Copertina
Autore Alessandro Ferrara
Titolo Religione e politica
Sottotitolonella società post-secolare
EdizioneMeltemi, Roma, 2009, meltemi.edu 117 , pag. 288, cop.fle., dim. 12x19x2,5 cm , Isbn 978-88-8353-669-4
CuratoreAlessandro Ferrara
LettoreGiangiacomo Pisa, 2010
Classe religione , politica , filosofia , diritto
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7 Introduzione
    Alessandro Ferrara

 24 La rinascita della religione:
    una sfida per l'autocomprensione laica della modernità?
    Jürgen Habermas

 42 Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici
    Gustavo Zagrebelsky

 64 "Per amore della libertà".
    Sulla dialettica tra religione e politica
    Michele Nicoletti

 81 Secolarismo e oltre
    Anna Elisabetta Galeotti

100 La vittima "liberata".
    Dono, produzione e consumo nelle strategie di sopravvivenza
    Cristiano-Maria Bellei

118 Filosofia e religione di fronte alla domanda prima
    Gabriella Cotta

140 Il ritorno dalla privatizzazione:
    espressioni dell'identità religiosa
    Alberto Pirni

158 Al tempo dei Golem.
    Trasformazioni dello spazio pubblico ed elisione del politico
    Debora Spini

177 Pluralità etico-religiosa e giustizia politica
    Emanuela Ceva

195 Religione, politica e immaginazione nella società post-secolare
    Chiara Bottici

218 Irreligione e ateismo nel pensiero di Augusto Del Noce
    Salvatore Azzaro

239 Riformare il paradigma "liberale" su religione e politica.
    Per una ripresa post-secolare del tema teologico-politico
    Vittorio Possenti

261 Senso e traduzione. Religioni, culture, logiche identitarie
    Emanuela Fornari

272 Bibliografia

285 Gli autori


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Introduzione

Alessandro Ferrara


Da quando la fine della Guerra dei Trent'anni, oltre tre secoli fa, ha posto le premesse per la nascita e l'affermazione di ordinamenti politici liberali prima e democratici poi, fondati sull'idea di tolleranza e di diritti, non è mai stata dedicata tanta attenzione al fenomeno religioso come negli ultimi dieci anni. Laddove il fervore religioso dell'Anno Mille era intriso di motivi escatologici e di grandi suggestioni intraconfessionali, quello che ruota attorno al secondo cambio di millennio trae origine in larga parte da motivi esterni alle fedi religiose stesse. Per uno di quei terremoti storici che sconvolgono entro il breve lasso di una generazione l'orizzonte stesso entro cui si pensa la propria storia, sono rapidamente mutati due tratti del contesto entro cui la vita religiosa ha luogo nelle nostre società.

In primo luogo, dopo il 1989 e la rapida dissoluzione del blocco dei paesi socialisti, il venir meno della Guerra Fredda come asse principale della polarizzazione politica sul piano globale ha proiettato la fede religiosa e l'affiliazione alle comunità religiose come principale fattore di aggregazione identitaria e di identificazione popolare. Per milioni e milioni di persone situate fra i paesi ex-socialisti o del mondo islamico l'identificazione religiosa è ridiventata una chiave per comprendere la propria collocazione politica nel mondo, in una maniera che antecedentemente al 1989 era offuscata dalla identificazione con uno o con l'altro dei due sistemi socio-economici rivali ovvero con la ricerca di una mitica "terza via". Il venir meno del conflitto fra i due sistemi capitalistico e socialista fa sì, in breve, che ora ci si comprenda, come già fu in passato, in primo luogo come appartenenti a una civiltà ancorata a determinate radici religiose.

In secondo luogo, l'ultima delle grandi narrazioni di cui la fine del secolo XX ha reso manifesta la natura ideologica è quella che va sotto il nome di secolarizzazione. Al pari dell'idea di un progresso storico verso una società socialista mondiale o dell'idea di un cammino unico verso la "modernizzazione", altrettanti dubbi sono venuti addensandosi sulla concezione per cui al modernizzarsi di una società – misurato in termini di intensificazione della divisione del lavoro, di accrescimento del pluralismo politico e culturale, di centralità del mercato e dei processi economici in genere, e di accelerazione della vita sociale – "corrisponderebbe" un ritrarsi del fenomeno religioso dalla dimensione pubblica a quella privata, uno specializzarsi dei gruppi religiosi e una perdita di ogni loro funzione al di là di quella di una condivisione e riproduzione di forme rituali. E – questo era il corollario della secolarizzazione come ideologia – un graduale prosciugarsi del contributo funzionale delle comunità religiose alla vita sociale e della loro valenza pubblica non poteva non essere il preludio a una scomparsa del fenomeno religioso tout court. Alla fine, una società compiutamente moderna sarebbe stata una società in cui ogni dimensione di trascendenza sarebbe stata non solo esclusa dall'ambito pubblico ma anche resa tutto sommato marginale in quello privato.

