Autore Silvia Federici
Titolo Il punto zero della rivoluzione
SottotitoloLavoro domestico, riproduzione e lotta femminista
Edizioneombre corte, Verona, 2014, Culture 116 , pag. 160, cop.fle., dim. 14x21x1 cm , Isbn 978-88-97522-72-0
OriginaleRevolution at Point Zero. Housework, Reproduction, and Feminist Struggle [2012]
CuratoreAnna Curcio
TraduttoreAnna Curcio
LettoreGiorgia Pezzali, 2014
Classe femminismo , lavoro , movimenti , politica , globalizzazione , beni comuni












 

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Indice


  7     Prefazione
 10     Ringraziamenti

 13     Introduzione all'edizione italiana
 19     Introduzione all'edizione americana

 31  1. Salario per il lavoro domestico
        "Un lavoro d'amore";
        La prospettiva rivoluzionaria;
        La lotta sui servizi sociali;
        La lotta contro il lavoro domestico

 41  2. Perché l'attività sessuale è lavoro

 46  3. Contropiano dalle cucine
        Ci offrono "sviluppo";
        Un nuovo terreno di lotta;
        Il lavoro nascosto;
        La mancanza di salario come disciplina;
        Glorificare la famiglia;
        Differenti mercati del lavoro;
        Rivendicare salario;
        Far pagare il capitale

 63  4. Ristrutturazione del lavoro domestico e riproduzione
          negli Stati uniti degli anni Settanta
        La rivolta contro il lavoro domestico;
        Riorganizzare la riproduzione sociale;
        Conclusioni

 81  5. La riproduzione della forza lavoro nell'economia
          globale e l'incompiuta rivoluzione femminista
        Marx e la riproduzione della forza lavoro;
        La rivolta delle donne contro il lavoro domestico
          e la ridefinizione femminista di lavoro, lotta
          di classe e crisi del capitalismo;
        Nominare l'inaccettabile: l'accumulazione originaria
          e la ristrutturazione della riproduzione;
        Lavoro riproduttivo, lavoro delle donne e rapporti
          di genere nell'economia globale

108  6. Riportare il femminismo sui piedi

120  7. Andare a Pechino. Come le Nazioni Unite hanno
          colonizzato il movimento femminista
        Il Piano d'azione di Pechino

130  8. Il lavoro di cura agli anziani e i limiti del marxismo
        La crisi della cura agli anziani nell'era globale;
        L'assistenza agli anziani, i sindacati e la sinistra

146  9. Femminismo e politiche del comune al tempo della
          cosiddetta accumulazione originaria
        Introduzione: Perché i commons?;
        Global commons, i commons della Banca mondiale;
        Quali commons?;
        Le donne e i commons;
        Ricostruzioni femministe


 

 

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Pagina 7

Prefazione


                        Il momento determinante della storia, in ultima istanza,
                        è la produzione e la riproduzione della vita immediata.

                                    Frederick Engels, L'origine della famiglia,
                                    della proprietà privata e dello Stato
                                    (Prefazione alla prima edizione del 1884)


                        Il compito [...] di fare della casa una comunità di
                        resistenza è stato condiviso globalmente dalle donne
                        nere, in particolare dalla donne nere delle società
                        suprematiste bianche.

                                    beli hooks, Elogio del margine



Questo libro raccoglie più di trent'anni di riflessione e di ricerca sul lavoro domestico, la riproduzione sociale e le lotte delle donne su questo terreno – per sfuggire da questo terreno – per migliorare la propria condizione e per ricostituirla in alternativa ai rapporti capitalistici. È un libro che mescola politica, storia e teoria femminista.

Riflette anche la traiettoria del mio attivismo politico nel movimento femminista e nel movimento contro la globalizzazione, e il mio graduale spostamento dal "rifiuto" alla "valorizzazione" del lavoro domestico, che oggi riconosco come esito di un percorso e di una esperienza collettiva.

Non c'è dubbio che nel secondo dopoguerra il rifiuto del lavoro domestico come destino naturale delle donne sia stato un fenomeno diffuso tra le donne della mia generazione. Questo era vero soprattutto in Italia, il paese in cui sono nata e cresciuta, che negli anni Cinquanta era ancora permeato da una cultura patriarcale, consolidata sotto il fascismo, e tuttavia già attraversato da una "crisi dei rapporti di genere", in parte innescata dalla guerra e in parte dalle esigenze della reindustrializzazione del dopoguerra.

La lezione di indipendenza che le nostre madri avevano appreso durante la guerra, e che ci avevano trasmesso, faceva si che la prospettiva di una vita dedicata al lavoro domestico, alla famiglia e alla riproduzione fosse inappetibile per gran parte delle donne, e per tante intollerabile. Quando nel saggio Salario per il lavoro domestico (1974) scrivevo che diventare una casalinga sembrava "un destino peggiore della morte", esprimevo il mio atteggiamento verso questo lavoro. E infatti facevo tutto quello che potevo per sfuggirvi.

Sembra ironico, allora, in retrospettiva, che abbia passato i successivi quarant'anni della mia vita a occuparmi del lavoro riproduttivo, se non nella pratica almeno dal punto di vista teorico e politico. Tentando di dimostrare perché, come donne, dobbiamo lottare contro questo lavoro, almeno per come è stato istituito nel capitalismo, ne ho colto l'importanza, non solo per la classe capitalista ma anche per la nostra lotta e la nostra riproduzione.

Partecipando al movimento femminista mi sono resa conto che la produzione di esseri umani è il fondamento di ogni sistema economico e politico. L'immensa mole di lavoro domestico retribuito e non retribuito svolto dalle donne in casa è quello che tiene il mondo in movimento. Questa consapevolezza teorica è cresciuta sul terreno pratico ed emotivo fornito dalla mia esperienza in famiglia, che mi ha messo in contatto con una serie di attività che per lungo tempo ho dato per scontate e tuttavia da bambina e da adolescente ho spesso osservato con grande fascino. Anche ora, alcuni dei ricordi più preziosi della mia infanzia sono quelli di mia madre che fa il pane, la pasta, la salsa di pomodoro, le torte, i liquori e poi lavora ai ferri, cuce, rammenda, ricama e si prende cura delle sue piante. A volte l'aiutavo in certe cose, il più delle volte però con riluttanza. Da bambina vedevo il suo lavoro, più tardi, da femminista, ho imparato a vedere la sua lotta e mi sono resa conto di quanto amore ci fosse in quel lavoro, ma anche quanto costoso sia stato per mia madre che il suo lavoro fosse dato per scontato, che non potesse mai disporre di denaro proprio, e che dovesse sempre dipendere da mio padre per ogni centesimo che spendeva.

