Copertina
Autore Luigi Ferrajoli
Titolo La cultura giuridica nell'Italia del Novecento
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 1999, Universale 788 , pag. 122, dim. 110x180x13 mm , Isbn 978-88-420-5700-0
LettoreRenato di Stefano, 2001
Classe scienze sociali , storia contemporanea d'Italia , diritto
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Indice


   Parte prima

   Saggio sulla cultura giuridica italiana
   del Novecento

1. Cultura giuridica e istituzioni            5

2. La costruzione del paradigma «scientifico»
   del diritto e dello Stato nell'Italia
   liberale                                  15

3. La cultura giuridica durante il fascismo  37

4. La Costituzione del 1948 e la cultura
   giuridica del primo dopoguerra            49

5. La crisi del paradigma dell'autonomia del
   diritto negli anni sessanta e settanta    63

6. La crisi politica e costituzionale
   degli anni ottanta e novanta              77

   Parte seconda

   La filosofia giuridica analitica italiana.
   Bilancio e prospettive

1. Alle origini della filosofia
   gius-analitica italiana                   83

2. Sviluppo e crisi del giuspositivismo
   analitico italiano                        89

3. Le prospettive della filosofia analitica
   del diritto                               99

4. La filosofia analitica e il paradigma
   costituzionale della scienza giuridica   105

Indice dei nomi                             117

 

 

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Capitolo primo
Cultura giuridica e istituzioni



Per «cultura giuridica» può intendersi la somma di più insiemi di saperi e di atteggiamenti: innanzitutto l'insieme delle teorie, delle filosofie e delle dottrine giuridiche elaborate in una determinata fase storica da giuristi e filosofi del diritto; in secondo luogo il complesso delle ideologie, dei modelli di giustizia e dei modi di pensare intorno al diritto propri degli operatori giuridici di professione, siano essi legislatori o giudici o amministratori; in terzo luogo il senso comune intorno al diritto e ai singoli istituti giuridici diffuso ed operante in una determinata società. Tra il diritto positivo e la cultura giuridica esiste peraltro un rapporto di reciproca interazione. Il diritto può essere infatti concepito come un complesso linguaggio, al tempo stesso oggetto e prodotto della cultura giuridica: cioè come un insieme di segni normativi e di significati loro associati nella pratica giuridica da giuristi, operatori ed utenti, i quali tutti concorrono, in forme e a livelli diversi, alla sua produzione oltre che alla sua interpretazione.

Basterebbe questa nozione così ampia di «cultura giuridica» a scoraggiare come futile e illusorio qualunque tentativo di farne la storia lungo l'arco dell'intero Novecento nei limiti di spazio imposti da una raccolta di saggi sulla cultura italiana del nostro secolo. Questa avvertenza vale tanto più per un paese come l'Italia, che nel corso di questi cento anni ha visto succedersi tre sistemi politici e si appresta forse a vederne nascere un quarto: quello dell'Italia liberale ancora retta dallo statuto albertino, quello del fascismo e delle sue trasformazioni autoritarie e corporative, quello della prima repubblica nata dalla Costituzione del 1948 e quello che si profila all'orizzonte dopo la crisi generata, nei primi anni novanta, dal crollo del vecchio sistema dei partiti.

Proprio il rapporto di reciproca interazione che la cultura giuridica intrattiene con il diritto positivo suggerisce tuttavia una chiave di lettura della sua storia, la cui fecondità è stata del resto indicata e già sperimentata dalla recente storiografia del diritto italiano: il ruolo tanto decisivo quanto di solito trascurato svolto dalla scienza giuridica, attraverso le «immagini» e i «paradigmi» di Stato e di diritto da essa elaborati, nella formazione delle classi dirigenti del nostro paese, nonché nella progettazione, nel consolidamento ideologico e nel funzionamento pratico delle nostre istituzioni. Soccorre a tal fine la relativa semplicità della periodizzazione, scandita più che in ogni altro settore della cultura dalle rotture istituzionali ora ricordate; anche se il periodo più lungo, quello dell'Italia repubblicana, richiederebbe un'ulteriore periodizzazione: gli anni della Resistenza e della Costituente; il dopoguerra e gli anni cinquanta; la scoperta della Costituzione e le riforme negli anni sessanta e settanta; la crisi costituzionale negli anni ottanta e novanta.

