|
|
| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione di Carlo Formenti SOVRANITÀ O BARBARIE Capitolo primo 17 Ascesa e declino del keynesismo Capitolo secondo 47 La crisi del keynesismo e la sinistra Capitolo terzo 67 Italia: dalla Costituzione repubblicana alla crisi degli anni Settanta Capitolo quarto 103 Dal Sistema monetario europeo (SME) alla crisi del 1992, passando per il "divorzio" Capitolo quinto 135 1992: dall'uscita dallo SME al Trattato di Maastricht Capitolo sesto 147 Il Trattato di Maastricht: lo smantellamento dello Stato italiano Capitolo settimo 169 L'euro e i trattati europei: la "costituzionalizzazione" del neoliberismo Capitolo ottavo 199 La colonizzazione tedesca dell'Europa Capitolo nono 223 La mezzogiornificazione dell'Italia Capitolo decimo 241 La sinistra antisovranista Capitolo undicesimo 283 Sovranità o barbarie |
| << | < | > | >> |Pagina 17Capitolo primo
Ascesa e declino del keynesismo
La crisi - economica, politica, sociale e istituzionale - che stanno vivendo le democrazie occidentali, in particolar modo quelle europee, non inizia con la crisi finanziaria del 2007-09, e neppure nei primi anni Duemila, con l'introduzione dell'euro come moneta circolante, come recita la vulgata. È una crisi che ha origini molto più lontane, che risalgono almeno alla metà degli anni Settanta. È a quel punto che il cosiddetto modello keynesiano, che aveva dominato le economie occidentali fin dal dopoguerra, entra in crisi. Al netto delle significative differenze che intercorrevano tra un paese e l'altro, in linea generale il modello si caratterizzava per una forte presenza dello Stato nell'economia (per mezzo di politiche industriali, sostegno agli investimenti e alla domanda attraverso elevati livelli di spesa pubblica, ecc.), uno "Stato sociale" volto a garantire a ogni cittadino diritti e servizi sociali (assistenza sanitaria, pubblica istruzione, indennità di disoccupazione, ecc.), politiche del lavoro tese verso la piena occupazione e la crescita dei salari (più o meno, anche se non sempre, in linea con la crescita della produttività), l'istituzionalizzazione dei sindacati e della concertazione come strumento di mediazione tra gli interessi dei lavoratori e quelli delle imprese, e infine la partecipazione delle classi lavoratrici alla vita politica dei loro rispettivi paesi per mezzo dei partiti di massa. Tutto questo "permette[va] l'operatività di quello che è stato definito da molti il 'compromesso di classe' dei primi decenni del secondo dopoguerra". A livello internazionale si basava su un regime di cambi "fissi ma aggiustabili" (il cosiddetto "regime di Bretton Woods" o gold dollar exchange standard) - sistema che ruotava sostanzialmente intorno al dollaro come valuta di riserva internazionale, convertibile in oro a un tasso di cambio fisso - e un rigido controllo dei movimenti di capitale. A onta di un regime commerciale relativamente protezionistico (rispetto a oggi), il cosiddetto trentennio keynesiano fu caratterizzato da un forte aumento degli scambi internazionali, che crebbero a tassi che sarebbero rimasti ineguagliati anche negli anni della globalizzazione neoliberista e del libero scambio incondizionati. Questo apparente paradosso si spiega col fatto che all'epoca una moderata forma di protezionismo, se finalizzata allo sviluppo della crescita e della domanda all'interno dei singoli paesi, era considerata (a ragione) propedeutica allo sviluppo del commercio mondiale stesso. La Carta dell'Avana, l'intesa che nel 1948 istituiva l'Organizzazione internazionale per il commercio (ITO), antesignana dell'Organizzazione mondiale per il commercio, illustrava bene questa istanza. Dopo aver individuato nell'articolo 1 come principale finalità dell'ITO l'assicurare attraverso uno sviluppo bilanciato dell'economia mondiale le condizioni di stabilità e benessere indispensabili a una convivenza pacifica delle nazioni, nell'articolo 2 si affermava che
i paesi membri riconoscono che evitare la disoccupazione e la
sottoccupazione, attraverso la costituzione e il mantenimento
in ogni paese di utili opportunità di impiego per chi è capace e
disposto a lavorare e di un volume di produzione e di domanda
effettiva per beni e servizi ampio e stabilmente crescente, non è
solo una preoccupazione interna a ogni nazione, ma anche una
condizione necessaria per l'ottenimento del fine generale e degli
obiettivi fissati nell'articolo 1, inclusa l'espansione del commercio
internazionale, e quindi del benessere di tutte le altre nazioni.
