Copertina
Autore Luigi Ferrajoli
Titolo Poteri selvaggi
SottotitoloLa crisi della democrazia italiana
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2011, anticorpi 17 , pag. XI+88, cop.fle., dim. 14x21x1 cm , Isbn 978-88-420-9646-7
LettoreRiccardo Terzi, 2012
Classe diritto , paesi: Italia: 2010 , politica
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Indice


Premessa                                                       VII

I.   Il paradigma della democrazia costituzionale                3

1.1. Le aporie della concezione puramente formale o politica
     della democrazia. La rigidità costituzionale, p. 3
1.2. I limiti e i vincoli costituzionali alla validità sostanziale
     delle leggi. Il diritto illegittimo, p. 8
1.3. La dimensione sostanziale, oltre che formale,
     della democrazia, p. 10
1.4. Le garanzie costituzionali, p. 14

II.  La crisi dall'alto della democrazia politica               19

2.1. Il populismo e l'idea del capo come incarnazione
     della volontà popolare, p. 21
2.2. I conflitti di interessi ai vertici dello Stato.
     Il patrimonialismo populista, p. 28
2.3. L'integrazione dei partiti nelle istituzioni e la perdita
     del loro ruolo di mediazione rappresentativa, p. 33
2.4. Il controllo dell'informazione. Due patologie, p. 36

III. La crisi dal basso della democrazia politica               41

3.1. L'omologazione dei consenzienti e la denigrazione
     dei dissenzienti e dei diversi, p. 41
3.2. La spoliticizzazione di massa e la dissoluzione dell'opinione
     pubblica. Il primato degli interessi privati, p. 48
3.3. La crisi della partecipazione politica, p. 53
3.4. La manomissione dell'informazione e il declino
     della morale pubblica, p. 55

IV.  I rimedi alla crisi. Quattro ordini di garanzie            59

4.1. Il metodo elettorale proporzionale, p. 60
4.2. L'esclusione dei conflitti di interessi. Tre forme
     di separazione dei poteri e di incompatibilità, p. 66
4.3. La democrazia interna ai partiti e le forme di democrazia
     partecipativa, p. 72
4.4. La riforma del sistema dell'informazione. La libertà
     di informazione e le garanzie della sua indipendenza, p. 75

Conclusione. Il futuro della democrazia costituzionale          83

Indice dei nomi                                                 87


 

 

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Pagina VII

PREMESSA


È in atto un processo di decostituzionalizzazione del sistema politico italiano. Questo processo si è manifestato nella costruzione di un regime basato sul consenso o quanto meno sulla passiva acquiescenza di una parte rilevante della società italiana a una lunga serie di violazioni della lettera o dello spirito della Costituzione. Il suo aspetto più grave consiste però nel rifiuto opposto dall'attuale ceto di governo, ben più che alla Costituzione del 1948, al costituzionalismo medesimo, cioè ai limiti e ai vincoli costituzionali imposti alle istituzioni rappresentative. Ne è conseguita la progressiva trasformazione di fatto del nostro sistema politico in una forma di democrazia plebiscitaria fondata sull'esplicita pretesa dell'onnipotenza della maggioranza e della neutralizzazione di quel complesso sistema di regole, di separazioni e contrappesi, di garanzie e di funzioni e istituzioni di garanzia che costituisce la sostanza della democrazia costituzionale. L'idea elementare che è alla base di questa pretesa è che il consenso popolare è la sola fonte di legittimazione del potere politico e varrebbe perciò a legittimare ogni abuso e a delegittimare critiche e controlli. L'intero edificio della democrazia costituzionale ne risulta minato alla radice: dall'insofferenza per il pluralismo politico e istituzionale; dalla svalutazione delle regole; dagli attacchi alla separazione dei poteri, alle istituzioni di garanzia, all'opposizione parlamentare, al sindacato e alla libera stampa; dal rifiuto, in breve, del paradigma dello Stato costituzionale di diritto quale sistema di vincoli legali imposti a qualunque potere.