Nella mia esperienza a casa – nel rapporto con i miei genitori – ho anche scoperto quello che ora chiamo il "doppio carattere" del lavoro riproduttivo: un lavoro che ci riproduce e "valorizza" non solo in vista della nostra integrazione nel mercato del lavoro ma anche contro di essa. Certamente non posso paragonare le mie esperienze a quelle di bell hooks che descrive la "casa" come un "sito di resistenza". Tuttavia, la necessità di non misurare le nostre vite a partire dalle esigenze e dai valori del mercato è un principio che, nella mia famiglia, ha sempre guidato la riproduzione delle nostre vite e che è stato, a volte, apertamente affermato. Ancora oggi l'impegno di mia madre a far crescere in noi il senso del nostro valore mi dà la forza per affrontare le situazioni difficili. Ciò che spesso mi salva quando mi trovo in situazioni in cui non posso proteggermi, è il mio impegno a difendere il suo lavoro e quindi me stessa come la bambina a cui quel lavoro era dedicato. Il lavoro riproduttivo non è certamente l'unica forma di lavoro che solleva la questione di ciò che diamo al capitale e ciò che diamo "alla nostra gente". Ma è certamente il lavoro in cui le contraddizioni connaturate al "lavoro alienato" sono più esplosive, ed è per questo che è il punto zero della pratica rivoluzionaria, anche se non si tratta dell'unico punto zero. Niente infatti soffoca tanto la nostra vita quanto la trasformazione in lavoro delle attività e relazioni che soddisfano i nostri desideri. Ed è per questo che tramite le attività con cui giorno per giorno produciamo la nostra esistenza, possiamo sviluppare la capacità di cooperare e resistere alla nostra disumanizzazione, imparando a ricostruire il mondo come spazio di formazione, creatività e cura.

Brooklyn, NY, giugno 2011

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Pagina 13

Introduzione all'edizione italiana


I saggi che pubblichiamo qui in traduzione italiana non sono del tutto una novità per il dibattito femminista in Italia, al contrario hanno con questo una indubbia matrice comune, in particolare con le riflessioni dei gruppi del salario al lavoro domestico negli anni Settanta, che per vari anni sono stati per me un punto di riferimento politico di grande importanza. È anche vero però che il mio lavoro politico ha seguito percorsi diversi da quelli del femminismo che ha dominato in Italia negli ultimi trent'anni. Senza avventurarmi in giudizi che possono essere affrettati, direi che la maggiore differenza tra le mie prospettive politiche e teoriche e quelle delle correnti femministe che si sono affermate in questi anni in Italia nasce dalla diversa valutazione delle radici storiche dello sfruttamento delle donne e del significato della "differenza" femminile. L'assunto alla base del mio femminismo è che la "discriminazione di genere" non è un fattore solamente culturale ma ha radici materiali che affondano nell'organizzazione capitalistica del lavoro. Da qui ne deriva l'aver inchiodato le donne al lavoro riproduttivo e la radicale svalutazione di questo lavoro.

È chiaro che oggi la figura della casalinga a tempo pieno stia scomparendo di fronte alla necessità di un doppio salario e al rifiuto crescente da parte delle donne della dipendenza economica dagli uomini — cosa che peraltro appare praticamente impossibile in un contesto dove il salario maschile è sempre più evanescente. Ma è altrettanto vero che sono ancora le donne che oggi compiono la gran parte del lavoro di riproduzione, non solo quando impiegate nel settore dei servizi ma anche in casa, sommando così nella propria vita due o anche tre lavori. È a partire da questa constatazione che in Il punto zero della rivoluzione parlo di una "incompiuta rivoluzione femminista" e di un femminismo istituzionalizzato, con riferimento al grosso investimento che le Nazioni Unite e altre agenzie internazionali hanno fatto per creare un femminismo addomesticato, assimilabile all'agenda neoliberale. In breve, la prospettiva proposta nei lavori raccolti in questo volume è che se vogliamo che il femminismo rappresenti una forza capace di trasformare la società e creare rapporti sociali egalitari, dobbiamo abbandonare la prospettiva sia dell'uguaglianza che della "differenza", poiché entrambe non contestano l'organizzazione capitalistica del lavoro con tutto il suo carico di sfruttamento, rapporti sociali razzisti e sessisti, la rapina continua della ricchezza che produciamo e l'immiserimento generale della società. È ovvio che la "differenza" è un obbiettivo politico legittimo se implica solamente un rifiuto di assimilazione agli uomini, diventa però problematica se assume un'essenza femminile precostituita, e soprattutto se la sua affermazione diventa un fine a sé, avulso da un progetto di trasformazione sociale.

Credo, tuttavia, che oggi siamo a una nuova svolta nel femminismo. Da una parte l'irruzione delle problematiche del movimento queer stanno mettendo in discussione, e permettono di superare, una politica dei diritti che si articola su base identitaria. Tuttavia, vorrei sottolineare che il movimento femminista non è stato, quanto meno nella sua fase iniziale, un movimento identitario, lo è diventato nella misura in cui è stato istituzionalizzato. Le femministe radicali sono state le prime a lottare contro l'identità che le donne – sia pure in modi diversi – sono state costrette ad assumere; un'identità che contrabbandava come "essenza" o come natura femminile tutta una serie di compiti legati al lavoro di riproduzione non pagato. Concepire il femminismo come un movimento identitario è ancora una volta seppellire la sua anima sovversiva, accreditando come femminismo solo le tendenza cresciute all'ombra dello stato.

Dall'altra parte, oggi, sulla scia dei movimenti Occupy, si sta affermando una nuova generazione di femministe che mentre sempre più collega il rifiuto della subordinazione sessuale alla lotta contro l'impoverimento a cui sono soggette, al pari dei giovani in tutto il mondo, si impegna per la costruzione di spazi sociali ed economici fuori della logica del mercato. Oggi le nuove generazioni di femministe lottano contro il costo della scuola e per creare spazi liberi e autonomi per la circolazione e condivisione dei saperi; lottano contro la precarietà ma senza necessariamente aspirare alla irreggimentazione del lavoro salariato. Il vantaggio delle nuove generazioni è che possono misurare e valutare le strategie proposte dalle cosiddette "femministe storiche" e vedere come la pur sacrosanta lotta per le pari opportunità o le "quote rosa" non ha liberato le donne, anche se (per alcune almeno) ha aumentato l'autonomia nei confronti degli uomini. Sanno anche che l'organizzazione del lavoro salariato non è cambiata. In questa situazione, l'alternativa diventa allora creare una maggiore cooperazione nel lavoro di riproduzione, per rompere l'isolamento in cui oggi vivono tante donne e aumentare le risorse a nostra disposizione; sempre inteso che questa non è un'alternativa a altre forme di lotta ma la sua condizione.