Questi due mutamenti, il cui impatto è stato grandemente moltiplicato dal loro operare congiuntamente e nella medesima fase storica, pongono domande e sollecitano riflessioni in tutte le discipline, filosofiche e sociali, che hanno a oggetto l'agire sociale e politico – dalla filosofia politica a quella del diritto, dal diritto costituzionale alla sociologia della religione e alla sociologia dei fenomeni politici, dei gruppi, dei movimenti collettivi, del mutamento, dalla teoria sociale alla scienza della politica. Ma pongono una domanda di cruciale importanza alla filosofia politica: in che modo dobbiamo ripensare il modo in cui la separazione di religione e politica, Stato e Chiesa, è stata storicamente intesa e realizzata nelle società occidentali? È palese infatti che una cosa è il pensare tale separazione in un contesto in cui l'affiliazione religiosa non è il fattore di identificazione primario dei gruppi sociali e delle formazioni politiche e in cui è diffusa l'aspettativa di una graduale scomparsa del fenomeno religioso, altra cosa è pensare la separazione di religione e politica, Stato e Chiesa in un contesto in cui la dimensione religiosa è ridiventata fattore identitario di importanza precipua, e inoltre non soltanto nessuno si attende la sua scomparsa ma, al contrario, vi è un crescente apprezzamento del suo contributo positivo all'integrazione sociale e del suo valore in sé come forma di esperienza umana.

Su questo interrogativo abbiamo, come comunità scientifica dei filosofi politici italiani, lavorato insieme a una riflessione ampia che ha toccato un po' tutti i risvolti e le implicazioni del mutato scenario che abbiamo di fronte. Questo volume è la testimonianza di un lavoro comune, culminato in un importante convegno su "Religione e politica nella società post-secolare" tenutosi a Roma alla Sala della Protomoteca in Campidoglio, presso il Centro Studi Americani e l'Università di Roma Tre, nel settembre 2007. Abbiamo chiamato illustri ospiti a discutere con noi e a confrontarsi su questi temi: in primis Jürgen Habermas, uno dei massimi protagonisti della filosofia mondiale, a cui dobbiamo alcune delle considerazioni più stimolanti sull'idea di una società "post-secolare", e Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista insigne e interprete eccellente dell'idea di laicità.

Con le loro proposte teoriche si apre questa discussione.

Nel saggio La rinascita della religione: una sfida per l'autocomprensione laica della modernità? Habermas elabora un'importante messa a punto delle sue tesi su ragione e fede. Per un verso, la ragione filosofica opera una rinuncia: non dovrà più considerarsi l'unica dispensatrice di attestati di razionalità alle altre formazioni di senso, inclusa la religione. Ma, per l'altro, ascoltare con rispetto la voce pubblica delle fedi non significa rinnegare che la giustizia in terra parla inequivocabilmente l'idioma della ragione laica. Troviamo qui un'implicita sfida alla tesi, espressa da Joseph Ratzinger, per cui è l'Europa secolare a costituire l'eccezione in un mondo in cui ovunque la religione ha un ruolo pubblico. Se "secolarizzazione" e "laicità" significano "distanziazione riflessiva" dalle proprie certezze, apertura verso la possibilità che la verità abiti altrove e rinuncia a imporre con la forza contenuti che non incontrino il consenso altrui, "secolarizzarsi" è un'opzione irrinunciabile, non una scelta come un'altra.

Perché un'opzione irrinunciabile? Rifacendosi all'opera di Shmuel Eisenstadt, Habermas propone un quadro secondo cui dalla globalizzazione economica e dai movimenti migratori va emergendo una "società mondiale", composta da varie "civiltà" che raccolgono una pluralità di società nazionali e reagiscono in modo diverso, culturalmente marcato e potenzialmente rivale, alle medesime sfide cui la dinamica omologante della modernizzazione economica sottopone egualmente tutti. Basta porsi il problema di quali rapporti vorremmo che queste civiltà intrattenessero fra loro per comprendere l'inconsistenza della tesi dell'eccezionalità europea. Vogliamo immaginare che le varie civiltà di cui si compone la world society si rapportino lungo una dimensione di amico-nemico, alleandosi o confliggendo intorno a visioni alternative del bene, ispirate alla religione? Che il mondo diventi il teatro di conflitti di civiltà? O vogliamo immaginare che invece, pur nella diversità delle risposte culturali fornite alle medesime sfide, queste civiltà vogliano coltivare un "discorso interculturale" intorno ai principi di un'equa e pacifica coesistenza fra i popoli della Terra? E in questo discorso interculturale sull'assetto equo e giusto del mondo non dobbiamo immaginare che le parti debbano fare un passo indietro rispetto al pretendere che il loro punto di vista sia l'unico valido? Non dobbiamo immaginare che debbano apprendere a usare solo argomenti condivisibili anche da quelli che partono da un punto di vista diverso dal proprio? E questa non è esattamente la distanziazione riflessiva dalle proprie certezze sottesa al punto di vista laico? Se queste ci appaiono domande retoriche, ciò indica che in fondo l'idea europea di laicità e il suo pendant di secolarizzazione, con la sospensione delle certezze ultime, vanno considerati non già come una deviazione temporanea di società opulente e indifferenti, ma come una possibile prefigurazione dell'ethos interculturale di una società mondiale in cui le diverse civiltà si incontrano invece che scontrarsi.

