Copertina
Autore Marco Albino Ferrari
Titolo Frêney 1961
SottotitoloUn viaggio senza fine
EdizionePriuli & Verlucca, Torino, 2013 [1996], I Licheni 28 , pag. 254, ill., cop.fle., dim. 12,5x20x1,7 cm , Isbn 978-88-9857-101-7
LettoreGiorgio Crepe, 2014
Classe montagna , regioni: Valle d'Aosta , paesi: Italia: 1960
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Indice


      7  Premessa

     13  Parte Prima

     87  Parte Seconda

    242  Conclusione

    249  Ringraziamenti

    251  Note


 

 

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Pagina 44

Tutto era incominciato a mezzogiorno della domenica precedente. La domenica 9 luglio 1961. Nel primo pomeriggio Bonatti aveva telefonato all'Istituto meteorologico di Chamonix. Aveva ascoltato anche le previsioni del tempo emesse da Radio Monteceneri e dalla Radio Rai: erano buone e davano bello stabile, beau fix. Intorno alle due del pomeriggio, Bonatti aveva preso la decisione di agire e, con una telefonata, aveva avvertito Roberto Gallieni di trovarsi a casa sua. «Partiamo tra un'ora. Tutto è pronto, ci porta Bianca» aveva detto.

Gallieni conosceva perfettamente il piano. Da mesi ne disegnavano il progetto insieme, lui, Bonatti e Oggioni. Avevano anche compiuto difficili e pericolose scalate la settimana precedente proprio nelle vicinanze del Pilone, per effettuare le ultime perlustrazioni sulla via di salita.

Il Pilone era l'obiettivo più ambito dagli alpinisti di tutto il mondo e la sua parete sud aveva già respinto diversi tentativi tra cui anche quello di Bonatti. La fama del Pilone Centrale del Frêney, negli anni, era andata crescendo, sino a farlo annoverare fra le montagne impossibili. Gli americani, gli inglesi, i tedeschi, i francesi e gli italiani lo tenevano d'occhio per attaccarlo al momento giusto, quando le condizioni dell'alta montagna, per pochi giorni all'anno, l'avrebbero permesso: le fessure si liberavano dal ghiaccio e il pilastro diminuiva i suoi ostacoli naturali. La cosa fondamentale, e tutti lo sapevano, era la rapidità: considerare una lunga permanenza in parete avrebbe aumentato il rischio di essere presi dal brutto tempo. E col brutto tempo, lassù, sarebbe stato un inferno.

Bonatti conosceva ogni possibile linea di salita, ogni porzione del pilastro era stata osservata da Gallieni anche dall'aereo. Ogni cengia, ogni strapiombo, ogni ostacolo era stato valutato, e di riflesso ogni materiale tecnico da portare, ogni chiodo, ogni cuneo era stato soppesato e poi sistemato nel sacco. Tutto era stato previsto: ogni tattica, ogni possibilità di avvicinamento era stata vagliata. I tre componenti della cordata sapevano bene che le loro intenzioni dovevano rimanere un segreto assoluto. Guai se fosse circolata la voce di un progetto così importante e ambito prima di averlo realizzato. Persino tra di loro, in quegli ultimi giorni, non ne parlavano quasi più: come se volessero indietreggiare in una sorta di oblio temporaneo per prendere la rincorsa e prepararsi al grande balzo definitivo.

La mente doveva essere sgombra per l'evento. Libera e sgombra.

«Tutto a posto, si parte!» disse Bonatti a Oggioni nel salotto di casa. «Roberto sta arrivando».

Alle quattro la Fiat Seicento beige di Bianca si avviò verso le montagne. Alla sua destra sedeva Bonatti, dietro Gallieni e Oggioni.

Dai finestrini si vedevano alcune nuvole addensarsi sulla cima del Bianco. Bonatti disse: «Può darsi che qualche fiocco lo stia mettendo sul Pilastro». Ma erano nubi temporanee, e dopo un'ora si dissolsero lasciando scie di vapore tutt'intorno.

