Copertina
Autore Federico Fellini
Titolo Il viaggio di G. Mastorna
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2008, Compagnia Extra 1 , pag. 236, cop.fle., dim. 12x19x1,7 cm , Isbn 978-88-7462-189-7
CuratoreErmanno Cavazzoni
PrefazioneVincenzo Mollica
LettoreFlo Bertelli, 2008
Classe cinema , narrativa italiana
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Indice


  7  Sulla vicenda cinematografica
     di Vincenzo Mollica

 15  Nota al testo

 17  Il viaggio di G. Mastorna

167  Lettera di Federico Fellini a Dino De Laurentiis

207  Purgatori del secolo XX
     di Ermanno Cavazzoni


 

 

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Pagina 19

Interno. Aereo.

Un grande aereo di linea vola ad altissima quota sopra uno sterminato mare di nubi.

I raggi del sole al tramonto abbagliano a tratti i vetri dell'immensa carlinga.

Nell'interno dell'aereo, completo di viaggiatori, si sta proiettando un film: le immagini di Stanlio e Ollio che cercano di arrampicarsi sulla parete di una gigantesca vasca da bagno.

Alcuni passeggeri dormono, con la mascherina sugli occhi, altri stanno consumando la cena, altri ancora sono immersi nella lettura.

Mastorna, un uomo sui quarantacinque anni, si toglie la cuffia che trasmette il sonoro del film e rimane a guardare, distratto e annoiato, le immagini che si muovono silenziosamente sul piccolo schermo.

Improvvisamente tutto si oscura: l'aereo, entrato in una sconfinata nuvola buia, vibra e trema con scuotimenti violenti.

Il piccolo quadratino luminoso invita i passeggeri ad allacciare le cinture di sicurezza. Da un altoparlante, la voce di uno steward ripete in più lingue l'invito:

– I signori viaggiatori sono pregati di allacciare le cinture di sicurezza.

Mastorna pigramente fruga intorno a sé nel sedile, ripescando nelle profondità dello schienale la propria cintura, e si dispone ad allacciarla.

Fuori è quasi buio. Attraverso l'oblò Mastorna guarda la gigantesca sagoma dell'ala che sfiora e taglia enormi viluppi di nuvole e di vapori oscuri. Lampi accecanti e scoppi di tuono creano rapidamente un'atmosfera di ansia, di paura.

Il piccolo schermo cinematografico si è spento, la tela è stata rapidamente arrotolata.

Le hostess tentano di sbarazzare i vassoi con i resti della cena. Ad uno scossone più violento, bicchieri e stoviglie cadono in terra.

Uno steward gira la valvola del fonografo diffuso, ed una gaia, assurda musichetta invade a tratti l'aereo, tra lo scrosciare della grandine e il rombo cupo dei tuoni nell'immensità del cielo.

Di colpo, tutte le luci di bordo si spengono.

Fuori dagli oblò, sferzati dalla pioggia e dal nevischio, la fuga delle nebbie e la voragine dei vapori. Alla luce abbagliante di un lampo appare, terrificante, l'immagine di montagne paurosamente vicine.

Come in preda ad uno sbandamento inarrestabile, ad una vertigine ampia e lenta, l'aereo scivola d'ala.

Le vibrazioni, gli scricchiolii, la voce gutturale del microfono, che a tratti continua a parlare, senza che si intenda una sola parola, aumentano il terrore di una catastrofe imminente.

Mastorna col volto inondato di sudore guarda i suoi compagni di viaggio legati come lui al sedile, gli occhi sbarrati e le bocche contratte.

A un tratto tutto cessa come per incantesimo: i tuoni non scuotono più il cielo, i lampi non squarciano più l'aria, un pesante silenzio avvolge il volo cieco dell'enorme aeroplano, che procede ora liscio e frusciante, come se i motori si fossero spenti. L'aereo continua a discendere, avvolto da una fuga di vapori, sempre più oscuri.

