Autore Elena Ferrante
Titolo L'amica geniale
SottotitoloInfanzia, adolescenza
Edizioneedizioni eo, Roma, 2015 [2011], Dal mondo Italia , pag. 332, cop.fle., dim. 13,5x21x2,5 cm , Isbn 978-88-6632-032-6
LettoreAngela Razzini, 2017
Classe narrativa italiana , citta': Napoli












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


    INDICE DEI PERSONAGGI - 9


    PROLOGO. Cancellare le tracce - 13

    INFANZIA. Storia di don Achille - 21

    ADOLESCENZA. Storia delle scarpe - 83


    NOTA SULL'AUTRICE - 329


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 15

1.



Stamattina mi ha telefonato Rino, ho creduto che volesse ancora soldi e mi sono preparata a negarglieli. Invece il motivo della telefonata era un altro: sua madre non si trovava più.

«Da quando?».

«Da due settimane».

«E mi telefoni adesso?».

Il tono gli dev'essere sembrato ostile, anche se non ero né arrabbiata né indignata, c'era solo un filo di sarcasmo. Ha provato a ribattere ma l'ha fatto confusamente, in imbarazzo, un po' in dialetto, un po' in italiano. Ha detto che s'era convinto che la madre fosse in giro per Napoli come al solito.

«Pure di notte?».

«Lo sai com'è fatta».

«Lo so, ma due settimane d'assenza ti sembrano normali?».

«Sì. Tu non la vedi da molto, è peggiorata: non ha mai sonno, entra, esce, fa quello che le pare».

Comunque alla fine si era preoccupato. Aveva chiesto a tutti, aveva fatto il giro degli ospedali, si era rivolto persino alla polizia. Niente, sua madre non era da nessuna parte. Che buon figlio: un uomo grosso, sui quarant'anni, mai lavorato in vita sua, solo traffici e sperperi. Mi sono immaginata con quanta cura avesse fatto le ricerche. Nessuna. Era senza cervello, e a cuore aveva soltanto se stesso.

«Non è che sta da te?» mi ha chiesto all'improvviso.

La madre? Qui a Torino? Conosceva bene la situazione e parlava solo per parlare. Lui sì che era un viaggiatore, era venuto a casa mia almeno una decina di volte, senza essere invitato. Sua madre, che invece avrei accolto volentieri, non era mai uscita da Napoli in tutta la sua vita. Gli ho risposto:

«No che non sta da me».

«Sei sicura?».

«Rino, per favore: t'ho detto che non c'è».

«E allora dov'è andata?».

Ha cominciato a piangere e ho lasciato che mettesse in scena la sua disperazione, singhiozzi che partivano finti e continuavano veri. Quando ha finito gli ho detto:

«Per favore, una volta tanto comportati come vorrebbe lei: non la cercare».

«Ma che dici?».

«Dico quello che ho detto. È inutile. Impara a vivere da solo e non cercare più nemmeno me».

Ho riattaccato.




2.



La madre di Rino si chiama Raffaella Cerullo, ma tutti l'hanno sempre chiamata Lina. Io no, non ho mai usato né il primo nome né il secondo. Da più di sessant'anni per me è Lila. Se la chiamassi Lina o Raffaella, così, all'improvviso, penserebbe che la nostra amicizia è finita.

Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia, e solo io so bene cosa vuole dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio di identità, il sogno di rifarsi una vita altrove. E non ha mai pensato al suicidio, disgustata com'è dall'idea che Rino abbia a che fare col suo corpo e sia costretto a occuparsene. Il suo proposito è stato sempre un altro: voleva volatilizzarsi; voleva disperdere ogni sua cellula; di lei non si doveva trovare più niente. E poiché la conosco bene, o almeno credo di conoscerla, do per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte.




3.



Sono passati i giorni. Ho guardato nella posta elettronica, in quella cartacea, ma senza speranza. Io ho scritto spessissimo a lei, lei non mi ha quasi mai risposto: questa è stata sempre la consuetudine. Preferiva il telefono o le lunghe notti di chiacchiere quando andavo a Napoli.