Il processo decostituente si è d'altro canto sviluppato anche a livello sociale e culturale, con il venir meno dei valori costituzionali nelle coscienze di una larga parte dell'elettorato: per indifferenza, per mancanza di senso civico o per il mutamento nell'immaginario collettivo della concezione stessa della democrazia. Venti anni di tentate controriforme costituzionali e di aggressioni alla Carta del 1948 — volta a volta squalificata come vecchia e superata, e addirittura come responsabile dell'inefficienza del sistema politico — hanno prodotto il declino del valore della Costituzione nel senso comune. È questo, come vedremo, il guasto più profondo. Una democrazia può crollare anche senza formali colpi di Stato se i suoi principi sono di fatto violati o contestati, senza che le loro violazioni suscitino ribellione o almeno dissenso. Ricordiamo l'ultimo articolo della Costituzione francese dell'anno III: «Il popolo francese affida la presente costituzione alla lealtà» dei pubblici poteri e alla «vigilanza dei padri di famiglia, alle spose e alle madri, all'affetto dei giovani cittadini, al coraggio di tutti i Francesi». È su queste due garanzie, di carattere politico e sociale — la garanzia politica della «lealtà» dei pubblici poteri e la garanzia sociale della «vigilanza» dei cittadini — che riposa l'effettività delle garanzie giuridiche e con esse dello stato di diritto e della democrazia. Oggi alla lealtà dei titolari dei poteri di governo non è possibile affidarsi, essendo essi stessi i promotori della deformazione costituzionale. E c'è sempre meno la vigilanza di una parte rilevante dell'opinione pubblica, anestetizzata dalla propaganda.

Di solito questo indebolimento della dimensione costituzionale della nostra democrazia viene interpretato, nel dibattito pubblico, come un prezzo pagato a un rafforzamento della sua dimensione politica ottenuto con il conferimento agli elettori del potere di scegliere volta a volta la coalizione di governo: in altre parole, come una riduzione e una svalutazione della dimensione legale della democrazia in favore della valorizzazione della sua dimensione politica e rappresentativa, concepita peraltro come il solo fondamento della legittimità dei pubblici poteri. Questo saggio ha lo scopo di ribaltare questa raffigurazione. Esso intende mostrare come dietro il preteso rafforzamento della rappresentanza politica quale diretta espressione della volontà popolare si nasconde, in realtà, una deformazione profonda delle istituzioni rappresentative, responsabile non solo dello svuotamento della dimensione costituzionale della democrazia, ma anche della tendenziale dissoluzione della sua dimensione politica e rappresentativa. Esiste infatti, come cercherò di mostrare, un nesso biunivoco tra forma rappresentativa e dimensione costituzionale della democrazia e perciò tra la crisi dell'una e la crisi dell'altra, tanto che possiamo oggi parlare di una crisi della democrazia tout court: della democrazia costituzionale, per effetto dell'involuzione populista della rappresentanza e della mancanza di limiti per essa rivendicata; ma anche della democrazia politica, per effetto dei conflitti di interessi al vertice dello Stato e dell'indebolimento delle regole della democrazia costituzionale. I nemici della democrazia costituzionale, in breve, sono anche i principali nemici, mascherati da amici, della democrazia politica.

Oggi sembra profilarsi una crisi del processo involutivo e decostituente: per la crisi interna della maggioranza e il totale discredito del suo leader, per la crescita del dissenso e della protesta e anche per la sostanziale tenuta, contro i tanti attacchi e tentativi di riforma, delle strutture costituzionali dello stato di diritto. Tuttavia i veleni che hanno alimentato questo processo sono ancora attivi, e richiederanno una lunga e non facile opera di disintossicazione e di ricostruzione. La malattia della democrazia italiana dovrebbe d'altro canto servire di lezione per il futuro, dato che gli attuali fenomeni di personalizzazione, di confusione e concentrazione dei poteri e di dissoluzione dello spirito pubblico possono perpetuarsi e riprodursi, in assenza di adeguate garanzie e di efficaci anticorpi culturali, nel nostro come in altri paesi. È del resto un dato di «esperienza eterna», come scrisse Montesquieu, che i poteri, lasciati senza limiti e controlli, tendono a concentrarsi e ad accumularsi in forme assolute: a tramutarsi, in assenza di regole, in poteri selvaggi. Di qui la necessità non solo di difendere, ma anche di ripensare e rifondare il sistema delle garanzie costituzionali. Solo un rafforzamento della democrazia costituzionale, attraverso l'introduzione di nuove e specifiche garanzie dei diritti politici e della democrazia rappresentativa, consente infatti, secondo le tesi che sosterrò, di salvaguardare e di rifondare sia l'una che l'altra.