Si ode lo scatto metallico che preannuncia qualche comunicazione dalla cabina, e dopo qualche istante, infatti, la voce di una hostess, lenta e nettissima, scandisce queste parole:

– Il comandante avverte i signori passeggeri che tra pochi minuti, per motivi di carattere tecnico, atterreremo in un campo di «evenienza». Si prega di tenere allacciate le cinture e di non fumare. Grazie.

Nella penombra fitta che regna nella carlinga, rischiarata a malapena dal riverbero biancastro che filtra dagli oblò, si ode la voce di un passeggero che, con tono sgomento, sussurra:

— Campo di «evenienza»? Ha detto campo di «evenienza»?

Nessuno risponde. Si ode soltanto il prolungato fruscio dell'aereo che continua la sua discesa.

Tutti sono attaccati agli oblò, e guardano fuori.

Controluce, sfilando rapidissimi tra tracce ancora di vapori, come se l'aereo procedesse ad una ventina di metri dal suolo, appaiono sagome di grattacieli, torri, cupole, campanili.

La galoppata velocissima dei bui edifici rallenta rapidamente, senza che l'aereo subisca la minima scossa.

Poi di colpo l'impatto tremendo col suolo scuote violentemente i passeggeri e fa cadere valige e cappotti.

Con scossoni che lo fanno vibrare e sbandare da tutte le parti, l'apparecchio continua la sua corsa veloce che i freni stridendo e sibilando cercano disperatamente di rallentare.

Ancora un sobbalzo pauroso ed ora l'aereo, come risucchiato dalla sua potenza, gira follemente su se stesso. Al di là degli oblò i palazzi e i grattacieli, le prospettive delle strade, roteano confondendosi vertiginosamente.

I passeggeri sono pietrificati ai loro posti, ad occhi chiusi, le mani ad artiglio sui braccioli.

L'allucinante giostra dell'aereo sta rallentando. Non si ode più il rombo dei motori, ma solo il potente frusciare dell'enorme massa che gira su se stessa.

Con un ultimo ondoso e vasto movimento, all'improvviso tutto si placa.

Nel silenzio attonito, Mastorna apre gli occhi: l'aereo è fermo. Tutti i passeggeri, che hanno sul volto delle smorfie ancora dominate dal terrore, stentano a credere che la catastrofe sia stata evitata. È avvenuto un miracolo.

Al di là degli oblò, ci sono le facciate delle case con le finestre chiuse, i marciapiedi, delle teorie di strade e, sotto, il selciato della grande piazza su cui l'aereo è atterrato incolume.

È una piazza vastissima che l'oscurità notturna rende indistinta nei suoi contorni, Tutte le luci sono spente. Raffiche di pioggia e di nevischio danno al selciato bagliori metallici. Lassù in alto, in uno degli edifici, si ode il rumore di finestre aperte violentemente. Qualche richiamo in una lingua sconosciuta dal tono sbigottito. Poi, in lontananza, l'urlo di una sirena che si avvicina rapidamente. E in fondo alla prospettiva della strada principale appaiono dei fari che tagliano l'oscurità.

È un'autoambulanza che irrompe nella piazza e si arresta sbandando mentre la sirena si spegne. Degli uomini vestiti di bianco escono dalla vettura.

Un'altra sirena, vicinissima, riempie con il suo urlo lacerante l'aria notturna. I fasci di luce di un grande carro attrezzi da pompieri illuminano il selciato viscido e roteano sulle facciate dei palazzi dove, affacciati alle finestre, con sgomento e grida di stupore e di paura, gruppi di gente indicano l'enorme sagoma dell'aereo con le sue immense ali che si protendono da una parte e dall'altra fino a sfiorare i palazzi che limitano la piazza.

Altre due autoambulanze, piccole come giocattoli, si sono fermate sotto il pancione dell'aeroplano.

Lassù, sulla fiancata, si sta aprendo lentamente il portello. Da qualche parte della città giunge il suono di una campana a martello. Rintocchi incalzanti di allarme che sembrano ammonire e stranamente suggerire anche la speranza di una festa.

Nel riquadro del portello, ora completamente aperto, appaiono piccole sagome di uomini e c'è un intrecciarsi di un dialogo tra gli uomini delle autoambulanze e i membri dell'equipaggio. La lingua che parlono è una lingua che somiglia al tedesco.