Ho aperto i miei cassetti, le scatole di metallo dove conservo cose di ogni genere. Poche. Ho buttato via tanta roba, in particolare ciò che la riguardava, e lei lo sa. Ho scoperto che non ho niente di suo, non un'immagine, non un biglietto, non un regalino. Mi sono sorpresa io stessa. Possibile che in tutti questi anni non mi abbia lasciato niente di sé, o, peggio, io non abbia voluto conservare alcunché di lei? Possibile.

Ho telefonato io a Rino, questa volta, l'ho fatto a malincuore. Non rispondeva né sul fisso né sul cellulare. Mi ha chiamato lui in serata, con comodo. Aveva la voce con cui cerca di stimolare un senso di pena.

«Ho visto che hai chiamato. Hai notizie?».

«No. E tu?».

«Nessuna».

M'ha detto cose sconclusionate. Voleva andare in tv, alla trasmissione che si occupa delle persone scomparse, fare un appello, chiedere perdono per tutto a sua mamma, supplicarla di tornare.

Sono stata a sentire pazientemente, poi gli ho chiesto:

«Hai guardato nel suo armadio?».

«Per fare che?».

Naturalmente non gli era mai venuta in mente la cosa più ovvia.

«Va' a guardare».

C'è andato e si è reso conto che non c'era niente, nemmeno uno dei vestiti di sua madre, né estivi né invernali, solo vecchie grucce. L'ho mandato in giro a frugare per casa. Sparite le scarpe. Spariti i pochi libri. Sparite tutte le foto. Spariti i filmini. Sparito il suo computer, anche i vecchi dischetti che si usavano una volta, tutto, ogni cosa della sua esperienza di strega elettronica che aveva cominciato a destreggiarsi coi calcolatori già sul finire degli anni Sessanta, all'epoca delle schede perforate. Rino era stupefatto. Gli ho detto:

«Prenditi il tempo che vuoi ma poi telefonami e dimmi se hai trovato anche solo uno spillo che le appartiene».

Mi ha chiamato il giorno dopo, era agitatissimo.

«Non c'è niente».

«Niente niente?».

«No. S'è tagliata via da tutte le foto in cui stavamo insieme, anche quelle di quando ero piccolo».

«Hai guardato bene?».

«Dappertutto».

«Anche nello scantinato?».

«T'ho detto dappertutto. È sparita persino la scatola con i documenti: che so, vecchi certificati di nascita, contratti telefonici, ricevute di bollette. Che significa? Qualcuno ha rubato tutto? Cosa cercano? Che vogliono da mia madre e da me?».

L'ho rassicurato, gli ho detto di stare tranquillo. Soprattutto da lui, era improbabile che qualcuno volesse qualcosa.

«Posso venire a stare un po' a casa tua?».

«No».

«Per favore, non riesco a dormire».

«Arrangiati, Rino, non so che farci».

Ho riattaccato e quando lui ha ritelefonato non ho risposto. Mi sono seduta alla scrivania.

Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato.

Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle.

Mi sono sentita molto arrabbiata.

Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 23

1.



La volta che Lila e io decidemmo di salire per le scale buie che portavano, gradino dietro gradino, rampa dietro rampa, fino alla porta dell'appartamento di don Achille, cominciò la nostra amicizia.

Mi ricordo la luce violacea del cortile, gli odori di una serata tiepida di primavera. Le mamme stavano preparando la cena, era ora, di rientrare, ma noi ci attardavamo sottoponendoci per sfida, senza mai rivolgerci la parola, a prove di coraggio. Da qualche tempo, dentro e fuori scuola, non facevamo che quello. Lila infilava la mano e tutto il braccio nella bocca nera di un tombino, e io lo facevo subito dopo a mia volta, col batticuore, sperando che gli scarafaggi non mi corressero su per la pelle e i topi non mi mordessero. Lila s'arrampicava fino alla finestra a pianterreno della signora Spagnuolo, s'appendeva alla sbarra di ferro dove passava il filo per stendere i panni, si dondolava, quindi si lasciava andare giù sul marciapiede, e io lo facevo subito dopo a mia volta, pur temendo di cadere e farmi male. Lila s'infilava sotto pelle la rugginosa spilla francese che aveva trovato per strada non so quando ma che conservava in tasca come il regalo di una fata; e io osservavo la punta di metallo che le scavava un tunnel biancastro nel palmo, e poi, quando lei l'estraeva e me la tendeva, facevo lo stesso.

