Copertina
Autore Felipe Fernández-Armesto
Titolo Amerigo
SottotitoloLa vita avventurosa dell'uomo che ha dato il nome all'America
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009, La storia narrata , pag. 232, ill., cop.ril.sov., dim. 16x23,7x1,8 cm , Isbn 978-88-6159-274-2
OriginaleAmerigo. Tha Man Who Gave His Name to America [2006]
TraduttoreEster Borgese
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe storia moderna , geografia , biografie , viaggi , citta': Firenze
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Indice


  1  Prefazione

  7  1. L'apprendista stregone
        Firenze, 1450 ca.-1491: in cerca di «fama e onore»

 41  2. La prospettiva dall'esilio
        Siviglia, 1491-1499: prendere il mare

 65  3. Un astronomo per mare
        L'Atlantico, 1499-1501: avvio all'esplorazione

 97  4. I libri dell'incantatore
        Nella mente di Amerigo, 1500-1504: peripezie letterarie

133  5. Come un antico Prospero
        Il Nuovo Mondo, 1499-1502: Amerigo contempla l'America

167  6. La fase dell'illusionista
        Siviglia e il mondo, 1502-2005: morte e notorietà

205  Note

223  Indice dei nomi

229  Tavole a colori


 

 

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Pagina 1

Prefazione

Amerigo Vespucci, l'uomo che diede il proprio nome all'America, fu protettore di prostitute da giovane e stregone da adulto. Una trasformazione sorprendente, figlia dell'incessante reinvenzione di se stesso, che diede vita a un'eccezionale serie di cambiamenti professionali e di quelle che oggi la stampa scandalistica chiamerebbe makeovers.

Più o meno intorno ai trent'anni, Vespucci intraprese un restyling della propria identità, perseguendolo con una regolarità che rivelava insoddisfazione e bisogno di fuga. Per prima cosa, disertò l'esercito del governatore di Firenze, sua città natale, per arruolarsi in quello nemico. Qualche anno dopo, nel 1491, partì per Siviglia e abbandonò la sua precedente attività – era commissionario di gioielli – e si mise a organizzare flotte di approvvigionamento per l'impresa di Colombo nel Nuovo Mondo. Nel 1499, all'età di circa quarantacinque anni, scoprì una nuova vocazione, affrontare l'oceano in prima persona, e in poco tempo si reinventò esperto di navigazione e di cosmografia. Durante quest'ultima trasformazione, passò dalla corona spagnola a quella portoghese, per poi tornare ancora a servire gli spagnoli. Malgrado non avesse mai conseguito qualifiche o successi particolari, egli fu così convincente in questo nuovo ruolo da diventare una specie di cosmografo ufficiale, arrivando a ottenere dalla corona castigliana l'esclusiva della realizzazione di carte nautiche dell'oceano Atlantico e dell'addestramento di timonieri adatti a navigarlo. Alcuni studiosi miei colleghi lo acclamarono come il nuovo Tolomeo, reincarnazione del più importante, o almeno del più influente, geografo dell'antichità. Nel mondo rinascimentale, non vi era elogio più grande dell'essere paragonati agli antichi.

Anche senza il singolare caso, o errore, che conferì il suo nome all'emisfero occidentale, la biografia di Amerigo affascina per la disinvoltura e la perfezione straordinaria con cui egli riuscì a reinventare se stesso. Riuscì ad attraversare tutte le strettoie di fronte alle quali lo pose la vita, modellandosi e rimodellandosi come un fluido, quasi fosse argento vivo. Tuttavia, in epoca moderna nessuno studioso autorevole si è mai avventurato a scriverne la biografia. Chi si è avvicinato di più è Luciano Formisano, con il suo ricco e accurato saggio biografico, pubblicato nel 1991, incluso in una costosa e pregevole raccolta celebrativa del cinquecentenario della prima traversata atlantica di Colombo. Per il resto, gli unici tentativi di ampio respiro si dividono tra elogi di parte, in cui si spreca l'erudizione, e opere di divulgazione pressoché prive di valore, basate sull'avventura romanzesca, sull'esaltazione dell'eroe e su insulse congetture messe in piedi solo per rimpolpare l'evidenza. Strategie di questo tipo, in realtà, non sono affatto necessarie. I fatti che riguardano Vespucci sono già abbastanza straordinari, senza bisogno d'essere elaborati. Le sue poche biografie, però, hanno consentito che essi restassero per lo più sconosciuti, perfino quelli più avvincenti e sbalorditivi. Per la frase d'apertura di questa prefazione ne ho scelti due: non solo perché sensazionali, ma soprattutto perché trascurati dalle biografie esistenti e poco discussi, almeno sulla carta, dal manipolo di esperti che si interessano oggi all'argomento.

Le perplessità degli studiosi sono comprensibili. Per quanto possa sembrare strano, è proprio l'importanza delle questioni dibattute che impedisce di accostarsi con sicurezza alle fonti riguardanti la vita di Vespucci. Esistono moltissime testimonianze. Su Vespucci, infatti, si conosce molto più di quanto non si sappia su ogni altro esploratore suo contemporaneo, fatta eccezione per Colombo. Il paragone con quest'ultimo è appunto significativo. Colombo usò quasi sempre l'inchiostro per appuntare la propria anima sulla carta, mentre degli scritti di Vespucci rimane poco e, malgrado la loro natura prevalentemente autobiografica, in senso lato, essi non concedono nulla a quelle effusioni confidenziali tipiche dell'opera dell'ammiraglio. Per di più, gli studiosi sono finiti per impantanarsi nel problema dell'autenticità. A turno, i critici hanno contestato o approvato tutte le lettere attribuite a Vespucci o pubblicate a suo nome mentre era in vita. La polemica infuria, ma non produce risultati. Oggi le lettere manoscritte sono unanimemente ritenute autentiche. Uno dei più importanti studiosi di Vespucci, Alberto Magnaghi, ne ha dato dimostrazione negli anni venti e l'opera che ne è seguita ha confermato le sue conclusioni in proposito. Se tra quelle autentiche rientrano anche le lettere pubblicate a stampa (Mundus Novus e Lettera a Piero Soderini) resta ancora una questione irrisolta. Alcuni hanno respinto entrambi i documenti nel loro complesso, condividendo l'idea avanzata verso la metà del XIX secolo dal visconte di Santarém, secondo cui essi «recano incisi sulla loro stessa pelle tutti i segni» della contraffazione. Altri, perfino più imprudenti, li hanno accettati senza alcuna riserva. Altri ancora, compresi tutti gli eminenti studiosi che attualmente si occupano del tema, ritengono che i testi di Vespucci siano un misto di scritti falsi e autentici, pur non essendo concordi nello stabilirne l'equilibrio. I dubbi sono paralizzanti, perché le problematiche più rilevanti dipendono proprio dalle lettere in questione: Vespucci era sincero? Oppure, ammesso che fosse un bugiardo incallito, fino a che punto si spinge la sua falsità? Le sue pretese di aver fatto importanti scoperte sono attendibili? "Merita" di avere un emisfero che porti il suo nome?

Credo che oggi sia finalmente possibile mettere da parte ogni incertezza. I documenti incontestabili ci offrono, di fatto, una serie affidabile di "impronte digitali" appartenenti al Vespucci scrittore: le sue immagini più care, i suoi temi preferiti, i suoi pensieri più frequenti, i suoi tic mentali. In tal modo è possibile effettuare un controllo incrociato con il materiale contestato, per verificare in modo attendibile quanto scaturisce dalla penna di Vespucci e quanto, invece, da quella di chi si è reso responsabile delle pubblicazioni che sfruttavano il suo nome. Grazie all'aiuto di altre fonti – in particolare delle lettere indirizzate a Vespucci e giunte fino a noi, da cui emerge il suo mondo e i valori che lo muovevano – si possono ricostruire le fasi della sua vita con ragionevole certezza, fino a entrare nella sua testa: per vedere il mondo come lo vedeva lui, per carpirne i presupposti e le ambizioni e per esporre – almeno in parte – le cause delle sue cicliche trasformazioni. La sua vita può essere mappata, con la stessa confusa irregolarità, la stessa vaghezza e le stesse distorsioni di scala delle mappe dell'epoca. Esistono lacune che possono far diventare matti, ma ho cercato di non colmarle con delle congetture, come facevano i cartografi medievali riempiendo gli spazi vuoti di ippogrifi.