La priorità dell'obiettivo del pieno impiego, da conseguirsi attraverso la crescita della domanda interna, era ribadita nell'articolo 3: "Ogni membro intraprenderà azioni finalizzate al mantenimento sia di un'occupazione piena e produttiva sia di una domanda ampia e stabilmente crescente all'interno del suo territorio, attraverso misure appropriate alle sue istituzioni politiche, economiche e sociali". In breve, come scrivono Aldo Barba e Massimo Pivetti, "non si propugnava una crescita trainata dalle esportazioni, ma, al contrario, flussi di esportazioni trainati dalla crescita", che a sua volta si sarebbe fondata sulla domanda interna, di cui il miglioramento dei salari e un orientamento espansivo della politica economica costituivano il presupposto. In linea generale, seppur nei limiti degli equilibri internazionali emersi dal conflitto mondiale, era considerata fondamentale una conduzione il più possibile autonoma della politica economica nazionale, in linea con la visione dell'economista britannico John Maynard Keynes , secondo cui l'assetto economico-monetario del dopoguerra si sarebbe dovuto basare sulla "minor interferenza possibile con le politiche economiche nazionali". Come scrivono sempre Barba e Pivetti, questa autonomia (relativa) era garantita in primo luogo dal controllo della politica monetaria e fiscale:
Fino alla fine degli anni Settanta, una separazione della politica monetaria
dalla politica economica generale dei governi sarebbe apparsa semplicemente
inconcepibile. E altrettanto inconcepibile sarebbe di conseguenza apparso un
regime di indipendenza politica della banca centrale. La consapevolezza
diffusa che la moneta e i fenomeni monetari hanno effetti reali - ossia effetti
sulla distribuzione del reddito, i livelli occupazionali e il benessere sociale
- portava a guardare alla politica monetaria come a una componente importante
della politica economica generale, di cui i governi in carica dovessero
assumersi per intero la responsabilità. Da una parte la possibilità di creare
moneta era da tutti considerata come il principale dei poteri economici
pubblici; dall'altra si riteneva che il controllo dei tassi di interesse interni
rientrasse tra i compiti principali dei governi, dal loro livello dipendendo
l'onere del servizio dei debiti, gli stessi costi dei beni prodotti all'interno
e la loro competitività sui mercati internazionali, la dinamica del debito
pubblico in rapporto al prodotto e la distribuzione del reddito disponibile.
Posto che la spesa pubblica sarebbe stata perlopiù finanziata da un prelievo
fiscale improntato a criteri di marcata progressività, bisognava riuscire a
finanziare a tassi di interesse i più bassi possibile gli aumenti della spesa
necessari a contenere disoccupazione e squilibri sociali ogniqualvolta essi
avessero comportato dei disavanzi pubblici.
Non solo quindi era allora ritenuto pressoché inconcepibile che le decisioni
concernenti i tassi di interesse potessero essere delegate a degli organismi
tecnici indipendenti dai governi e politicamente irresponsabili, ma si riteneva
che i governi dovessero altresì disporre degli strumenti necessari al controllo
effettivo del loro livello. Da qui l'importanza attribuita al controllo dei
movimenti internazionali dei capitali, senza il quale il livello dei tassi di
interesse non avrebbe potuto essere deciso dalle autorità nazionali di governo
perché esso sarebbe stato invece dettato dall'obiettivo di impedire deflussi di
capitali incompatibili con il necessario equilibrio nel tempo della bilancia dei
pagamenti, nonché con la politica del tasso di cambio prescelta.
