Autore Gian Arturo Ferrari
Titolo Libro
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2014, I sampietrini 12 , pag. 216, cop.fle., dim. 11x17,7x1,8 cm , Isbn 978-88-339-2480-9
LettoreCristina Lupo, 2014
Classe libri , scrittura-lettura , storia sociale












 

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Indice


    Libro

 11 Su il sipario

 17 Introduzione. Tre libri

    Libro primo     Il primo libro, il libro manoscritto

    1.  Nascita in un magazzino, 23
    2.  Nascita dei testi, nascita degli scribi, 26
    3.  Nascita dell'alfabeto, 30
    4.  Nonchalance greca, 32
    5.  Parola viva, lettera morta, 35
    6.  Nascita dell'autore, 39
    7.  Nascita del lettore, 41
    8.  Nascita (alla buon'ora!) del libro, 43
    9.  Copie infedeli, 46
    10. Il libro vivo, 49
    11. Il mondo in forma di libro, 55
    12. ll libro varca il tempo, 57

    Libro secondo   Il secondo libro, il libro stampato

    1.  La faccia del mondo, 63
    2.  Un libro nuovo, 65
    3.  Che cos'è la stampa, 68
    4.  Il tipografo, 73
    5.  Il libraio, 77
    6.  L'editore, 80
    7.  Nascita delle novità, 83
    8.  Religione, 86
    9.  Nuovi mondi, 91
    10. Illustrati, 94
    11. Altre stampe, 96
    12. Censura, 102
    13. L'editoria industriale, 107
    14. L'impresa editoriale, 113
    15. Pubblico, mercato, generi, 115
    16. Scienza, politica, soprattutto romanzi, 122
    17. L'autore e i suoi diritti, 134
    18. L'editoria come professione e come arte, 137
    19. Quattro numeri in croce, 141
    20. La grande distinzione, 145
    21. II mondo della conoscenza, 150
    22. Il mondo della varia, 155
    23. Tensioni. Dio e Mammona, 160
    24. Tensioni. Prezzi e profitti, 166
    25. Tensioni. Forma libro e contenuto, 169
    26. Tensioni. Autore e editore, 171
    27. Tensioni. Editori, editoriali, manager, 176

    Libro terzo     Il terzo libro, il libro elettronico

    1.  Oltre il libro?, 181
    2.  Lo stato dell'arte, 184
    3.  L'ideologia dell'ebook, 188
    4.  Prospettive, 194

205 Cala la tela

209 Nota bibliografica


 

 

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Pagina 11

Su il sipario


Il libro ci appariva perfetto. Non migliorabile, concluso, definitivo. Naturale, come qualcosa che non può essere altrimenti da com'è. Come un oggetto antico e familiare, semplice e levigato dal tempo. Come un cucchiaio, è stato autorevolmente detto. Una forma compiuta.

Credevamo che il libro - il nostro libro, quello che maneggiavamo tutti i giorni - fosse qualcosa di permanente, forse di perenne. Destinato a durare per sempre. Non ci sembrava immaginabile né una vita senza libri né una forma diversa del libro. E d'altra parte il fatto che qualcosa che aveva assunto la forma di libro duemila e cinquecento anni fa continuasse a esistere, e non solo nel senso puramente passivo di un reperto museale, ma in quello ben più vitale di un oggetto di compravendita, ci pareva una prova inconfutabile e una garanzia di sopravvivenza. Ma nel libro vedevamo anche una sorta di talismano, una promessa (o un'illusione) di durata, forse di eternità. Ed è stata questa, probabilmente, la ragione profonda che ha spinto personaggi i più disparati - cui la vita non aveva certo negato ogni genere di soddisfazioni - a voler comunque scrivere un libro. Per restare, per durare.

Ci sembrava soprattutto che il libro - con quella sua aria dimessa e un poco austera, con il suo racchiudere qualcosa sostanzialmente privo di qualità sensibili e, per contrasto, con la sua immensa capacità evocativa - fosse il simbolo, oltre che il tramite concreto, della vita intellettuale e spirituale dell'umanità. Forse il simbolo e l'unica incarnazione sensibile dell'anima. Per questo, anche se i libri possono essere - e spessissimo sono - stupidi, futili, volgari, cattivi, il libro mantiene una sua nobiltà, crea intorno a sé un alone di rispetto, persino di reverenza, quasi segnalasse di appartenere a un ordine di realtà diverso e superiore. Con anche tutte le conseguenze negative, è ovvio: la distanza, la separatezza, la difficoltà, infine l'estraneità. E con tutte le pretese mal riposte. Quella di una superiorità etica del libro in primo luogo, facilmente quanto indebitamente estesa a chi i libri li scrive e a chi i libri li legge. Con la conseguenza ultima di avvolgere il libro in un'atmosfera zuccherosa e devozionale. Peggio ancora, di collocarlo autoritativamente nella sfera del dovere, o, futilmente, in quella del piacere, entrambe categorie, il moralismo e l'edonismo, estranee al libro e alla sua essenza. Ma trascurando questi che sono tutto sommato particolari, resta - o forse restava - l'aura di valore che circonda il libro. Un'unica luce, frazionata e riflessa dalle innumerevoli sfaccettature degli innumerevoli libri. La luce, a ben vedere, dell'umanità.