Per quanto abbia concepito questo libro come una storia di vita e l'esplorazione di una mente, vi sono gigantesche strutture storiche che ruotano intorno a Vespucci. Quel che ho cercato di fare è stato tratteggiarle sullo sfondo, perché fuori dal proprio contesto nessuna delle sue azioni avrebbe senso compiuto. Il libro segue Amerigo attraverso i disparati milieu a cui appartenne o a cui si adattò: la Firenze di Lorenzo de' Medici, la Siviglia di Ferdinando e Isabella, l'oceano di Colombo, il nuovo continente in mano ai saccheggiatori dopo l'arrivo di Colombo, il mondo intero in cui la fama di Vespucci risuonò, crebbe e si dissolse. Alcuni lettori potrebbero trovarlo noioso, preferendo gli aspetti intimi più tipici di una biografia convenzionale, quelli che servono a rendere il soggetto più vivido e ad avvicinarlo al pubblico. Ma soffermarsi sullo sfondo è indispensabile e, ne sono convinto, ha anche una funzione rivelatrice. Infatti, malgrado non abbia dato alcun contributo significativo a nessuna arte o scienza – come vedremo, fu cosmografo dilettante, navigatore sopravvalutato e scrittore di poco talento –, Vespucci rappresenta una figura fondamentale nella storia del mondo, perché fu uno degli ultimi avventurieri provenienti dal Mediterraneo che contribuirono a conquistare l'Atlantico e a estendere oltreoceano il raggio d'azione di quella che oggi si definisce civiltà occidentale.

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Pagina 7

1. L'apprendista stregone

Firenze, 1450 ca.-1491: in cerca di «fama e onore»


Eroismo e scelleratezza si fondono l'un l'altra. Come l'arte di vendere e la stregoneria. Amerigo Vespucci fu eroe e canaglia. Ma mi aspetto che questo i lettori lo sappiano già. Quello che voglio è dimostrare che fu anche mago e venditore. Un mercante divenuto stregone.

Questo libro racconta come avvenne questa strana mutazione e tenta di aiutare i lettori a comprenderne il perché. Il nome America fu un effetto collaterale della storia: una misura del successo riscosso nell'arte di vendere se stesso, un prodotto dell'incantevole natura stregonesca di Amerigo. L'arte di vendere e la stregoneria richiedono entrambe qualità particolari: parlantina suadente, dita leggere come piume, sicurezza contagiosa. Vespucci iniziò ad acquisirle nella città che lo vide nascere e studiare. In una Firenze rinascimentale, dove la vita era frenetica, pomposa, competitiva, consumistica e violenta, le abilità di un prestigiatore si sviluppavano facilmente. Anche perché servivano a sopravvivere.


La città magica

In questa città di quarantamila abitanti si era concentrata una tale ricchezza da non avere paragoni in tutta l'Europa. La prosperità fiorentina era stata un trionfo ottenuto malgrado le circostanze avverse, classica reazione a un ambiente difficile. La città era divenuta un'immensa fabbrica di raffinati tessuti di lana e seta, nonostante l'inaffidabilità di un fiume che andava in secca ogni estate. Firenze si era trasformata in un grande stato, attivo nel commercio internazionale e dotato di flotte proprie, nonostante le cinquanta miglia di distanza dal mare, da dove i nemici potevano facilmente controllare vie di fuga e d'accesso. I fiorentini del XV secolo erano fieri della propria peculiarità: conservare una costituzione repubblicana in un'epoca di monarchie imperanti. L'élite era composta di oligarchi senza scrupoli, che celebravano la nobiltà derivante dalla ricchezza piuttosto che dalla nascita. A Firenze, un principe poteva essere mercante senza detrimento della sua dignità.

In un'epoca che idolatrava l'antichità, Firenze non aveva nessun lignaggio storico, ma molti fiorentini nutrivano con il mito la propria identità: la loro città era sorella di Roma, fondata dai troiani. Più vicino al vero, invece, il racconto delle origini proposto dagli storici: Firenze era «figliuola» di Roma, fondata dai Romani «su simili fondamenta», ma più fedele alle tradizioni repubblicane. Attraverso l'orgoglio civico, i fiorentini affermavano la propria superiorità sui vicini più antichi e autoproclamatisi più nobili: una cupola più grande di quella di ogni altra cattedrale rivale, più sculture nelle strade, torri più alte, dipinti più costosi, opere di carità più ricche, chiese più imponenti, palazzi più sfarzosi, poeti dall'eloquio più forbito. Rivendicavano Petrarca come proprio concittadino per via dei genitori fiorentini, anche se quasi certamente egli non visitò mai la città.

Di conseguenza, Firenze apprezzava molto i geni ed era pronta a pagare per averli. Come l'Atene classica, la Vienna fin-de-siècle, la Edimburgo illuminista o la Parigi dei philosophes, Firenze sembrava allevare talenti, coltivare geni e meritare la notorietà. A metà del XV secolo, più o meno nel periodo in cui nacque Amerigo Vespucci, l'epoca più grandiosa era già finita. La generazione di Brunelleschi (morto nel 1446), Ghiberti (nel 1455), Fra Angelico (nel 1455), Donatello (nel 1466), Alberti (nel 1472) e Michelozzo (nel 1472) stava invecchiando e morendo, oppure era già morta. Le istituzioni repubblicane erano cadute sotto il controllo di un'unica dinastia, quella dei Medici. Ma la tradizione di eccellenza nelle arti e nella cultura non si arrestò. Lo scultore Andrea del Verrocchio visse in una casa presa in affitto da un cugino di Vespucci. Sandro Botticelli abitò accanto alla casa in cui era nato Amerigo. Botticelli e il Ghirlandaio lavorarono nella sua parrocchia, dietro commissione della sua stessa famiglia. Machiavelli, a quel tempo, era uno sconosciuto ventenne. Il suo rivale nel ruolo di storico e politico, Francesco Guicciardini, era solo un ragazzino. La fertilità di Firenze nel produrre geni sembrava inesauribile. Quando Amerigo lasciò la città, nel 1491, Leonardo da Vinci era già partito per Milano e, più tardi, nel 1494, la rivoluzione depose i Medici e fece venir meno per un periodo la possibilità di ottenere sostegno finanziario. Ma le carriere della generazione successiva – inclusa quella di Michelangelo, che fu a bottega dal Ghirlandaio – erano già iniziate.

Il giovane Amerigo potrebbe essere stato influenzato da uno dei tanti grandi che lo circondavano? Senza dubbio ve ne fu l'opportunità. Il suo precettore, lo zio Giorgio Antonio Vespucci, era uno degli studiosi più stimati della città. Almeno a partire dal 1475 fece parte di un gruppo di cultori e mecenati che si autodefinivano la "famiglia di Platone", perseguendo una specie di culto della memoria del filosofo, di cui riproducevano i simposi e di fronte al cui busto alimentavano una luce perenne. Del gruppo faceva parte anche il signore di Firenze in persona, Lorenzo il Magnifico. Elemento focale – e "padre" della "famiglia" – fu Marsilio Ficino, medico e sacerdote presso la famiglia dei Medici. Egli definiva Giorgio Antonio come «l'amico più caro» e nelle lettere a lui indirizzate usava il linguaggio dell'«amor divino», di cui erano al corrente i soli membri del gruppo. Tra questi Luigi Pulci, all'epoca il poeta più famoso di Firenze; Angelo Poliziano, importante studioso e abile verseggiatore; Pico della Mirandola, esperto di esoterismo e perfino di occultismo; e Paolo dal Pozzo Toscanelli, il geografo che contribuì a ispirare Colombo.

Tale atmosfera ebbe indubbiamente un certo effetto, seppur limitato, su Amerigo. Uno scritto abbozzato sul suo quaderno consiste in una lettera in cui uno studente compra per dieci fiorini un testo di Platone, per offrirlo in dono al proprio precettore; chi scrive chiede perdono per la spesa eccessiva, dal momento che il libro valeva solo tre fiorini. Difficile pensare che Platone si fosse impossessato della giovane mente di Amerigo che, come vedremo, non era molto portata per l'attività accademica. Questo episodio sembra essere piuttosto il frutto di un esercizio e non il resoconto di un fatto reale. Sarebbe imprudente dedurne che Vespucci non abbia mai letto una riga di Platone per conto proprio, ma questo riferimento colloca senz'altro la sua istruzione nel contesto di interessi intellettuali che erano comuni al gruppo di cui faceva parte lo zio.

Per la presenza di una costellazione di talenti così straordinari, che avrebbero influenzato in modo decisivo la futura visione del mondo, la Firenze rinascimentale suscita una serie di consensi e, di conseguenza, anche di ipotesi fuorvianti tra coloro che la rievocano oggi. L'immagine comune della città è quella di un luogo illuminato, dove l'antichità era tornata in vita, la modernità precorreva i tempi e vigevano gusto classico, interessi secolari, mentalità umanistica e priorità delle scienze e della ragione nel sistema di valori. Ma a ogni generazione piace puntare i riflettori sulla propria "modernità", in contrapposizione all'oscurità del passato, e tenta di scrutare quest'ultimo alla ricerca di segni che rivelino un risveglio dell'Europa dai "periodi bui" in favore del progresso, della prosperità e dei valori che si riconoscono come propri. Fu questa la risposta all'eccitazione con cui gli scrittori occidentali del Cinquecento annunciarono il sorgere di una nuova "età dell'oro". Di conseguenza, se chi legge questo libro è un prodotto della cultura occidentale tradizionale, è probabile che quasi tutto quello che ha sempre pensato del Rinascimento sia falso.