In base alla maggior parte dei criteri economici e sociali, il periodo keynesiano - che non a caso è noto come il "trentennio glorioso" - può essere definito "un successo", come scrivono Adam Przeworski e Michael Wallerstein, avendo garantito per diversi decenni crescita economica sostenuta, piena occupazione (o quasi), salari e profitti crescenti, estensioni di diritti sociali ed economici a un numero di cittadini senza precedenti nella storia e relativa stabilità economico-finanziaria a livello internazionale. Le ragioni che resero possibile il trentennio keynesiano e che poi ne decretarono la fine sono ancora oggi oggetto di un accesso dibattito. Secondo una certa scuola di pensiero, cara ai keynesiani contemporanei, che potremmo definire idealista - fondata cioè sulla centralità delle idee nella determinazione dei processi storici -, le conquiste economiche e sociali del secondo dopoguerra sono in gran parte attribuibili alla rivoluzione nel pensiero economico attuata da Keynes (e dal meno famoso ma non meno importante economista polacco Michal Kalecki ) nel corso degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Lo stesso Keynes, d'altronde, riteneva che il mondo fosse governato "da poco altro [all'infuori delle] idee degli economisti e dei filosofi politici". Come è noto, nei primi decenni del Novecento Keynes rovesciò il vecchio paradigma (neo)classico, radicato nella dottrina del capitalismo laissez-faire e del libero mercato, secondo cui i mercati sono fondamentalmente autoregolantesi e dunque che l'economia, se lasciata a sé, cioè con la minor interferenza possibile da parte dei governi, è in grado di generare automaticamente stabilità e piena occupazione (purché i lavoratori siano flessibili nelle loro richieste salariali). Tale teoria fu messa a dura prova dalla Grande Depressione degli anni Trenta che seguì il crollo del mercato azionario del 1929: una crisi causata, in maniera non dissimile dalla crisi finanziaria del 2007-09, dallo scoppio di un'enorme bolla creditizia generata da un sistema finanziario fortemente deregolamentato. Questo portò acqua al mulino di Keynes, che nel suo magnum opus del 1936, la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta , aveva esposto la sua teoria, diametralmente opposta a quella (neo)classica, secondo cui il livello generale dell'attività economica è determinato dalla spesa aggregata (ossia dalla quantità di beni e servizi complessivamente richiesta dai soggetti economici, tra cui il governo) e che un livello inadeguato di spesa aggregata può portare a un livello di produzione inferiore a quello potenziale e a periodi prolungati di alta disoccupazione (ciò che Keynes chiamava "equilibrio di sottoccupazione"). Inoltre, Keynes ribaltò l'assioma neoclassico secondo cui gli investimenti sarebbero una funzione del risparmio, dimostrando che il volume dell'investimento è del tutto indipendente dall'offerta (potenziale) di risparmio e anzi ne è la necessaria premessa, giacché le banche commerciali, e a maggior ragione le banche centrali, non intermediano i risparmi esistenti ma creano denaro (e depositi) "dal nulla". In altre parole, per risparmiare occorre spendere. Di conseguenza, Keynes proponeva l'uso della politica monetaria e fiscale - all'uopo, ricorrendo alla spesa in disavanzo - e l'adozione di un rigido quadro regolatorio per contrastare la tendenza intrinseca del capitalismo alle crisi finanziarie e per mitigare gli effetti negativi delle recessioni e delle depressioni economiche, ivi incluso il ricorrere allo Stato come "datore di lavoro di ultima istanza", creando cioè posti di lavoro che il settore privato non è in grado di (o disposto a) fornire: il celebre, e comunemente frainteso, "scavo di buche per poi riempirle". Il fulcro dell'argomentazione di Keynes è che il governo ha sempre la capacità di determinare il livello generale di spesa e di occupazione in un'economia. Di conseguenza, la piena occupazione divenne un obiettivo realistico che poteva essere perseguito in qualunque momento. Come è noto, il primo politico a fare proprie e a mettere in pratica le idee di Keynes, seppur in maniera eclettica e sui generis (e solo parzialmente influenzata dall'economista britannico), fu il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt (al governo dal 1933 al 1945). Come dichiarò alla convention democratica del 2 luglio 1932:
I nostri leader repubblicani ci parlano di leggi economiche - sacre,
inviolabili, immutabili - che causano situazioni di panico che nessuno può
prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne muoiono
di fame.
Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi economiche non sono
fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri umani.