Su questa stessa lunghezza d'onda, ma con una nota di maggiore cautela riguardo alla possibilità di un pacifico realizzarsi di un regime "post-secolare" di rapporti fra religione e politica, si sviluppa la riflessione di Gustavo Zagrebelsky. Nel suo saggio Stato e Chiesa. Cittadini e cattolici, Zagrebelsky prende le mosse dal celebre detto di Böckenförde secondo cui lo Stato liberale moderno e secolare poggerebbe su presupposti culturali la cui riproduzione, pur vitale per la continuità della libertà, esso stesso non è in grado di garantire. Mettendone in luce gli elementi di continuità con la polemica ottocentesca anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, Zagrebelsky si tiene prudentemente lontano dall'entrare sullo scivoloso terreno della sua validità empirica e sviluppa un'interessante argomentazione sulla forma che il rapporto fra politica e religione potrebbe assumere qualora quella tesi fosse giustificata, interrogandosi sulle forme che un ricorso "post-secolare" alla religione non più per la salvezza dell'anima, ma per la salvezza della società, può assumere: "dopo il divorzio della società secolarizzata dal mito e dalla religione, dopo il 'disincanto' – si chiede Zagrebelsky – ci troviamo di fronte a una 'nuova alleanza'?" (Zagrebelsky infra, pp. 47-48).

Siamo alle soglie di un bivio, le cui strade alternative conducono a versioni assai diverse di un ordine "post-secolare": "la prima strada si sviluppa sotto il segno della Chiesa come istituzione sovrana che guarda allo Stato, come altra istituzione sovrana, e ai suoi organi; la seconda, sotto il segno della chiesa, come comunità di cittadini credenti, che guarda alla società di cittadini, credenti e non credenti" (Zagrebelsky infra, p. 50).

Se imbocchiamo la prima alternativa, la tentazione, in cui molti estimatori di Böckenförde più conservatori di lui cadono facilmente, è quella di una via confessionale al post-secolare, che in realtà ricorda assai da vicino il pre-secolare.

Spesso questa concezione ama esprimersi qualificando la laicità dello Stato e delle istituzioni con un qualche aggettivo: "sana", "giusta", "nuova". Ma il bersaglio a cui questo approccio mira è il cuore del principio stesso della separazione: prende di mira "l'equidistanza dello Stato rispetto a tutte le confessioni religiose e alle concezioni della vita anche non religiose", ravvisando proprio in questa equidistanza ciò che nella "vecchia" laicità va sottoposto a revisione, ovvero "il cedimento dello Stato al relativismo etico che corroderebbe le odierne società occidentali. Da qui, la richiesta allo Stato affinché sia riconosciuta e protetta in modo particolare, cioè non come una tra le molte forze spirituali presenti nella società, ma come un 'patrimonio civile' speciale, la 'religione nazionale storica', e che questa sia riconosciuta non (solo) quale espressione di un diritto fondamentale della coscienza, ma quale fattore di coesione civile" (Zagrebelsky infra, p. 59).

Lungo è l'elenco delle manifestazioni concrete a cui si accompagna l'adozione di questa via confessionale e che, come indicatori empirici, ce la rendono riconoscibile: "l'esposizione dei simboli religiosi 'nazionali' nei luoghi e nelle occasioni pubbliche civili, a preferenza o con esclusione di simboli di religioni diverse da quella nazionale; la 'de-confessionalizzazione' di tali simboli e la loro riduzione a rappresentazioni di un ethos civile; l'equiparazione simbolica delle autorità religiose alle autorità civili, nelle cerimonie civili e la partecipazione istituzionale (cioè indipendentemente dall'adesione di fede personale) delle autorità civili alle cerimonie religiose; l'apertura di spazi privilegiati nell'istruzione e nella comunicazione di massa; l'agevolazione economica (sovvenzioni, esenzioni tributarie) alle attività religiose della religione nazionale; infine, l'enfatizzazione nella sfera civile delle cerimonie religiose, specie di quelle di massa, la loro spettacolarizzazione e, quindi, l'omologazione concettuale e culturale del momento religioso pubblico e di quello civile; l'accesso al territorio dello stato facilitato o riservato a immigranti che professano la stessa religione nazionale, in parallelo religioso alla funzione dei test di conoscenza della lingua nazionale e ai giuramenti di fedeltà ai principi della Costituzione" (Zagrebelsky infra, p. 60). Severo è il giudizio di Zagrebelsky su questa opzione: viene qui a configurarsi una specie di religione non già "di Stato" ma "di nazione", la quale non giunge all'intolleranza aperta nei confronti degli altri credi, ma rischia di "creare disuguaglianze e, perciò, discriminazioni" e "ripropone un'alleanza tra religione e potere pubblico, dove la forza etica dell'una è chiamata a sorreggere la forza politica dell'altro, e viceversa".