"Segnò l'inizio dell'età moderna." No: ogni generazione ha la sua modernità, che scaturisce dal passato nella sua interezza. "Fu rivoluzionario." No: gli studiosi hanno individuato una mezza dozzina di rinascimenti precedenti. "Fu secolare" o "fu pagano". Non del tutto: la Chiesa rimase mecenate in quasi tutti i campi dell'arte e del sapere. "Promosse l'arte per amore dell'arte." No: essa venne manipolata da plutocrati e politici. "La sua arte fu di un realismo senza precedenti." Non proprio: la prospettiva fu una tecnica nuova, ma un certo realismo emotivo e anatomico era già riscontrabile in molta arte prerinascimentale. "Il Rinascimento elevò la figura dell'artista." No: gli artisti medievali potevano ottenere la santità, al cui confronto titoli e ricchezze risultavano offensivi. "Detronizzò la scolastica e inaugurò l'umanesimo." No: ebbe origine dall'"umanesimo scolastico" medievale. "Fu platonico ed ellenofilo." No: vi furono elementi di platonismo, come ve n'erano stati prima, ma pochi studiosi nutrirono per la Grecia qualcosa di più di un interesse momentaneo. "Riscoprì l'antichità perduta." Non esattamente: l'antichità non era mai andata perduta e l'ispirazione classica non era mai venuta meno (anche se nel XV secolo vi fu un interesse maggiore). "Scoprì la natura." Quasi: di certo in Europa non era mai esistita prima una pittura puramente paesaggistica, ma la natura era già stata oggetto di culto nel XIII secolo, quando san Francesco d'Assisi vi aveva scoperto la presenza divina. "Fu scientifico." No: vi furono tanti scienziati quanti stregoni.

Perfino a Firenze il gusto rinascimentale fu minoritario. I progetti di Brunelleschi per le porte del Battistero – che comunemente si ritiene abbiano inaugurato il Rinascimento nel 1400 – vennero respinti perché troppo futuristici. Masaccio, il rivoluzionario pittore che negli anni trenta del Quattrocento introdusse la prospettiva e il realismo scultoreo nell'opera realizzata per una cappella della chiesa di Santa Maria del Carmine, fu in realtà un semplice assistente al progetto, supervisionato invece da un maestro tradizionalista. I pittori più famosi dell'epoca furono anche i più conservatori: le opere di Pinturicchio, Baldovinetti e Gozzoli somigliano alle meraviglie dei miniaturisti medievali, fatte con foglia d'oro splendente e costosi pigmenti vivaci. Il progetto di Michelangelo per la piazza principale della città, che avrebbe dovuto organizzarne lo spazio in un colonnato classico, non fu mai realizzato. Molta della presunta arte classica che ispirò i fiorentini del XV secolo era falsa: il Battistero era in realtà una costruzione del VI-VII secolo; la chiesa di San Miniato, che gli esperti scambiarono per un tempio romano, risaliva a non oltre l'XI secolo.

Firenze, dunque, non fu realmente classica. Alcuni lettori penseranno: facile a dirsi. Secondo la stessa logica si potrebbe affermare anche che l'Atene classica non fu realmente classica, visto che molti suoi abitanti coltivarono valori diversi: venerarono i misteri orfici, aderirono ai miti irrazionali, ostracizzarono o condannarono alcuni tra i pensatori e gli scrittori più progressisti, favorirono istituzioni sociali e strategie politiche affini a quella che oggi chiameremmo "maggioranza silenziosa" – insomma, "valori familiari" puritani e rigidi. Le commedie di Aristofane, con la loro satira sulle ambigue usanze aristocratiche, rappresentano molto meglio la moralità greca di quanto non faccia l' Etica di Aristotele. Firenze ebbe anch'essa la propria maggioranza silenziosa, la cui voce fu ben udibile, intorno agli anni in cui Vespucci lasciò la città, grazie ai teatrali sermoni del frate riformista Girolamo Savonarola e alle urla agghiaccianti di coloro che, pochi anni dopo, fecero esplodere la rivoluzione in strada e, non esenti dall'influenza delle sue parole, misero al rogo le vanità dei Medici e al bando la sensualità pagana di gusto classico. Dopo la rivoluzione, perfino Botticelli rinunciò a eseguire i dipinti erotici che gli venivano commissionati, tornando a dedicarsi alla devozione vecchio stile.

La Firenze del Savonarola non fu classica, ma medievale. Amerigo non fu classico, bensì magico. Utilizzo questa parola intenzionalmente, per indicare un luogo in cui veniva praticata la magia. Esistevano due tipi di magia. La prima, a Firenze come in ogni altra parte del mondo in quell'epoca, per quanto ne sappiamo, era di certo quella fatta di incantesimi e superstizioni popolari. Tre notti prima della morte di Lorenzo il Magnifico, un fulmine colpì la cattedrale, provocando la caduta di pietre che dall'alto della famosa cupola si schiantarono in strada. La gente disse che Lorenzo aveva un demone intrappolato nel suo anello e che, sentendo la morte imminente, lo aveva liberato. Nel 1478, quando Jacopo de' Pazzi fu impiccato per aver partecipato a una congiura contro il potere dei Medici, piogge scroscianti minacciarono la sopravvivenza dei raccolti di cereali. La saggezza popolare ne attribuì la colpa a Jacopo, la sua sepoltura in terra consacrata aveva offeso Dio e disturbato la natura, così il cadavere in decomposizione fu disseppellito e trascinato per le strade, dove il popolo lo percosse prima di gettarlo nell'Arno.

La superstizione non trasse in inganno soltanto il popolo. C'era anche un tipo di magia che veniva insegnato. L'idea che la natura potesse essere controllata dall'azione dell'uomo era assolutamente razionale. Compiere i primi incoraggianti passi in questo campo significava mettere in atto tecniche che oggi definiremmo scientifiche, quali l'osservazione, l'esperimento e l'esercizio della ragione. Non era stato ancora dimostrato quanto l'astrologia, l'alchimia, l'illusionismo e la stregoneria fossero guide fallaci. Come affermavano gli stessi occultisti della Firenze rinascimentale, la differenza tra magia e scienza è molto più sottile di quanto la gente oggi non pensi. Entrambe rappresentano un tentativo di spiegare e, quindi, controllare la natura. La scienza occidentale del XVI e XVII secolo derivò, in parte, dalla magia. La vocazione degli scienziati coincideva con quella degli stregoni: individui che praticavano tecniche magiche per dominare la natura. Negli ambienti frequentati dal giovane Amerigo, la magia era una passione comune.

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Per di più, l'ammiraglio godeva ancora della benevolenza dei cosmografi che la prima traversata atlantica gli aveva guadagnato. Col tempo, dopo un periodo di riflessione e la possibilità di passare le prove al setaccio, la maggior parte dei commentatori avrebbe rigettato l'idea che Colombo fosse giunto in qualche luogo vicino l'Asia: le dimensioni del globo lo smentivano. Ma nell'eccitazione suscitata dal ritorno dell'esploratore, molti contemporanei semplicemente accettarono come vere le descrizioni delle sue scoperte senza fare obiezioni. Il commento dell'ammiraglio di Castiglia fu prevedibile: Colombo aveva mantenuto tutte le promesse. Secondo il duca di Medina Celi, egli aveva «trovato esattamente quello che stava cercando». Il papa, commentando, a quanto pare, il primo resoconto pubblicato del viaggio di Colombo, accettò l'idea che l'esploratore avesse scoperto una meravigliosa ed esotica terra «verso l'India». Detto ciò, è comprensibile che Vespucci vi abbia creduto. Non era il solo ad avere ancora fiducia nella visione di Colombo: fino a quando, nel 1520, Magellano non scoprì un passaggio che lo portò a ovest, verso l'Asia, dimostrando così che Colombo si sbagliava sia sulle dimensioni della Terra sia sulla facilità del viaggio, la maggior parte dei viaggiatori transatlantici continuò a sognare di aver raggiunto l'Asia.