Questo è l'insegnamento che ho ricavato negli anni attraverso i miei studi e soprattutto riflettendo sulle trasformazioni politiche e sociali che avvenivano sul piano globale, nonché intervenendo in vari percorsi di lotta e movimenti: contro l'aggiustamento strutturale, contro la mercificazione della conoscenza, contro la pena di morte, e oggi, sempre più sul terreno di un conflitto definito teoricamente e praticamente a partire da una politica basata sulla riappropriazione e produzione di beni comuni.

Nello stesso tempo, però, occorre rimanere vigili perché le conquiste delle donne non sono mai date una volta per tutte. I processi di ristrutturazione che interessano il lavoro di riproduzione nel presente, passano anche per un attacco aperto al diritto di aborto. Lo vediamo in modo conclamato in Europa: in Spagna, dove di recente è stata presentata una proposta di legge che lo limita fortemente, e in Italia, dove il crescente ricorso all'obiezione di coscienza riduce di fatto il diritto delle donne ad abortire. È chiaro che il capitalismo neoliberale ha riscoperto l'importanza della chiesa e della religione per mascherare i suoi interessi reali. E così fa appello alla morale, al diritto alla vita – che è veramente una farsa nel mondo in cui viviamo. Anche negli Stati uniti la possibilità di abortire è sempre più in pericolo. Soggetta a mille restrizioni che si moltiplicano da stato a stato, costringe le organizzazioni femministe a una grosso dispendio di energie per frenare questo attacco continuo. Come si può impedire tutto questo? Io credo che la cosa essenziale sia non separare la lotta per l'aborto dalla lotta per il controllo sul nostro corpo, che e molto più ampia e oltrepassa anche il terreno della procreazione.

È fondamentale vedere che oggi nella politica neoliberale, nella politica del capitalismo internazionale, non è tanto l'aborto in sé che conta, quanto il controllo sulla riproduzione. Non dobbiamo dimenticare che la stessa classe capitalistica che oggi cerca di limitare l'aborto è quella che in anni molto recenti organizzava i safari della sterilizzazione in India, Indonesia; quella che continuamente inventa contraccettivi (come Norplant e gli IUD) che le donne non possono controllare. Non solo. È chiaro, guardando alle leggi approvate da vari stati negli Usa, che la cosiddetta difesa della vita serve a criminalizzare le donne povere che si azzardano ad avere figli, al punto che, come è stato scritto recentemente, la gravidanza oggi negli Stati uniti pone una donna povera, soprattutto se di colore, fuori dalla costituzione. Sterilizzazione e criminalizzazione dell'aborto sono parte di una stessa logica chè pone nelle mani dello stato il corpo delle donne e il processo della procreazione, considerato come meccanismo che determina la grandezza e qualità della forza lavoro a livello mondiale. In altre parole, la questione non è una faccenda di pura quantità e ovviamente tanto meno di moralità. La questione è a chi spetta decidere, chi deve/può venire al mondo su questo pianeta: una decisione che gran parte della classe capitalistica, oggi, tanto quanto al tempo della caccia alle streghe, è determinata a non lasciare nelle mani delle donne. La sfida per noi è non ripetere lo sbaglio che tante femministe hanno fatto negli anni Settanta, quando si tendeva a identificare la battaglia per l'aborto con quella per il controllo sopra il nostro corpo, isolando quindi il diritto ad abortire dalla rivendicazione della possibilità di avere figli alla condizioni che determiniamo e dalla questione del lavoro a cui siamo costrette per sopravvivere.

Un discorso analogo a quello sull'aborto può essere fatto anche per la famiglia. Mentre i politici insistono sulla sua centralità, la politica economica mina le condizioni materiali della sua riproduzione. La precarizzazione del lavoro, i salari congelati hanno messo in crisi la famiglia più di quanto non abbia fatto il rifiuto delle donne della domesticità. E se — almeno negli Stati uniti — non si assiste a un salto in avanti nel numero dei divorzi è solo perché le coppie non hanno i mezzi per la pratiche burocratiche, e semplicemente si separano. Si insiste però a livello istituzionale sulla famiglia perché essa serve ancora ad assorbire i costi della riproduzione della forza lavoro, tanto più in tempo di crisi. E mentre le sue risorse si assottigliano sempre di più, è la stessa famiglia a cambiare. Crescono in modo esponenziale quelle con a capo delle donne, si afferma la famiglia con partner dello stesso sesso e cresce anche il numero di quelle non unite da legami di parentela. Credo che, soprattutto per le donne, quest'ultima sia una buona opzione, considerato il livello di violenza a cui sono esposte nell'ambito della famiglia.

Come devono attrezzarsi le donne nei confronti dei rapporti famigliari e della violenza che le vede oggetto? La prima cosa è creare reti di supporto e autodifesa. E intollerabile che ogni giorno donne vengano massacrate da mariti, compagni e magari anche figli, che non accettano la loro autonomia. La vita matrimoniale sta diventando per le donne un lavoro rischioso che le espone a molta violenza. E questo deve cessare.

Rimane poi il fatto che la famiglia nucleare è un'istituzione che ci espone a una crisi permanente, perché crea aspettative difficilmente realizzabili e impone carichi di lavoro insostenibili che gravano soprattutto sulle donne. La costruzione di beni comuni e rapporti sociali più ampi, più solidali, ha anche questo scopo: superare l'alternativa che ci è posta tra una famiglia che (come il sindacato) ci sostiene (anche se sempre di meno) ma troppo spesso ci soffoca e una vita di solitudine.