L'altra alternativa – la via non confessionale al post-secolare, in cui in ultima analisi si sostanzia la proposta di Zagrebelsky – parte dalla sobria constatazione che "la città degli uomini e la città di Dio, chiunque sia il nostro Dio, non coincideranno mai (...) fino a quando gli esseri umani saranno posseduti da una coscienza che trascende la pura immanenza" (Zagrebelsky infra, p. 58). Lungi dal rappresentare una sciagura, questo iato impone al teorico della politica e al costituzionalista il compito di "ricordare le tragiche esperienze del passato e ammonire sui rischi del futuro", e di operare nel presente affinché la linea del possibile scontro fra posizioni ultimative e inconciliabili – quella che con Rawls potremmo chiamare la radicalizzazione dello scontro fra concezioni comprensive incompatibili – "si spinga sempre più in là e il terreno della convivenza si allarghi sempre di più". Ed è qui che lo Stato costituzionale, "con la sua capacità d'accoglienza e integrazione pluralista tramite principi di libertà e di uguaglianza, mostra le sue insostituibili virtù". Al fondo, alla base di queste virtù, è il principio di una laicità che non richiede aggettivi qualificativi, la pura realizzazione dell'eguaglianza dei cittadini.

Dalle vicende del post-secolare, il saggio di Michele Nicoletti, "Per amore della libertà". Sulla dialettica tra religione e politica, ci riporta a un'interrogazione sulle origini della secolarità dell'ordine politico e ne segue le vicissitudini in un grande affresco che ci conduce sino all'età contemporanea. L'intrinseca secolarità della politica appare già evidente nella polis antica, dove la nascita della città come ordine affidato alla decisione umana si accompagna a un'interpretazione razionale del divino contro le divinità irrazionali dei poeti. Tuttavia, anche lo spazio della città può essere sacralizzato e necessita di una relativizzazione ad opera di una ragione personale e di una divinità il cui rapporto con l'uomo passa attraverso l'interiorità (Socrate).

La costituzione del politico come spazio secolare avviene attraverso un doppio movimento di neutralizzazione: in primo luogo la neutralizzazione delle pretese di validità assoluta dei modelli di giustizia arcaica nella vita della città operata da una ragione pratica che agisce secondo il paradigma della giustizia umana e ha di mira l'istituzione di un ordine concreto pacificato; in secondo luogo la neutralizzazione delle pretese di auto-sacralizzazione del politico, neutralizzazione operata da una ragione teoretica che ponendosi incessantemente alla ricerca della verità mette in questione la legittimità dell'ordine costituito e lo costringe a mettere in atto un processo di giustificazione razionale.

La tesi avanzata da Nicoletti è che questi due momenti siano entrambi costitutivi della secolarità del politico, che non possano essere isolati l'uno dall'altro, e che non solo nell'antico ma anche nel moderno sia possibile rinvenire la stessa dialettica. Lo Stato moderno nasce (anche) come strumento di neutralizzazione delle guerre di religione. E anche lo Stato moderno con ciò si espone al rischio di una sua assolutizzazione, se non di una sua vera e propria sacralizzazione, con il fenomeno di una religione di Stato o, addirittura, di uno Stato come entità religiosa. Di fronte a questa sacralizzazione, di nuovo si erge la critica della ragione, che nell'età moderna trova il suo culmine nell'interrogazione illuminista. Tale ricerca razionale della verità, che si accompagna alla richiesta di un uso pubblico della ragione, neutralizza le pretese assolutistiche del potere e lo costringe a giustificarsi non solo in termini di prestazioni pratiche (la pace temporale), ma anche di rispondenza a principi di giustizia accolti come veri.

Infine, nell'età contemporanea, la costruzione della secolarità del politico si avvale di due elementi fondamentali: il riconoscimento della libertà religiosa e il pluralismo istituzionale. La libertà religiosa deve essere riconosciuta e tutelata dalle istituzioni politiche, ma anche da quelle religiose e per questo, sul fronte religioso, deve essere teologicamente giustificata. Dunque un'accettazione non strumentale della società liberai-democratica da parte delle confessioni religiose si fonda su un'auto-comprensione della religione stessa come religione della libertà. Un regime di libertà religiosa, tuttavia, non si può mantenere solo in forza della dialettica tra potere politico e coscienza. Ha bisogno anche del riconoscimento del pluralismo delle istituzioni. Anche se ciò può comportare nello Stato il permanere di una dialettica aperta. Ma appunto questa dialettica aperta, che non ha soluzione definitiva, ma solo stabilizzazioni provvisorie sulla base del mutuo rispetto, può assicurare la libertà.

