Autore Elena Ferrante
Titolo Storia della bambina perduta
Edizioneedizioni eo, Roma, 2014, Dal mondo Italia , pag. 456, cop.fle., dim. 13,5x21x3,4 cm , Isbn 978-88-6632-551-2
Classe narrativa italiana












 

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Pagina 15

1.



A partire dall'ottobre 1976 e fino a quando, nel 1979, non tornai a vivere a Napoli, evitai di riallacciare rapporti stabili con Lila. Ma non fu facile. Lei cercò quasi subito di rientrare a forza nella mia vita e io la ignorai, la tollerai, la subii. Anche se si comportava come se non desiderasse altro che starmi vicina in un momento difficile, non riuscivo a dimenticare il disprezzo con cui mi aveva trattata.

Oggi penso che se a ferirmi fosse stato solo l'insulto - sei una cretina, mi aveva gridato per telefono quando le avevo detto di Nino, e non era mai successo prima, mai, che mi parlasse a quel modo - mi sarei presto acquietata. In realtà, più di quell'offesa, contò l'accenno a Dede e a Elsa. Pensa al male che fai alle tue figlie, mi aveva ammonito, e lì per lì non ci avevo fatto caso. Ma quelle parole acquistarono nel tempo sempre più peso, ci tornai su spesso. Lila non aveva mai manifestato il minimo interesse per Dede e per Elsa, quasi certamente non si ricordava nemmeno i loro nomi. Le volte che avevo accennato per telefono a qualche loro sortita intelligente, aveva tagliato corto, era passata ad altro. E quando le aveva incontrate per la prima volta a casa di Marcello Solara, si era limitata a uno sguardo distratto e a qualche frase generica, non aveva avuto nemmeno un po' di attenzione per com'erano ben vestite, ben pettinate, capaci entrambe, pur essendo ancora piccole, di esprimersi con proprietà. Eppure le avevo fatte io, le avevo tirate su io, erano parte di me, la sua amica di sempre: avrebbe dovuto lasciare spazio - non dico per affetto ma almeno per gentilezza - al mio orgoglio di madre. Invece non era ricorsa nemmeno a un poco di ironia bonaria, aveva mostrato indifferenza e basta. Solo adesso - per gelosia sicuramente, perché mi ero presa Nino - si era ricordata delle bambine e aveva voluto sottolineare che ero una pessima madre, che pur di essere felice io, stavo causando la loro infelicità. Appena ci pensavo mi innervosivo. Lila si era preoccupata forse di Gennaro quando aveva lasciato Stefano, quando aveva abbandonato il bambino alla sua vicina di casa per via del lavoro in fabbrica, quando l'aveva mandato da me quasi per sbarazzarsene? Ah, io avevo le mie colpe, ma ero senza dubbio più madre di lei.




2.



Pensieri di quel genere diventarono una consuetudine, in quegli anni. Fu come se Lila, che su Dede ed Elsa alla fin fine aveva pronunciato soltanto quell'unica frase perfida, fosse diventata l'avvocato difensore dei loro bisogni di figlie, e io mi sentissi obbligata a dimostrarle che aveva torto ogni volta che le trascuravo per dedicarmi a me. Ma era solo una voce inventata dal malumore, cosa pensasse realmente dei miei comportamenti di madre non lo so. Lei è l'unica che può raccontarlo, se davvero è riuscita a inserirsi in questa catena lunghissima di parole per modificare il mio testo, per introdurre ad arte anelli mancanti, per sganciarne altri senza darlo a vedere, per dire di me più di quanto io voglia, più di quanto io sia capace di dire. Auspico questa sua intrusione, me la auguro fin da quando ho cominciato a buttar giù la nostra storia, ma devo arrivare alla fine per sottoporre tutte queste pagine a una verifica. Se ci provassi adesso, certamente mi incepperei. Scrivo da troppo tempo e sono stanca, è sempre più difficile tener teso il filo del racconto dentro il caos degli anni, degli eventi piccoli e grandi, degli umori. Perciò o tendo a sorvolare sui fatti miei per riacciuffare subito Lila e tutte le complicazioni che porta con sé o, peggio, mi lascio prendere dalle vicende della mia vita solo perché le butto giù con più facilità. Ma bisogna che mi sottragga a questo bivio. Non devo andare per la prima strada, lungo la quale - visto che la natura stessa del nostro rapporto impone che io possa arrivare a lei solo passando per me - finirei, se mi metto da parte, per trovare di Lila sempre meno tracce. Né d'altra parte devo andare per la seconda. Che io, infatti, parli della mia esperienza sempre più diffusamente è proprio ciò che lei di sicuro asseconderebbe. Dài - mi direbbe -, facci sapere che piega ha preso la tua vita, a chi importa della mia, confessa che non interessa nemmeno a te. E concluderebbe: io sono uno scarabocchio su uno scarabocchio, del tutto inadatta a uno dei tuoi libri; lasciami perdere, Lenù, non si racconta una cancellatura.