Roosevelt, col suo New Deal, dimostrò che era possibile una via d'uscita "progressiva" dalla crisi, basata sull'intervento statale tanto come volano di stimolo economico quanto come strumento di democratizzazione dell'economia, nonché di regolamentazione e limitazione della "libertà dello speculatore, del manipolatore, del finanziere". Con il New Deal, "il contrasto alla disoccupazione di massa e alla miseria sociale, la regolazione dei salari e degli orari di lavoro, il sostegno del reddito in agricoltura, i diritti e i poteri dell'organizzazione sindacale a livello aziendale e settoriale, la protezione sanitaria e previdenziale pubblica rientravano a pieno titolo nei parametri essenziali della politica economica del governo, al pari degli investimenti nelle infrastrutture materiali e culturali, della funzione regolata e allargata del credito, del disciplinamento della finanza, della politica monetaria e commerciale". La radicalità della politica di Roosevelt, nota Riccardo Bellofiore , sta nell'aver promosso una politica che incideva tanto sul livello della spesa quanto sulla composizione della produzione "e che dunque aveva coniugato sostegno alla domanda e ridefinizione dell'offerta; e dove lo Stato si faceva occupatore diretto di manodopera". Il .cor New Deal confermò l'intuizione fondamentale di Keynes: ossia che la maggior parte delle crisi nel capitalismo ha origini finanziarie - la dinamica classica è quella di una bolla speculativa che a un certo punto scoppia, privando l'economia di una delle sue risorse principali: la liquidità - e dunque può essere risolta, anche abbastanza rapidamente, attraverso la mobilitazione di risorse finanziarie pubbliche, per loro natura inesauribili (su questo punto torneremo più avanti). Tuttavia, la vera "lezione pratica" del keynesismo, secondo la definizione dell'economista postkeynesiana Joan Robinson , fu la Seconda guerra mondiale. Secondo la narrazione idealista, il conflitto militare avrebbe mostrato alle élite traumatizzate del mondo occidentale, così come alle organizzazioni dei lavoratori, che la spesa governativa su larga scala poteva portare un'economia alla piena occupazione molto rapidamente anche a fronte di una massiccia diminuzione della spesa privata e poteva dunque essere usata per evitare il ripetersi della miscela letale di alta disoccupazione, austerità e mercantilismo beggar-thy-neighbour ("affama il tuo vicino") che aveva caratterizzato gli anni Trenta e posto le basi del conflitto mondiale. Questo spiegherebbe, secondo la narrazione idealista, perché il keynesismo (o meglio, come vedremo, la versione "imbastardita" delle teorie di Keynes che risponde al nome di neokeynesismo), nel dopoguerra, si sia affermato come la scuola economica più popolare dell'Occidente, inaugurando così la cosiddetta era fordista-keynesiana di politica economica, in cui, viene asserito, le organizzazioni sindacali, insieme a elementi "illuminati" della borghesia (come lo stesso Keynes) e del ceto politico, furono capaci di imporre ai capitalisti un "compromesso di classe" dai tratti fortemente progressivi. Sempre secondo la narrazione idealista, la crisi del modello keynesiano, a partire dagli anni Settanta, sarebbe rintracciabile soprattutto nell'ascesa di un nuovo pensiero controegemonico: il monetarismo, antesignano del neoliberismo. Come detto, la narrazione idealista si fonda su un'indefessa fiducia nel potere delle idee di plasmare il mondo; è comprensibile, dunque, che in quest'ottica il passaggio dall'epoca keynesiana a quella neoliberista venga visto in gran parte come la vittoria di un'ideologia su un'altra piuttosto che, per esempio, il risultato di dinamiche interne al funzionamento del sistema economico globale. Un'interpretazione alternativa - e all'avviso di chi scrive più convincente - è offerta dalla cosiddetta scuola della regolazione, un approccio radicale alla teoria della politica economica emerso alla fine degli anni Sessanta. La teoria della regolazione nacque come reazione alle teorie marxiste ortodosse che proponevano di spiegare tutti i processi storici unicamente in base alla "legge dell'accumulazione capitalistica". I regolazionisti ribatterono che in ogni dato momento storico esiste, oltre al capitale, una molteplicità di forze sociali all'opera: la resistenza delle classi lavoratrici, il cambiamento ambientale, le tensioni razziali, le