In ogni caso, tanto Colombo quanto Vespucci si erano affidati in qualche modo alle stesse fonti di informazione. Oltre che da Tolomeo e Strabone, i due navigatori condivisero una parziale dipendenza da Paolo dal Pozzo Toscanelli (p. 22). Benché non sia giunto fino a noi nulla di scritto, questi godeva di un'incredibile reputazione. I contemporanei che lo avevano conosciuto, o che ne avevano sentito parlare, lo consideravano un esperto in cosmografia. Johannes Müller, noto come Regiomontanus, secondo la latinizzazione del nome che gli studiosi di quel periodo amavano attribuirsi, compilatore delle migliori tavole astronomiche del tempo, salutò Toscanelli come un matematico persino migliore di Archimede. Nei circoli umanistici non poteva esserci elogio maggiore. In uno scambio di lettere con Toscanelli, Colombo ricevette conferma della sua idea più preziosa: era possibile, almeno in teoria, veleggiare a ovest verso l'Asia, attraversando l'oceano Atlantico. Toscanelli affermò di aver proposto un simile progetto al sovrano portoghese, inviando a Colombo copia di una lettera in proposito, insieme a una mappa illustrativa, che aveva spedito a un corrispondente in Portogallo. Cresciuto nel circolo intellettuale di Toscanelli a Firenze, Vespucci non poteva non aver subìto l'influenza di quelle idee.

Su una cosa, però, Amerigo dissentiva rispetto alle teorie di Colombo. Egli accettava la convinzione tradizionale sulle dimensioni della Terra: 24000 miglia intorno all'equatore. Una misura maggiore di quella proposta dall'ammiraglio, ma comunque – anche se Vespucci nel fare il calcolo parlava in termini di miglia castigliane – minore di quelle avanzate da altri sistemi di misurazione, e relativamente minore rispetto a molti calcoli contemporanei. Gli sforzi di convertire le cifre di Tolomeo al riguardo in misurazioni aggiornate variavano da 22500 a 31500 miglia romane. Colombo si era affidato molto ai dati di Tolomeo, rifiutando però la sua stima delle dimensioni della Terra, preferendo una valutazione molto inferiore formulata da un rivale di Tolomeo, da lui menzionato solo per confutarla. Mescolando altre misurazioni più o meno arbitrarie, Colombo ottenne una dimensione del globo inferiore del 20-25% di quella effettiva. Una stima per difetto più vicina a essa, del 13% inferiore alla dimensione reale, fu proposta da Toscanelli e condivisa da Martin Behaim, influente cosmografo di Norimberga, che nel 1492 produsse il più antico mappamondo giunto fino a noi. Pochi esperti presero sul serio i calcoli di Colombo.

È un fatto curioso. Da una parte, vi era largo consenso sul fatto che l'ammiraglio avesse raggiunto la soglia dell'Oriente con un viaggio relativamente breve: 750 leghe, circa tremila miglia, stando ai calcoli del pilota della sua nave ammiraglia, o poco più di un migliaio di leghe, in base ai calcoli piuttosto generosi e poco affidabili dello stesso Colombo. Eppure nel contempo, secondo un'opinione quasi universale, la dimensione della Terra rendeva impossibile una simile impresa. Anche in base ai calcoli di Toscanelli, quando Colombo toccò terra doveva trovarsi ancora a migliaia di miglia di distanza dall'estremità orientale dell'Eurasia.

Su questo punto, per Vespucci fu ancora una volta decisiva l'influenza di Tolomeo. Come la maggior parte dei lettori del tempo, Amerigo accettò i calcoli di Tolomeo senza modifiche. Come mai, allora, perseverò con il progetto di Colombo di raggiungere l'Asia verso ovest, quando sapeva che la dimensione della Terra avrebbe reso il viaggio troppo lungo per incoraggiare qualcuno a intraprenderlo? La ragione sta in un po' di velleitarismo mischiato alla sua ingenuità nautica. Da un lato, forse, sperava che le cifre si sarebbero sistemate da sole se avesse continuato nella ricerca. Dall'altro, doveva aver grossolanamente sovrastimato la distanza percorsa da Colombo, riproponendo l'esagerata registrazione della longitudine fatta dall'ammiraglio, come se l'avesse fatta per proprio conto. Così, se non si rispecchi in un globo dalla circonferenza molto stretta com'era quello indicato da Colombo, Vespucci immaginò però un mondo relativamente piccolo, dove l'Asia sorgeva appena dietro l'angolo, per così dire, rispetto alle scoperte dell'ammiraglio. Privo di qualsiasi conoscenza pratica del mare, era troppo ottimista riguardo alla distanza e alla velocità che una nave poteva coprire.

Eppure Vespucci cominciò una vera e propria campagna per costruire una nuova immagine di sé ancor prima di rientrare dal viaggio transoceanico. Divenne così Amerigo Vespucci, il navigatore celeste, pilota dei cieli, maestro nell'arte della determinazione della latitudine e della longitudine, mago fiorentino in azione. «E perché» scrisse a Lorenzo di Pierfrancesco «se ben mi ricordo, Vostra Magnificenza so che intende alcun tanto di cosmografia, intendo descrivervi quanto fummo con nostra navigazione per via di longitudine e di latitudine.» L'autostima di Vespucci quale esperto di nautica appare improvvisa, sorprendente e non annunciata, come se un solo viaggio gli avesse dato l'opportunità per impratichirsi in una nuova arte nella quale si rivelò esperto, come Minerva che venne alla luce già armata. Quanto era plausibile questa immagine?

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4. I libri dell'incantatore

Nella mente di Amerigo, 1500-1504: peripezie letterarie

Le fonti corrotte sono una spina nel fianco della storia dell'esplorazione che, più di qualsiasi altro campo della storia, dipende dalle mappe e dai racconti autobiografici: documenti tipicamente soggetti a essere alterati, distorti, emendati e falsificati.

La struttura stessa del commercio di libri e mappe favorisce i contraffattori moderni, che hanno fatto fortuna attraverso ingegnose falsificazioni. Alla sua prima comparsa, la mappa di Vinland, una presunta registrazione del XV secolo degli attraversamenti atlantici norreni, ingannò alcune delle più grandi autorità del tempo. La Yale University spese una cifra non meglio specificata per acquistarla. Eppure, con il senno di poi, sembra incredibile che qualcuno abbia potuto farsi raggirare o che esistano ancora persone che ne sostengono l'autenticità. La sua provenienza non è verificabile e il formato non corrisponde ai prodotti cartografici del periodo. Il caso di Colombo ha generato i raggiri più spettacolari e ridicoli di tutti i tempi, compreso un giornale di bordo che egli stesso avrebbe scritto in inglese, apparso misteriosamente in tempo per essere messo in vendita in occasione del quattrocentesimo anniversario della prima traversata dell'Atlantico. Il fatto che fosse intitolato My Secret Log Boke (che suona un po' come "il mio diario segreto") non impedì all'editore che se ne occupava di produrne un'edizione limitata in pergamena e cartapecora. Più o meno nel periodo in cui apparve il falso giornale di bordo, la duchessa di Alba acquistò una mappa di Hispaniola che si supponeva prodotta dallo stesso Colombo, e che continuò ad apparire in gran parte dei libri illustrati sull'ammiraglio, a dispetto della sua falsità. Una lunga serie di contraffazioni spacciate come manoscritti o prime edizioni del primo resoconto di Colombo sul Nuovo Mondo era già in circolazione. Quando la New York Public Library ne rifiutò uno, il venditore lo fece a pezzi e lo gettò in un cestino; í frammenti, recuperati accuratamente ricostruiti, divennero una curiosità della collezione? Giusto in tempo per il cinquecentenario della scoperta dell'America, pare che il governo spagnolo abbia pagato a un venditore di libri di Barcellona 67 milioni di pesetas per un manoscritto fino ad allora sconosciuto: la presunta copia di una collezione di documenti autografi di Colombo. La provenienza del documento non è stata ancora resa pubblica e, benché molti rispettabili studiosi si siano affrettati ad apprezzare questa nuova ipotetica risorsa di studio, vi sono diversi motivi per essere scettici al riguardo.

I falsificatori moderni rientrano, in un certo senso, in una rispettabile tradizione. Gli stessi esploratori, insieme a curatori, editori e traduttori contemporanei, sono sempre stati notoriamente disinvolti nel trattamento dei fatti. Interessi personali, ossessioni, autoesaltazíoní, delusioni ed evidenti bugie alterano i loro racconti perché autobiografici, e si sa che l'autobiografia è l'arte più appassionata e infetta che esista. L'esagerazione è il minore dei peccati tra quelli tipici del genere.

Soltanto un folle, come disse il dottor Johnson, scrive per altro che per denaro. La letteratura di viaggio soffre dello stesso vizio di tutti gli scritti popolari: per vendere, deve essere sensazionalista. In ogni scrittore di viaggi si annida un barone di Münchhausen, tentato di stuzzicare e mettere alla prova la credulità dei propri lettori. Gli editori lo spalleggiano, come ambasciatori di mammona, e apportano i loro "miglioramenti" editoriali. Nel tardo Medioevo e all'inizio dell'età moderna, ciò si tradusse spesso in grossolane alterazioni che miravano a rendere il libro più appetibile: quel che oggi chiameremmo "semplificazione" – íl taglio degli elementi ritenuti troppo eruditi –, accompagnata dall'"integrazione" – l'inclusione di episodi immaginari o plagiati per aggiungere sapore a una narrativa troppo inibita dalla verità.