Illustrerò dapprima, nel primo capitolo, il paradigma della democrazia costituzionale, quale si è affermato in Italia e in tutti gli ordinamenti avanzati con l'introduzione di costituzioni rigide sopraordinate ai poteri politici e di specifiche garanzie costituzionali contro l'onnipotenza delle maggioranze parlamentari e di governo. Mostrerò poi come la crisi di questo paradigma, per il nesso che lega forma e sostanza della democrazia, sta provocando, in Italia, una tendenziale dissoluzione anche della rappresentanza politica. Precisamente, illustrerò nel secondo capitolo i processi decostituenti dall'alto e nel terzo capitolo i processi decostituenti dal basso — gli uni a livello politico e istituzionale, gli altri a livello sociale e culturale — che convergono nella vanificazione della dimensione politica o formale, oltre che di quella costituzionale o sostanziale, della nostra democrazia. Infine, nel quarto capitolo, indicherò talune garanzie della democrazia politica e rappresentativa in grado di contrastare tali processi attraverso l'espansione e il rafforzamento del paradigma normativo della democrazia costituzionale.

Roma, 7 gennaio 2011

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capitolo primo

IL PARADIGMA DELLA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE


1.1. LE APORIE DELLA CONCEZIONE PURAMENTE FORMALE O POLITICA DELLA DEMOCRAZIA. LA RIGIDITÀ COSTITUZIONALE

Nel senso comune la democrazia viene di solito concepita, secondo il significato etimologico della parola, come il potere del popolo di assumere, direttamente o tramite rappresentanti, le decisioni pubbliche. Questa nozione di democrazia può essere chiamata formale o procedurale, dato che identifica la democrazia sulla sola base delle forme e delle procedure idonee appunto a legittimare le decisioni come espressione, diretta o indiretta, della volontà popolare: perché la identifica, in altre parole, sulla base del chi (il popolo o i suoi rappresentanti) e del come (il suffragio universale e la regola della maggioranza) delle decisioni, indipendentemente dai loro contenuti, cioè dal che cosa viene deciso. E questa, del resto, la tesi condivisa anche dalla maggior parte dei teorici della democrazia.

La tesi che qui sosterrò è che questa nozione formale di democrazia esprime un connotato certamente necessario – una conditio sine qua non – in assenza del quale non può parlarsi di democrazia, ma non anche una condizione sufficiente a identificare tutte le condizioni in presenza delle quali un sistema politico è qualificabile come «democratico» e, specificamente, come una «democrazia costituzionale». Per due ragioni, corrispondenti ad altrettante aporie, che richiedono che i connotati formali della democrazia siano integrati da limiti e vincoli sostanziali o di contenuto, cioè relativi al che cosa non è lecito decidere o non decidere, come sono quelli imposti, nelle odierne costituzioni, dai diritti fondamentali in esse stabiliti.

In primo luogo una simile nozione, se può valere a definire la dimensione politica o formale della democrazia, non è in grado di dar conto delle attuali democrazie costituzionali, le quali non rientrerebbero, sulla sua base, nel concetto di democrazia dato che in esse la legittimazione popolare non è più sufficiente a legittimare qualunque decisione. Essa difetta, perciò, di portata empirica e di capacità esplicativa. In forza del mutamento di paradigma generato dal costituzionalismo rigido nella struttura delle democrazie, infatti, anche il potere legislativo e quello di governo sono giuridicamente limitati e vincolati con riguardo non più soltanto alle forme, ma anche alla sostanza del loro esercizio. Questi limiti e questi vincoli sono imposti a tali poteri dai diritti costituzionalmente stabiliti, i quali identificano quella che possiamo chiamare la sfera dell'indecidibile: la sfera del non decidibile che, disegnata dai diritti di libertà, i quali vietano come invalide le decisioni con essi in contrasto, e la sfera del non decidibile che non, disegnata dai diritti sociali i quali impongono come dovute le decisioni dirette a soddisfarli. Conseguentemente, poiché questi limiti e vincoli di contenuto contraddicono la nozione puramente politica della democrazia, basata su regole solo formali che consentono la virtuale onnipotenza delle maggioranze, dovremmo ammettere che le odierne democrazie costituzionali non sono, alla stregua di tale nozione, democrazie.