differenze di genere, la cultura, ecc. Queste non possono essere spiegate semplicemente come funzioni della logica interna del capitalismo. Nell'opera costitutiva della teoria della regolazione, l'economista francese Michel Aglietta si propone di offrire "una base teorica alla periodizzazione del capitalismo in successive fasi storiche". Secondo la teoria della regolazione, il capitalismo si evolve attraverso una serie di fasi discontinue. Ogni stadio distintivo dello sviluppo capitalistico si basa su un paradigma industriale (la produzione di massa, per esempio), che a sua volta dà luogo a uno specifico "regime di accumulazione" o modello di crescita (un modello di produzione e consumo che consente l'accumulazione di capitale). I regimi di accumulazione sono periodi di crescita economica e dei profitti relativamente stabili. A loro volta i regimi di accumulazione sono caratterizzati da specifici "modi di regolazione": ossia l'insieme di leggi, istituzioni, norme, consuetudini, ecc., sia a livello nazionale sia internazionale, che assicurano il funzionamento e la riproduzione nel tempo di un certo regime di accumulazione. A un certo punto, tali regimi inevitabilmente si esauriscono, cadono in crisi e vengono smantellati, in attesa che emerga un nuovo regime capace di rilanciare il processo di accumulazione. In termini regolazionisti, dunque, il modello fordista-keynesiano rappresentava uno specifico stadio del capitalismo basato su uno specifico regime di accumulazione caratterizzato da un forte interventismo statale a sostegno del processo di accumulazione, tanto attraverso il sostegno alla domanda aggregata quanto attraverso il sostegno diretto e indiretto alle imprese nazionali (e molto altro). Da questo punto di vista, sarebbe ingenuo vedere l'espansione del ruolo dello Stato nell'epoca fordista come un aspetto che fu accettato "a malincuore" dalle classi capitaliste (anche se può benissimo essere stato così per i singoli capitalisti); l'interventismo statale, piuttosto, andrebbe visto come un elemento indispensabile del modo di regolazione fordista. In altre parole, il capitale adottò il keynesismo anche, seppur non esclusivamente, "perché riteneva che le varie restrizioni e regolamentazioni sarebbero state vantaggiose per il processo di accumulazione del capitale in quel dato momento storico, soprattutto considerando gli scarsi risultati ottenuti in termini di accumulazione nel periodo della Grande Depressione, in cui quelle restrizioni erano state assenti". Ciò non vuol dire che il rapporto delle classi dominanti nei confronti di tale regime, anche nella fase di accumulazione, fosse privo di contraddizioni; né, ovviamente, si intende sminuire l'apporto delle lotte operaie - o, per questo, delle teorie di Keynes e Kalecki - all'affermarsi del compromesso di classe. Il punto che ci interessa sottolineare è che, preso singolarmente, nessun elemento di quel periodo - la forza delle organizzazioni sindacali, il trionfo delle teorie keynesiane su quelle (neo)classiche, l'esistenza di un'alternativa concreta al capitalismo nella forma dell'Unione Sovietica, il trauma della Seconda guerra mondiale, le tecnologie di produzione fordiste (che in verità esistevano da decenni), ecc. - è sufficiente a spiegare l'ascesa del keynesismo; piuttosto, quest'ultimo andrebbe visto come il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, delle "giuste" condizioni sociali, politiche, economiche, tecniche e istituzionali. Come vedremo, aver sottovalutato fino a che punto il compromesso di classe alla base del sistema fordista-keynesiano fosse un elemento fondamentale di quello specifico regime di accumulazione è una delle ragioni per cui buona parte della sinistra europea si ritrovò priva degli strumenti per capire la crisi capitalistica che investì il keynesismo nel momento in cui, negli anni Settanta, le condizioni alla base del suddetto compromesso vennero meno. Come scrive Leo Panitch, molti socialisti dell'epoca si convinsero "di aver modificato gli equilibri di classe molto più di quanto non avessero fatto veramente". Di conseguenza, ignorarono il fatto che la classe capitalista aveva attivamente sostenuto il compromesso di classe solo nella misura in cui esso era funzionale all'accumulazione e che, una volta cessata la sua utilità, l'avrebbe rigettato. Alcuni affermarono perfino che il mondo industrializzato fosse già entrato