Abbiamo creduto che anche il mondo del libro in cui siamo nati e cresciuti fosse immutabile, che facesse parte dell'ordine naturale delle cose. Ancora vent'anni fa il problema più dibattuto era la concentrazione editoriale e il timore più acuto quello che i prodotti dell'editoria di massa - i cosiddetti bestseller - potessero soffocare l'editoria di cultura. Ancor più in generale molto si paventava l'avvento di una civiltà (civiltà?) dell'immagine, sterminate masse di bruti televedenti a circondare gli isolati castelli dei forti e nobili lettori. Non sapevamo che il futuro - cioè quello che ora è diventato presente - ci avrebbe riservato la più grande fioritura mai vista della parola scritta. Con le sterminate masse di cui sopra trasformate in legioni di scriventi. Scriventi a chiunque, a ogni ora, su qualsiasi argomento, con qualsiasi dispositivo. Altro che immagine... Vent'anni fa comunque le prospettive concrete del libro e della sua industria, l'editoria libraria, erano più che rosee. È vero che i più accreditati analisti finanziari e consiglieri d'investimenti storcevano il naso di fronte ai libri, perché non ottemperavano al comandamento di essere advertising driven cioè, in parole povere, basati sulla pubblicità. (E si è poi visto a quali belle conseguenze abbia portato questa brillante concezione...) Ed è anche vero che il capitale americano si stava ritirando quasi completamente dall'editoria libraria, cosa che avrebbe dovuto far riflettere. Ma il quadro strutturale rimaneva straordinariamente favorevole. Su circa sei miliardi di abitanti del pianeta, solo uno/due erano se non partecipi dei libri, almeno esposti ai libri. Mentre era chiaro che i restanti, nella competizione per assicurarsi migliori forme di vita, comunque dai libri, innanzitutto scolastici e di seguito tutti gli altri, avrebbero prima o poi dovuto passare. Dunque l'orizzonte del libro, il futuro del libro, era tranquillamente pensabile nella modalità prediletta dal pensiero occidentale da oltre mezzo millennio. Come espansione e conquista. Come diffusione dei lumi allietata da qualche corposo interesse. Loro finalmente acculturati e noi beneficiari di un cospicuo, cospicuissimo, allargamento del mercato. Tutti felici e contenti.

E invece... e invece le cose non sono andate così. È comparsa qualche minuscola crepa (tutt'oggi in Italia le vendite di ebook sono meno del tre per cento, un'inezia). È caduto qualche calcinaccio, niente di grave. Ma è quel rombo lontano che preoccupa, quel senso di movimento tellurico, laggiù nel profondo. Un brivido di ansia percorre i fragili nervi della comunità dei libri. Quando? Quando arriverà, se arriverà, la grande scossa? Che cosa resterà in piedi e che cosa, esattamente, scomparirà? La realtà è che abbiamo avuto in sorte (fortuna? disgrazia?) di assistere al tramonto di un mondo e alla nascita, probabile ma ancora indiscernibile, di uno nuovo. Un viaggio verso l'ignoto più che una rivoluzione, termine abusato che in realtà significa tornare al punto di partenza. Non intravediamo ancora nulla, non sappiamo a quali forme approderà il sommovimento che è in corso. Ma se non altro l'imminenza e il timore del pericolo ci fanno guardare con occhi nuovi a quel che fino a ieri ci appariva ovvio, scontato. Dove vedevamo un processo naturalmente cumulativo e progressivo, lineare, scorgiamo una formazione storica complessa, irregolare, contorta. Quel che credevamo perenne si rivela labile, soggetto a dissolversi così com'è venuto a nascere. Oggi che siamo obbligati a uscire dalla falsa naturalità del libro, possiamo anche vederlo, forse per la prima volta, nella fisionomia che gli è più propria e reale. Non come un culmine e un coronamento, ma come la forma sinora più rilevante - e comunque solo un tratto - nella lunga parabola della comunicazione scritta.

Dobbiamo molto al libro. La vita intellettuale degli uomini ha avuto nel libro il suo utensile più versatile e insieme il suo emblema più glorioso. La vita emotiva, interiore, degli uomini ha trovato nei libri quella comprensione, quel colloquio, quell'intima rispondenza a sé che non sempre gli altri uomini - quelli concreti, in carne e ossa - sono stati in grado di offrire. Un simile riconoscimento che confina con la riconoscenza non ci autorizza però né a perseverare nelle illusioni né ad avvolgere noi stessi e il libro in una nebbiosa retorica. Al contrario, possiamo usarlo - lui, il libro, e anche questo modesto libro che s'intitola «Libro» - per fare quello che gli è sempre riuscito meglio. E cioè indagare, ricercare, discernere e, alla fine, capire, conoscere. E preservare, salvare. Questo, infatti, è stato il suo ufficio, la sua fortuna e la sua gloria. Sin dagli inizi, sin dal primo grande libro in prosa della nostra cultura, che si presentava proprio così: «Questa è l'esposizione dell'indagine di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose... non restino senza fama...». Di questo il libro è stato davvero insieme l'umile tramite e l'eroe, della capacità prensile sul reale, dell'afferrare e dominare le cose, della volontà di scoprire e di sapere. Il resto, cioè il futuro, è oltre le nostre capacità di comprensione. «È ignoto a tutti - come diceva Socrate nel libro di Platone intitolato Apologia, che fingeva di non essere un libro, ma un discorso parlato - tranne che al dio».