È a partire dal rifiuto di queste alternative e sopratutto dal rifiuto dell'impoverimento e della violenza a cui si cerca di condannarci, che comincia la nostra rivoluzione. Come provo a mostrare in questo libro, oggi un femminismo radicale deve operare su vari fronti, ma senza mai limitarsi a una pratica puramente difensiva. La ricostruzione del tessuto sociale, la determinazione di nuovi rapporti di solidarietà capaci di procurare subito, nel presente, nuove risorse e nuovi rapporti sociali, sono la prima condizione non solo per la sopravvivenza ma anche e soprattutto per aprire un processo di riappropriazione della ricchezza e per recuperare il controllo sui mezzi della nostra riproduzione. Abbiamo davanti un lavoro immenso, se si pensa alle condizioni disastrate — ambientali, economiche, sociali — in cui siamo costretti a vivere. Dall'educazione alla salute, all'ambiente, alla costruzione di nuove forme di (ri)produzione. Si può davvero dire che dobbiamo mettere il mondo sottosopra, perché la bancarotta del sistema capitalistico è tale che ormai da esso ci si può aspettare solo crisi, miseria e violenza.

Brooklyn, febbraio 2014

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Pagina 31

Salario per il lavoro domestico


                        Lo chiamano amore. Noi lo chiamiamo lavoro non pagato.
                        La chiamano frigidità. Noi la chiamiamo assenteismo.
                        Ogni volta che restiamo incinte contro la nostra volontà
                        è un incidente sul lavoro...
                        Omosessualità e eterosessualità sono entrambe condizioni
                        di lavoro [...] ma l'omosessualità è il controllo degli
                        operai sulla produzione non la fine del lavoro.
                        Più sorrisi? Più soldi. Niente sarà più efficace per
                        distruggere le virtù di un sorriso.
                        Nevrosi, suicidi, desessualizzazione: malattie
                        professionali della casalinga.



Molto spesso le difficoltà e le ambiguità che le donne esprimono rispetto al salario per il lavoro domestico derivano dal fatto che lo riducono a una cosa, a un po' di denaro, invece di considerarlo come una prospettiva politica. La differenza tra questi due punti di vista è enorme. Vedere il salario al lavoro domestico come una cosa invece che come una prospettiva politica significa scindere il risultato della nostra lotta dalla lotta stessa e quindi non coglierne l'azione di demistificazione e sovversione del ruolo a cui le donne sono state relegate nella società capitalistica.

La domanda che ci poniamo, quando consideriamo il salario al lavoro domestico in questo modo riduttivo è: che differenza farebbero nella nostra vita un po' di soldi in più? Possiamo anche essere d'accordo che il salario rappresenterebbe un grosso mutamento per molte donne che non hanno altra scelta al di fuori del lavoro domestico e del matrimonio. Ma per quelle tra noi che sembrano avere altre possibilità – una carriera, un marito "illuminato", la vita organizzata in comuni, rapporti omosessuali o un insieme di tutte queste cose – non ci sembra che farebbe molta differenza. Crediamo di poter raggiungere l'indipendenza economica in altri modi, e l'ultima cosa che vogliamo è ottenerla identificandoci come casalinghe, un destino che, siamo tutte d'accordo, è, per così dire, peggiore della morte. Il problema in questo caso è che nella nostra immaginazione, sommiamo un po' di soldi alla vita grama che facciamo e poi ci chiediamo: "Che differenza fa?", partendo dal falso presupposto che sia possibile ottenere questi soldi senza rivoluzionare – nel processo della nostra lotta – tutti i nostri rapporti sociali e familiari. Ma se consideriamo il salario al lavoro domestico come una prospettiva politica, ci rendiamo conto che questa lotta produrrà una rivoluzione nella nostra vita e nel nostro potere sociale in quanto donne. È anche chiaro che se pensiamo che "non abbiamo bisogno" di questi soldi è perché abbiamo accettato le forme di prostituzione del nostro corpo e della nostra mente con le quali ci procuriamo i soldi che nascondono questo bisogno. Come cercherò di dimostrare, il salario per il lavoro domestico non solo è una prospettiva rivoluzionaria, ma anche l'unica prospettiva rivoluzionaria da un punto di vista femminista.


"Un lavoro d'amore"

È importante riconoscere che quando parliamo di lavoro domestico non parliamo di un lavoro come gli altri, ma della più grossa manipolazione, della più sottile e mistificata violenza che il capitale abbia mai perpetrato contro un settore della classe operaia. Certo, nel capitalismo ogni lavoratore e ogni lavoratrice è manipolato e sfruttato e il suo rapporto con il capitale è completamente mistificato. Il salario crea l'impressione di un scambio equo: tu lavori e vieni pagato. Quindi tu e il tuo padrone siete uguali, mentre in realtà il salario piuttosto che pagare il lavoro che fai, nasconde tutto il lavoro non pagato che si traduce in profitto. Ma almeno, il salario riconosce che sei un lavoratore e puoi contrattare le condizioni del lavoro e l'ammontare del tuo salario, e puoi lottare contro le condizioni e la durata di questo lavoro. Avere un salario significa essere parte di un contratto sociale e non ci sono dubbi circa il suo significato: tu lavori non perché ti piace o ti viene naturale, ma perché è l'unica condizione a cui ti è permesso di vivere. Ma per quanto tu possa essere sfruttato, tu non sei quel lavoro. Oggi sei un postino, domani un camionista. L'unica cosa che conta è quanto lavoro devi fare e quanti soldi riesci a prendere.

Nel caso del lavoro domestico, la situazione è qualitativamente diversa. La differenza consiste nel fatto che il lavoro domestico non solo è stato imposto alle donne, ma anche trasformato in un attributo naturale del nostro corpo e della nostra personalità femminile, un'esigenza interiore, un'aspirazione, che si suppone derivi dal profondo della nostra natura. Il lavoro domestico è stato trasformato in un attributo naturale e non riconosciuto come contratto sociale, perché era destinato a non essere retribuito. Il capitale ha dovuto convincerci che si tratta di un'attività naturale, inevitabile e persino gratificante per farci accettare di lavorare senza salario. A sua volta, il fatto che il lavoro domestico non fosse retribuito, è stato il mezzo più potente per rafforzare l'opinione comune secondo la quale esso non è lavoro, impedendo alle donne di lottare contro di esso, se non durante le liti familiari che l'intera società è concorde nel ridicolizzare, svilendo così ancora di più le protagoniste di queste lotte. Siamo viste come bisbetiche, non come lavoratrici in lotta.

In realtà, quanto poco naturale sia essere una casalinga è dimostrato dal fatto che ci vogliono almeno venti anni di socializzazione, un tirocinio giornaliero diretto da una madre senza salario, per preparare una donna a questo ruolo, e per convincerla che figli e marito sono il meglio che può aspettarsi dalla vita.