A un certo punto mi lanciò uno sguardo dei suoi, fermo, con gli occhi stretti, e si diresse verso la palazzina dove abitava don Achille. Mi gelai di paura. Don Achille era l'orco delle favole, avevo il divieto assoluto di avvicinarlo, parlargli, guardarlo, spiarlo, bisognava fare come se non esistessero né lui né la sua famiglia. C'erano nei suoi confronti, in casa mia ma non solo, un timore e un odio che non sapevo da dove nascessero. Mio padre ne parlava in un modo che me l'ero immaginato grosso, pieno di bolle violacee, furioso malgrado il "don", che a me suggeriva un'autorità calma. Era un essere fatto di non so quale materiale, ferro, vetro, ortica, ma vivo, vivo col respiro caldissimo che gli usciva dal naso e dalla bocca. Credevo che se solo l'avessi visto da lontano mi avrebbe cacciato negli occhi qualcosa di acuminato e bruciante. Se poi avessi fatto la pazzia di avvicinarmi alla porta di casa sua mi avrebbe uccisa.

Aspettai un po' per vedere se Lila ci ripensava e tornava indietro. Sapevo cosa voleva fare, avevo inutilmente sperato che se ne dimenticasse, e invece no. I lampioni non si erano ancora accesi e nemmeno le luci delle scale. Dalle case arrivavano voci nervose. Per seguirla dovevo lasciare l'azzurrognolo del cortile ed entrare nel nero del portone. Quando finalmente mi decisi, all'inizio non vidi niente, sentii solo un odore di roba vecchia e DDT. Poi mi abituai allo scuro e scoprii Lila seduta sul primo gradino della prima rampa. Si alzò e cominciammo a salire.

Avanzammo tenendoci dal lato della parete, lei due gradini avanti, io due gradini indietro e combattuta tra accorciare la distanza o lasciare che aumentasse. M'è rimasta l'impressione della spalla che strisciava contro il muro scrostato e l'idea che gli scalini fossero molto alti, più di quelli della palazzina dove abitavo. Tremavo. Ogni rumore di passi, ogni voce era don Achille che ci arrivava alle spalle o ci veniva incontro con un lungo coltello, di quelli per aprire il petto alle galline. Si sentiva un odore d'aglio fritto. Maria, la moglie di don Achille, mi avrebbe messo nella padella con l'olio bollente, i figli mi avrebbero mangiato, lui mi avrebbe succhiato la testa come faceva mio padre con le triglie.

Ci fermammo spesso, e tutte le volte sperai che Lila decidesse di tornare indietro. Ero molto sudata, lei non so. Ogni tanto guardava in alto, ma non capivo cosa, si vedeva solo il grigiore dei finestroni a ogni rampa. Le luci si accesero all'improvviso, ma tenui, polverose, lasciando ampie zone d'ombra piene di pericoli. Aspettammo per capire se era stato don Achille a girare l'interruttore ma non sentimmo niente, né passi né una porta che si apriva o si chiudeva. Poi Lila proseguì, e io dietro.

Lei riteneva di fare una cosa giusta e necessaria, io mi ero dimenticata ogni buona ragione e di sicuro ero lì solo perché c'era lei. Salivamo lentamente verso il più grande dei nostri terrori di allora, andavamo a esporci alla paura e a interrogarla.

Alla quarta rampa Lila si comportò in modo inatteso. Si fermò ad aspettarmi e quando la raggiunsi mi diede la mano. Questo gesto cambiò tutto tra noi per sempre.




2.



Era stata colpa sua. In un tempo non troppo distante — dieci giorni, un mese, chi lo sa, ignoravamo tutto del tempo, allora — mi aveva preso la bambola a tradimento e l'aveva buttata in fondo a uno scantinato. Ora stavamo salendo verso la paura, allora ci eravamo sentite obbligate a scendere, e di corsa, verso l'ignoto. In alto, in basso, ci pareva sempre di andare incontro a qualcosa di terribile che, pur esistendo da prima di noi, era noi e sempre noi che aspettava. Quando si è al mondo da poco è difficile capire quali sono i disastri all'origine del nostro sentimento del disastro, forse non se ne sente nemmeno la necessità. I grandi, in attesa di domani, si muovono in un presente dietro al quale c'è ieri o l'altro ieri o al massimo la settimana scorsa: al resto non vogliono pensare. I piccoli non sanno il significato di ieri, dell'altro ieri, e nemmeno di domani, tutto è questo, ora: la strada è questa, il portone è questo, le scale sono queste, questa è mamma, questo è papà, questo è il giorno, questa la notte. Io ero piccola e a conti fatti la mia bambola sapeva più di me. Le parlavo, mi parlava. Aveva una faccia di celluloide con capelli di celluloide e occhi di celluloide. Indossava un vestitino blu che le aveva cucito mia madre in un raro momento felice, ed era bellissima. La bambola di Lila, invece, aveva un corpo di pezza gialliccia pieno di segatura, mi pareva brutta e lercia. Le due si spiavano, si soppesavano, erano pronte a scappare tra le nostre braccia se scoppiava un temporale, se c'erano i tuoni, se qualcuno più grande e più forte e coi denti aguzzi le voleva ghermire.