L'ipotesi di lavoro qui avanzata è che il segreto del ruolo politico svolto dalla cultura giuridica nella costruzione dello Stato italiano e nella formazione dello spirito nazionale risieda, con paradosso apparente, in una doppia operazione di spoliticizzazione compiuta dai giuristi fin dalla seconda metà del secolo scorso: del loro oggetto d'indagine, ossia del diritto e dello Stato, dei quali essi teorizzarono la neutralità e l'apoliticità, e prima ancora del loro stesso lavoro, ossia della dottrina giuridica, che essi configurarono come «scienza» avalutativa. Queste due assunzioni, che al di là dei mutamenti politici e istituzionali rimarranno i postulati epistemologici della cultura giuridica almeno fino ai nostri anni sessanta, si inseriscono entrambe nella svolta antilluministica del liberalismo ottocentesco. Mentre il pensiero liberale illuminista si era posto il problema della giustificazione del diritto e dello Stato quali «artifici» da costruire, assumendo verso le istituzioni dell'antico regime un ruolo critico, di opposizione e trasformazione, il liberalismo ottocentesco si pone il problema opposto: quello della difesa e conservazione dello Stato liberale, ormai costruito e non più bisognoso di giustificazione, contro le minacce eversive delle nuove «classi pericolose».

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Sia l'idea della naturalità dello Stato che quella dell'autonomia del diritto traggono d'altra parte il loro principale sostegno dalla seconda assunzione sopra indicata: quella della dottrina giuridica come «scienza» e dell'attività del giudice e degli altri operatori come «tecnica», postulata dalla stessa cultura giuridica fin dalla seconda metà del secolo scorso. Questo paradigma della scientificità è infatti anche un paradigma della figura del giurista, che del resto la cultura giuridica trovava disponibile nella sua stessa tradizione: il vecchio modello sapienziale del giureconsulto, tramandato dal diritto romano e poi dal diritto comune, che proprio la pandettistica tedesca aveva riportato in auge. Non si trattava tuttavia della semplice riproduzione di un'innocua ideologia professionale, bensì di un'operazione meta-politica che veniva ad avallare come «scientifiche» le operazioni politiche compiute dai giuristi nella costruzione delle immagini già illustrate del diritto e dello Stato. Con un effetto di legittimazione reciproca: del diritto e dello Stato, accreditati come razionali e neutrali perché assunti come entità naturali dalla scienza giuridica; della dogmatica giuridica, accreditata come scienza perché rappresentazione e sistematizzazione di un universo naturalizzato.

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Questo ruolo politico della scienza giuridica è stato peraltro favorito da una sua caratteristica specifica: il fatto che essa è una scienza scarsamente visibile, inaccessibile ai non esperti di diritto per il suo carattere specialistico e perciò immunizzata dalla politica non solo dal suo statuto epistemologico, che esclude come extra-giuridico e (che è lo stesso) anti-scientifico qualunque sconfinamento sociologico e politologico, ma anche dalla sua separazione, quale disciplina tecnica, rispetto alla cultura generale. La letteratura giuridica - nonostante la sua mole sterminata, fatta di migliaia di riviste, centinaia di collane, decine di repertori ed enciclopedie e di una quantità incalcolabile di trattati, manuali e monografie - è infatti una letteratura destinata alla sola categoria dei giuristi, dei giudici, degli avvocati, degli amministratori e dei burocrati. Ma ciò non toglie che essa esprima una cultura egemone e talora esclusiva nel ceto politico e in quello giudiziario e amministrativo. Al contrario, proprio perché i giuristi leggono solo libri di diritto e i libri di diritto sono letti soltanto da giuristi, ne risulta al tempo stesso una loro autosufficienza culturale e una loro immunizzazione politica all'interno del ceto statale. È questa doppia impermeabilità - l'impermeabilità della cultura umanistica alla cultura giuridica e soprattutto viceversa - che caratterizza la figura professionale del giurista e in generale dell'uomo di legge, dotato di cultura giuridica ma di solito privo di qualunque altra cultura, e spiega la straordinaria capacità di resistenza della scienza del diritto ai mutamenti politici e culturali.

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Capitolo quarto
La Costituzione del 1948
e la cultura giuridica
del primo dopoguerra



Con la caduta del fascismo, la nascita della Repubblica e l'approvazione della Costituzione mutano radicalmente la forma dello Stato italiano e con essa l'intero paradigma del diritto. Il mutamento, di cui tarderà lungamente a prendere atto la cultura giuridica, si manifesta essenzialmente in quella stagione breve ed intensa della neonata democrazia che fu l'Assemblea Costituente, di cui la Carta costituzionale fu un «prodotto autogeno» dovuto alla qualità dei suoi componenti e alla forte tensione civile e politica che ne animò i lavori.