In secondo luogo quella nozione puramente formale ignora il nesso concettuale che lega la democrazia politica e tutti quei diritti costituzionalmente stipulati che operano come limiti o vincoli di contenuto alla volontà altrimenti assoluta delle maggioranze. Tali diritti disegnano perciò la dimensione costituzionale della democrazia che, con un'espressione logorata dai suoi usi ideologici, ben possiamo chiamare sostanziale perché riferita alla sostanza, cioè al che cosa dalle costituzioni è vietato o è obbligatorio decidere. Si tratta di un duplice nesso. Da un lato l'esercizio consapevole e informato dei diritti politici suppone la garanzia dei classici diritti di libertà – di parola, stampa, di associazione e di riunione – nonché dei diritti sociali, come í diritti alla salute e all'istruzione. Dall'altro, in assenza di qualunque limite sostanziale relativo ai contenuti delle decisioni legittime, una democrazia non può – o, quanto meno, può non — sopravvivere essendo sempre possibile, in via di principio, che con metodi democratici si sopprimano, a maggioranza, gli stessi metodi democratici: non solo i diritti di libertà e i diritti sociali, ma anche gli stessi diritti politici, il pluralismo politico, la separazione dei poteri, la rappresentanza, in breve l'intero sistema di regole nel quale consiste la democrazia politica. Non è un'ipotesi di scuola: fascismo e nazismo, nel secolo scorso, si impadronirono del potere in forme legali e poi lo consegnarono «democraticamente» e tragicamente a un capo che soppresse la democrazia.

Fu proprio sulla base di quelle tragiche esperienze che si è prodotto in Europa, all'indomani della seconda guerra mondiale, un mutamento di paradigma sia del diritto che della democrazia, attraverso la costituzionalizzazione dell'uno e dell'altra. Questo mutamento è consistito nella soggezione dell'intera produzione del diritto, inclusa la legislazione, a norme costituzionali rigidamente sopraordinate a tutti i poteri normativi e perciò nel completamento del modello paleopositivistico dello stato di diritto. Nel vecchio stato legale di diritto il potere legislativo delle maggioranze parlamentari era un potere virtualmente assoluto, non essendo stata neppure concepita la possibilità di una legge che limitasse la legge. Esistevano, è vero, costituzioni e diritti fondamentali stipulati in carte costituzionali. Tuttavia, almeno nel continente europeo, queste carte erano costituzioni flessibili: leggi solenni, ma pur sempre leggi, che il legislatore ordinario ben poteva validamente modificare con leggi successive. I principi e i diritti in esse stabiliti operavano perciò, di fatto, come limiti e vincoli soltanto politici, privi di una forza giuridica in grado di vincolare la legislazione.

È così accaduto, in un paese di deboli tradizioni liberal-democratiche come l'Italia, che il fascismo poté stracciare con le sue leggi lo Statuto albertino e affossare la democrazia e le libertà fondamentali senza un formale colpo di Stato: si trattò infatti di un colpo di Stato nella sostanza, ma non anche nelle forme, dato che le leggi fasciste, incluse quelle che fecero a pezzi lo stato di diritto e la rappresentanza parlamentare, erano ritenute formalmente valide perché votate da maggioranze di deputati secondo i canoni della democrazia politica o formale. Per questo possiamo ben dire che l'antifascismo è un connotato genetico non solo della democrazia italiana, che lo ha sancito esplicitamente nella sua Costituzione, ma in generale della democrazia costituzionale nata dalle rovine della seconda guerra mondiale e dei fascismi: perché la democrazia, dopo quelle catastrofi, si è ridefinita ed ha preso nuova coscienza di sé, stipulando in norme di diritto positivo rigidamente sopraordinate alla legislazione ordinaria quei limiti e quei vincoli fino ad allora soltanto politici – la separazione dei poteri, la pace, l'uguaglianza e la garanzia dei diritti fondamentali – che il fascismo aveva rinnegato.

La rigidità delle costituzioni approvate in Italia e in Germania dopo la guerra, e poi in Spagna e in Portogallo dopo la caduta delle dittature, ha così cambiato, radicalmente e simultaneamente, sia le condizioni di validità delle leggi che la struttura della democrazia. Collocando al vertice della gerarchia delle fonti le norme costituzionali, essa ha reso vincolanti, nei confronti della legislazione, le aspettative universali nelle quali consistono i diritti da esse stabiliti: quali aspettative negative della non lesione dei diritti di libertà e quali aspettative positive della soddisfazione dei diritti sociali. Ne risultano due mutamenti di paradigma, tra loro connessi e paralleli: in primo luogo del diritto e delle condizioni, non più solo formali ma anche sostanziali, della validità delle leggi; in secondo luogo della struttura della democrazia, caratterizzata a sua volta non più dalla sola dimensione politica o formale, ma anche da una dimensione sostanziale, relativa ai contenuti delle decisioni.