Che fare dunque? Darle ancora una volta ragione? Accettare che essere adulti è smettere di mostrarsi, è imparare a nascondersi fino a svanire? Ammettere che più gli anni avanzano, meno so di Lila?

Questa mattina tengo a bada la stanchezza e mi rimetto alla scrivania. Ora che sono vicina al punto più doloroso della nostra storia, voglio cercare sulla pagina un equilibrio tra me e lei che nella vita non sono riuscita a trovare nemmeno tra me e me.




3.



Dei giorni di Montpellier ricordo tutto tranne la città, è come se non ci fossi mai stata. Fuori dall'albergo, fuori dalla monumentale aula magna dove si teneva il convegno accademico in cui Nino era impegnato, oggi vedo solo un autunno ventoso e un cielo azzurro appoggiato su nuvole bianche. Eppure nella memoria quel toponimo, Montpellier, è rimasto per molti motivi come un segnale di scantonamento. Ero stata già una volta fuori dall'Italia, a Parigi, con Franco, e mi ero sentita elettrizzata dalla mia stessa audacia. Ma allora mi pareva che il mio mondo fosse e sarebbe rimasto per sempre il rione, Napoli, mentre il resto era come una breve scampagnata nel cui clima d'eccezione potevo immaginarmi come di fatto non sarei mai stata. Montpellier invece, che pure era di gran lunga meno eccitante di Parigi, mi diede l'impressione che i miei argini si fossero rotti e che mi stessi espandendo. Il puro e semplice fatto di trovarmi in quel luogo costituiva ai miei occhi la prova che il rione, Napoli, Pisa, Firenze, Milano, l'Italia stessa, erano solo minuscole schegge di mondo e che di quelle schegge facevo bene a non accontentarmi più. A Montpellier avvertii la limitatezza dello sguardo che avevo, della lingua in cui mi esprimevo e con cui avevo scritto. A Montpellier mi sembrò evidente quanto potesse risultare angusto, a trentadue anni, essere moglie e madre. E per tutti quei giorni densi d'amore mi sentii per la prima volta liberata dai vincoli che avevo sommato negli anni, quelli dovuti alla mia origine, quelli che avevo acquisito col successo negli studi, quelli che mi derivavano dalle scelte di vita che avevo fatto, innanzitutto dal matrimonio. Lì capii anche le ragioni del piacere che avevo provato, in passato, vedendo il mio primo libro tradotto in altre lingue e, insieme, le ragioni del dispiacere per aver trovato pochi lettori fuori dall'Italia. Era meraviglioso valicare confini, lasciarsi andare dentro altre culture, scoprire la provvisorietà di ciò che avevo scambiato per definitivo. Il fatto che Lila non fosse mai uscita da Napoli, che anzi si fosse spaventata persino di San Giovanni a Teduccio, se in passato l'avevo giudicato una sua discutibile scelta che però al solito lei sapeva rovesciare in vantaggio, ora mi sembrò semplicemente un segno di ristrettezza mentale. Reagii come quando si reagisce a chi ti insulta con la stessa formula che ti ha offesa. Tu ti saresti sbagliata sul mio conto? No, cara mia, sono io, io che mi sono sbagliata sul tuo: resterai per tutta la vita a guardare i camion che passano per lo stradone.