Coloro che nutrono qualche dubbio intorno alla categoria del "post-secolare" troveranno un'acuta conferma delle proprie perplessità nel saggio Secolarismo e oltre, di Elisabetta Galeotti. Partendo dai rilievi mossi da Habermas alla concezione tradizionale del secolarismo, Galeotti si domanda se una società democratica e liberale possa alla fine fare veramente a meno di una qualche concezione del secolarismo. La risposta è negativa: le ragioni per cui il secolarismo è stato proposto riguardano la protezione di valori e principi fondamentali quali l'eguaglianza di rispetto, la non-discriminazione e l'eguaglianza delle libertà. Il problema all'ordine del giorno sembra dunque quello di definire una concezione accettabile del secolarismo che protegga quei valori, ma risponda alle critiche che Habermas e altri hanno sollevato alla sua versione più corrente. L'autrice passa in rassegna alcune concezioni del secolarismo per poi proporne una versione originale, centrata più sulla neutralità del trattamento dei cittadini da parte delle istituzioni che non sul tipo di ragioni ammesse o escluse nel dibattito pubblico.

I due saggi che seguono spostano l'attenzione su temi di carattere più generale. Cristiano Maria Bellei, nel suo La vittima "liberata". Dono, produzione e consumo nelle strategie della sopravvivenza, ci invita a considerare il rapporto fra religione e politica sullo sfondo di quel principio d'indifferenziazione di cui è portatrice la morte. La società umana può esistere solo là dove venga individuata una strategia in grado di ridurre sensibilmente il potere ansiogeno del morire. Sacro e religione riescono in questo compito organizzando rituali grazie ai quali è possibile creare luoghi della sicurezza, spazi della vita purificati dalla morte. Il sacrificio è il più diffuso di questi riti: una strategia di corruzione della morte fondata sul consumo del dono da parte della Divinità. Ma cosa accade – si chiede Bellei – se la gerarchia del pasto sacrificale si rovescia? La determinazione dell' essere supera la mimesi col Dio per identificarsi con il consumo in sé. Accrescimento, produzione e consumo si saldano in un'unica strategia che non ha più come momento centrale il dono alla morte, ma l'interdizione dell'accesso al dono come negazione della vita. Non è possibile – questo è il messaggio – comprendere la crisi attuale del rapporto tra politica e religione senza partire da qui. Solo sullo sfondo di un contesto segnato dall'incertezza della vita, come pure dalla liquidità delle identità e delle appartenenze, è possibile interpretare il rinascere di forme del religioso che ormai si consideravano residuali.

Gabriella Cotta, nel suo Filosofia e religione dinnanzi alla domanda prima e nella loro relazione con la politica, osserva quanto si faccia urgente prendere in considerazione il tema religioso in un quadro globale e multiculturale solcato da tensioni e sovvertito nei suoi confini tradizionali. La religione, come già sottolineato, si presenta spesso come fattore identitario portatore di istanze etiche e visioni antropologiche, la cui importanza non va sottovalutata nella comprensione delle nuove dinamiche politiche. Ma, da un punto di vista più prettamente filosofico, va riproposta la domanda che l'orizzonte post-metafisico auspicato da Habermas tende a oscurare, ovvero se mai sia possibile, per qualsiasi tipo di riflessione filosofica, prescindere totalmente dalla questione per eccellenza o "domanda prima", formulata da Leibniz e ripresa da Heidegger, sulle ragioni dell'essere piuttosto che del non-essere. La risposta è che, di fatto, ogni forma di ragionamento filosofico, nella misura in cui vuole continuare a essere tale, si attesta comunque su di uno dei versanti possibili che tale domanda apre e, a partire da lì, costruisce il proprio sistema teorico e concettuale. Se questo è vero, da qui occorre ripartire per ricostruire il nucleo teorico rappresentato dal e nel cristianesimo – un nucleo che risponde alla domanda fondamentale ponendo come tema cardine il rapporto di ogni ente all'essere trascendente, che si autopone, e dalla relazione al quale ogni cosa trae la sua giustificazione. Ma fare questo significa riflettere intorno al tipo di antropologia coerente con questo presupposto, valutando se e quanto essa possa entrare in dialogo costruttivo con i problemi che oggi si pongono alla convivenza globale.