1.2. I LIMITI E I VINCOLI COSTITUZIONALI ALLA VALIDITÀ SOSTANZIALE DELLE LEGGI. IL DIRITTO ILLEGITTIMO

Il primo cambiamento riguarda le condizioni di validità delle leggi. Nel paradigma paleopositivistico dello Stato liberale, la legge, qualunque ne fosse il contenuto, era la fonte suprema e illimitata del diritto. Non esisteva infatti, nell'immaginario dei giuristi e tanto meno nel senso comune, l'idea di una legge sopraordinata alla legge in grado di vincolare i contenuti dell'attività legislativa. Questa onnipotenza della legge viene meno con l'affermazione della Costituzione come norma suprema alla quale tutte le altre sono rigidamente subordinate. Grazie a questa innovazione la legalità cambia natura: non è più solo condizionante e disciplinante, ma è essa stessa condizionata e disciplinata da vincoli giuridici non più solo formali ma anche sostanziali; non è più semplicemente un prodotto del legislatore ma è anche progettazione giuridica della qualità della stessa produzione legislativa, e quindi un limite e un vincolo al legislatore. Sicché del diritto risulta positivizzato non più solo l' essere, ossia la sua «esistenza», ma anche il suo dover essere, ossia le sue condizioni di «validità»; non più solo il chi e il come delle decisioni, ma anche il che cosa non deve essere deciso, ossia la lesione dei diritti di libertà, o al contrario deve essere deciso, ossia la soddisfazione dei diritti sociali.

Questo diritto sul diritto, questo sistema di norme metalegali nel quale consistono le odierne costituzioni rigide non si limita dunque a regolare le forme di produzione del diritto mediante norme procedurali sulla formazione delle leggi, ma ne vincola altresì i contenuti mediante norme sostanziali sulla produzione quali sono, in particolare, quelle che enunciano diritti fondamentali. Li vincola al rispetto e all'attuazione di tali diritti, la cui violazione genera antinomie, consistenti nell'indebita presenza di norme sostanzialmente invalide perché con essi in contrasto, oppure lacune, consistenti nell'assenza, parimenti indebita, delle norme che ne stabiliscano le necessarie garanzie. Ne consegue che la validità delle leggi dipende dall'osservanza non più soltanto delle norme procedurali sulla loro formazione, ma anche delle norme sostanziali sul loro contenuto.

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capitolo secondo

LA CRISI DALL'ALTO DELLA DEMOCRAZIA POLITICA


Il paradigma della democrazia costituzionale fin qui delineato è un modello normativo, contrassegnato, a causa delle inevitabili lacune e antinomie, da un grado più o meno elevato di ineffettività e quindi di illegittimità. Possiamo infatti identificare il grado di legittimità e, inversamente, di illegittimità dell'ordinamento di uno stato costituzionale di diritto con il grado di effettività e con il grado di ineffettività delle garanzie dei diritti in esso costituzionalmente stabiliti. Un certo grado di ineffettività e di illegittimità è peraltro inevitabile e perciò fisiologico in qualunque democrazia costituzionale, a causa appunto del carattere normativo delle sue fonti di legittimazione. Ne consegue un ruolo a sua volta normativo che il costituzionalismo rigido conferisce alla scienza giuridica: non più concepibile né praticabile come mera contemplazione e descrizione del diritto vigente, secondo il vecchio metodo tecnico-giuridico, bensì investita, dalla stessa struttura a gradi del proprio oggetto, di un ruolo critico delle antinomie e delle lacune in esso generate dai dislivelli normativi e di un ruolo progettuale delle tecniche di garanzia idonee a superarle o quanto meno a ridurle.