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Pagina 17

Introduzione

Tre libri


Da circa cinquantamila anni Homo sapiens - vale a dire noi medesimi, la nostra specie - ha terminato di occupare l'intero globo terracqueo e nello stesso tempo di eliminare le altre specie di Homo che erano fin lì esistite. Da circa cinquantamila anni dovunque sul pianeta gli unici uomini siamo noi. Nell'ultimo decimo di questi cinquantamila anni, cioè da cinquemila anni (un po' di più in realtà, dal 3300-3200 a.C.) gli uomini, che già da lunghissimo tempo lasciavano volontariamente tracce visive della loro presenza - prima immagini e rappresentazioni, poi segni -, hanno imparato a codificare i segni in veri e propri sistemi di scrittura. Nell'ultimo ventesimo, cioè negli ultimi duemila e cinquecento anni, hanno prima inventato, poi perfezionato quell'entità a tutti noi ben nota denominata libro. Nell'ultimo centesimo di questa vicenda umana, corrispondente a un quinto, anch'esso l'ultimo, della vicenda del libro, cioè negli ultimi cinquecento anni (un po' di più in realtà, dal 1450-60 d.C.) i libri hanno assunto la veste, a noi tanto familiare che a volte, sbagliando, pensiamo sia «la» veste tout court del libro, quella cioè del libro a stampa. O, per essere più precisi, del libro stampato a caratteri mobili su carta. Infine, e per concludere, proprio oggi sta nascendo sotto i nostri occhi un nuovo libro, quello denominato a volte elettronico - abbreviato in e-book o ebook (e noi adotteremo quest'ultima grafia) - a volte digitale. Di sicuro un nuovo supporto fisico, ma di sicuro anche molto di più. E questo perché la storia sta lì a mostrarci che nel delicato equilibrio del libro un cambiamento della fisicità finisce sempre per provocare un cambiamento non solo nella natura di quel che è scritto, ossia in quel che viene usualmente chiamato contenuto, ma anche nel modo in cui questo contenuto viene organizzato, strutturato e presentato, cioè nella forma libro vero e propria. Da ultimo, cambiano anche i destinatari di quella particolare comunicazione denominata libro, ossia il pubblico cui il libro è indirizzato. Ed è proprio il cambiamento contemporaneo di tutti e quattro i principali aspetti del libro - fisicità, contenuto, forma libro e pubblico - a provocare quella non piacevole sensazione di capogiro, di lieve nausea, che affligge di questi tempi tutti coloro che per un verso o per l'altro di libri si occupano.

Dunque di libri, a ben vedere, ce ne sono tre. Il primo è il libro scritto a mano, che nasce attorno al 500 a.C., vive in solitudine per quasi duemila anni, fino attorno al 1450 d.C. e sopravvive in compagnia del libro a stampa, ma sempre più stentatamente, fino a scomparire del tutto a cavallo della Rivoluzione francese. Il secondo è il libro stampato, che compare alla metà del XV secolo e viene mano mano crescendo e prosperando fino ai giorni nostri, in una parabola espansiva che pareva non conoscere limiti. Espansiva ma non lineare, nel senso che la vicenda del libro stampato è composta di due segmenti assai diversi. Nel primo, il più lungo, quello del libro è un mestiere, nel secondo - che inizia nei primi decenni dell'Ottocento, ma s'impone universalmente negli ultimi dell'Ottocento e nei primi del Novecento - quella del libro diventa un'industria. E sono proprio i prodotti dell'industria libraria nella sua ultima versione, quella del secondo dopoguerra, i libri che ci hanno circondato e ci circondano quotidianamente e che noi siamo, erroneamente, portati a ritenere «i» libri per antonomasia. Il terzo e ultimo libro è l'ebook, che, come l'alieno del film di Ridley Scott, adesso, proprio sotto i nostri occhi, sfonda con la sua mostruosa testolina il petto del mite astronauta che l'ha fin lì ospitato e nutrito. Vale a dire, fuor di metafora, il libro a stampa. Il tutto però con molto meno sangue e molta minor ferocia, visto che il libro a stampa non solo non è ancora morto, ma gode di una discreta (anche se inquieta) salute. E d'altra parte il neonato alieno non sembra poi così aggressivo e spietato, intento com'è (per ora) più a esplorare il suo habitat che a conquistarlo e ad annichilire il predecessore.

Essendo dunque tre i libri, questo nostro libro, o libretto, sarà a sua volta diviso in tre parti, che chiameremo Libro primo, Libro secondo e Libro terzo e che avranno rispettivamente come tema il primo libro (quello più antico, manoscritto), il secondo libro (quello a stampa) e il terzo libro (il nascente ebook).

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Pagina 41

7. Nascita del lettore


«Andiamo a trovare il lettore» disse Platone presumibilmente al gruppo di discepoli, scolari dell'Accademia, che lo seguiva e si avviò. Non doveva mancare in quel «lettore» un certo sarcasmo. Platone non teneva in gran conto la scrittura e, di conseguenza, la lettura. Gli sembrava che la scrittura, cioè poi il libro, uccidesse la memoria, che era la dimensione della profondità individuale. E soprattutto non gli piaceva questa idea della fissità connessa alla scrittura. La parola era mutevole e parlando si potevano trasformare le convinzioni, dell'interlocutore e proprie. Lo scritto era rigido, immutabile. Non era interessante leggere perché non si poteva far cambiare idea all'autore. Il lettore, quello su cui Platone ironizzava, quello che leggeva da solo mentre gli altri presumibilmente discutevano (dialogavano), era Aristotele. A tutti gli effetti, il primo vero lettore.