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Pagina 130

Il lavoro di cura agli anziani e i limiti del marxismo


Introduzione

Il "lavoro di cura", specialmente quello prestato agli anziani, è da alcuni anni al centro dell'attenzione pubblica nei paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), come risposta agli sviluppi economici e sociali che hanno messo in crisi le tradizionali forme di assistenza. Tra questi vi è innanzitutto la crescita — in termini assoluti e relativi — della popolazione anziana e l'aumento dell'aspettativa media di vita, a cui però non ha corrisposto un incremento dei servizi per gli anziani. Ma va anche considerato l'aumento nel numero di donne impiegate nel lavoro salariato, che ha ridotto il loro contributo alla riproduzione della famiglia. A questi fattori si deve aggiungere il continuo processo di urbanizzazione e la gentrificazione dei quartieri operai, che hanno distrutto le reti di sostegno e le forme di aiuto reciproco di cui potevano disporre gli anziani che vivono da soli, in quanto i vicini di casa gli portavano da mangiare, gli rifacevano il letto, andavano a fare una chiacchierata. A seguito di tutto ciò, per un gran numero di anziani, gli effetti positivi di una vita più lunga sono stati annullati o appannati dalla prospettiva della solitudine, dell'esclusione sociale e di una maggiore vulnerabilità ad abusi fisici e psicologici. Tenendo questo presente, esaminerò come le politiche sociali, soprattutto negli Stati uniti, affrontano oggi la questione dell'assistenza agli anziani, per capire poi quali iniziative si possono prendere su questo terreno, e perché la questione della cura agli anziani è assente nella letteratura della sinistra radicale.

Il mio principale obiettivo, in questo contesto, è incentivare una redistribuzione della ricchezza sociale a favore dell'assistenza agli anziani, e la costruzione di forme collettive di riproduzione che gli permettano, quando non più autosufficienti, di essere curati senza che i costi di queste cure ricadano sulle vite di chi provvede loro. Perché ciò avvenga, la lotta per l'assistenza agli anziani deve essere politicizzata e messa sull'agenda dai movimenti per la giustizia sociale. È necessaria anche una rivoluzione culturale che investa il concetto stesso di vecchiaia, contro la sua rappresentazione degradata, che ne fa oggi un onere fiscale a carico dello stato oppure una fase della vita "opzionale", che possiamo superare o prevenire, adottando la giusta tecnologia medica e i rimedi per "migliorare la vita" escogitati dal mercato. In gioco nella politicizzazione della cura agli anziani c'è non solo il loro destino e l'insostenibilità di movimenti radicali che non si occupino di un problema così cruciale per la nostra vita, ma anche la solidarietà inter-generazionale e di classe, che è stata per anni il bersaglio di una campagna implacabile da parte di economisti e governi, che hanno dipinto le conquiste dei lavoratori per la loro vecchiaia (le pensioni e le altre forme di sicurezza sociale) come una bomba a orologeria sul piano economico e una pesante ipoteca sul futuro dei giovani.


La crisi della cura agli anziani nell'era globale

Per certi versi l'attuale crisi della cura agli anziani non è una novità. La cura agli anziani, nella società capitalista è sempre stata in crisi, sia a causa della svalorizazzione del lavoro riproduttivo, sia perché gli anziani, invece di essere apprezzati come lo erano in molte società precapitalistiche quali depositari della memoria e dell'esperienza collettive, sono visti come non più produttivi. In altre parole, la cura degli anziani soffre di una doppia svalutazione culturale e sociale.

[...]

È l'impoverimento causato dalla "liberalizzazione economica" e dall'"aggiustamento strutturale" nei loro paesi di origine che spinge milioni di donne in Africa, Asia, nelle isole dei Caraibi e nell'Europa dell'Est a migrare verso le regioni più ricche d'Europa, il Medio Oriente e gli Stati uniti, per lavorare come bambinaie, domestiche e badanti. Per fare questo devono lasciare le loro famiglie, compresi bambini e genitori anziani, e reclutare parenti o assumere altre donne con ancora minor potere per sostituire il lavoro che non possono più fare. Prendendo l'Italia come esempio, si calcola che tre badanti su quattro hanno figli propri ma solo il 15 per cento ha con sé il proprio nucleo familiare. Ciò vuol dire che la maggior parte di loro vivono in un continuo stato d'ansia, sapendo che alle proprie famiglie manca quella cura che loro stesse danno ad altre persone in tutto il mondo. Arlie Hochschild ha parlato, in questo senso, di un trasferimento di cura ed emozioni su scala globale, e della formazione di "catene globali della cura". Ma le catene spesso si rompono: le donne immigrate diventano delle estranee per i propri figli, gli accordi stipulati cadono in pezzi, i parenti muoiono durante la loro assenza. Inoltre, sia perché il lavoro riproduttivo è svalutato, sia perché sono migranti, spesso senza documenti e di colore, le donne che fanno lavoro di cura sono soggette una grande quantità di ricatti e abusi: lunghe ore di lavoro, nessuna vacanza pagata, niente pensione, e in più l'esposizione a comportamenti razzisti e aggressioni sessuali. Negli Stati uniti la retribuzione del lavoro di cura domestico è così bassa che quasi la metà delle donne impegnate nel settore deve ricorrere ai buoni pasto ed altre forme di assistenza pubblica per sbarcare il lunario. Per questo, come ha dichiarato Domestic Workers United – la principale organizzazione di lavoratrici domestiche nello stato di New York, che ha lottato per l'approvazione di una legge che riconosca i diritti delle lavoratrici domestiche – chi lavora nel settore della cura, vive e lavora "all'ombra della schiavitù".

È anche importante sottolineare che la maggior parte delle persone anziane e le loro famiglie non possono permettersi di assumere persone che fanno lavoro di cura o pagare per i servizi di cui avrebbero bisogno. Questo è particolarmente vero per gli anziani con invalidità che necessitano di cure durante l'intero arco della giornata. Secondo le statistiche del Cnel, nel 2003, in Italia, solo il 2,8 per cento di anziani ha ricevuto assistenza in casa da parte di non familiari; in Francia tale cifra è pari al doppio e in Germania al triplo. Ma il numero rimane basso. Un gran numero di anziani vivono da soli, dovendo affrontare disagi che sono tanto più devastanti quanto più sono invisibili. Nella "estate calda" del 2003, migliaia di anziani sono morti in tutta Europa per disidratazione, mancanza di cibo e di medicine o semplicemente per il caldo insopportabile. A Parigi ci sono stati così tanti morti che le autorità hanno dovuto ammassare i loro corpi in spazi pubblici refrigerati finché le loro famiglie non ne hanno richiesto la restituzione.