– Avete feriti a bordo?

– Qualcuno. Niente di grave.

La macchina dei pompieri sta alzando la scala per raggiungere il portello e far discendere i passeggeri, mentre dalle uscite di emergenza si protendono fino a terra i grandi scivoli di materia plastica sui quali qualcuno si è già allungato lasciandosi andare. In basso, gli infermieri aiutano a sollevarsi i primi arrivati.

Mastorna, invece, sta scendendo dalla scala dei pompieri.

Nel vano del portello, il comandante, un bell'uomo sui cinquant'anni, si affaccia e saluta con due mani come a voler tranquillizzare tutta la folla che sta aumentando attorno all'apparecchio. Ha un bel sorriso di uomo forte, coraggioso.

Dal basso, spontaneo, gonfio di gratitudine sale un applauso che si propaga a tutta la piazza. Anche dalle finestre dei palazzi lontani applaudono ammirati, riconoscenti.

Fermo sulla scala dei pompieri, dondolante nelle raffiche di vento gelato, Mastorna solleva anche lui gli occhi verso il capitano che è già scomparso con un ultimo saluto all'interno dell'apparecchio. Si intravede, lontana, la sagoma buia di un'immensa chiesa gotica e più oltre grattacieli di vetro e altissime ciminiere.

Qualche passeggero ferito viene caricato sull'autoambulanza, altri su grossi pullman che sostano coi motori accesi e i fari spenti.

Mastorna, tenendosi il cappello con le mani per le raffiche di vento e serrandosi nel cappotto, si avvia verso uno dei pullman il cui interno è fiocamente illuminato.

Dal ventre enorme dell'aereo stanno scendendo a grappoli valige, bauli, sacchi. Luci saltellanti di torce elettriche, la sirena di un'autoambulanza che riparte, voci, richiami, da un altoparlante qualcuno ripete in più lingue:

- I signori passeggeri verranno accompagnati al motel dove alloggeranno per la notte in attesa di riprendere il volo nelle prime ore del mattino. Bagagli e valige...

Le porte scorrevoli del pullman sul quale è salito Mastorna si chiudono e il grosso automezzo parte silenziosamente.

Sotto la buia sagoma dell'aereo, già lontano, la folla e i componenti l'equipaggio si sbracciano in segni di saluto prima di essere inghiottiti dalla notte.

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Pagina 98

Implacabilmente la bella signora, sorridendo in uno sfavillio di denti bianchissimi, continua con la sua rotonda voce di cantante...

- ... l'aureo simulacro a cui si volgono i sogni di tanti. Che tu possa trascorrere qui tra noi un'eternità felice!

Così dicendo apre l'astuccio e fa per consegnarlo a Mastorna. L'astuccio, foderato di seta, contiene una piccola piastrina metallica dorata.

Ma Mastorna non ritira il premio. Guarda il modestissimo trofeo in silenzio, con una smorfia di derisione e poi, con uno scatto furioso, dà un colpo all'astuccio e lo fa schizzar via dalle mani della signora, che rimane impietrita, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati. Nel silenzio improvviso che è sceso su tutti Mastorna, con voce fremente, comincia a parlare:

- Felicità eterna? Qui? Con voi? In questa specie di circo equestre? In questa confusione, in questa volgarità? In questo cretinismo? Ma io ne faccio a meno della vostra felicità eterna!

Mormorio in sala. Si ode nel silenzio che segue come un sordo singhiozzo che si muta in un accorato struggente lamento.

Proviene laggiù dal buio delle gradinate fitte di gente che ascolta.

- Questa sarebbe la seconda vita, la vera vita? Questo il traguardo dove dovevamo arrivare dopo tanti anni di paure, di ansie, di solitudine, di male? Una vita tanto magra e amara, tutto per arrivare a questa festa sciagurata? È questo il regno di Dio? (Con un urlo disperato). Non è possibile! Con tutte le mie forze, con tutta la mia passione, con tutta la mia intelligenza, tutto il mio cuore io grido: non è possibile che la morte sia questa! Non dobbiamo accettarla, non possiamo accettarla!