Siamo talmente assuefatti alla lettura che non ci rendiamo conto di quanto sia complessa la costruzione intellettuale che le è sottesa. Aristotele pensava che la cosa che gli uomini di più amano fosse la conoscenza. La curiosità di sapere qualcosa - qualsiasi cosa -, la voglia di capire, era secondo lui la molla più profonda dell'animo umano. Pensava inoltre che la verità avesse una specie di sua forza autonoma, che si facesse strada per conto proprio e sempre. E che pertanto qualsiasi opinione espressa da chiunque potesse contenere una briciola o un nucleo di verità. Platone pensava che in una discussione, in un dialogo, ciascun interlocutore portasse il proprio contributo alla scoperta della verità. Aristotele estese questa visione e pensò che ogni libro avesse un suo, piccolo o grande, contenuto di verità. Per questo bisognava leggerli, ma leggerli tutti. E per leggerli tutti bisognava averli tutti. Avere cioè una biblioteca. Aristotele fu probabilmente il primo lettore sistematico e silenzioso, il primo divoratore di libri, il primo edificatore, proprietario e utilizzatore di una biblioteca. Molto varia nel suo contenuto, è da credere. Aristotele era un uomo programmaticamente e convintamente curioso, gli interessavano a pari titolo la riproduzione delle cozze e il funzionamento della tragedia, i sillogismi e le marionette. Tutto questo doveva trovar posto nella sua biblioteca, che diveniva così insieme un deposito di verità (mescolata però a moltissima non verità) e una riproduzione scritta del mondo, un mondo in miniatura. Ogni biblioteca, dopo Aristotele, si fonda in realtà sull'assunto che ogni libro abbia di per sé - in quanto libro e non in quanto questo e quel libro - un suo valore.

Parallelamente, leggere e leggere per proprio conto, silenziosamente, diventa uscire dal parlato e dunque dal vissuto, dall'hic et nunc, in un certo senso dal reale, per entrare in quel mondo per un verso in miniatura e per un altro illimitato - in quanto privo di consistenza fisica - costituito dallo scritto. Inizia da qui, da quest'uscita dal contingente e dal sé materiale e concreto, l'associazione lettura-irrealtà che viene poi assumendo sempre maggior peso nella tradizione culturale dell'Occidente. Quell'ascolto di qualcuno che non c'è fisicamente e che parla senza suono in cui, da ultimo, consiste la lettura silenziosa introduce una sorta di sdoppiamento perenne, che troverà alla fine il suo emblema nel Quixote di Cervantes.

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Pagina 49

10. Il libro vivo


Non è neppure il caso di cercar di toccare, anche solo per sommi capi, i mutamenti e le torsioni che investono il libro nel millennio e più che va dall'inizio della tarda antichità (IV secolo d.C.) alla comparsa della stampa (metà del XV d.C.). E del resto, come si è già detto e com'è opportuno ribadire, non è la storia del libro (quale storia poi sarebbe, un bigino...) il nostro scopo e il nostro compito. Ma c'è un indirizzo, una tendenza, un macro fenomeno che investe tutto questo lunghissimo arco di tempo e lo unifica. Che, soprattutto, trasforma in profondità la natura del libro. E che dunque per questa ultima ragione non può essere taciuto anche in una scheletrica sintesi come la nostra. Questo fenomeno è il conferimento di vita al libro, la sua vivificazione, l'idea secondo la quale il libro non è solo un immoto deposito di sapere o la messa per iscritto di qualcosa che per natura propria appartiene al detto, al parlato. Ma è viceversa una cosa viva, vitale, che ha per così dire una sua personalità autonoma, che partecipa, si muove e interagisce con la vita degli uomini, con le loro intenzioni, con le loro passioni, con il loro modo d'essere. Per questa via il libro cessa di essere solo un oggetto di arredo mentale, un complemento e uno strumento dell'orizzonte intellettuale e pratico. Diventa invece una parte della vita degli uomini, soggetto e oggetto di volizioni e di affetti, intrecciato alla ricchezza di sentimenti e di emozioni - al pianto e al riso, al dolore e al desiderio, al senso del tempo e ai labirinti della memoria - che formano il tessuto dell'esistenza. Da quest'avvicinamento, quasi da quest'abbraccio, al sé umano il libro esce trasformato, con una capacità di penetrazione e di adesione che non tarderanno a dispiegarsi.

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Pagina 58

Nulla esemplifica meglio questo intreccio di sentimenti e di attitudini della lettera con cui il 31 maggio del 1468 il cardinal Bessarione - l'erede e il rappresentante più alto dell'ormai esule (Costantinopoli è caduta nel 1453) cultura bizantina - consegna idealmente la propria biblioteca, fatta di 482 codici greci e 264 latini, al doge Cristoforo Moro e per suo tramite alla Repubblica di Venezia. Sarà il nucleo originario della Biblioteca Marciana. «I libri sono pieni delle parole dei saggi, degli esempi degli antichi, dei costumi delle leggi, della religione. Vivono, discorrono, parlano con noi, ci insegnano, ci ammaestrano, ci consolano, ci fanno presenti, ponendole sotto gli occhi cose remotissime dalla nostra memoria. Tanto grande è la loro dignità, la loro maestà e infine la loro santità che se non ci fossero i libri noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi cancellerebbe anche la memoria degli uomini». Bessarione fissa così, in questi succinti ma grandiosi termini, il canone della concezione umanistica. I libri non sono solo un'eredità, il lascito del passato, ma l'unica forma di memoria durevole, in grado di varcare e vincere il tempo e la morte. Di più, i libri sono vivi, sono una presenza animata e vitale, non un immoto deposito di sapere, ma una sua parlante epifania. Gli stessi due Leitmotiv umanistici - il tempo e la vita - ritornano meno di mezzo secolo dopo in una celeberrima pagina, la lettera che il 10 dicembre 1513 Niccolò Machiavelli indirizza a Francesco Vettori. Vi è qui una resa quasi cinematografica della vivificazione, poiché non sono più solo i libri a parlarci e a consolarci, ma gli stessi antichi autori, evocati e magicamente richiamati in vita. «Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per 4 ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro».