L'effetto sirena delle fonti

La tradizione fu una delle cause dell'alterazione. Difficilmente i libri di viaggio medievali venivano giudicati completi senza la presenza di ciò che lettori ed editori chiamavano mirabilia: prodigi, creature mostruose, incantesimi, luoghi e popoli favolosi, topografie e climi anomali. Ciò fu senz'altro vero dal XII secolo in poi. Paradossalmente, la rinascita della cultura classica aveva rinnovato la fede nei mostri che gli scrittori greci e latini avevano celebrato, ma di cui alcuni scrittori cristiani avevano dubitato. Plinio il Vecchio, il più prolifico scrittore antico di storia naturale, contribuì a creare un'atmosfera che favorì la credenza nell'esistenza di «fantasmi di uomini». Egli argomentò, a ragione,

di non dover tralasciare alcune notizie, soprattutto quelle concernenti popoli che vivono lontano dal mare, talune caratteristiche dei quali appariranno, ne sono certo, prodigiose e incredibili a molti. Chi infatti credeva agli Etiopi, prima di vederli? Quale fatto non sembra straordinario, nel momento in cui se ne prende per la prima volta conoscenza? Quante cose non si ritengono impossibili, prima che accadano?

Un lunga lista di mostri seguì questi saggi commenti, tra cui: gli arimaspi, che avevano un unico occhio in mezzo alla fronte; i nasamoni, tutti ermafroditi; uomini con le pinate dei piedi rivolte all'indietro e con otto dita per piede; i cinocefali, dalla testa di cane; gli sciapodi, con un unico grande piede; uomini senza collo e con gli occhi sulle spalle; i coromandi, con il corpo ricoperto di peli, che emettono latrati come i cani; gli astomi, privi di bocca, che si nutrono inalando aria e odori; uomini con la coda; uomini che potevano avvolgersi nelle loro enormi orecchie. Plinio credeva anche in diverse razze di giganti e antropofagi, di cui in seguito Vespucci avrebbe dato conferma per esperienza personale. «Queste particolarità» conclude Plinio «e altre simili – oggetto di gioco per lei, di ammirazione per noi – la natura ingegnosa ha creato nel genere umano.»

Le meraviglie mitiche si fecero strada nei libri di viaggio. I lettori se le aspettavano e quindi ne facevano richiesta. Per competere con il fascino dei romanzi, scrittori ed editori di letteratura di viaggi reali dovettero prendere in prestito materiale o abbellire i propri lavori con invenzioni di proprio pugno. Episodi mitici della storia di Alessandro Magno, molto comuni nelle versioni medievali, includevano la scoperta della fonte dell'eterna giovinezza e del paradiso terrestre, e gli incontri con grifoni, amazzoni e popoli senza bocca. Tutto ciò compariva in un genere letterario altrimenti realistico. Simili aggiunte fantasiose si ritrovano anche nei ricordi di Marco Polo, uno dei più famosi e venduti autori di viaggio dell'epoca. Marco fu per lo più veritiero, ma i critici chiamarono il suo diario Il milione, che potrebbe essere tradotto come "mister Milione" o "l'uomo da un milione di storie", con riferimento alle esagerazioni che lui stesso o l'editore avevano aggiunto per rendere l'opera più accattivante. Anche le vere meraviglie della Cina sembrarono incredibili ai lettori occidentali, ma la maggior parte delle edizioni giunte fino a noi racconta di uomini dalla testa di cane, isole di uomini calvi e isole separate per gli uomini e le donne, che si incontravano soltanto per fare figli. Leggende provenienti dai romanzi su Alessandro si mescolavano con episodi reali anche nel più famoso libro di viaggio del Medioevo, nonché il preferito di Vespucci: quello di Sir John Mandeville, scritto nel XIV secolo, talmente pieno di storie inverosimili, prodigi sensazionali, assurdità, storielle e trucchi retorici che la maggior parte dei lettori moderni lo ritiene completamente inverosimile.

In breve, i generi del romanzo d'avventura, della letteratura di viaggio e dell'agiografia erano così compenetrati che risultava difficile distinguere realtà e finzione. Quel che è certo è che i lettori credevano agli elementi romanzati nei libri di viaggio e confondevano opere di fantasia con opere storiche. Prova ne è il fatto che queste ultime a volte includessero passaggi dalla letteratura di fantasia in quelli che si supponevano essere resoconti accurati, alla pari di documenti degni di fede, riproducendo talvolta intere leggende come fatti veri. John Dee, mago-astrologo alla corte di Elisabetta I, interpretando erroneamente i racconti di re Artù, secondo i quali il leggendario sovrano avrebbe conquistato la Russia, la Groenlandia, la Lapponia e il Polo Nord, ne trasse la prova dell'esistenza di un antico impero marittimo inglese. António Galvão, un portoghese suo contemporaneo, fu tanto convinto della veridicità di un racconto del XIV secolo su un navigatore atlantico che lo incluse nella sua storia dell'impero portoghese, e da allora in poi sarebbe rimasto radicato in opere autorevoli.

Delusione e autoinganno furono fondamentali anche nell'ispirazione degli scrittori di viaggio. Interpretazione personale e fantasia distorcono le percezioni di viaggiatori colti e creativi, spinti a vedere cose che non esistono nella realtà, ma solo nella loro immaginazione o nel ricordo. Colombo era un rozzo autodidatta in confronto a Vespucci, ma i suoi scritti furono comunque pieni di artifici – il fuoco di un mago, nutrito da fantasia e visioni. Quando descrisse le proprie scoperte, catalogò alberi ibridi mai esistiti in nessuna zona del mondo e una profusione di fauna e flora che neanche il paradiso avrebbe potuto contenere (pp. 133-140). Udì il canto degli uccelli in mezzo all'oceano e vide una figura spettrale, vestita di bianco, svolazzare tra gli alberi di una foresta cubana. Gli storici sono impazziti considerando i suoi scritti di viaggio come autentici giornali di bordo che descrivevano una rotta reale e tentando di utilizzarli per capire dove fosse sbarcato la prima volta nel Nuovo Mondo; ma in realtà gli scritti di Colombo andrebbero semplicemente considerati alla stessa stregua di un'opera poetica, priva di dati reali.

La maggior parte dei fraintendimenti che viziano le letture di fonti di questo genere derivano da tre errori. Primo, è sbagliato distinguere storia e letteratura. La storia è un tipo di letteratura; la letteratura è una fonte per la storia. Secondo, una volta fatto l'errore di dividere i due generi, si commette lo sbaglio di incasellare i racconti degli esploratori nella prima delle due categorie, mentre di solito si inseriscono meglio nella seconda. Terzo, è vitale ricordarsi che gli scritti riguardanti il mare si infradiciano delle proprie tradizioni, per le quali l'oceano è un'arena divina, dove la fortuna cambia con il vento e le stelle che, secondo i saperi astrologici, sono messaggeri divini.

Non è che i marinai siano particolarmente inaffidabili quanto ai ricordi. È che i ricordi sono per chiunque un mezzo contaminato. Quando registriamo e immagazziniamo i ricordi di un'esperienza reale, il fuoco della sinapsi imprime nel nostro cervello immagini estranee tratte dalle arti e dalla letteratura; l'inondazione di proteine si infrange in esagerazioni ed errori provenienti dall'esterno. Tendiamo così a fondere ciò che abbiamo realmente vissuto con quanto abbiamo letto, sognato o sentito. Ciò accadde sicuramente a Vespucci che, nel riportare le proprie esperienze, le filtrò attraverso le sue letture.

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La geografia delle scoperte

Nel passaggio appena citato, Vespucci parla per la seconda volta di quella terra come degli «antipoti» (p. 91). In effetti, si era conformato a un'interpretazione del Nuovo Mondo già popolare presso i geografi umanisti. America doveva essere un nome diverso per una grande distesa di terra di cui la cosmografia classica aveva già previsto l'esistenza. In realtà, l'esistenza di un'altra distesa di terra, o più di una, era ammessa diffusamente nell'antichità, almeno fino all'epoca di Strabone: i geografi accettavano l'idea che vi fossero altri continenti paragonabili a quello che ora potremmo chiamare Afro-Eurasia o Vecchio Mondo, più o meno come molti scienziati oggi sostengono l'ipotesi che la Terra non sia l'unico pianeta adatto alla vita. Tale opinione divenne in seguito minoritaria e non scomparve mai del tutto dal repertorio delle teorie geografiche a disposizione degli studiosi. In Spagna, gli Antipodi comparivano su quasi tutte le mappe medievali.