Nei due saggi successivi l'attenzione torna a centrarsi sulle caratteristiche dello spazio pubblico di una società post-secolare. Nel lavoro di Alberto Pirni, Il ritorno dalla privatizzazione: espressioni dell'identità religiosa, vengono messi a fuoco i nuclei tematici attorno a cui si serra il confronto teorico e politico: una più fluida delineazione del confine pubblico/privato, in grado di rendere conto dell'effettivo processo di costruzione dell'identità religiosa (individuale e di gruppo); una profonda riconsiderazione del concetto di laicità dello Stato, che superi una concezione ristretta di multiculturalismo per "ghetti contigui"; una rinnovata elaborazione del nesso tra identità religiosa e identità sociale, capace di offrire nuovi spunti per interpretare la molteplice dimensione dell'appartenenza.

Si tratta di un confronto che si è reso particolarmente evidente e acceso, a partire dal molteplice processo di de-privatizzazione che le tradizioni religiose stanno attraversando in contesti socio-politici anche molto differenti, rivendicando un maggiore spazio pubblico e rifuggendo dal ruolo marginale e privatizzato del loro esprimersi nel quale le teorie della secolarizzazione ritenevano di poterle definitivamente relegare. Ci si trova così di fronte, secondo Pirni, da una parte al rapportarsi tra cittadini laici e cittadini credenti, che si sentono oggi variamente minacciati gli uni dalla rinnovata presenza degli altri sulla scena pubblica e, dall'altra, al reciproco relazionarsi tra chi ha compiuto un percorso di individualizzazione e privatizzazione della propria identità religiosa e chi, soprattutto tra i gruppi di recente immigrazione, non concepisce altra modalità per esprimerla al di fuori di quella comunitaria e pubblica. Si tratta di due confronti strettamente intrecciati che pongono nell'agenda politica della contemporaneità sfide difficilmente aggirabili, sia sul piano della neutralità ideologica delle istituzioni pubbliche, sia su quello della convivenza "ragionevole" entro i confini di una medesima compagine sociale.

Per Debora Spini, autrice del saggio Al tempo dei Golem. Trasformazioni dello spazio pubblico e elisione del politico, lo spazio pubblico appare sempre più dominato da conflitti identitari e da dibattiti su temi che mettono in gioco valori ultimi; soggetti e gruppi religiosi sono sempre più presenti nei dibattiti politici, al punto da giustificare una diagnosi di post secolarizzazione. Da un lato, si rende evidente la necessità di attrezzare sfere pubbliche in grado di affrontare questioni valoriali, e di offrire ambiti di inclusione anche a persone, o gruppi, le cui credenze non siano immediatamente riducibili alla "ragionevolezza" liberale. In altri termini, si pone il problema di andare oltre la semplice tolleranza, o persino oltre la difesa della libertà di coscienza, verso uno spazio pubblico nel quale tutti i cittadini possano percepirsi come soggetti di riconoscimento. D'altro canto, l'elaborazione di nuovi processi di inclusione non può prescindere dalla ricerca di forme politiche e strutture normative, radicate in un'affermazione riflessiva dell'autonomia personale come valore proprio delle democrazia liberali.

Da questo punto di vista il sovraccarico dello spazio pubblico, ormai evidente a livello dei singoli stati territoriali, deve essere letto su uno sfondo ancora più ampio: l'erosione dell'efficacia dell'azione politica. La politica, infatti, risente di processi di allontanamento delle possibilità decisionali rispetto ai tradizionali "corpi politici" e della difficoltà di riuscire ad affermare un controllo reale sui grandi processi economici e comunicativi che contraddistinguono un mondo ormai globalizzato. La dimensione del "politico" si trova a cedere terreno di fronte a soggetti, temi e modi d'azione mutuati da ambiti molto diversi. Questo processo non è dovuto solo alla crisi dello Stato territoriale nazionale, quanto piuttosto a una più generalizzata perdita di capacità di controllo rispetto alle grandi sfide globali, le quali, per le loro peculiari caratteristiche di inerzialità e di riflessività, erodono sempre di più gli spazi effettivi e il senso dell'agire politico tradizionalmente inteso.

Al centro del contributo di Emanuela Ceva è il rapporto fra riflessione filosofica intorno alla giustizia e pluralismo etico-religioso. In primo luogo il suo saggio Pluralità etico-religiosa e giustizia politica ci presenta le ragioni in base alle quali la presenza di una pluralità di dottrine religiose ed etiche dovrebbe essere riconosciuta quale "circostanza di giustizia politica" significativa. Da queste ragioni segue la proposta di un approccio teorico connotato in termini minimali e procedurali. Prendendo le distanze da quella ampia parte della letteratura sull'argomento che tende a stabilire una relazione d'implicazione diretta tra pluralismo e giustizia procedurale, Ceva argomenta che dall'adozione di una prospettiva pluralista segue soltanto la necessità di definire in chiave minimale la teoria della giustizia, ossia di farle assumere il meno possibile in termini di valori e visioni del mondo controverse. La sua formulazione della teoria in termini procedurali viene invece presentata come una conseguenza derivativa, collegata al limitato potere predittivo di ogni teoria di fronte alla varietà di situazioni applicative. Data la natura eterogenea di tali situazioni, una teoria politica della giustizia pare essere incapace di dare una caratterizzazione sostantiva di esiti giusti che sia trans-contestualmente applicabile. Da qui la conseguenza che una teoria della giustizia ispirata a una prospettiva pluralista dovrebbe non solo essere minimale dal punto di vista sostantivo, ma dovrebbe anche limitare le sue prescrizioni alla formulazione di linee guida procedurali, applicabili a contesti differenti.