I giorni volarono. A Nino gli organizzatori del convegno avevano riservato da tempo, in albergo, una camera singola e poiché mi ero decisa troppo tardi ad accompagnarlo, non c'era stato modo di trasformarla in una matrimoniale. Avevamo quindi stanze separate, ma ogni sera io facevo la doccia, mi preparavo per la notte e poi, con un po' di batticuore, lo raggiungevo in camera sua. Dormivamo insieme, stretti l'uno all'altro come se temessimo che una forza ostile ci separasse nel sonno. Al mattino ci facevamo portare la colazione a letto, godevamo di quel lusso che avevo visto solo al cinema, ridevamo molto, eravamo felici. Durante il giorno lo accompagnavo nella sala grande del convegno e sebbene i relatori leggessero pagine e pagine essi stessi con tono annoiato, stare insieme a lui mi entusiasmava, gli sedevo accanto ma senza disturbarlo. Nino seguiva con molta attenzione gli interventi, prendeva appunti e ogni tanto mi sussurrava all'orecchio commenti ironici e parole d'amore. A pranzo e a cena ci mescolavamo ad accademici di mezzo mondo, nomi stranieri, lingue straniere. Certo, i relatori di maggior prestigio se ne stavano a un tavolo tutto loro, noi partecipavamo a una grande tavolata di studiosi più giovani. Ma mi colpì la mobilità di Nino, sia durante i lavori, sia al ristorante. Com'era diverso dallo studente di una volta, anche dal giovane che mi aveva difeso nella libreria di Milano quasi dieci anni prima. Aveva accantonato le tonalità polemiche, valicava con tatto le barriere accademiche, stabiliva rapporti con un piglio serio e insieme accattivante. Ora in inglese (ottimo), ora in francese (buono) conversava in modo brillante sfoggiando il suo vecchio culto delle cifre e dell'efficienza. Io mi sentii piena d'orgoglio per quanto piaceva. In poche ore diventò simpatico a tutti, lo tiravano di qua e di là.

Ci fu un solo momento in cui cambiò bruscamente, fu la sera prima del suo intervento al convegno. Diventò scostante e sgarbato, mi sembrò travolto dall'ansia. Cominciò a dir male del testo che aveva preparato, ripeté più volte che scrivere non gli veniva facile come a me, si arrabbiò perché non aveva avuto il tempo di lavorare bene. Mi sentii in colpa - era stata la nostra complicata vicenda a distrarlo? - e cercai di rimediare abbracciandolo, baciandolo, spingendolo a leggermi le sue pagine. Me le lesse, e io m'intenerii per la sua aria da scolaretto spaventato. L'intervento mi sembrò non meno noioso di quelli che avevo ascoltato in aula magna, ma lo lodai molto e si calmò. La mattina dopo si esibì con un calore recitato, lo applaudirono. La sera uno degli accademici di prestigio, un americano, lo invitò a sedere accanto a lui. Io restai sola ma non mi dispiacque. Quando c'era Nino non parlavo con nessuno, mentre in sua assenza fui costretta ad arrangiarmi col mio francese stentato e familiarizzai con una coppia di Parigi. Mi piacquero perché scoprii presto che erano in una situazione non molto diversa dalla nostra. Entrambi ritenevano soffocante l'istituto della famiglia, entrambi si erano dolorosamente lasciati alle spalle coniugi e figli, entrambi parevano felici. Lui, Augustin, sulla cinquantina, era rosso in viso, aveva occhi celesti molto vivaci, grandi baffi biondicci. Lei, Colombe, poco più che trentenne come me, aveva capelli neri cortissimi, occhi e labbra disegnati con forza su un volto minuto, un'eleganza ammaliante. Parlai soprattutto con Colombe, aveva un bambino di sette anni.