Inaugurata da Vittorio Emanuele Orlando, che nel suo saluto di deputato più anziano dichiarò di rappresentare «tutto il passato di una storia che si è chiusa», l'Assemblea riuniva il meglio della cultura politica e giuridica italiana: dagli esponenti della vecchia Italia liberale come Croce, Nitti, Bonomi, Sforza ed Einaudi ai futuri protagonista dell'Italia repubblicana, come De Gasperi, Togliatti, Nenni, Saragat, La Malfa, Gronchi, Fanfani, Dossetti, Di Vittorio, Vanoni, Andreotti e Giolitti; dai capi dell'antifascismo e della Resistenza, come Parri, Pertini, Terracini, Longo, Foa, Basso e Lussu, a una lunga schiera di giuristi ben lontani dal vecchio stereotipo del giurista tecnico e apolitico: come Ruini, Calamandrei, Mortati, La Pira, Moro e Tosato. Ne venne, soprattutto nella commissione dei 75 incaricata di redigere il testo della Carta, il dibattito istituzionale sicuramente più alto della nostra storia.

La rottura con il passato prodotta dalla Costituzione si manifesta essenzialmente in tre innovazioni, di cui ancor oggi, io credo, non si misura adeguatamente la portata. La prima è il riconoscimento, alla base del nostro ordinamento, del potere e del momento costituente tradizionalmente rimosso dal vecchio pensiero giuridico liberale. Momento «costituente» in due sensi, l'uno negativo, l'altro positivo. Nel senso, anzitutto, della rottura radicale con il fascismo, che dalla Costituzione è apertamente negato e che del costituzionalismo, ossia della divisione dei poteri e delle libertà fondamentali, era stato la negazione. E nel senso, ancor più importante, che la Costituzione si configura, negli interventi di tutti i maggiori partiti, come un «patto» o «compromesso» costituente, rifondativo dello Stato e insieme dell'unità nazionale e della convivenza civile. Per la prima volta nella nostra storia, e nei medesimi anni in cui massima era divenuta la divisione tra le forze politiche, veniva in tal modo posta alla base dello Stato l'idea normativa, di origine illuministica e contrattualistica, della Costituzione come «patto» da tutti sottoscritto sui fondamenti della Repubblica. L'accordo è principalmente tra le tre forze e le tre culture - liberale, cattolica e socialista - che nel loro insieme rappresentavano la grande maggioranza degli italiani e che già s'erano alleate nella Resistenza in quel «patto di non aggressione», come lo ha chiamato Norberto Bobbio, che era stato il Comitato di Liberazione Nazionale. Ne sono espressione i rispettivi apporti, tutti riconoscibili nel testo costituzionale: la valorizzazione, d'ispirazione cristiana, della «dignità» delle persone, delle «formazioni sociali» in cui esse operano, prima tra tutte la famiglia, e dei loro «doveri inderogabili di solidarietà»; la garanzia, di matrice liberale, delle libertà individuali e della separazione dei poteri; l'affermazione infine, di origine socialista, dei diritti sociali, del primato del lavoro e del progetto di riduzione delle disuguaglianze materiali che, dice il secondo comma dell'art. 3, «impediscono il pieno sviluppo della persona e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il risultato è un modello di democrazia liberal-socialista le cui linee portanti sono - oltre ai principi della sovranità popolare, dei diritti umani e della pace - la centralità del Parlamento, il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, il controllo popolare sulle leggi tramite referendum abrogativo, la piena indipendenza della magistratura, incluso il pubblico ministero, e le autonomie regionali.

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Pagina 63

Capitolo quinto
La crisi del paradigma
dell'autonomia del diritto
negli anni sessanta e settanta
[...]

Ma il fenomeno sicuramente più dirompente nella cultura giuridica degli anni sessanta e settanta è la «scoperta» della Costituzione, di cui cominciano ad essere prese sul serio le innovazioni introdotte nel paradigma stesso del diritto positivo. Proprio per la sua estraneità al vecchio ordinamento e la sua collocazione al vertice delle fonti, la Costituzione rompe infatti l'unità, la coerenza e la completezza del sistema giuridico, che formavano i dogmi metateorici del vecchio giuspositivismo. Nel 1956 era stata istituita la Corte costituzionale, che fin dalle sue prime sentenze aveva archiviato la vecchia tesi del carattere non immediatamente normativo ma programmatico delle nonne costituzionali e avviato una prima bonifica in materia di leggi di pubblica sicurezza e di diritto penale. Entrava in questo modo in crisi, con il giudizio costituzionale d'invalidità delle leggi, la presunzione di legittinútà dell'intero diritto positivo e la neutralizzazione politica del diritto operata dal vecchio positivismo giuridico: il diritto non è più un sistema organico di dogmi sanzionati dal codice ed affidati alla custodia dei giutisti, ma è un sistema artificiale e imperfetto di norme eterogenee, di ognuna delle quali è sempre in questione la legittimità costituzionale rispetto a quei valori politici che sono i principi di giustizia incorporati nella Costituzione. Il vecchio paradigma scientifico della dogmatica giuridica e dell'autonomia del diritto, che nel secolo scorso aveva retto l'impatto con la codificazione, non regge insomma quello con la Costituzione, che proprio per i suoi esigenti parametri assiologici di validità si pone in permanente tensione e in virtuale antinomia con l'intero diritto vigente.