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Pagina 69

Tutt'altro discorso per quanto riguarda la prima parte del processo, quello che abbiamo chiamato il trasferimento, dal testo scritto a mano a quello composto mediante caratteri. Il quale trasferimento è a sua volta diviso in due parti, di cui anche qui la seconda - cioè la disposizione dei caratteri a formare parole, righe e pagine, vale a dire la composizione - ha caratteristiche in toto artigianali. Elevata difficoltà, fattuale e pratica (il compositore deve avere grande destrezza manuale e grande colpo d'occhio), ma sostanziale semplicità e facilità concettuale. Si tratta in definitiva quasi di un gioco da bambini, allineare, assemblare, comporre caratteri. I caratteri, appunto. Qui, nel primo segmento della prima parte del processo, sta il succo della stampa: l'idea veramente nuova, la vera innovazione e insieme la difficoltà tecnologica e il costo elevato dell'innovazione stessa. Quel che rende la stampa un'impresa e un'impresa rischiosa. Partiamo da quel che abbiamo davanti agli occhi, il segno stampato. Una lettera, un numero, un segno d'interpunzione, una varietà di altri possibili segni o abbreviazioni. Questo è il livello uno. Dietro il segno stampato, fatto d'inchiostro penetrato o deposto, ma noi diremo semplicemente impresso, sulla carta, c'è il carattere che l'ha impresso, che ha trasportato l'inchiostro sulla carta. Il carattere è una specie di blocchetto, o un'asticina di metallo - piombo o una lega di piombo e antimonio - che a un'estremità porta un'immagine, in rilievo e speculare, del segno da cui siamo partiti. Di caratteri, naturalmente devono essercene molti, per poter stampare. Solo nella parola «naturalmente» ci sono due a, due e, due n. Nella parola «essercene» le e sono quattro. I caratteri per lo stesso segno sono molti e devono essere tutti uguali. Il carattere è il livello due. Dietro il carattere c'è uno stampo dentro il quale si possono fondere tutti i caratteri dello stesso segno. Questo stampo, che si chiama matrice, deve essere più duro dei caratteri, per non deformarsi a contatto del piombo fuso, e naturalmente risulterà il calco in negativo del carattere e dunque, a vedersi, sarà uguale al segno impresso finale. La matrice è il livello tre. Ma per ottenere le matrici, una per ciascun segno grafico, occorre avere uno strumento, un attrezzo che, martellato nel metallo più duro di cui sono fatte, sia in grado di scavarlo e di lasciare l'impronta. Questo aggeggio è il punzone, che sarà del metallo più duro - l'acciaio - e riprodurrà in rilievo l'immagine speculare del segno, esattamente come il carattere. Ma, a differenza del carattere, il punzone non deriva e non dipende da nient'altro, è il quarto e ultimo livello, ma, di fatto, il primum dell'intera serie. Il punzone, martellato a caldo in una lega robusta, crea la matrice, dentro la quale vengono fusi in piombo i caratteri, che, dopo essere stati inchiostrati (con un inchiostro oleoso, una specie di vernice, non con l'inchiostro ad acqua degli amanuensi), depongono sulla carta il segno. In sostanza dietro ogni segno c'è da ultimo un blocchetto di acciaio, sbalzato e inciso a mano, su cui è riprodotta in rilievo l'immagine negativa del segno. La vera abilità, la vera difficoltà, il vero contenuto di tecnicità è tutto qui, nel saper lavorare a mano l'acciaio in dimensioni ridottissime conservando le peculiarità stilistiche di ciascun carattere. Questo è il nucleo e il segreto dell'arte della stampa che, da questo punto di vista, appartiene per intero alle arti del metallo. Non vanno sottovalutate né la difficoltà né la vastità, cioè la dimensione, dell'impresa. Per quanto riguarda la difficoltà, basta pensare a che cosa voglia dire scavare e incidere a mano un segno nell'acciaio, specie nei corpi (cioè nelle dimensioni) più piccoli. Una certosina pazienza, una mano addestratissima, una sensibilità estrema. Ma è soprattutto la dimensione dell'impresa che generalmente sfugge. Alle circa venticinque lettere dell'alfabeto vanno aggiunti i dieci numeri, i segni di interpunzione (introdotti da Aldo Manuzio nel passaggio di secolo), i dittonghi, altre abbreviature e segni diacritici per un totale di circa una cinquantina. Una cinquantina da moltiplicarsi prima per tre (maiuscolo, minuscolo e maiuscoletto) poi i primi due ancora per due (tondo e corsivo) e poi il risultato per tanti corpi dello stesso carattere quanti sono necessari, in genere non meno di cinque. Questi oltre mille segni vanno replicati tante volte quante sono le diverse tipologie di caratteri — quelli che oggi chiamiamo font — che la tipografia tiene in dotazione. Si raggiunge così facilmente il numero di diverse migliaia. Di caratteri e di relativi punzoni. Da sbalzare uno per uno a mano nell'acciaio. Le origini della stampa — ed è questo il punto davvero importante — non sono dentro il mondo del libro, non hanno niente a che fare con la tradizione e con la pratica degli amanuensi, non sono un'evoluzione di quel che c'era prima. La stampa viene letteralmente da un altro mondo, quello degli artisti del metallo — orefici, incisori, fonditori — e da un altro ambito geografico e culturale, non la Toscana umanistica dei grandi amanuensi come Vespasiano da Bisticci, ma il centro dell'Europa tedesca, tra Renania e Alsazia.