Giocavamo nel cortile, ma come se non giocassimo insieme. Lila era seduta per terra, da un lato della finestrella di uno scantinato, io dall'altro. Ci piaceva, quel posto, innanzitutto perché potevamo disporre, sul cemento tra le sbarre dell'apertura, contro il reticolo, sia le cose di Tina, la mia bambola, sia quelle di Nu, la bambola di Lila. Ci mettevamo sassi, tappi di gassosa, fiorellini, chiodi, schegge di vetro. Ciò che Lila diceva a Nu io lo captavo e lo dicevo a voce bassa a Tina, ma modificandolo un po'. Se lei prendeva un tappo e lo metteva in testa alla sua bambola come se fosse un cappello, io dicevo alla mia, in dialetto: Tina, mettiti la corona di regina se no prendi freddo. Se Nu giocava a campana in braccio a Lila, io poco dopo facevo fare lo stesso a Tina. Ma non succedeva ancora che concordassimo un gioco e cominciasse una collaborazione. Persino quel posto lo sceglievamo senza accordo. Lila andava lì, e io girellavo, fingevo di andare da un'altra parte. Poi, come se niente fosse, mi disponevo anch'io accanto allo sfiatatoio, ma dal lato opposto.

La cosa che ci attraeva di più era l'aria fredda dello scantinato, un soffio che ci rinfrescava in primavera e d'estate. Poi ci piacevano le sbarre con le ragnatele, il buio, e il reticolo fitto che, rossastro di ruggine, si arricciolava sia dal lato mio che da quello di Lila, creando due spiragli paralleli attraverso i quali potevamo far cadere nell'oscurità sassi e ascoltarne il rumore quando toccavano terra. Tutto era bello e pauroso, allora. Attraverso quelle aperture il buio poteva prenderci all'improvviso le bambole, a volte al sicuro tra le nostre braccia, più spesso messe di proposito accanto al reticolo ritorto e quindi esposte al respiro freddo dello scantinato, ai rumori minacciosi che ne venivano, ai fruscii, agli scricchiolii, al raspare.

Nu e Tina non erano felici. I terrori che assaporavamo noi ogni giorno erano i loro. Non ci fidavamo della luce sulle pietre, sulle palazzine, sulla campagna, sulle persone fuori e dentro le case. Ne intuivamo gli angoli neri, i sentimenti compressi ma sempre vicini a esplodere. E attribuivamo a quelle bocche scure, alle caverne che oltre di loro si aprivano sotto le palazzine del rione, tutto ciò che ci spaventava alla luce del giorno. Don Achille, per esempio, era non solo nella sua casa all'ultimo piano ma anche lì sotto, ragno tra i ragni, topo tra i topi, una forma che assumeva tutte le forme. Lo immaginavo a bocca aperta per via di lunghe zanne d'animale, corpo di pietra invetriata ed erbe velenose, sempre pronto ad accogliere in un'enorme borsa nera tutto ciò che lasciavamo cadere dagli angoli divelti del reticolo. Quella borsa era un tratto fondamentale di don Achille, ce l'aveva sempre, anche in casa sua, e ci metteva dentro materia viva e morta.

Lila sapeva che avevo quella paura, la mia bambola ne parlava ad alta voce. Per questo, proprio nel giorno in cui senza nemmeno contrattare, solo con gli sguardi e i gesti, ci scambiammo per la prima volta le nostre bambole, lei, appena ebbe Tina, la spinse oltre la rete e la lasciò cadere nell'oscurità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 85

1.