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Pagina 73

Ancor più radicale è il rinnovamento provocato in quegli anni nella magistratura dalla scoperta della Costituzione e, per altro verso, dalla conquista dell'indipendenza, sia esterna che interna, a seguito dell'istituzione dei Consiglio superiore della magistratura nel 1958 e poi di piccole ma decisive riforme: come la soppressione nel 1962 dei filtri politici delle informazioni di polizia nel reclutamento dei magistrati e l'abbattimento nel 1966 della loro carriera interna. L'Associazione Nazionale Magistrati, soppressa dal fascismo e ricostituita dopo la Liberazione, diventa a metà degli anni sessanta il luogo di un intenso dibattito sul ruolo del giudice e sui fondamenti costituzionali della giurisdizione che finisce per rompere la tradizionale unità corporativa dell'ordine giudiziario. Il fenomeno indubbiamente più significativo è in quegli anni la nascita di «Magistratura Democratica», ossia di un'associazione di giudici che rifiuta apertamente la vecchia ideologia di ceto dell'avalutatività dell'applicazione della legge e la rigida separazione castale del corpo giudiziario dalla società che di fatto si risolveva nella sua gravitazione politica e culturale nell'orbita del potere. Di quella ideologia, che era poi il riflesso del vecchio mito della tecnicità e autonomia del diritto, i magistrati democratici contestarono vivacemente i due principali presupposti: una cattiva teoria dell'interpretazione, che ignorava le lezioni di Kelsen e della filosofia analitica sul carattere inevitabilmente discrezionale delle scelte interpretative e quindi delle opzioni etico-politiche da esse richieste, e una cattiva teoria delle fonti, che parimenti ignorava la divaricazione originata nell'ordinarnento dal virtuale conflitto tra la costituzione e il vecchio sistema legislativo ancora prevalentemente fascista. E denunciarono, con un radicalismo ben maggiore di quanto avvenisse in campo accademico, i vizi ideologici della cultura fino ad allora dominante nella magistratura: la presunzione della coerenza e della completezza, il mito della certezza del diritto, l'idea dell'applicazione della legge come operazione tecnica e meccanica, la diffidenza verso la Costituzione in quanto programma «politico» o ornamento ideologico, la solidarietà corporativa e l'organizzazione gerarchica dell'ordine giudiziario fondate sull'unitarietà e sull'univocità degli indirizzi giurisprudenziali custodite e promosse dalla Corte di cassazione.

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Pagina 77

Capitolo sesto
La crisi politica e costituzionale
degli anni ottanta e novanta



La crisi dei vecchi paradigmi liberali dell'autonomia e dell'apoliticità del diritto e dell'unità e scientificità della dottrina giuridica non produrrà mai, tuttavia, un'alternativa egemone nella cultura giuridica, né tanto meno in quella politica.

Ha inizio, negli anni ottanta, insieme a un lento processo di restaurazione sociale e culturale, una progressiva degenerazione del sistema politico. Questa degenerazione è legata da un lato alla perdita di progettualità e rappresentatività dei partiti e alla loro crescente separazione dalla società e, dall'altro, allo sviluppo di un'illegalità strutturale, manifestatosi nella crescita, dietro la facciata legale delle istituzioni rappresentative, di un infra-stato clandestino, dotato di propri codici e tributi, organizzato in centri di potere occulti e paralleli, finalizzato all'appropriazione privata della cosa pubblica o, peggio, colluso con poteri criminali ed eversivi come mafie, camorre, logge massoniche e servizi segreti deviati.

A questa crisi della legittimazione politica e insieme della legalità ordinaria si aggiunge, nei medesimi anni, un parallelo processo di logoramento della legalità costituzionale. La Costituzione, di cui la cultura giuridica progressista aveva appena denunciato la mancata attuazione, viene avvertita dal sistema politico come un intralcio al decisionismo governativo o, per altro verso, come un ostacolo all'alternanza di governo. Dapprima con le proposte socialiste di «grande riforma» in senso presidenziale, poi con l'estenuante dibattito sulle riforme istituzionali sfociato nell'introduzione del sistema elettorale maggioritario, infine con le risse scatenate dal presidente della Repubblica Cossiga con gli altri poteri dello Stato, la Costituzione italiana diventa il principale bersaglio di un attacco generalizzato, cui non si sottraggono neppure taluni giuristi e nel quale convergono le illusioni di chi affida all'innovazione costituzionale lo sblocco del sistema politico e l'insofferenza per le regole di quanti non tollerano non tanto la Costituzione del '48, ma il costituzionalismo come sistema di limiti e di vincoli ai pubblici poteri. Ne risulta una squalificazione della Costituzione, sempre più identificata, nel senso comune, con la carta d'identità della vecchia «prima Repubblica».

 

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