in una fase postcapitalistica, nella quale tutti gli aspetti caratteristici del capitalismo erano scomparsi per sempre, grazie a una fondamentale traslazione di potere dal capitale al lavoro. Inutile dire che le cose non stavano affatto così. | << | < | > | >> |Pagina 31Fatta questa doverosa premessa, possiamo dunque tentare di rispondere alla seguente domanda: perché il modello keynesiano - tanto le teorie che lo avevano sostenuto quanto le pratiche e le politiche a esso associate - entra in crisi negli anni Settanta? Secondo la scuola idealista, come detto, le cause del declino del keynesismo sono da rintracciarsi nell'emergere di un nuovo paradigma macroeconomico, diametralmente opposto al keynesismo: il monetarismo, una teoria macroeconomica associata principalmente al pensiero di Milton Friedman. Possiamo evitare di addentrarci nei meandri della teoria friedmaniana in questa sede; basti sapere che il grosso della sua opera era finalizzato a dimostrare l'inefficacia della politica monetaria e fiscale nel produrre crescita e sostenere il pieno impiego, e più in generale a ridare lustro alla concezione prekeynesiana secondo cui i mercati tendono ad autostabilizzarsi (purché - questa la "novità" della teoria di Friedman, poi clamorosamente smentita dai fatti - non vi siano importanti e imprevedibili fluttuazioni nell'offerta di moneta).Uno dei punti fondamentali della teoria friedmaniana era il cosiddetto "tasso naturale di disoccupazione": cioè l'idea secondo cui in un'economia di mercato esiste un unico tasso di disoccupazione compatibile con la stabilità dei prezzi e che qualunque tentativo da parte del governo di manipolare (ridurre) quel tasso utilizzando la politica monetaria e/o fiscale non potrà che generare inflazione (il che equivale a dire - qui stava il tocco di genio di Friedman - che, al netto di piccole variazioni cicliche, il tasso occupazionale effettivo equivale sempre alla "piena" occupazione che è possibile ottenere senza generare inflazione). "L'intento", come ha scritto Paul Krugman , "era eliminare qualunque discrezionalità da parte degli ufficiali di governo". Le teorie di Friedman riscontrarono uno straordinario successo nel corso degli anni Settanta, innanzitutto in ambito accademico. Nel corso di un solo decennio, la maggior parte degli economisti abbandonò il paradigma keynesiano (anche nella sua forma imbastardita) a favore della macroeconomia monetarista. Come scrisse l'economista Alan Blinder: "Nei primi anni Ottanta, era difficile trovare un macroeconomista accademico americano di età inferiore ai quarant'anni che professasse di essere un keynesiano. Si trattò di [...] una vera e propria rivoluzione intellettuale". Le ragioni di questa "rivoluzione intellettuale" furono molteplici, come vedremo. Indubbiamente, va dato credito all'immenso e capillare lavoro svolto dall'"intellettuale collettivo neoliberista" legato alla celebre fondazione della Mont Pélerin Society, fondata da Friedrich von Hayek e altri nel 1947, che nel corso di tutto il trentennio keynesiano (in particolare a partire dagli anni Sessanta) aveva lavorato alacremente dietro le quinte per disseminare queste idee nelle università, nelle redazioni dei giornali, nei consigli d'amministrazione, nelle burocrazie dei governi - al punto che secondo Philip Mirowski e Dieter Plehwe all'inizio degli anni Ottanta il collettivo in questione poteva contare su "più di mille studiosi, giornalisti, professionisti (in seno ai think tank) e leader aziendali e politici in tutto il mondo" -, e adesso ne raccoglieva i frutti. Anche grazie all'incapacità della teoria economica neokeynesiana - cioè di quel keynesismo imbastardito che poco aveva a che vedere con le teorie di Keynes - di spiegare (e risolvere) la stagflazione di quegli anni, cioè la contemporanea presenza di alti tassi di disoccupazione e alti tassi di inflazione determinatasi soprattutto in seguito alla crisi petrolifera dei primi anni Settanta, di cui tratteremo più avanti. Tuttavia, sarebbe ingenuo ridurre la crisi del keynesismo a una semplice conseguenza dell'offensiva ideologica sferrata dall'intellettuale collettivo neoliberista, come sosteneva Luciano Gallino. Come ci insegna la teoria della regolazione, il monetarismo - che negli anni si sarebbe evoluto in un pensée unique antistatalista molto più sofisticato, basato sulle virtù della supply-side economics (le politiche dell'offerta), della liberalizzazione finanziaria e commerciale, della privatizzazione, della deregolamentazione economica, e più in generale sulla superiorità dei meccanismi di mercato rispetto all'interventismo statale: ciò che oggi chiamiamo neoliberismo - non avrebbe potuto prendere piede se non si fossero verificate le "giuste" condizioni strutturali. | << | < | > | >> |Pagina 283Capitolo undicesimo