Il 31 dicembre del 1958 Lila ebbe il suo primo episodio di smarginatura. Il temine non è mio, lo ha sempre utilizzato lei forzando il significato comune della parola. Diceva che in quelle occasioni si dissolvevano all'improvviso i margini delle persone e delle cose. Quando quella notte, in cima al terrazzo dove stavamo festeggiando l'arrivo del 1959, fu investita bruscamente da una sensazione di quel tipo, si spaventò e si tenne la cosa per sé, ancora incapace di nominarla. Solo anni dopo, una sera del novembre 1980 — avevamo entrambe trentasei anni, ormai, eravamo sposate, con figli —, mi raccontò minutamente cosa le era accaduto in quella circostanza, cosa ancora le accadeva, e ricorse per la prima volta a quel vocabolo.

Eravamo all'aperto, in cima a una delle palazzine del rione. Sebbene facesse molto freddo avevamo messo abiti leggeri e scollati per sembrare belle. Guardavamo i maschi, che erano allegri, aggressivi, figure nere travolte dalla festa, dal cibo, dallo spumante. Accendevano le micce dei fuochi d'artificio per festeggiare l'anno nuovo, rito alla cui realizzazione Lila, come poi racconterò, aveva collaborato moltissimo, tanto che ora si sentiva contenta, guardava le strisce di fuoco nel cielo. Ma all'improvviso — mi disse —, malgrado il freddo aveva cominciato a coprirsi di sudore. Le era sembrato che tutti gridassero troppo e che si muovessero troppo velocemente. Questa sensazione si era accompagnata a una nausea e lei aveva avuto l'impressione che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stesse spezzando i contorni di persone e cose rivelandosi.

Il cuore le si era messo a battere in modo incontrollato. Aveva cominciato a provare orrore per le urla che uscivano dalle gole di tutti quelli che si muovevano per il terrazzo tra i fumi, tra gli scoppi, come se la loro sonorità obbedisse a leggi nuove e sconosciute. Le era montata la nausea, il dialetto aveva perso ogni consuetudine, le era diventato insopportabile il modo secondo cui le nostre gole umide bagnavano le parole nel liquido della saliva. Un senso di repulsione aveva investito tutti i corpi in movimento, la loro struttura ossea, la frenesia che li scuoteva. Come siamo mal formati, aveva pensato, come siamo insufficienti. Le spalle larghe, le braccia, le gambe, le orecchie, i nasi, gli occhi, le erano sembrati attributi di esseri mostruosi, calati da qualche recesso del cielo nero. E il ribrezzo, chissà perché, si era concentrato soprattutto sul corpo di suo fratello Rino, la persona che pure le era più familiare, la persona che amava di più.

Le era sembrato di vederlo per la prima volta come realmente era: una forma animale tozza, tarchiata, la più urlante, la più feroce, la più avida, la più meschina. Il tumulto del cuore l'aveva sopraffatta, si era sentita soffocare. Troppo fumo, troppo malodore, troppo lampeggiare di fuochi nel gelo. Lila aveva cercato di calmarsi, si era detta: devo afferrare la scia che mi sta attraversando, devo gettarla via da me. Ma a quel punto aveva sentito, tra le urla di giubilo, una specie di ultima detonazione e accanto le era passato qualcosa come un soffio d'ala. Qualcuno stava sparando non più razzi e trictrac, ma colpi di pistola. Suo fratello Rino gridava insopportabili oscenità in direzione dei lampi giallastri.

Nell'occasione in cui mi fece quel racconto, Lila disse anche che la cosa che chiamava smarginatura, pur essendole arrivata addosso in modo chiaro solo in quella occasione, non le era del tutto nuova. Per esempio, aveva già avuto spesso la sensazione di trasferirsi per poche frazioni di secondo in una persona o una cosa o un numero o una sillaba, violandone i contorni. E il giorno che suo padre l'aveva buttata dalla finestra si era sentita assolutamente certa, proprio mentre volava verso l'asfalto, che piccoli animali rossastri, molto amichevoli, stessero dissolvendo la composizione della strada trasformandola in una materia liscia e morbida. Ma quella notte di Capodanno le era accaduto per la prima volta di avvertire entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa. Questo l'aveva sconvolta.

| << |  <  |