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10. Illustrati


Nulla più delle immagini esemplifica i vantaggi e l'efficacia della stampa. E nulla più delle immagini - dalle xilografie di Dürer, alle incisioni su rame dell' Emblematum liber di Andrea Alciati, alle terribili acqueforti di Callot sulle miserie della guerra, alle feroci litografie del La Caricature di Daumier, alle delicate incisioni su legno di uccelletti inglesi dell' History of British Birds di Bewick, fino ad arrivare nell'Ottocento alle riviste e ai giornali illustrati - nulla più delle immagini dicevamo disegna l'arco di crescita della stampa, la sua avanzata impetuosa, senza concorrenti fino all'avvento prima del cinema, poi della televisione, fino al colpo fatale di internet. Più dei testi scritti, le immagini traggono dalla stampa - ossia da quella nuova dimensione che Walter Benjamin ha definito con molta accuratezza «riproducibilità tecnica» - un incommensurabile vantaggio. Economico innanzitutto, dato che non vi è possibile paragone tra il costo e di conseguenza il prezzo di un'immagine eseguita a mano e di una stampata. Di qui il vantaggio attrattivo e diffusivo, dato che l'irresistibile appello delle figure - il desiderio di vedere - può ora, grazie alla stampa, essere soddisfatto in modo molto più agevole. Il piacere privato delle immagini e del loro possesso, fin lì un privilegio signorile, ora può allargarsi a una cerchia di fruitori molto più vasta. È soprattutto l'invisibile naturalmente, quel che sta al di fuori del visibile quotidiano, quel che vediamo con gli occhi della mente o della fantasia, a chiedere di essere visto, quasi a volersi mostrare. A partire dalle grandi figurazioni bibliche - e qui l'Apocalisse come si è già visto fornisce il repertorio iconografico più ricco e suggestivo - per arrivare alle ricreazioni dell'antichità classica. Ma è anche l'invisibile in senso più concreto ad essere rappresentato, ciò che non si può vedere in senso fisico e spaziale, perché è lontano, perché appartiene ad altre terre, ad altre tipologie di uomini. Da qui l'ampia letteratura geografica e antropologica, che si lega ai libri di viaggio e di esplorazione, un genere amatissimo che si prolungherà fino al Novecento. Ma vi è anche un invisibile nel senso, tutto sociale, di ciò che è vietato (ma si desidera fortissimamente) vedere, come nelle posizioni erotiche dei Sonetti lussuriosi di Pietro Aretino illustrati da Marcantonio Raimondi riprendendo Giulio Romano. Infine l'invisibile nel senso più proprio e ristretto, l'invisibile scientifico. Ciò che non si può vedere perché è sottratto alla vista, come l'interno del corpo, svelato nel De Humani Corporis Fabrica di Andrea Vesalio (1543) grazie alle tavole di Jan Stephan van Calcar che lavorava nella bottega di Tiziano. Sul frontespizio del primo dei sette volumi in folio per la prima volta compare l'anatomista mentre con le proprie mani esegue la dissezione di un cadavere. O ciò che non si può vedere perché appartiene a una nuova forma di visibilità, quella appunto scientifica, come nel De Motu Animalium di Giovanni Afonso Borelli del 1680 dove la grande quantità di immagini serve a illustrare la tesi secondo cui il movimento degli animali è spiegabile con principi meccanici e riducibile dunque a formule matematiche. Ma quello che è forse il più grande raggiungimento del libro illustrato, quel che si propone come un catalogo del dominio del visibile, è costituita dagli undici volumi in folio (su ventotto totali) di tavole dedicate alle scienze, alle arti liberali e alle arti meccaniche che corredano la Encyclopédie di Diderot e D'Alembert (1751-1772). Dove l'ambizione di totalità che è implicita nell'idea enciclopedica si trasforma in una pretesa di visione totale, un panorama immenso ma ordinato puntigliosamente ed esaurientemente, dove ogni cosa trova il proprio posto.

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Dal punto di vista del libro, e forse non solo, l'Ottocento è il secolo del romanzo. Non si era mai vista prima, per nessun altro genere, una così straripante fioritura, una così incontrastata egemonia, una simile capacità di attirare e creare nuovi lettori, di riempire e dominare le loro menti. Per moltissimi uomini e donne, libro viene a identificarsi con romanzo e romanzo con vita. Il libro acquista così una nuova e preponderante dimensione, un nuovo significato. Era stato per gli umanisti un ponte sul tempo, un dialogo diretto con il passato. Nell'età della Riforma era divenuto la via di salvezza, il cammino di conversione. Ora si tramuta nello specchio dei propri sentimenti, della propria interiorità, del proprio essere più segreto e più vero. Aderisce completamente al suo lettore, fino a esserne parte, a dargli voce. La forza universale del romanzo è tutta nella possibilità d'identificazione che offre, nel suo far scoprire al lettore chi egli stesso davvero è, che cosa racchiude in sé. Il romanzo ha allargato non solo la mente, ma il cuore degli uomini, l'umanità stessa.

Curioso di scienza e di ogni sorta di sapere, interessato e partecipe alla vicenda politica, il nuovo lettore (e soprattutto la nuova lettrice) dell'editoria industriale ama soprattutto la finzione, la fiction, farsi raccontare storie non vere, ma proprio per questo più vere della verità. La passione profonda e larghissima per la narrativa d'invenzione, di cui il romanzo è la parte maggiore, è uno dei tratti più singolari della modernità, quasi che all'estendersi del controllo razionale e calcolante sulla realtà corrispondesse un bisogno sempre più forte di sfuggirla, di evaderne, di vederla sì, ma riflessa in uno specchio fantastico. La finzione letteraria, quella scritta nei libri, rimane per lungo tempo, prima della comparsa del cinema e poi degli altri media, l'unica accessibile. Quest'unicità la rende un passaggio obbligato ai mondi fantastici e induce strati di popolazione sempre più ampi a superare l'ostacolo maggiore, cioè la fruizione attiva (la lettura) molto più faticosa di quella passiva (la visione e l'ascolto) che sarà propria degli altri media. L'amore generalizzato per la finzione induce un esercizio dell'immaginazione, una sorta di ginnastica della fantasia, che si risolve alla fine nella conquista di una nuova dimensione della propria realtà interiore.