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Questi sviluppi scientifici e tecnologici possono offrire grandi vantaggi alle persone anziane che possono permetterseli economicamente. La circolazione del sapere che forniscono mette certamente a loro disposizione una grande ricchezza. Ma questo non può sostituire il lavoro di cura, soprattutto nel caso di anziani che vivono da soli o che soffrono di malattie e invalidità. Come sottolinea Folbre, i partner robot possono anche aumentare la solitudine e l'isolamento delle persone. Né l'automazione può far superare le difficoltà – paure, ansie, perdita di identità e senso della propria dignità – che le persone sperimentano quando invecchiano e diventano dipendenti dagli altri anche per la soddisfazione dei bisogni più elementari.

Ciò che è necessario per provvedere alla cura degli anziani non è l'innovazione tecnologica, ma la determinazione di nuovi rapporti sociali, tali per cui la nostra vita cessi di essere comandata dalla logica del profitto e la riproduzione diventi un processo collettivo. A questo cambiamento però il marxismo non potrà contribuire se non mediante un ripensamento della questione del lavoro, in linea con le teorie proposte da varie femministe all'inizio degli anni Settanta riguardo alla funzione del lavoro domestico e l'origine della discriminazione di genere. Le femministe hanno respinto la centralità che il marxismo ha storicamente assegnato al lavoro industriale salariato e alla produzione di merci, intesi quali siti cruciali per la trasformazione sociale, e hanno criticato lo scarso interesse nella teoria marxista per la riproduzione degli esseri umani e della forza lavoro. Il movimento femminista ha insegnato inoltre che non solo la riproduzione è il pilastro della "fabbrica sociale", ma cambiare le condizioni della nostra riproduzione è essenziale per poter creare movimenti capaci di auto-riprodursi, perché ignorare che il "personale" è "politico" mina notevolmente la forza della nostra lotta.

Su questo, i marxisti contemporanei non sono più avanti di Marx. La teoria del lavoro "affettivo" e "immateriale" del cosiddetto "marxismo autonomo", è un esempio di come la ricca problematica del lavoro riproduttivo nel capitalismo, evidenziata dall'analisi femminista, venga sistematicamente elusa. Secondo tale teoria, nell'attuale fase dello sviluppo capitalistico, in cui il lavoro diventa "immateriale" – e cioè produzione di stati d'essere, di "affetti" invece che di oggetti fisici – la distinzione tra produzione e riproduzione si perde. In questa prospettiva, il "lavoro affettivo" diventa una componente di ogni forma di lavoro, piuttosto che una forma specifica di (ri)produzione. Gli esempi forniti riguardo al tipico "lavoratore affettivo" sono le lavoratrici dei fast food, che devono rigirare gli hamburger al McDonald sorridendo, o le hostess che devono vendere senso di sicurezza alle persone che assistono. Ma questi esempi sono ingannevoli, perché gran parte del lavoro riproduttivo, come dimostra la cura agli anziani, richiede un impegno completo con le persone da riprodurre, un rapporto che difficilmente può essere concepito come "immateriale".

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Donne, invecchiamento e cura agli anziani in una prospettiva di economia femminista

Come sostiene l'economia femminista, la crisi dell'assistenza agli anziani, sia dal punto di vista degli anziani che da quello di chi li assiste, è essenzialmente una questione di genere. Gran parte del lavoro di cura, benché sempre più mercificato, è ancora fatto dalle donne come lavoro non retribuito e senza alcun diritto a una pensione. Paradossalmente, quanto più assistenza le donne fanno agli altri, tanto meno ne possono ricevere a loro volta, perché dedicano meno tempo degli uomini al lavoro salariato mentre l'assicurazione sociale è calcolata sugli anni di lavoro salariato svolto. Anche chi fa lavoro di cura retribuito, come abbiamo visto, risente dalla svalorizzazione del lavoro riproduttivo costituendo una "sottoclasse" che deve ancora lottare per essere socialmente riconosciuta come classe di lavoratori. In breve, a causa della svalorizzazione del lavoro riproduttivo, quasi dovunque le donne devono affrontare la vecchiaia con meno risorse degli uomini, in termini di sostegno familiare, reddito monetario e beni disponibili. Negli Stati uniti, dove le pensioni e la sicurezza sociale sono calcolati in base agli anni di lavoro, le donne sono il maggior gruppo di anziani poveri e il maggior numero di residenti a basso reddito nelle Case di cura statali – i lager del nostro tempo – proprio perché spendono gran parte della loro vita fuori dal lavoro salariato, impegnate in attività non riconosciute come lavoro.

Scienza e tecnologia non possono risolvere questo problema. Occorre invece un cambiamento nella divisione sociale/sessuale del lavoro e, soprattutto, il riconoscimento del lavoro riproduttivo come lavoro, cosa che autorizzerebbe la remunerazione di coloro che lo svolgono, in modo che in una famiglia nessuno sia penalizzato. Il riconoscimento e la valorizzazione del lavoro riproduttivo è fondamentale anche per superare le divisioni che esistono nel lavora di cura, che contrappongono da un lato i familiari che cercano di ridurre al minimo le spese e, dall'altro, chi è assunto per fare questo lavoro, che vive le conseguenze demoralizzanti di lavorare al limite della povertà e della svalutazione.

L'economia femminista che si occupa di questo tema ha articolato possibili alternative ai sistemi attuali. In Warm Hands in Cold Age, Nancy Folbre, Lois B. Shaw e Agneta Stark discutono le riforme necessarie per dare sicurezza alla popolazione, e soprattutto alle donne anziane, in una prospettiva internazionale che valuta come ogni paese è posizionato a questo riguardo. In testa hanno posto i paesi scandinavi che forniscono sistemi quasi universali di assicurazione. In fondo ci sono gli Stati uniti e l'Inghilterra, dove l'assistenza agli anziani è legata alla loro storia lavorativa. Ma in entrambi i casi le politiche istituzionali riflettono una ineguale divisione sessuale del lavoro e rispecchiano aspettative tradizionali riguardo al ruolo delle donne nella famiglia e nella società. Questa dunque è un'area cruciale in cui deve avvenire un cambiamento.