Il saggio di Chiara Bottici, Religione, politica e immaginazione nella società post-secolare, mette in luce un aspetto fin qui meno indagato dalla teoria politica, ma che rivela una cruciale importanza quando si venga a trattare di religione e politica: ossia il nesso di politica e immaginazione. Il nuovo ruolo assunto dalla religione all'interno della politica, infatti, viene interpretato da Bottici come legato a una profonda trasformazione dell'immaginazione. Muovendo dalle riflessioni di Arendt e Castoriadis sull'immaginazione, Bottici suggerisce che l'immaginazione è sempre stata centrale alla politica sia che la si intenda come quell'attività che riguarda il pubblico, la polis in senso più generale, sia che la si consideri, in un senso più ristretto, come quell'attività caratterizzata dal ricorso alla coercizione fisica legittima.

Il mutamento indotto dalla rivoluzione tecnologica degli ultimi vent'anni sembra tuttavia aver prodotto un mutamento profondo di tale nesso. L'aumento quantitativo delle immagini che entrano in politica sembra aver prodotto anche un mutamento qualitativo: le immagini che entrano come un fiume nelle case di miliardi di telespettatori ogni giorno non sono più ciò che media il nostro fare politica, ma ciò che rischia di fare politica al nostro posto. Ridotta a pura tecnica, da un lato, e a vuoto spettacolo di se stessa, dall'altro, la politica pare oggi essere divenuta incapace di fornire risorse di senso. L'immaginazione politica preda del paradosso di una sua contemporanea ipertrofia ed essiccazione si trova quindi ad aprire le porte alla religione, la quale, in quanto sistema di credenze volto all'eliminazione della contingenza, rimane uno dei serbatoi di senso per eccellenza.

Il problema, tuttavia, è che se si guarda al crescente ruolo pubblico e politico della religione dal punto di vista dell'immaginazione esso pare più difficilmente conciliabile con il quadro liberale o deliberativo di un'"autonomia pubblica". Una volta immessi massicciamente nell'immaginario politico, i contenuti religiosi non sono facilmente confinabili alla sola sfera pubblica informale, come prevede la soluzione habermasiana. Il pericolo è che l'immaginazione politica contemporanea, presa nella duplice morsa della sua tecnicizzazione e della sua spettacolarizzazione, aprendo incondizionatamente le porte alle risorse di senso religiose, rischi di essere fagocitata da tali contenuti.

Salvatore Azzaro, nel suo saggio La denuncia della progressiva affermazione del fenomeno della secolarizzazione nella società cristiana nel pensiero di Augusto del Noce, sceglie di affrontare il nesso di religione e politica rivisitando il pensiero di un autore non direttamente legato al dibattito contemporaneo eppure attuale nella sua proposta teorica. Nell'avviare un'indagine sistematica intorno a quella che può esser detta la nostra epoca, del Noce non volle procedere per analogie sociologiche, né presentarsi come un rinnovato metafisico, ma, evidenziando da una parte l'irreversibilità di certe connessioni insite nel processo storico delle idee, volle porre esplicitamente dall'altra i problemi relativi al rapporto tra filosofia e politica nel pensiero anche contemporaneo. L'ateismo filosofico-politico, postulatorio, dell'Occidente rappresenta per lui il punto di partenza di fatto di un percorso che ne coglie la novità nel quadro di quella che De Felice ha definito una "interpretazione transpolitica" della storia contemporanea. Ciò avviene in Del Noce secondo una linea che, per la sua stessa interna coerenza, attraverso le sue varie fasi, isola paradossalmente in se stessa e separa felicemente dalla pratica quella che purtuttavia è forse, come recentemente ha scritto Giuseppe Riconda, la maggiore espressione del pensiero cattolico del secondo Novecento in Italia – parallelamente, si potrebbe aggiungere, a quel che fu in Francia, per la prima metà del secolo, il pensiero di Maritain. Con quest'ultimo pensatore, la posizione delnociana condivide del resto, all'interno di un dichiarato orizzonte comune (la sua "fedeltà" a Maritain fu costantemente ribadita, nella critica), una posizione non confessionale, né clericale, perché guadagnata attraverso una tematizzazione esplicita del significato intrinsecamente religioso dell'impegno pubblico delle Chiese, contro ogni "adattamento strumentale" di qualsivoglia istituzione al nuovo "ambiente secolare".