L'umiliazione, la confusione, la stanchezza, lo sdegno, la paura, lo fanno piangere. Lacrime gli inzuppano gli occhi e gli scendono lungo le guance, impiastricciate di cerone e di sbaffi di nerofumo.

Nella sala qualcuno si è messo ad applaudire, altri fischiano, voci isolate partono qua e là, alcune d'incoraggiamento, altre di disapprovazione e di scandalo.

- Ha ragione!

- Fatelo smettere!

- È uno scandalo!

- Finalmente uno che parla giusto!

Mastorna:

- Da bambini si andava in chiesa, ricordate?... Ci accompagnavano in chiesa... si dicevano le preghiere, ci si andava a confessare... gli uomini hanno costruito cattedrali immense... hanno sofferto, sperato, si sono fatti uccidere... per che cosa? Per questo carnevale? Rispondete: tutto per questo carnevale? Da quando sono capitato qui ogni cosa è confusione, tutto è incomprensibile, tutto è peggio di prima, una ridicola pagliacciata priva di senso che fa rimpiangere la nostra umanità, il nostro buonsenso, ci fa rimpiangere la vita umana, con tutti i suoi errori. Un Dio che ha inventato questa dimensione è un Dio pasticcione e confuso, che ha bisogno del nostro aiuto, dei nostri consigli.

Altri applausi ed altri fischi accolgono le parole di Mastorna, che, confortato dall'incoraggiamento di chi l'applaude e stimolato dalle urla di chi lo disapprova, continua il suo discorso con un tono via via più aggressivo.

– Che squallore, che desolazione di fantasia! È questa dunque la favolosissima morte?

Una voce isolata, partendo dal buio dell'immenso salone, pone a Mastorna questa domanda:

– Ma tu cosa aspettavi che ci fosse? Come te l'eri immaginata, tu, questa faccenda?

La domanda è accolta dalla platea con un crepitio di risa, e poi si fa un gran silenzio, in attesa della risposta di Mastorna.

Mastorna cerca di concentrarsi, in uno sforzo doloroso, come tentasse disperatamente di ricordare qualcosa:

– È vero... è vero. Cosa avrei voluto trovare?...

Ma è come se la sua mente si fosse bloccata. Smarrito, scorato, confessa:

– Non lo so... (Con uno scatto accorato). Ma qualcosa deve pur esserci di diverso... qualcosa che non assomiglia a tutto quello che abbiamo già conosciuto. Non è possibile che tutto sia identico a prima. La stessa ignoranza, la stessa paura, le stesse vanità, la stessa baraonda. E nessuno che sia in grado di spiegarci che cosa è successo, che cosa si debba fare. Abbiamo diritto di avere almeno delle spiegazioni.

Voce (grondante retorica commozione):

– Ha ragione, che cosa siamo morti a fare, allora?

Altre voci:

— Spiegazioni!

— Dateci spiegazioni!

– Diteci una buona volta di cosa si tratta!

Mastorna, con un sorriso soddisfatto per il successo che sta ottenendo, fa segno alla folla di tacere, perché ha ancora qualcosa da dire. E dopo aver rivolto uno sguardo sprezzante a tutti i membri della giuria che, in un angolo del palcoscenico, stanno confabulando tra loro, evidentemente indecisi sull'atteggiamento da prendere, Mastorna prosegue con voce più calma:

– Ero venuto qui con fiducia ed umiltà, pronto a rispondere a tutto quello che mi sarebbe stato chiesto, disposto a pagare in ogni modo il conto che mi sarebbe toccato; domandavo in cambio una parola definitiva, una sistemazione, un'indicazione da seguire, un po' di chiarezza. Mi si dà invece una medaglietta accompagnata da una motivazione che farebbe ridere il più squallido e il più frivolo dei nostri tribunali. Mi si consegna uno stupido trofeo per azioni altrettanto insignificanti. (Indicando l'immagine sullo schermo). Si sbaglia persino la mia fotografia. Fate finta di non riconoscermi? Debbo aiutarvi io a ricordarvi di me? Devo proprio dirvi io chi sono e che cosa ho fatto? Ma allora, se devo dirvelo io, a che cosa è servito sentirsi spiati, osservati alle spalle per tutta la vita? Voi dovete ricordarvi tutto di me. Tutto deve essere scritto a lettere di fiamma nella vostra mente, nella vostra memoria, e se non c'è scritto allora siete stati negligenti voi, e voi dovete meritare una punizione, non io. O forse questa medaglia, che mi date senza nessun criterio, è un pot-pourri di tutta la mia vita, un allegro incomprensibile «e visse felice e contento» con il quale mi si vuol liquidare? In questo caso io rifiuto un simile vergognoso riconoscimento. Io dico di no. Ora basta. Quello che sta succedendo qui è mostruoso e criminale, uno sberleffo avvilente, un insulto al mio cuore e alla mia intelligenza. Mi si è fatto credere illusoriamente in una idea di giudizio, di premio, di castigo, ed ora mi accorgo di avere in questo modo imposto alla mia vita un senso del tutto immaginario che mi ha impedito di scoprire quello vero. Che debbo fare? Che posso fare? Piangere per la delusione, per l'amarezza, per il dolore? Sarebbe troppo poco, significherebbe annullarmi in questa melma schifosa che sta tentando di soffocarmi. Io sputo su questo tribunale assente e pazzo e disprezzo il suo silenzio.

La fine del discorso di Mastorna è accolta da vivacissime reazioni contrastanti: c'è chi applaude freneticamente, chi piange di entusiasmo e di commozione, chi urla di sdegno, chi invoca maledizioni su Mastorna, l'arresto immediato. Gruppi di applauditori si sono fatti sotto il palcoscenico e acclamano Mastorna come un liberatore. Tra le varie fazioni cominciano a volare insulti, schiaffi, risse e vere lotte nascono in tutti gli angoli dell'immenso salone. Si urla, si fischia, in una baraonda assordante. I componenti della giuria tentano di placare i più agitati. Qualcuno fa segno all'orchestra di attaccare a suonare: esplode una fragorosa musica da ballo e, in mezzo a tanto sconvolgimento, si formano delle coppie. Molti si mettono a ballare, mentre gli altoparlanti rimbombano inviti alla calma, alla moderazione.

Un gruppo, tra i più esagitati applauditori, è salito sul palcoscenico: circonda Mastorna festeggiandolo, abbracciandolo, lo sollevano portandolo in trionfo:...

... ed ecco farsi largo a braccia aperte un tipo panciuto, scamiciato, con un basco in testa, un sudicio impermeabile buttato sulle spalle, la barba mal rasa, grasso, sudaticcio, con due baffacci ribelli sotto il naso, un mezzo toscano in bocca e gli occhi chiari, spiritati da gatto matto. Parla con spiccato accento emiliano e, nonostante la corpulenza, ha mosse e gesti di una vivacità epilettica: tira giù dalle spalle degli ammiratori Mastorna e se lo stringe al petto con impeto, abbracciandolo ripetutamente.

– E bravo il mio pataca! Gliene hai cantate quattro a tutti questi minchioni con le palle anemiche sature di incenso! Vieni qua, fatti abbracciare! È la prima volta che bacio un uomo, ma te lo meriti proprio!

Mastorna riconosce nel tipo col basco che continua a stringerlo al petto, dandogli grandi pacche sulle spalle, il suo professore di filosofia, di quando ragazzo andava a scuola.

Mastorna (sorpreso, commosso):

– Professore, professor De Cercis:

– Ah, te lo ricordi il tuo vecchio amico De Cercis! Ma di' un po': hai dimenticato il bel dialetto del tuo paese, pataca d'un patacone? Parli forbito come un bastardo. Vergognati! (Rivolgendosi agli altri). Ohé, non era mica così svelto quando veniva a lezione privata da me! Hai scoperto subito il trucchetto questa volta, eh? Ti sei reso conto finalmente che le cose vanno allo stesso modo di prima, che non esiste nessuna risposta a nessun quesito? Te lo ricordi cosa dicevo: «Un metro sopra il cappello che ho in testa...».

— ... non c'è un bel niente, solo correnti d'aria...