A partire dal XII secolo, via via che i testi antichi riprendevano vita alla luce delle candele degli studiosi, l'ipotesi dell'esistenza degli Antipodi fu trattata con sempre maggiore libertà. Una vasta distesa di terra a sud dell'equatore avrebbe bilanciato e perfezionato la distribuzione delle terre nell'emisfero settentrionale. «Perché sapiate» diceva Sir John Mandeville ai suoi lettori «quelli che sono al dritto de lantartico elli sono drittamente piedi contra piedi a quelli che sono al dritto dello artico, e così quelli che dimorano intorno al polo per dritta oppositione stanno piè contra piè». Inoltre, o forse in alternativa, le dimensioni della Terra sembravano permettere, e perfino richiedere, che un continente sconosciuto si estendesse nel mezzo dell'oceano.

La riscoperta di Strabone, come abbiamo già visto (p. 21), scatenò un dibattito al riguardo tra i geografi fiorentini del XV secolo. La controversia venne ulteriormente alimentata nel 1471, quando l'opera del contemporaneo di Strabone, Pomponio Mela, fu data per la prima volta alle stampe. L'influenza di Mela aveva già un certo rilievo: sono giunti fino a noi, infatti, oltre un centinaio di manoscritti del XV secolo. Da allora in poi divenne ancora più influente. Pedro Álvares Cabral ne possedette una copia a bordo della sua nave. Mela non impiegò il termine Antipodi, ma ipotizzò l'esistenza di quel che chiamava Anticton: una "anti-terra" nell'emisfero meridionale rimasta sconosciuta e inesplorata «per via del calore delle distese che stavano in mezzo», ma almeno in teoria abitabile.

Le congetture di Mela si mescolavano a quelle di altri testi. Macrobio, per esempio, un enciclopedista bizantino vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo, fu uno degli scrittori più copiati dagli amanuensi durante il Medioevo, a partire dal XII secolo, soprattutto perché considerato un'autorità nel campo dell'interpretazione dei sogni. La sua non fu una geografia sistematica, ma egli fece molte annotazioni di tipo geografico, che gli studenti medievali erano soliti imparare a memoria. In particolare, dedicò alcune righe a un tentativo di ricostruire l'immagine mentale del mondo che aveva Cicerone – un eroe per ogni umanista dell'epoca di Vespucci. Macrobio sosteneva che il mondo fosse una sfera divisa in tante zone abitabili ma inaccessibili l'una all'altra e separate da climi impenetrabili. Tra queste vi era la terra degli anteci, che occupava una regione temperata nell'emisfero meridionale, sotto la zona torrida, e gli antipodi, che si trovavano in una regione di freddo insopportabile.

Uno scrittore romano della generazione successiva, Marziano Capella, a giudicare dai riferimenti e dai manoscritti, fu «uno tra la mezza dozzina di scrittori più popolari e influenti del Medioevo». La sua opera, dal titolo Le nozze di Filologia e Mercurio (De nuptiis Mercurii et Philologiae), una summa degli studi scolastici tradizionali dell'epoca, fu stampata a Vicenza nel 1499, ma era già ben nota alla generazione di Vespucci tramite le copie manoscritte. Il libro conteneva un lungo excursus sulla geografia che era, di fatto, un'apologia del metodo di utilizzo degli strumenti per misurare la Terra ideato da Vespucci, lo stesso progetto che era stato oggetto di satira ne La nave dei folli (p. 83). La personificazione della Geometria di Marziano reca con sé righello, compasso e mappamondo e afferma di saper misurare il firmamento e descrivere la Terra. La descrizione che segue insiste, piuttosto ragionevolmente, sul fatto che le zone climatiche dell'emisfero settentrionale si ritovassero identiche anche in quello meridionale. Oltre l'equatore vivevano gli antiokoi. Più a sud, vi era la regione degli antictoni, dove le stagioni erano inverse rispetto all'emisfero settentrionale. Gli Antipodi, propriamente detti, erano abitanti dell'emisfero settentrionale, dall'altro lato del mondo, dove era giorno quando per noi era notte, e viceversa. Molti scrittori medievali, incluso Mandeville, adottarono questa confusa terminologia. Marziano, tuttavia, era concorde con chi credeva in un mondo abitato nell'emisfero meridionale che aspettava di essere scoperto. Egli fu, comunque, attento a sottolineare che non bisognava aspettarsi che questi abitanti degli Antipodi fossero creature simili a noi per ragione o apparenza.

Vespucci aveva, dunque, familiarità con l'idea degli Antipodi e le possibilità che attiravano in quel luogo, anche prima di vedere il Nuovo Mondo o di spingersi fino all'emisfero meridionale. Tuttavia, due argomentazioni importanti contrastavano con queste idee, o almeno con la possibilità che queste terre, se mai fossero esistite, avrebbero potuto essere disabitate. Innanzitutto, poiché si presupponeva che il mondo fosse una sfera perfetta e la gravità e il moto terrestre erano ancora sconosciuti, sembrava incredibile che gli abitanti di un continente meridionale potessero restare attaccati alla Terra senza cadere. Inoltre, un continente sconosciuto non poteva avere abitanti perché, secondo le scritture, la dottrina cristiana era stata rivelata in tutta la Terra e nessun angolo di essa poteva essere stato inaccessibile ai predicatori del vangelo. Quando Colombo, nella sua ricerca di finanziatori, aveva nominato gli Antipodi come possibile obiettivo della traversata oceanica, gli esperti incaricati di visionare i suoi progetti commentarono: «Sant'Agostino ne dubita».

Ma non appena Colombo fece ritorno, gli studiosi che conoscevano bene i classici videro subito nelle sue scoperte la prova che gli Antipodi esistevano veramente. Per chiunque accettasse i metodi tradizionali di calcolo delle dimensioni terrestri, nessun'altra interpretazione era possibile, poiché era ovvio che Colombo non si era spinto abbastanza lontano da raggiungere l'Asia. Pietro Martire d'Anghiera, umanista alla corte di Ferdinando e Isabella, annunciò che lo scopritore era «tornato dagli Antipodi», anche se i sovrani «reputavano favolose le cose che diceva». Nel 1497 un predicatore a Roma lodò l'esploratore «per aver portato il nome di Cristo agli Antipodi, che in precedenza non pensavamo nemmeno esistessero». Non molto tempo dopo, a Firenze, le scoperte di Colombo furono definite come «l'altro mondo opposto al nostro». Colombo stesso non avallò esplicitamente questa opinione. Quel che fece fu scoprire e capire in modo corretto che si trattava di terre di dimensioni continentali, che oggi fanno parte del Sud America, nonostante abbia continuato per tutta la vita a considerarle molto vicine al continente asiatico.

Tenuto conto della tenacia con cui la tradizione ha erroneamente ritenuto Vespucci come il primo uomo ad aver percepito il Nuovo Mondo come un continente, è importante sottolineare che egli stava soltanto seguendo il suo solito mentore. Colombo aveva già capito, grazie alla sua ineccepibile osservazione, di essere sbarcato in un continente durante il suo terzo viaggio, nell'agosto del 1498. Navigando davanti alla foce dell'Orinoco, egli aveva dedotto che quell'enorme quantità d'acqua dolce doveva provenire da un fiume altrettanto enorme, e quindi l'entroterra doveva avere dimensioni continentali per poterne essere attraversato. Era giunto alla conclusione di aver scoperto «una terra infinita, posta a mezzogiorno, della quale fino al presente non s'è avuta notizia [...] un altro mondo». E aveva insistito, ancora, che «né in Tolomeo né in altri che scrissero del mondo si ha notizia di questa metà di esso, per essere del tutto ígnota». Un'esatta descrizione e caratterizzazione del "mondo nuovo", la cui identificazione fu in seguito attribuita a Vespucci. Le considerazioni di Colombo sono invece, con tutta evidenza, le fonti di Vespucci.

Ciò non significa che Vespucci non vide mai veramente il mondo che tutti ritennero che avesse scoperto, ma solo che non lo vide mai con occhi totalmente nuovi. Il continente che aveva prospettato, inoltre, non era quello che adesso chiamiamo Americhe. Era una questione che riguardava strettamente l'emisfero meridionale. Per Vespucci, la terra di dimensioni continentali appena scoperta era "nuova" e sorprendente proprio perché situata a sud dell'equatore. In altre parole, si trattava dei leggendari Antipodi. Egli ne fu convinto finché la ebbe sotto gli occhi. Cambiò opinione dopo essere tornato a casa e averci pensato su con più calma? Il "mondo nuovo" di Mundus Novus era semplicemente quello degli Antipodi? Oppure un contributo realmente originale alla teoria geografica che non aveva precedenti nei testi antichi e medievali? Quanto era "nuovo"? E "nuovo" in che senso? Esaminando attentamente Mundus Novus, salta agli occhi l'assenza di qualsiasi ulteriore riferimento agli Antipodi. Ma a mio avviso quest'idea appare implicita.