Il saggio di Vittorio Possenti, Riformare il paradigma "liberale" su religione e politica? prende le mosse dalla constatazione che il dialogo tra pensiero secolare e pensiero religioso rimane in Occidente un crocevia permanente, coniugato secondo forme che vanno dall'estremo della totale separazione ed estraneità a quello di una collaborazione dialogica. Sono oggi in crescita i paradigmi che vedono le due prospettive chiamate a cooperare a scopo di intesa civile, nonché di freno contro un eccesso di autodestituzione della ragione. Possenti si dichiara però scettico riguardo alla possibilità di scindere l'esistenza politica dei cittadini in una parte pubblica e in una privata: è in questa difficoltà che riemerge il problema teologico-politico, una costante che da Platone (Leggi e Repubblica) sino al XX secolo accompagna lo svolgimento del pensiero e della prassi. Diceva Proudhon: "Il est surprenant que au fond de la politique nous trouvions toujours la théologie". La fine di ogni teologia politica (Peterson contro Schmitt) sembra dunque una leggenda.

In particolare, secondo Possenti "il tema teologico-politico rimarrà impostato in maniera precaria" – e di qui la necessità di una riforma del liberalismo – "se elude in linea di principio la domanda sulla verità della religione, una questione cui la modernità filosofica ha dato spesso o una risposta negativa (Spinoza), o subordinante nel senso che la religione è in seconda posizione rispetto alla filosofia (Hegel, Gentile)" (Possenti infra, p. 259), e se trascura di concettualizzare gli apporti fecondi che le tradizioni religiose possono offrire alla convivenza civile e politica. Fra questi contributi troviamo, secondo Possenti: "1) intuizioni etiche capaci di liberare l'uomo e di renderlo attento all'alterità, con l'implicita possibilità di tradurre in un linguaggio pubblico paradigmi di vita buona, di giustizia, di uomo che il soggetto centrato su se stesso non è in grado di raggiungere; 2) forza motivante all'agire retto ed energia riformatrice; 3) capacità di mantenere aperto l'orizzonte trascendente e fare dell'uomo un essere che non appartiene interamente alla polis" (Possenti infra, p. 260).

Infine, il saggio Senso e traduzione. Religioni, culture, logiche identitarie, di Emanuela Fornari, parte dalle più recenti argomentazioni habermasiane sul nesso religione-politica e intende mostrare come l'odierna querelle attorno al "teorema della secolarizzazione" induca a decostruire una serie di coppie analitiche opposizionali (moderno/tradizionale, sistemico/culturale) che ne hanno fino a oggi orientato la comprensione. L'uso politico della religione – piuttosto che corrispondere a una logica dell'arcaico in via di sparizione sotto l'ondata secolarizzante della modernizzazione – si inserisce infatti agevolmente entro un quadro che vede la "modernità" declinata e rivisitata a partire da differenti istanze identitarie. E tuttavia, in contrasto con interpretazioni linearmente "culturalistiche" del panorama globale (ad esempio quelle incluse nel paradigma delle "modernità multiple"), il saggio vuole mostrare come la radicalizzazione culturalistica delle religioni (e la loro eticizzazione) si ponga in una relazione di stretta interdipendenza con le dinamiche sistemiche e tecno-economiche di formazione di una "società mondiale". In conclusione, Fornari prende in considerazione la recente proposta habermasiana di adottare le categorie di comparazione e traduzione come strumenti per ripensare la costituzione dell'universale, per un verso ponendone in rilievo i limiti e l'ipoteca eurocentrica, per l'altro invece analizzandone la fecondità teorica in quanto paradigmi linguistico-simbolici alternativi al modello procedurale basato su "filtri" apposti ai circuiti della comunicazione.


Nessuno può dire di aver posto una parola conclusiva a questa discussione sui destini della religione nelle società del XXI secolo, sulle nuove forme che la separazione di Stato e Chiesa assumerà, sul legittimo modo di esercitare un ruolo pubblico da parte delle comunità religiose. Se abbiamo contribuito a mettere meglio a fuoco le poste che sono in gioco nel riconsiderare il nesso di religione e politica in una società in via di divenire post-secolare abbiamo raggiunto il nostro scopo.


Per averci aiutato con la sua presenza, la sua disponibilità al dialogo e all'ascolto, la sua creatività filosofica, la sua capacità di sintesi e di riformulazione dei temi del nostro tempo, siamo grati al primo e più illustre dei nostri contributori, Jürgen Habermas, a cui il curatore e quanti hanno scritto in questo volume augurano ogni bene nella ricorrenza del suo ottantesimo compleanno.

| << |  <  |