E tutti e due in coro continuano:

— ... e chi vuole alzarsi sulle punte dei piedi a cercare e cercare rischia soltanto di prendersi un bel raffreddore.

Entrambi scoppiano a ridere mentre attorno i simpatizzanti applaudono freneticamente.

— E mi hanno cacciato da tutte le scuole del Regno, e per campare il povero professor De Cercis dava lezioni private a dei somaroni come te.

Altra risataccia ed altro abbraccio. Poi con tono più serio, quasi commosso:

– Bravo Mastorna! In un primo momento ho avuto paura, pensavo proprio che anche tu ti fossi rimminchionito come gli altri, e che ti saresti accontentato della medaglietta. (Poi con uno scatto, rivolgendosi alla platea tumultuante e ai membri della giuria). Animelle, vigliacconi, fascisti! Cosa andate ancora cianciando di premi e punizioni? Conoscete un premio più grande di quello che è «l'uomo all'uomo» o, se vogliamo essere ancora più giusti, «la donna all'uomo»? E invece li vedi questi babbei, questi irrecuperabili cretini, non mollano mica l'osso, sai, vengono qua tutti i giorni, continuano a chiedere, a cercare, a sperare... (con un urlo, rivolto a tutta la platea) voi continuate a farvi delle pippe in attesa di una scopata che non verrà mai...

Il turpiloquio del professore, la sua violenta oratoria blasfema, provocano una nuova tumultuosa reazione nell'immensa platea. Urla, fischi, improperi, grida di «basta, cacciateli fuori» esplodono dovunque.

Un drappello compatto, formato dai componenti della giuria, da inservienti e poliziotti, avanza minaccioso verso il gruppo formato da Mastorna, De Cercis e i loro ammiratori.

Fra tanta confusione, De Cercis, pacifico e tranquillo, prende sottobraccio Mastorna e si avvia verso le quinte del palcoscenico, parlandogli sottovoce, in tono pacato, confidenziale:

— Dobbiamo stare insieme, caro Mastorna. Siamo in pochi, purtroppo, tuttavia abbiamo formato un gruppo, un gruppo per così dire di lavoro, o di pressione, chiamalo come vuoi, ma ti ripeto, siamo pochi, in un mare di buffoni e di poveri illusi. Tu li hai visti, no? Questi speravano di esser ricevuti dalla Madonnina in persona, e di trovare un paradiso di nuvolette su cui sedersi e star lì beati per l'eternità con gli angioletti che cantano la ninna-nanna. Questi volevano l'aureolina fosforescente.


Retropalco sala premio.

Sono arrivati nel retropalco; alcuni operai, macchinisti ed elettricisti, si fanno incontro a De Cercis applaudendo, e il professore, come sollecitato da quegli applausi a dire qualche altra cosa, rapidamente, sbrigativamente, butta là un'altra frase con un tono di comizio:

– Dice: «Dio non paga il sabato». E invece noi che siamo uomini vogliamo proprio esser pagati il sabato, perché la domenica vogliamo spendere i nostri bei quattrinacci, comprare il gelato ai bambini, andare al cinema, al teatro, comprare dei libri, andare anche al casino. E se alla cassa c'è qualcuno che bara, siamo capaci di prenderlo per il collo e sfasciar tutto, perché siamo uomini, per Giove, ed è un affare da uomini pagare e farsi pagare, rispettare il tuo e pretendere il mio, a patto che il tuo, tu, lo abbia ben guadagnato, non a dispetto degli altri, contro il diritto degli altri, perché allora, brutto lazzaronaccio di un fascista, te lo faccio vomitar fuori a forza di calci nel culo.