[...] quelli novi paese, i quali [...] havemo cercato et retrovato [...] Novo Mondo chiamare sta licito, perché apresso de i mazori nostri niuna de quelli è stata hauta cognitione, et a tuti quelli che aldiranno sera novissime cose. Imperoché questo la oppinione de li nostri antiqui excede, conciosia che de quelli la mazor parte dica ultra la linea equinotiale et verso el mezo zorno non esser continente, ma el mare solamente, el qual Atalantico hanno chiamato; e si qualche uno de quelle continente lì esser hanno affirmato, quella esser terra habitabile per molte rasione hanno negato. Ma questa sua oppinione esser falsa et a la verità ogni modo contraria, questa mia ultima navigatione he dechiarato, conciosia che in quelle parte meridionale el continente io habia retrovato de più frequenti populi et animali habitato de la nostra Europa o vero Asia o vero Affrica, et anchora l'aere più temperato et ameno che in que banda altra regione de nui cognosciute [...].

Per comprendere il significato di questo passaggio, è importante rendersi conto che Vespucci non stava soltanto riportando delle osservazioni, ma stava gettandosi nell'agone letterario e combattendo l'epica "Battaglia dei Libri", riaccendendo le controversie che erano in corso nella Firenze della sua gioventù, quelle scatenatesi dopo la riscoperta di Strabone, fomentate da Paolo del Pozzo Toscanelli (p. 13) e rese incandescenti dai viaggi di Colombo.

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Che cosa c'è in un nome?

Il successo di Mundus Novus fu decisivo per la fama di Vespucci. Fu un vero bestseller. Nei primi due anni dalla pubblicazione apparvero edizioni in rapida successione a Firenze, Augusta (la prima edizione datata, nel 1504), Venezia, Parigi, Anversa, Colonia, Norimberga, Strasburgo, Milano, Roma e Rostock. Traduzioni in lingua tedesca, fiamminga e ceca apparvero nello stesso periodo. Diffusione ulteriore si ebbe grazie a una famosa compilazione redatta da un umanista vicentino nel 1507, Paesi nuovamente retrovati et Mondo Nuovo da Almerico Vesputio fiorentino intitolato. Questa fu la prima pubblicazione che diede a Vespucci il credito necessario a coniare l'espressione "mondo nuovo", anche se Pietro Martire lo aveva preceduto almeno di tre anni e Colombo aveva chiamato l'America «altro mondo» ben prima di lui (pp. 142-143). Giovanni Battista Ramusio incluse Mundus Novus nel primo volume della sua compilazione di grande successo, dal titolo Navigationi et viaggi, pubblicata a Venezia nel 1550. Insieme alla Lettera al Soderini, il libretto portò a Vespucci «immortalità in trentadue pagine», come disse Stefan Zweig. Di per sé, però, Mundus Novus non può aver indotto il mondo a chiamare l'emisfero appena descritto con il nome di Vespucci, anzi l'opera stabiliva una denominazione alternativa, che molti ancora preferiscono. Il nome America fu assegnato all'insaputa e fuori del controllo di Amerigo.

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Questa mappa servì da modello per la stampa dei segmenti di globo, che Waldseemüller pubblicò nello stesso anno, che potevano essere incollati su una sfera di legno e colorati a mano: il primo mappamondo stampato al mondo. Anche qui Waldseemüller usò il nome America per indicare quello che è individuabile oggi con il Brasile. Vennero stampate più di mille copie di questo lavoro eccezionalmente fragile, sebbene oggi ne resti soltanto una. Sia i segmenti di globo sia la mappa, secondo quanto Waldseemüller stesso registrò con orgoglio nel 1508, furono «distribuiti nel mondo, non senza lode e gloria». Ci si chiede che cosa sia successo a tutte le copie che sono andate perdute di entrambe le mappe. È difficile immaginare che qualcuno le usasse per il loro scopo originale. Entrambe furono essenzialmente esperimenti poco funzionali e troppo ambiziosi.

Il testo della Cosmographiae Introductio costituiva, in un certo senso, un commento esteso alle mappe, tra cui quella più grande avrebbe certamente dominato la stanza di qualsiasi studioso abbastanza incauto da appenderla a una parete. Avrebbe suscitato sicuri commenti da parte dei visitatori. La versione realizzata per il mappamondo, dal canto suo, sarebbe stata una novità in qualsiasi ambiente, diventando quello che gli arredatori d'interni chiamerebbero "oggetto di conversazione". Il suo proprietario avrebbe avuto bisogno di un manuale d'istruzioni.

Nel loro testo, Waldseemüller e Ringmann spiegarono in modo esplicito perché avevano scelto il nome America. Si trattava di pagare il tributo a Vespucci, proponendo per il nuovo continente una versione femminile di Americus, nome latino di Amerigo, per analogia con le forme femminili di Africa, Asia ed Europa. Essi descrivevano i tre continenti noti a Tolomeo e continuavano:

Poiché queste parti del mondo [...] furono ampiamente esplorate e ora una quarta parte è stata trovata da Amerigo Vespucci, [...] non vedo ragione perché non debba essere chiamata dal suo scopritore Amerigen o America, ossia terra d'Amerigo, uomo di grande ingegno, così come l'Europa e l'Asia hanno tratto il loro nome da quello di donne.

Come si è visto, l'uso di Vespucci dell'espressione «quarta parte» era molto diverso dall'interpretazione di Waldseemüller e Ringmann. In ogni caso, Colombo lo aveva anticipato sia nello scoprire il "nuovo mondo", sia nell'identificarlo come nuovo continente. Ma l'impatto combinato di Mundus Novus e della Lettera al Soderini convinse altrimenti gli autori dell' Introductio. Ovviamente, non fu mai loro intenzione applicare il nome all'intero emisfero delle Americhe, ma soltanto alla porzione a sud dell'equatore, dove la tradizione collocava gli Antipodi e dove Vespucci pensava di averli trovati.

Per quanto radicali e poco maneggevoli fossero le mappe che la accompagnavano, l' Introductio ebbe un successo straordinario. Apparvero quattro edizioni soltanto nel 1507 e altre continuarono a essere pubblicate. Le mappe di Waldseemüller erano troppo straordinarie, trionfi tali dell'arte della cartografia e della stampa che non poterono non essere notate e ammirate dagli altri cartografi. Il nome America attecchì. Alcuni autori preferivano Terra Sanctae Crucis o varianti di Brasile oppure Nuovo Mondo. Ma questi nomi spesso incorporavano anche quello di America. Nel 1510, un insegnante di Friburgo, Heinrich Glarean, realizzò alcuni schizzi della mappa di Waldseemüller del 1507, includendo il nome America. Un mappamondo di legno dipinto del 1513 -1515, chiamato "il globo verde" e ora conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi, usava il nome America due volte, sia nella metà settentrionale del nuovo emisfero, sia in quella meridionale. Nel 1515, Johann Schöner scrisse una descrizione intitolata Luculentissima quaeda[m] terrae totius descriptio, pubblicata a Norimberga. Basandosi abbondantemente sull'opera di Waldseemüller, ma avendo conoscenza diretta di Mundus Novus, egli fece riferimento all'emisfero occidentale come America o Amerige, usando anche Nuovo Mondo come epiteto secondario. I giganti, i cannibali e l'enfasi sulla nudità dei nativi americani presenti in Vespucci riempivano il racconto di Schöner. Come Waldseemüller, anche lui in seguito sarebbe tornato sui propri passi: il suo Opusculum Geographicum del 1533 indicava Vespucci come ingiusto pretendente al merito della scoperta dell'America.

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Vespucci e Colombo

È arrivato il momento di affrontare la questione più discussa della vita di Vespucci: egli depredò volontariamente o no Colombo dell'onore delle sue scoperte? Echi degli scritti di Colombo risuonano nell'opera di Vespucci, come se ne è data ampia prova. La traiettoria della vita di Vespucci non solo si interseca con quella di Colombo, ma la segue da vicino, dall'Italia alla Spagna e attraverso l'oceano Atlantico. Per gran parte della sua vita, Amerigo fu alla mercé dell'ammiraglio.

II rapporto tra i due fu complesso. Nel 1510, durante un'udienza davanti a un notaio riguardo l'autenticità dell'autografo di Colombo, Vespucci rese testimonianza affermando di conoscere Colombo da venticinque anni, un'ovvia ma giustificabile esagerazione. Egli affermò inoltre di conoscere bene la calligrafia dell'ammiraglio «perché questo testimone lo ha visto scrivere e firmare in molte occasioni e perché è stato collaboratore del detto signor don Cristóbal Colón, e ha tenuto i suoi registri». Non vi sono ulteriori conferme di tale affermazione, ma il rapporto di Vespucci con Colombo era chiaramente intimo e di lunga data. Egli aveva trascorso del tempo in casa dell'ammiraglio, talvolta per ragioni di lavoro, altre volte per procurarsi idee e informazioni, o ancora — si è tentati di pensare — per ricevere sostegno emotivo.