Oltre un certo limite, tuttavia, il grado di ineffettività del paradigma costituzionale può diventare patologico. È quanto sta accadendo in Italia, dove il processo di decostituzionalizzazione del sistema politico si è manifestato in un lungo elenco di violazioni della carta costituzionale: le numerose leggi ad personam, che insieme a quelle varate nella legislatura del 2001-2006 formano ormai un vero Corpus iuris ad personam finalizzato a sottrarre il presidente del Consiglio, in contrasto con il principio di uguaglianza, ai tanti processi penali nei quali è coinvolto; le leggi che hanno penalizzato lo status di clandestino e hanno negato, di fatto, agli immigrati i diritti elementari alla salute, all'alloggio e ai ricongiungimenti familiari; le misure demagogiche in tema di sicurezza, che hanno militarizzato il territorio, legittimato le ronde, previsto la schedatura dei senza tetto e aggravato le pene per la criminalità di strada; la riduzione delle garanzie giurisdizionali dei diritti dei lavoratori; il controllo politico dell'informazione e dei media, soprattutto televisivi, che ha fatto precipitare l'Italia al 73° posto della classifica di Freedom House sui livelli della libertà di stampa. E ancora: i tagli della spesa pubblica nella scuola e nella sanità, l'aggressione al sindacato, la precarizzazione del lavoro e perciò delle condizioni di vita di milioni di persone. Infine il progetto decostituente si è manifestato nelle iniziative di legge dirette a ridurre la libertà di stampa in materia di intercettazioni e il diritto di sciopero, nonché nelle proposte di manomettere l'identità della nostra democrazia sopprimendo l' incipit della Costituzione secondo cui «l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro» e il principio, stabilito dall'articolo 41, che «l'iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Si è perfino proposto di introdurre, con legge di revisione della Costituzione, una norma costituzionale ad personam: il cosiddetto «lodo costituzionale Alfano», diretto a neutralizzare l'azione penale nei confronti del presidente del Consiglio.

Ma non sono questi gli aspetti più gravi del processo decostituente. Violazioni e inadempienze del dettato costituzionale, pur se mai in maniera così massiccia, si sono verificate anche in passato. L'aspetto più grave è che questo processo, come ho detto all'inizio, si è sviluppato attraverso una duplice crisi distruttiva, dall'alto e dal basso, della rappresentanza politica. La crisi dall'alto è generata da quattro fattori, all'apparenza opposti ma in realtà convergenti nel minare alla radice il rapporto di rappresentanza. Tutti si manifestano nella negazione di altrettante separazioni tra sfere o livelli di potere – tra Stato e popolo, tra sfera pubblica e sfera privata, tra forze politiche e istituzioni pubbliche, tra poteri mediatici e libertà della cultura e dell'informazione – che caratterizzano la modernità giuridica. Tutti si risolvono, conseguentemente, in altrettante regressioni premoderne e, ciò che è più grave, nello sviluppo di altrettanti poteri sregolati e selvaggi.


2.1. IL POPULISMO E L'IDEA DEL CAPO COME INCARNAZIONE DELLA VOLONTÀ POPOLARE

Il primo fattore è costituito dalla verticalizzazione e dalla personalizzazione della rappresentanza.

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capitolo terzo

LA CRISI DAL BASSO DELLA DEMOCRAZIA POLITICA


C'è poi, come ho detto all'inizio, un secondo aspetto del processo decostituente e della crisi della democrazia politica: quello riguardato dal basso, cioè dal lato dei rappresentati e quindi della società. I totalitarismi del secolo scorso, che certamente godettero di vasti consensi popolari, dovrebbero averci insegnato che i popoli e il loro comune sentire sono fragili e mutevoli; che l'idea di una «volontà generale buona» è un'illusione; che la società può essere largamente modellata dalla politica, qualora difettino le garanzie dei diritti fondamentali e, in particolare, il pluralismo e l'indipendenza dell'informazione. Distinguerò, anche sotto questo aspetto, quattro fattori di questa crisi della rappresentanza riguardata dal basso, in gran parte correlativi a quelli, più sopra illustrati, operanti dall'alto, e da questi direttamente alimentati.