«Ci vuole ancora qualche mese» dissi, «perché la mia prima figlia ne compia sette, ma quest'anno va già in seconda, è bravissima».

«Il mio è molto sveglio e fantasioso».

«Come ha preso la separazione?».

«Bene».

«Non ne ha sofferto nemmeno un po'?».

«I bambini non hanno le nostre rigidità, sono elastici».

Insistette sull'elasticità che attribuiva all'infanzia, mi sembrò che la rassicurasse. Aggiunse: nel nostro ambiente è abbastanza diffuso che i genitori si separino, i figli sanno che è possibile. Ma proprio mentre io le dicevo che invece non conoscevo altre donne separate se non una mia amica, lei cambiò bruscamente registro, cominciò a lamentarsi del bambino: è bravo ma lento, esclamò, a scuola dicono che è disordinato. Mi colpì molto che fosse passata a esprimersi senza tenerezza, quasi con astio, come se il figlio si comportasse in quel modo per farle dispetto, e questo mi mise ansia. Il suo compagno se ne dovette accorgere, si intromise, si vantò dei suoi due ragazzi, uno di quattordici e uno di diciotto, scherzò su quanto piacevano entrambi sia alle donne giovani che a quelle mature. Quando Nino mi tornò accanto i due uomini - soprattutto Augustin - passarono a dire malissimo della gran parte dei relatori. Colombe s'inserì quasi subito con un'allegria un po' artificiale. La maldicenza creò presto un legame, Augustin parlò e bevve molto per tutta la sera, la sua compagna rideva appena Nino riusciva ad aprire bocca. Ci invitarono ad andare a Parigi con loro, in automobile.

I discorsi sui figli, e quell'invito al quale non rispondemmo né sì né no, mi riportarono coi piedi per terra. Fino a quel momento Dede ed Elsa mi erano tornate in mente di continuo, e anche Pietro, ma come sospesi in un universo parallelo, immobili intorno alla tavola della cucina di Firenze, o davanti alla televisione, o nei loro letti. Di colpo il mio mondo e il loro tornarono in comunicazione. Mi resi conto che i giorni di Montpellier stavano per finire, che inevitabilmente Nino e io saremmo tornati alle nostre case, che avremmo dovuto affrontare le rispettive crisi coniugali, io a Firenze, lui a Napoli. E il corpo delle bambine si ricongiunse al mio, ne avvertii violentemente il contatto. Non sapevo niente di loro da cinque giorni e nel prenderne coscienza mi venne una nausea forte, la nostalgia diventò insopportabile. Ebbi paura non del futuro in generale, che pareva ormai imprescindibilmente occupato da Nino, ma delle ore che stavano per arrivare, di domani, di dopodomani. Non riuscii a resistere e sebbene fosse quasi mezzanotte - che importanza ha, mi dissi, Pietro è sempre sveglio -, provai a telefonare.

Fu una cosa abbastanza laboriosa ma alla fine ebbi la linea. Pronto, dissi. Pronto, ripetei. Sapevo che dall'altro capo c'era Pietro, lo chiamai per nome: Pietro, sono Elena, come stanno le bambine. La comunicazione si interruppe. Aspettai qualche minuto, poi chiesi al centralino di chiamare di nuovo. Ero determinata a insistere per tutta la notte, ma Pietro questa volta rispose.

«Che vuoi».

«Dimmi delle bambine».

«Dormono».

«Lo so, ma come stanno».

«Che t'importa».

«Sono le mie figlie».

«Le hai lasciate, non vogliono essere più le tue figlie».

«L'hanno detto a te?».

«L'hanno detto a mia madre».

«Hai fatto venire Adele?».

«Sì».

«Dille che torno tra qualche giorno».

«No, non tornare. Né io, né le bambine, né mia madre ti vogliamo vedere più».

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