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25. Tensioni. Forma libro e contenuto


«Questo è un mucchio?» chiedeva il maestro, indicando un mucchietto di chicchi di grano. «Certo» rispondeva il discepolo. Il maestro toglieva un chicco. «E questo?» «Sì, anche questo». E avanti così. A che punto il mucchio cessava di essere un mucchio? Quando restavano dieci chicchi? O nove? O undici? Questo paradosso, inventato dagli scettici antichi, si chiama «sorite» (che in greco vuol dire appunto mucchio) e serviva a dimostrare che le parole, contrariamente a quel che si crede, non hanno relazione con le cose. Non solo sono convenzionali, ma non hanno propriamente senso. Lo stesso si può forse dire del libro. Che cos'è un libro? Avevano ragione gli scettici, impossibile definirlo e inutile anche provarci. Ma siccome campare pur bisogna, ci si può accontentare della inevitabile, e umanissima, approssimazione e costatare che tutti sappiamo benissimo che cosa è un libro. Tutti abbiamo idea di quella cosa abbastanza lunga, articolata e suddivisa al suo interno, con un capo e una coda che chiamiamo libro. Tutti pensiamo inoltre che quel che il libro racconta, espone, raccoglie, illustra, lo racconti, esponga ecc. proprio perché è fatto così, perché quello è il modo non si sa se il migliore, ma comunque quello in cui quella storia è stata raccontata, quelle idee sono state esposte ecc. Certo, si può fare un riassunto di Guerra e pace o anche dell' Odissea, ma non è la stessa cosa, è come un'illustrazione rispetto a un grande dipinto. Tutti pensiamo (o dovremmo pensare...) che un libro sia un certo contenuto espresso in una certa forma e che l'essere libro dipenda proprio dall'avere quella forma, la forma libro. Naturalmente da un libro si possono trarre e sono state tratte molte altre cose, film, opere liriche, spettacoli teatrali e di ogni altro genere, fumetti. Ma all'origine c'è sempre il libro, compiuto e in sé concluso. A un certo punto però, non molto tempo fa a dire il vero, l'inscindibile unità di forma e contenuto che era il libro si scinde e lascia il posto a due Ersätze, a due surrogati, il contenuto che è l'elemento pregiato e il libro, che è la versione di quel contenuto in forma libresca, che tra le forme è invece la meno pregiata. Meno pregiata in quanto forma specifica, ma preziosa invece, essenziale, se è il modo primario di manifestarsi del contenuto. I libri sono il minerale, la roccia, entro il o la quale si trovano i diamanti, i contenuti estraibili e profittevolmente impiegabili altrove. I libri sono i content provider, degradati o promossi, a seconda dei punti di vista, a fornitori di contenuti. Il punto essenziale non è un supposto degrado. Non si attenta alla verginità del libro trasferendone il contenuto in serie televisive o in videogiochi. Quel che è invece essenziale è il passaggio dalla parola alla vista, dall'attività faticosa della lettura alla passività totale della visione, dalla lenta costruzione interiore, dal lento allenamento di una propria e solo propria muscolatura fantastica alla pura ricezione totalmente arresa. I libri non hanno solo fornito alimento, carburante, materiali. Hanno costruito l'impalcatura dell'interiorità degli uomini, li hanno prima attratti e poi costretti a una mimesi che si trasformava in autocostruzione. Se si ridurranno completamente a content provider cambierà uno dei meccanismi essenziali della cultura umana per come è stata sinora. Non necessariamente in peggio, ma cambierà. Basta saperlo.

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Libro terzo
Il terzo libro, il libro elettronico





1. Oltre il libro?


Uno dei fenomeni della contemporaneità su cui converrebbe riflettere è che tutte le previsioni di vasta portata finiscono inevitabilmente per risultare sbagliate. Il capitalismo non ha impoverito fino allo stremo le masse lavoratrici, non sono stati raggiunti i limiti dello sviluppo, le crisi energetiche non ci hanno lasciati appiedati e a battere i denti. Anche le previsioni ottimistiche, ossia di sviluppo, sono state disattese e tra di esse puntualmente disattesa quella (ammesso e non concesso che fosse ottimistica) secondo la quale a breve, a brevissimo, i libri, ora spregiativamente definiti «cartacei», sarebbero scomparsi, sostituiti dagli ebook. Per anni e anni una folta pubblicistica, opera di valenti giornalisti, ha spiato, annotato e segnalato ogni più minuto indizio dell'avvento della nuova era. Disinteressatamente, e dunque lodevolmente, intenti, quei giornalisti, a segare il ramo dell'albero su cui stavano seduti. E sempre per anni e anni un corteo pressoché continuo di veri o sedicenti esperti, specialisti autonominati, consulenti a vario titolo, analisti para- e pseudofinanziari, in breve profeti, ha raggiunto la periferia dell'impero, cioè noi, per illustrarci e per spiegarci, ma soprattutto per esortarci e per spronarci, non di rado per rimproverarci e minacciarci. Dicendo che la nuova era si approssimava a lunghi passi, che non ci illudessimo, che non indugiassimo, che eravamo già e comunque in ritardo. Viceversa, a ormai vent'anni — non due mesi — dal primo annuncio, bisogna prendere atto che l'ebook non è il telefono cellulare e che il suo modello di diffusione non è quello, esplosivo, del cellulare. Per i libri di cui parlavano, e parlano, quei (falsi) profeti, cioè i libri di varia o trade, gli ebook occupano circa il 25 per cento, un quarto, dei consumi negli Stati Uniti. In Italia, come ricordavamo all'inizio, siamo fermi attorno a un modesto, modestissimo, tre per cento. Certo, l'arretratezza tecnologica... Ma i numeri sono numeri e questi sono i fatti. Bisogna dire che sotto il profilo della rapidità di diffusione la stampa, la vecchia stampa, aveva saputo fare di meglio. Soprattutto il suo dilagare era stato accompagnato da un fervore, da un moltiplicarsi di iniziative, da una specie di silenzioso entusiasmo che non ha riscontro nell'avvento dell'ebook, dominato com'è quest'ultimo da un solo, grande operatore (un monopolista?) mondiale, cioè Amazon. Diverso dal cellulare, insomma, e diverso dalla stampa. Sull'ebook c'è ancora, se non tutto, molto da studiare.