Folbre propone una redistribuzione della spesa pubblica, che congeli l'investimento nel complesso militare-industriale e in altre imprese distruttive, e l'indirizzi invece verso la cura delle persone in età avanzata. Ammette che questo può sembrare non "realistico," perché è come pretendere una rivoluzione. Ma insiste che questa rivendicazione entri nella "nostra agenda", perché c'è in gioco il futuro di ogni lavoratore; inoltre una società cieca dell'enorme sofferenza a cui molte persone sono soggette quando invecchiano – come avviene oggi negli Stati uniti – è una società destinata all'autodistruzione.

Non vi è alcun segno, tuttavia, che tale cecità possa essere superata in breve tempo. Appellandosi alla crisi economica, i politici rivolgono lo sguardo altrove, cercando di tagliare ovunque possibile la spesa sociale, e prendendo di mira le pensioni statali e il sistema di sicurezza sociale, comprese le sovvenzioni al lavoro di cura. Si lamenta la crescita di una popolazione anziana, più energica e più vitale che insisterebbe caparbiamente a vivere, portando così alla bancarotta il sistema pensionistico finanziato dallo stato. È forse per timore dei milioni di americani determinati a vivere oltre gli ottanta, che Alan Greenspan, il capo della Federal Reserve negli anni Novanta disse di essersi spaventato quando si rese conto che l'amministrazione Clinton aveva accumulato un surplus finanziario! Comunque, già prima della crisi, i politici avevano da anni orchestrato una guerra generazionale, denunciando incessantemente che la crescita della popolazione sopra i sessantacinque anni avrebbe mandato in bancarotta il sistema di sicurezza sociale, lasciando una pesante ipoteca sulle spalle delle generazioni più giovani. Oggi, mentre la crisi si approfondisce, l'assalto all'assistenza e alla cura degli anziani è destinato ad aumentare, sia sotto forma di un'iperinflazione che decima i redditi fissi, sia attraverso la parziale privatizzazione dei sistemi di sicurezza sociale e l'aumento dell'età pensionabile. Quel che è certo è che nessuno sta contemplando un aumento dei finanziamenti pubblici per la cura agli anziani.

È urgente allora che i movimenti per la giustizia sociale, compresi gli studiosi e gli attivisti radicali, intervengano su questo terreno per evitare che la crisi sia "risolta" a scapito degli anziani. E per formulare iniziative che possano unire i diversi soggetti sociali interessati all'assistenza agli anziani – chi fa questo lavoro, le famiglie degli anziani e, prima di tutto, gli anziani stessi – che oggi spesso vengono posti in un rapporto antagonistico tra loro. Esempi di una possibile alleanza già si vedono in alcune lotte in cui infermieri e pazienti, le "badanti" e le famiglie dei loro assistiti, sempre più spesso collaborano, consapevoli del fatto che quando i rapporti di riproduzione diventano antagonistici a pagarne il prezzo è sia chi riproduce sia chi è riprodotto.

Nel frattempo, si "mette in comune" il lavoro riproduttivo/di cura. In alcune città italiane stanno emergendo forme comuni di vita basate su "contratti di solidarietà", promosse da anziani che non potendo contare sulle proprie famiglie o non potendo assumere qualcuno che li assista, mettono insieme le proprie forze e risorse, per evitare di dover finire in qualche ospizio. Negli Stati uniti, nuove generazioni di attivisti politici stanno costituendo "comunità di cura" (communities of care) che mirano a socializzare l'esperienza della malattia, del dolore, del lutto e il "lavoro di cura" richiesto. Nello stesso tempo vogliono ridefinire che cosa significa essere malato, essere anziano, morire. Questi sforzi vanno moltiplicati. Sono essenziali per la riorganizzazione della nostra vita quotidiana e per creare relazioni sociali non basate sullo sfruttamento. I semi del nuovo mondo non saranno piantati "online", ma nella cooperazione che riusciamo a sviluppare tra di noi, a partire da chi deve affrontare il momento più vulnerabile della propria esistenza senza le risorse e l'aiuto di cui ha bisogno: una forma di tortura nascosta ma senza dubbio diffusa nella nostra società.

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Femminismo e politica del comune al tempo della cosiddetta accumulazione originaria


                        La nostra prospettiva è quella dei commoners del
                        pianeta: esseri umani con corpi, bisogni e desideri, la
                        cui tradizione più essenziale è la cooperazione nella
                        produzione e conservazione della vita, e tuttavia sono
                        stati costretti a farlo in condizioni di sofferenza e di
                        isolamento dagli altri, dalla natura e dalla comune
                        ricchezza che abbiamo creato generazione dopo
                        generazione.

                                The Emergency Exit Collettive, The Great Eight
                                Masters and the Six Billion Commoners, Bristol,
                                Primo maggio 2008


                        I modi in cui il lavoro di sussistenza delle donne e il
                        contributo dei commons alla sopravvivenza delle
                        popolazioni locali sono stati resi invisibili dalla loro
                        idealizzazione sono non solo simili ma hanno radici
                        comuni [...1 In un certo senso, le donne sono trattate
                        come i commons e i commons sono trattati come le donne.

                                Marie Mies e Veronika Bennholdt-Thomsen,
                                Defending, Reclaiming, Reinventing the Commons,
                                1999


                        La riproduzione precede la produzione sociale. Tocca le
                        donne, tocca la roccia.

                                Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto, 2008




Introduzione: Perché i commons?

Almeno da quando gli Zapatisti hanno occupato lo zocalo a San Cristobal, il 31 dicembre del 1993, per protestare contro la legislazione che eliminava la proprietà comunale della terra in Messico, il concetto di commons ha acquistato popolarità negli ambienti della sinistra radicale, sia a livello internazionale che negli Stati uniti, diventando terreno di convergenza per anarchici, marxisti, socialisti, ecologisti ed eco-femministe.

Ci sono buone ragioni perché quest'idea, apparentemente arcaica, sia ora al centro del discorso politico dei movimenti sociali contemporanei. Due in particolare vanno citate. Da una parte, c'è il declino del modello statalista di rivoluzione che per anni ha indebolito gli sforzi dei movimenti radicali per creare un'alternativa al capitalismo. Dall'altra, il tentativo neoliberale di subordinare ogni forma di vita e ogni area del sapere alla logica del mercato ha accentuato la nostra consapevolezza del pericolo di vivere in un mondo in cui non ci sia più concesso l'accesso ai mari, agli alberi, agli animali e agli altri esseri umani, se non attraverso il denaro. Le nuove enclosures hanno reso visibile un mondo di beni e rapporti comuni che molti avevano creduto estinti o considerato senza valore finché non sono stati minacciati dalla privatizzazione. Ironicamente, le nuove enclosures hanno dimostrato non solo che i commons non sono spariti, ma che nuove forme di cooperazione sociale sono continuamente prodotte, anche in settori della vita dove in precedenza non esistevano, come, per esempio Internet.