Colombo, in cambio, aveva bisogno dei servizi che Vespucci gli offriva, alle dipendenze di Giannotto Berardi, per rifornire di navi e spezie le sue flotte atlantiche. La sua attività fu, per così dire, la sirena che attirò sugli scogli gli affari di Berardi, spingendo Vespucci quasi alla rovina. D'altro canto, il pionierismo di Colombo ispirò ad Amerigo una nuova carriera nel momento in cui i suoi affari a Siviglia erano falliti, e fu lui che gli fece intravedere l'opportunità di fare profitti con le perle dell'Atlantico. Quando la carriera atlantica di Vespucci ebbe inizio, la cattiva sorte di Colombo gli diede la possibilità di navigare con Alonso de Hojeda, infrangendo il monopolio dell'ammiraglio. Così Colombo e Vespucci si trovarono incastrati in una reciproca dipendenza. Ognuno beneficiava della sfortuna dell'altro. Ognuno pativa il successo dell'altro. La somiglianza li teneva uniti. Colombo se ne accorse, riconoscendo nel fiorentino un compagno di sventure nella causa dell'esplorazione. Connessioni così comuni e profonde significavano probabilmente che se non è zuppa è pan bagnato.

I loro caratteri e le loro opinioni avevano molto in comune. Vespucci non condivideva la religiosità messianica di Colombo ed era meno profondamente imbevuto di cavalleria e agiografia, ma entrambi erano inclini a romanzare, specialmente se stessi. Entrambi furono maestri di esagerazione, con la tendenza a scivolare spesso nella menzogna. Condivisero una spinta motivazionale di base: l'ambizione sociale, che nel caso di Colombo si traduceva nell'elevazione al rango di nobile, mentre in quello di Vespucci nel conseguimento di «fama e onore». Essi dedicarono molto tempo allo stesso progetto: cercare l'Est attraverso l'Ovest. Sebbene Vespucci non avesse seguito Colombo nella stima delle dimensioni del globo, entrambi furono d'accordo nelle principali idee geografiche: un mondo relativamente piccolo, la possibilità di una rotta occidentale per l'Asia e l'esistenza di un nuovo continente antipode nell'oceano Atlantico, a sud dell'equatore. Colombo fu un po' titubante, ma entrambi ritennero di averlo trovato o, piuttosto, furono d'accordo nell'identificare il Sud America come una continente «nuovo» o «altro». Ma furono d'accordo anche su chi lo raggiunse per primo?

L'unico riferimento che Colombo fece al suo rivale ricorre in una lettera al figlio, datata 5 febbraio 1505, scritta a Siviglia, quando egli, ormai vecchio, malato e stanco delle avversità, rivolse tutte le sue ultime deboli energie contro la corona castigliana. Vespucci portò la lettera a destinazione. Il ritratto che essa dava di lui era simile a quello già emerso in documenti precedenti. Da un lato, Amerigo appariva come un affabile faccendiere, un affidabile uomo d'affari, di cui Colombo si fidava. Dall'altro, era una vittima sfortunata e ingenua delle rapine di altri uomini, qualcuno che Colombo commiserava.

Entrambe le immagini scaturivano dallo stesso Vespucci, che sembrava non aver perso nulla della credibilità che aveva già disinformato tanti suoi ammiratori — e che continua a farlo tuttora. «Egli ha sempre avuto desiderio di compiacermi» furono le parole di Colombo, nelle quali sono quasi percepibili le insinuazioni di Vespucci. «È un uomo molto dabbene, ma la fortuna gli è stata contraria come a molti altri.» Si avverte qui il timbro dei metodi vespucciani nel persuadere i propri interlocutori. Colombo si sentiva trattato ingiustamente e Amerigo incoraggiò quel sentimento per ottenere quell'approvazione che si tende a dare a chi conferma l'immagine che abbiamo di noi stessi. «Viene per cercare di fare per me tutto il possibile» continuava Colombo, sempre rivolto al figlio per raccomandare Vespucci, «vedi tu come possa essermi utile e come possa adoperarsi per questo; egli farà tutto e parlerà e agirà, ma sia fatta ogni cosa in segreto, affinché non si sospetti di lui.» L'appello alla segretezza è espediente comune di chi promette molto, ma intende poco. A quanto pare, Vespucci non intercedette mai a corte in favore di Colombo ma, promettendo di farlo, si guadagnò utili alleati per i propri interessi. L'ammiraglio aggiungeva poi di aver confidato ad Amerigo tutto ciò che poteva riguardo i suoi affari. L'ospite aveva imparato molto sull'attività di Colombo e all'apparenza non aveva ricambiato in altro modo se non con la sua presenza. In base a questa lettera, possiamo affermare con una certa sicurezza che Amerigo esagerò la disponibilità che era disposto a concedere a Colombo, ma è cosa diversa dal supporre che egli abbia intenzionalmente pianificato di raggirare il vecchio ammiraglio o di derubarlo del suo buon nome.

Il nome America nacque da un errore innocente. Come si è visto, all'epoca Waldseemüller credeva davvero che Vespucci avesse scoperto il continente per conto degli europei. Vespucci non fu direttamente responsabile dell'inganno che scaturì dalla Lettera al Soderini. Il nome America è un po' come la Lettera: un'opera su cui Vespucci non vanta diritti, se non quelli che altri gli hanno attribuito. Quando Waldseemüller rivide il proprio lavoro, sette anni più tardi, riconobbe l'errore, ma il nome si era ormai diffuso a macchia d'olio, andando a coprire l'intero emisfero occidentale e fissandosi nella memoria degli abitanti del Vecchio Mondo. Inizialmente sembrò un nome un po' grossolano, ma suonava bene e la storia dell'America, da allora in poi, gli avrebbe dato ancora più risonanza.

Questa, forse, è la ragione per cui i sostenitori di Vespucci non hanno mai accettato la ritrattazione di Waldseemüller, giustificando con tenacia l'affermazione di Amerigo – o quelle rese per suo conto mentre era in vita – di aver scoperto per primo il Nuovo Mondo. Secondo i suoi seguaci vi sono cinque motivi principali per ritenere valida la pretesa di Amerigo. Primo: Amerigo fu il primo a mettere piede nel Nuovo Mondo continentale. Il che è semplicemente falso. Secondo e terzo: sarebbe stato il primo a identificare quella che viene chiamata America come una terra di dimensioni continentali e a classificarla come un «mondo nuovo». Queste sono argomentazioni contestabili e Colombo, in entrambi i casi, rivendica maggiori diritti. Quarto: il nome America sarebbe giusto perché Amerigo la esplorò in lungo e in largo. È un'opinione ragionevole, ma difficile da dimostrare a causa della problematicità delle prove; è estremamente difficile stabilire quanta parte dell'America fu realmente esplorata da Amerigo e non gli si può attribuire molto per certo. Quinto: Vespucci propagandò il «mondo nuovo» in modo più efficace di chiunque altro. Il che è, come minimo, da verificare, anche se ricevette un inatteso aiuto dagli inventori della Lettera al Soderini e della Cosmographiae Introductio.

La partigianeria dipende dall'alterità: è necessario avere una parte diversa dalla propria per essere in disaccordo. Nel caso di Amerigo, l'altra parte sono i sostenitori di Colombo, che affermano – a ragione – la priorità dell'esplorazione del loro eroe e argomentano – in modo meno convincente – che l'idea che egli ebbe delle sue scoperte non fu inferiore a quella del rivale. Le fazioni iniziarono a prender forma nel XVI secolo. Poco dopo la morte di Vespucci, Sebastiano Caboto, il cui padre Giovanni aveva preceduto Amerigo attraverso l'Atlantico, e che come esploratore aveva anche lui delle straordinarie e improbabili rivendicazioni da fare, accusò Vespucci di mentire per appropriarsi della gloria della scoperta del Nuovo Mondo. Chi agì con l'intenzione di privare Colombo dell'onore della scoperta fu la corona castigliana, che si impegnò per gran parte del XVI secolo in una causa legale con i suoi eredi per la divisione dei profitti. I detrattori di Colombo ne furono incoraggiati, ma d'altro canto non era interesse dello stato sostenere Vespucci, che dunque non ricevette alcun aiuto dal regno. Francisco de Gómara, segretario e celebrante di Cortés, parlò della pretesa di Vespucci in termini evasivi ma decisamenti alteri: «che pure si dichiara scopritore delle Indie per conto della Castiglia». Bartolomé de Las Casas, primo devoto curatore di Colombo, liquidò Vespucci come bugiardo e si disse meravigliato che altri esperti, incluso il figlio dello stesso Colombo, non se ne fossero accorti. Vespucci «usurpò la gloria che spettava all'ammiraglio» e il continente non si sarebbe dovuto chiamare America, bensì «Columba».

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