Gli operai applaudono fragorosamente. De Cercis saluta stringendo mani a destra e a sinistra e, tenendo sottobraccio Mastorna, si avvia con lui riprendendo a parlargli sottovoce:

– Bravi ragazzi, mi commuovono sempre! Quanto c'è da fare ancora! Ma siamo a buon punto, sai? Tutte le sere ci vediamo da Raoul, ci riuniamo lì. Siamo in pochi, ti ripeto, ma abbiamo le idee chiare. Te lo ricordi il caffè di Raoul? Te la ricordi l'Adelaide? Ma si capisce che è qua anche lei! Sempre là, dietro il banco, a sbattere le sue tettone in faccia a tutti. A proposito, non parlar di mia moglie davanti all'Adelaide. Sai, mia moglie non l'ho più rivista, da quando ci siamo lasciati, dieci anni fa. Gran brava donna, poveretta, insegna sempre Storia delle Religioni, ma a letto, porcaccia la miseria, era come il Messia, non veniva mai.

E, spalancando una porta a vetri, De Cercis fa entrare Mastorna nel vecchio caffè di provincia.


Interno. Caffè di provincia.

È un vecchio caffè di provincia dove Mastorna da ragazzo andava a giocare a biliardo. Tutto è uguale ad allora: i vetri appannati dai vapori e dal freddo. L'atmosfera densa di fumo, gli schiocchi sonori dei colpi di stecca sulle biglie, i divani di velluto rosso coi centrini bianchi, ricamati e unti di brillantine. Alle pareti la mostra dei quadri del pittore locale, e laggiù la saletta delle persone rispettabili, anziane, che giocano a dama, o a scacchi, per interi pomeriggi.

Più in fondo, vicino ai biliardi, la sala dei vitelloni, degli intellettuali, degli amici di De Cercis, rimbombante di urla, di risate, di pernacchie.

Ed eccola là, l'Adelaide, dietro il banco, a servire caffè e a lavare i bicchieri, tra i vapori della macchina espresso: è una bella moracciona, dalle forme potenti, sudata, con una leggera peluria sulle labbra, gli occhi bianchi, da leonessa. Lesta di mano e di parola, pronta a tener testa e a rintuzzare gagliardamente le frasi pesantemente galanti dei vari clienti.

De Cercis (con un urlaccio):

– Guardate chi vi ho portato, Giuseppino Mastorna! E sapete dove stava? In quel pataccaio vociante, alla fiera dei sogni perenne.

Poi, mentre Mastorna avanza lentamente nell'interno del caffè, guardandosi attorno con un sorriso intenerito, rivivendo gli antichi ricordi, De Cercis, che è rimasto sulla porta, si rivolge al gruppo di persone che, silenziosamente, hanno seguito i due fino al caffè e, come per premiarli della loro solidarietà, butta là un'altra frase di comizio (al gruppo rimasto fuori):

– Noi non crediamo all'immortalità dell'anima, non è seriamente documentabile, quindi ne prescindo, non mi interessa, credo invece all'immortalità del corpo; quella che noi chiamiamo morte, disfacimento del corpo, non è che un cambiamento di stato, una metamorfosi, un diventare da parte del corpo un'altra cosa, per mezzo di un processo biochimico osservabilissimo, anche se poco piacevole esteticamente.

Il gruppo fuori applaude.

De Cercis saluta, chiude la porta e si avvicina a Mastorna che sta guardando affascinato l'Adelaide, dietro il banco, in mezzo ai vapori della macchina espresso.

– Ti piaceva anche a te, eh, questa diavolessa? Ma guarda che baffoni che ha, certe volte mi sembra di far l'amore con Stalin.

Poi, a voce alta, sparando uno dei suoi soliti paradossi sacrileghi:

– La verità è un'apprensione diretta: non la si raggiunge salendo una scala di concetti mentali. E l'Adelaide, in quanto ad apprensioni, me ne procura come un terremoto: quindi Adelaide è la verità.

E, svelto come un gatto, nonostante il pancione, De Cercis scivola dietro il banco, si abbraccia all'Adelaide, e rimane lì attaccato al gran corpo della donna come un bambino alla madre, scomparendo a tratti fra i vapori biancastri della macchina.

Fuori il gruppo degli ammiratori approva con grandi segni della testa e di nuovo applaude, poi tace ed attende in silenzio, i nasi schiacciati contro il vetro, gli occhi tondi, fissi sul professore.

Un tipo dal volto glabro, pallido, la barba mal rasata, seduto insieme ad altri dietro un tavolino del caffè, fa un lieve cenno di saluto a Mastorna, che lo raggiunge e gli stringe la mano.