Sovranità o barbarie
È giunto il momento di tirare le fila di quanto detto finora. Nel corso del libro abbiamo visto come il processo di integrazione economica e valutaria europea, fin dai suoi albori, abbia avuto una duplice finalità: il rafforzamento delle élite economiche a scapito della maggioranza dei cittadini (e in particolare dei lavoratori) e il superamento surrettizio cioè all'oscuro della popolazione - del modello democratico-costituzionale impostosi pressoché ovunque in Europa nel dopoguerra, fondato sulla centralità del lavoro e sull'estensione di diritti sociali ed economici a chi precedentemente ne era stato escluso, nonché sul diritto dei cittadini a determinare, per mezzo dei meccanismi offerti dalla democrazia rappresentativa, gli indirizzi di politica economica dei loro rispettivi paesi. Tale obiettivo può oggi considerarsi pienamente raggiunto: l'unione monetaria ha ormai assunto la fisionomia di un sistema compiutamente postdemocratico e persino controdemocratico, adoperato dalle oligarchie europee e nazionali per imporre politiche antisociali e completare l'oligarchizzazione delle economie e delle società europee iniziata almeno quarant'anni or sono. A tal fine non vengono escluse neanche ingerenze dirette nei processi democratici degli Stati membri (come nel caso della Grecia e dell'Italia): come ha scritto Luciano Gallino, il processo democratico, già pesantemente compromesso dall'integrazione europea e in particolare dall'unificazione monetaria, è ormai "stato svuotato di senso in tutta l'Europa". Il risultato è stato un drammatico peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori e delle classi popolari e medie in tutto il continente (in particolar modo nei paesi della periferia, i più penalizzati dall'integrazione europea). L'esempio dell'Italia è paradigmatico di tutto ciò. Abbiamo altresì visto quanto siano velleitarie e irrealistiche le proposte di riforma in senso progressivo e soprattutto di democratizzazione dell'Unione europea. Al di là delle evidenti criticità di tali proposte - la difficoltà di pensare a un elettorato postnazionale in presenza di rilevanti differenze linguistiche e culturali, il tendenziale rafforzarsi sul piano sovranazionale della "presa oligarchica" e dell'influenza delle lobby, la necessità di mutamenti radicali nelle egemonie interne ai singoli Stati e ai rapporti di forza tra di essi per una ridefinizione complessiva delle istituzioni europee, ecc. -, esse tendono a ignorare un punto cruciale: non si può democratizzare uno spazio che nasce e si sviluppa proprio all'insegna della desovranizzazione, della de-democratizzazione e della depoliticízzazione. Il livello europeo è strutturalmente postdemocratico e per questo irriformabile.
Per concludere, se si accetta la tesi, difficilmente contestabile a nostro
avviso, secondo cui la ridemocratizzazione e
ripoliticizzazione dei processi politici ed economici è la condizione necessaria
per imprimere un nuovo corso alle nostre
società, radicalmente alternativo a quello vigente - nella direzione, secondo
gli auspici di chi scrive, della piena e buona occupazione; della difesa e
dell'espansione del welfare; della redistribuzione della ricchezza; della
(ri)nazionalizzazione di molte aree economiche strategiche; della ripresa in
chiave moderna del concetto di pianificazione (finalizzata anche
alla reindustrializzazione di quei paesi, come l'Italia, messi in
ginocchio dalla crisi); di una rinnovata centralità delle istituzioni
democratiche nelle decisioni di investimento, di produzione e di consumo, con
particolare attenzione alla sfida
ecologica; di un asservimento della finanza ai bisogni della
collettività; di un uso attivo della politica fiscale a sostegno
dei punti sopracitati, ecc. -, allora non si può che ripartire
dall'unico luogo in cui storicamente la democrazia è stata
possibile e in cui le classi subalterne sono riuscite a ottenere
una reale rappresentanza politica: lo Stato nazionale.
|