In questo contesto, l'idea dei beni comuni ha offerto un'alternativa logica e storica ai concetti di proprietà privata e pubblica, stato e mercato, liberandoci dall'illusione che siano reciprocamente esclusivi ed esauriscano le nostre possibilità politiche. L'idea del comune ha inoltre svolto una funzione ideologica, come concetto prefigurante quella società basata sulla cooperazione che i movimenti radicali cercano di realizzare. Ciononostante se vogliamo tradurre il principio dei commons in un progetto politico coerente, è necessario chiarire alcune ambiguità e differenze che esistono nell'interpretazione di questo concetto.

Che cosa si intende per bene comune? Gli esempi abbondano. La terra, l'acqua, l'aria, i servizi sono beni comuni; abbiamo beni comuni digitali. Spesso i nostri diritti acquisiti (ad esempio le pensioni erogate dallo stato) sono descritti come beni comuni e altrettanto lo sono i linguaggi, le biblioteche, gli insegnamenti delle culture del passato. Ma sono questi commons equivalenti dal punto di vista del loro potenziale politico? E sono compatibili tra loro? E siamo sicuri che non proiettino un'unità ancora da costruire?

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Ricostruzioni femministe


Ciò che questo implica è colto efficacemente da Maria Mies, quando afferma che la produzione dei commons richiede anzitutto una profonda trasformazione nella nostra vita quotidiana, per rimettere insieme ciò che la divisione sociale del lavoro ha separato. Infatti, la separazione della produzione dal consumo ci induce a ignorare le condizioni in cui è stato prodotto ciò che mangiamo, indossiamo o usiamo per lavorare, il suo costo sociale ed ecologico, e il destino delle popolazioni sulle quali scarichiamo i nostri rifiuti.

In altre parole, dobbiamo superare lo stato di diniego e irresponsabilità in cui oggi viviamo riguardo alle conseguenze delle nostre azioni, dovuto al modo distruttivo in cui è organizzata la divisione del lavoro nel capitalismo, altrimenti la produzione della nostra vita diventa inevitabilmente produzione di morte per altri. Come nota Mies, la globalizzazione ha peggiorato questa crisi, aumentando la distanza tra quello che viene prodotto e quello che viene consumato, e quindi aumentando, nonostante l'apparente crescita dell'interconnessione globale, la nostra cecità rispetto al sangue versato per il cibo che mangiamo, il petrolio che usiamo, i vestiti che indossiamo e i computer con i quali comunichiamo.

La prospettiva femminista ci insegna a superare questa inconsapevolezza per dare inizio alla ricostruzione dei nostri commons. Nessun comune è possibile infatti finché non rifiutiamo di vederci separati dagli altri. Se la nozione di "commoning" ha un significato, deve essere quello della produzione di noi stessi come soggetti comuni. Questo è il modo in cui dobbiamo intendere lo slogan "non c'è commons senza comunità". La comunità deve però essere intesa non nel senso di una realtà segregata, un raggruppamento cioè di persone unite da interessi esclusivi e separate dagli altri, come nelle comunità fondate su base religiosa o etnica. "Comunità" deve essere intesa come una qualità dei nostri rapporti, come principio di cooperazione e di responsabilità: tra di noi, e rispetto alla terra, le foreste, í mari, gli animali.

Certo, lo sviluppo di simili comunità, così come la collettivizzazione del nostro lavoro quotidiano di riproduzione, può essere solo un inizio. Non può sostituire campagne più ampie contro la privatizzazione e per la riappropriazione della nostra ricchezza comune. Ma è un passo essenziale per apprendere a governarci collettivamente e per concepire la storia come progetto collettivo, una capacità che il neoliberalismo ha cercato in tutti i modi di distruggere.

Tenendo conto di ciò, dobbiamo includere nella nostra agenda politica la comunalizzazione/collettivizzazione del lavoro domestico, rivitalizzando quella ricca tradizione femminista che negli Stati uniti va dagli esperimenti del socialismo utopico della metà del XIX secolo fino ai tentativi delle "femministe materialiste" tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Mi riferisco ai molti tentativi intrapresi in questo periodo per riorganizzare e socializzare il lavoro domestico, e con ciò la casa e il quartiere, attraverso la collettivizzazione del lavoro domestico – tentativi che continuarono finché negli anni Venti del Novecento la "Paura rossa" non vi pose fine. Queste pratiche e la capacità delle femministe del passato di guardare al lavoro riproduttivo come la sfera chiave dell'attività umana, non vanno negate ma rivoluzionate e rivalorizzate.

Una ragione cruciale per la creazione di forme di vita collettiva è che la riproduzione degli esseri umani è uno dei lavori più laboriosi e intensivi al mondo, ed è un lavoro che, per la maggior parte, non può essere meccanizzato. Non possiamo meccanizzare la cura dei bambini, la cura dei malati o il lavoro psicologico necessario a reintegrare il nostro equilibrio psico-fisico. Nonostante gli sforzi compiuti da industriali futuristi, è impossibile robotizzare la "cura", se non ad un costo terribile per tutte le persone coinvolte. Nessuno si affiderebbe ad un infermiere-robot, specialmente per la cura dei bambini e dei malati. Il lavoro di cura richiede la garanzia di una responsabilità condivisa e di attività cooperative da svolgere in modo che non si ripercuotano sulla salute di chi le fornisce. Per secoli la riproduzione degli esseri umani è stata parte di un processo collettivo. Era il lavoro delle famiglie estese e di comunità su cui, soprattutto nei quartieri proletari, si poteva contare anche quando si viveva da soli, cosicché la vecchiaia non era caratterizzata dalla solitudine desolata e dalla dipendenza nella quale molti anziani vivono oggi. È solo con l'avvento del capitalismo che la riproduzione è stata completamente privatizzata, all'interno di un processo che oggi ha raggiunto un livello distruttivo. Ed è questo che dobbiamo cambiare se vogliamo porre fine alla costante svalutazione e frammentazione della nostra vita.

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