– Mi fa piacere che tu sia dei nostri. Eri un ragazzino, ti ricordi di me?

La voce di De Cercis, che è sempre abbracciato all'Adelaide, rimbomba alle spalle di Mastorna.

– Abbraccialo, Mastorna, è un fratello. Ti ricordi che scandalo in paese quando don Eugenio Terlizzi una bella mattina ha visto chiaro e ha buttato la sottana alle ortiche? È il più caro dei nostri compagni, il vecchio Eugenio, lo Spretato. Abbraccialo!

Lo Spretato offre una sigaretta a Mastorna e prende a parlare a bassa voce, nervosamente:

– Non si può negare che molti materialisti convinti, i quali, pur non dubitando mai del completo annientamento alla morte del corpo, vivono una vita altruistica sacrificandosi in una dedizione impersonale all'umano progresso, danno prova di vera nobiltà, più del devoto credente, la cui moralità ha bisogno delle paure dell'inferno e delle promesse del cielo.

Voce di De Cercis:

– Bravo Terlizzi! Ah, ci fanno ridere quelli che pretendono di essere decorati sul campo: e la motivazione, poi? «Ha obbedito a tutte le norme».

E, con un tono di cantilena, gridando a gran voce:

    – E siccome è stato
    cittadino intemerato
    e siccome ha studiato
    e siccome ha votato
    e siccome si e lavato...

Lo Spretato e gli altri amici si uniscono al coro:

    – e siccome è coniugato
    ha fatto adulterio
    ha intrallazzato
    e della società ha ben meritato
    e in fin di vita si è pentito.

Voce di De Cercis (solo):

    – adesso gli hanno dato.

Tutti insieme:

    – l'Oscar del Padreterno.

Applausi, risate.

Voce di De Cercis:

– Io sono un «homo humanus», ho sempre tenuto conto soltanto dell'uomo, e essere uomini comporta già tanta fatica a questo mondo. Cosa vogliamo andare a chiedere a questo Trascendente?

Lo Spretato:

– Ma se è trascendente lasciamolo lì dov'è, che ci scavalchi pure, che vaghi sulle nostre teste... noi abbiamo il nostro daffare a guardare dove mettere i piedi per non inciampare.

Un altro tipo:

– La vita è una questione per uomini adulti, un affare da professionisti, e proprio non c'è il tempo di scherzare o di farsi passeggiare i grilli in testa, anche se cantano bene, sissignore, anche se ti fan quasi svenire, tanto cantano bene.

Voce di De Cercis:

– Noi dobbiamo andare avanti, a passo svelto, senza perdere tempo, senza distrazioni, senza rovelli inutili, conosciamo abbastanza bene tutta la storia dei grossi cervelloni che si sono spiaccicati le meningi, e spesse volte il cuore, contro il muro di marmo della metafisica, per concludere cosa? Che l'unica alternativa all'«homo humanus» è...

Tutti insieme:

– ... l'«homo fregatus».

Voce di De Cercis:

– Se un dio esiste sono affari suoi: noi non abbiamo molto da discutere su questo punto, abbiamo altro da fare. Io non sono mai stato un mangiasanti infuriato, quando bercio lo faccio in nome dei miei fratellini, che cacchio vuol dire sputare verso il cielo? Sono isterismi di cervellini impauriti, che scacazzano ancora bile e delusione. Preferisco allora la terribile, coraggiosa placidità di Stendhal, al quale perfino Nietzsche invidiava il suo «Dio ha una sola scusa, che non esiste». E voglio più bene, anche se non mi piace, a quel pazzo nichilista di Stirner, che ridacchiava «Digerisci l'ostia e la faccenda è liquidata. Amen». Come vedi mi piacciono le citazioni, ma è il mio mestiere, e per pudore non mi va di parlare in prima persona. E con questo, egregi signori, vi saluto. Preparati, Adelaide, togliti la parannanza dalla tua bianca panciona e andiamo a fare quattro passi con il nostro Mastorna.

Ha spalancato la porta del caffè ed è uscito fuori, seguito da Mastorna e da Adelaide.

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