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Pagina 83

Conclusione

IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE


Siamo così giunti a un'importante conclusione teorica: la democrazia costituzionale è esposta a costanti manomissioni dalle deformazioni della rappresentanza politica; inversamente, la democrazia politica rappresentativa non è solo limitata, ma anche garantita dalla democrazia costituzionale, e può essere preservata e rifondata solo dall'introduzione e dal rafforzamento di adeguate garanzie costituzionali e legislative. Quanto più si indebolisce il rapporto di rappresentanza, quanto più i rappresentanti si distaccano dalla società, tanto più essenziale diventa il paradigma costituzionale, cioè il sistema di limiti e vincoli, di separazioni e garanzie, idonei a impedirne la corruzione e la degenerazione burocratica e autoritaria. Non solo. Tutti i diritti fondamentali – non solo i diritti politici, ma anche i diritti civili, i diritti di libertà e i diritti sociali – sono non soltanto diritti individuali, ma anche poteri e contropoteri sociali in grado, oltre che di bilanciare e limitare i poteri della maggioranza, anche di assicurare effettività alla rappresentanza politica. Tra tutti i diversi diritti fondamentali, del resto, c'è un rapporto di sinergia, comprovato dall'esperienza storica: senza garanzie di indipendenza delle grandi libertà politiche non c'è sviluppo del senso civico e di una pubblica opinione in grado di valutare e responsabilizzare i pubblici poteri; senza garanzia dei diritti sociali, in particolare all'istruzione e all'informazione, i diritti di libertà e i diritti politici non sono esercitabili con cognizione di causa. Perfino lo sviluppo economico, come mostra la storia dei nostri paesi, dipende dalle garanzie dei diritti fondamentali: dei diritti di libertà, senza i quali non c'è controllo democratico sul corretto funzionamento delle istituzioni, e più ancora dei diritti sociali all'istruzione, alla salute e alla sussistenza, la cui garanzia non è solo fine a se medesima, ma forma anche il presupposto elementare della produttività individuale e collettiva; tanto che si può sicuramente affermare che la spesa per tali garanzie rappresenta il più efficace investimento produttivo.

Per questo, dopo i tanti tentativi falliti di indebolire il paradigma costituzionale, occorrerebbe oggi, in primo luogo, abbandonare ogni progetto di «grande» riforma costituzionale e mettere al riparo la Costituzione da nuovi colpi di mano delle maggioranze. Sarebbe necessario, a tal fine, rafforzare la rigidità costituzionale, attraverso una riforma dell'attuale articolo 138 in tre direzioni: a) innalzando ai 3/4 o quanto meno ai 2/3 dei componenti delle Camere la maggioranza qualificata richiesta per qualunque revisione; b) sottraendo al potere di revisione, in accordo con la già ricordata sentenza costituzionale del 1988, i «principi supremi dell'ordinamento» – come il principio di uguaglianza e quello della dignità della persona, il divieto della guerra, la separazione dei poteri, la rappresentanza politica e tutti i diritti fondamentali – dei quali dovrebbero essere consentiti soltanto il rafforzamento e l'espansione; c) limitando infine esplicitamente il potere di revisione con l'esclusione della possibilità di proporre riforme dell'intera Costituzione o di sue parti rilevanti e complesse, e la previsione, come è accaduto negli Stati Uniti, della sola ammissibilità di emendamenti di questa o quella singola e determinata norma costituzionale. Quest'ultima limitazione, del resto, dovrebbe già oggi essere considerata implicita nella natura del potere di revisione costituzionale: che è un potere costituito, che non può trasformarsi in potere costituente senza violare l'articolo 1 sulla decantata sovranità popolare e senza trasformare in un plebiscito il referendum costituzionale confermativo previsto dall'articolo 138.

Non basta tuttavia, per la rifondazione della democrazia dopo venti anni di deriva populista e di declino ufficiale dei valori costituzionali, la difesa della Carta del 1948. Il superamento della crisi attuale richiede lo sviluppo, a livello politico e sociale, di una cultura costituzionale e di una concezione della democrazia come sistema fragile e complesso di separazioni e di equilibri tra poteri, di limiti e garanzie, alternativa a quella della destra, oggi purtroppo egemone perché in gran parte condivisa anche da molti esponenti della sinistra. Richiede, in secondo luogo, che il nesso tra forma e sostanza della democrazia, che caratterizza il paradigma normativo della democrazia costituzionale, venga quanto più compiutamente realizzato attraverso la costruzione di un sistema di garanzie e di istituzioni di garanzia in grado di colmare la divaricazione, in questi anni diventata patologica, tra il «dover essere costituzionale» e l'«essere» effettivo del diritto e del sistema politico. Sotto entrambi questi aspetti, la battaglia per la democrazia è oggi, come sempre, una battaglia soprattutto culturale. In un duplice senso: nel senso che il nesso tra democrazia e Costituzione è un fatto culturale, oggi smarrito nel senso comune, e nel senso, più generale, che lo sviluppo della cultura è un fattore essenziale della costruzione della democrazia.

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