente.

«È morto».

«Sei ricca?» mi chiese.

«No».

«Pensavo che tutte le ragazze chiuse qui dentro lo fossero». Mi fissò, sempre tenendo la treccia sotto il naso; il codino finale le pendeva da un lato della bocca, come un paio di baffi storti alla Fu Manchu. Aveva un bel naso arcuato e un bocciolo di rosa al posto delle labbra. Se non fosse stato per quegli occhi da rospo, sarebbe stata stupenda. «Mia nonna mette la spesa nei sacchetti, da Henry's. Tanto perché tu lo sappia».

Henry's Market era una lussuosa drogheria nella piazza di Prairie Bluff. Il genere di posto in cui la gente comprava il caviale e se lo faceva mettere sul conto. Henry's accettava assegni anche per un dollaro e ventinove centesimi, e i clienti erano soprattutto personale di servizio, governanti o tate. Io e mamma ci andavamo solo quando veniva a trovarci nonna Entwhistle. Dove altro avresti potuto trovare allora fichi e formaggio di capra stagionato sotto la cenere?

«Perché mi stai fissando le tette?» chiese.

«Non è vero» risposi, mentendo. Le mie inibizioni andavano via via diminuendo, mentre il sangue diffondeva i farmaci in tutto il corpo.

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