Un primo e fondamentale aspetto che differenzia l'avvento della stampa da quello dell'ebook è che la stampa era una tecnologia specifica del libro, mentre l'ebook è l'applicazione al libro di una tecnologia di dimensioni e ambizioni molto più vaste. I libri sono solo una parte, e probabilmente la parte minore, della cosiddetta rivoluzione digitale. In altri termini, la stampa era al servizio del libro, mentre la tecnologia è qualcosa che comprende e incorpora il libro, quando non tende addirittura a sostituirlo. Vi è insomma, latente e inespressa ma efficace, l'idea di un superamento del libro, nel senso di qualcosa di più grande entro il quale il libro potrà, forse, trovar posto, al quale il libro si dovrà comunque adattare, ma che dal libro non sarà certo più dominato, egemonizzato. Questa è la vera posta in gioco nella partita attorno all'ebook. Dando per scontato il trasferimento del libro nel formato elettronico, sapere (o meglio cercar di capire) se la nuova veste fisica significherà per il libro una resurrezione o una sorta di imbalsamazione. Un modo per rinnovare la propria presenza e la propria efficacia, da ultimo per allargare la propria diffusione. O invece un formato, una teca, entro cui racchiudere e conservare un'eredità e un lascito, al di fuori e a lato ormai del flusso vivo della vicenda culturale dell'umanità e delle nuove forme in cui essa si esprimerà.

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Il libro, di natura sua, rifugge dalla totalità. Ama invece appassionatamente la particolarità, la parzialità, la differenza, la disomogeneità, la singolarità. Non solo ogni libro è un individuo e il libro in generale è un convinto individualista, ma qualsiasi tentativo di raccogliere i libri in uno o più insiemi, di raggrupparli, non ha molto senso. I libri non stanno in gregge, sono animali solitari. Lo si vede anche da fatti pratici. Non c'è mai stata e non ci sarà mai una biblioteca che contenga tutti i libri e nessuna libreria, piccola o grande che sia, ha mai avuto né mai avrà lo stesso esatto assortimento di un'altra. Nessuno ha mai pensato alla totalità dei libri (per farne cosa?) e chi tra i libri è vissuto si è scavato un suo proprio e privatissimo cammino dall'uno all'altro. Andandoli a cercare, andandoli a incontrare là dove stavano, sapendo benissimo che non li avrebbe trovati tutti e non avendo mai pensato che fossero tutti disponibili. L'idea che i libri manchino, che non tutti verranno raggiunti, che non tutti verranno letti è consustanziale all'idea di libro. Amare i libri vuol dire anche non averli, non averli tutti.

A questo sentimento del libro, antico e profondo, l'ideologia dell'ebook sostituisce una sfacciata, esibita, propagandata pretesa di totalità, un brivido di onnipotenza. Nulla lo esprime meglio dello slogan del Kindle, la tripla A, «Anything Anytime Anywhere», ogni cosa in ogni momento in ogni luogo. Sono, come ben si vede, gli attributi di una divinità. Poco conta che, come in tutte le rappresentazioni ideologiche, l'enunciato non corrisponda alla verità. Nella fattispecie è l'ogni cosa a non aver riscontro reale. Gli ebook disponibili in Italia sono una percentuale ridotta rispetto all'oltre mezzo milione di libri in commercio come può facilmente costatare chiunque cerchi un libro di non recentissima pubblicazione. Così come la titanica impresa progettata da Google di digitalizzare tutti i libri passati e presenti di tutte le biblioteche e di tutti i Paesi, poi di frantumarli in una specie di gigantesca tramoggia riducendoli alle loro componenti elementari, ai loro atomi, cioè alle frasi, infine di riaggregare tutti gli atomi che contengano quella o quelle parole, ebbene questa titanica impresa assomiglia più a un sogno gesuitico del Seicento, concepibile da un Athanasius Kircher, che a un dispositivo di qualche utilità. Che cosa si otterrà chiamando la parola «anima» o la parola «tempo» o la parola «cuore»? Mostruosi ammassi, rovine, cumuli di mattoni di edifici che furono maestosi. Ma tutto questo, come si diceva, conta poco, non è il piano di realtà a contare. Quel che importa è l'orientamento, l'implicita idea di dominio, l'idea di abbracciare la totalità in un solo sguardo, di essersi finalmente liberati dalla fatica di un cammino accidentato, di avere domato, ingabbiato e sottomesso i libri. Con l'ebook l'ideologia non è una costruzione culturale, ma un prodotto diretto del mezzo tecnologico.

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