Andrea Oggioni stava seduto sul sedile posteriore con la fronte appoggiata sullo zaino: La faremo sì ma mi, me la senti no pensava in silenzio. Bianca guidava lentamente verso la funivia. Era una signora bionda un po' meno giovane di Bonatti. Lei e Walter si erano conosciuti qualche anno addietro a Bardonecchia. Erano affiatatissimi. Bianca capiva, intuiva, si sforzava di anticipare le esigenze di Walter.

«Walter: se qualcuno viene a chiedere dove sei, cosa devo dire?».

«Sii vaga e di' solo che sono in montagna» disse all'altezza di Entrèves.

Quando arrivarono alla funivia Bonatti aggiunse:

«Se non mi vedi per venerdì inizia a preoccuparti».

«Va bene, Walter» rispose lei guardandolo negli occhi.

«Ciao, Roberto» si rivolse a Gallieni porgendogli la mano.

«Ciao, Andrea».

«Ciao, Bianca» le rispose Oggioni. Poi però a bassa voce puntando lo sguardo per terra mormorò La faremo sì ma mi, me la senti no.

«Ma cosa dici?» lo guardò Bianca sorpresa.

La funivia già correva verso la montagna. Correva su quel lungo filo che univa due mondi.

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Pagina 93

-22-
«Alors, Walter, ça va, non? Si è camminato bene con quel freddo e la neve dura» disse Mazeaud.

«Direi di sì; quegli scisti finali invece erano piuttosto instabili. Vi è arrivato molto ghiaccio sulla testa?».

«Qualcosa ci è piovuto addosso, sì. Ma ci è andata bene che foste davanti, almeno non abbiamo dovuto gradinare».

Ora le ombre sul ghiaccio erano nette: da est il disco del sole illuminava le montagne. Si vedevano il Cervino, il Monte Rosa, il Grand Combin e tutta la bianca corona delle Alpi Cozie e Graie, che usciva luminosa dalle valli ancora immerse nell'ombra. Una gelida brezza avvolgeva i visi degli alpinisti. Qua e là, i tonfi improvvisi delle scariche annunciavano il nuovo giorno.

«Ehi là, Vieille — disse Gallieni rivolto al gruppo — tutto bene Tonio? ».

«C'est pas mal, anche il Pilone sembra pulito. Che te ne pare, Walter?».

«Sì, è pulito, c'è solo la spolverata di neve che ha messo ieri sera. E un po' cola anche dalle fessure. Ma non sarà un problema».

«Vuoi del cioccolato?».

Alle 6 e 30 di quella mattina del 10 luglio, i sette alpinisti si trovavano seduti a recuperare energie sul vasto pianoro sommitale del Ghiacciaio del Frêney. L'aria dei quattromila avvolgeva leggera e inerte il gruppo raccolto. A nord si innalzavano i grandi pilastri rossi del Monte Bianco: l'immensa bastionata di granito ruvido sosteneva la cima della montagna più alta d'Europa. Tra poche ore quel granito sarebbe diventato tiepido, attraente e sensuale come la pelle: con i suoi pori, i suoi nei, le vene di quarzo bianche, l'odore forte di alta montagna. Tutti lo sapevano e l'eccitazione cresceva: avrebbero voluto correre, andare incontro alla montagna senza perdere tempo. Invece sapevano che bisognava aspettare e lasciare che il corpo recuperasse energie.

Il grande pilastro si ergeva in mezzo all'immensa bastionata, più alto degli altri, come un braccio teso; la sua cuspide (che solo in seguito verrà chiamata «Chandelle»), sembrava una mano stretta a pugno col dito indice puntato verso il cielo.

Mazeaud si alzò, indietreggiò di una decina di passi e richiamò l'attenzione degli altri. I suoi compagni Vieille e Guillaume si girarono. Il francese prese la sua Kodak e scattò una fotografia; grazie a quell'immagine oggi possiamo vedere i sei alpinisti seduti sul ghiaccio; le loro ombre nere sono ancora lunghe e la luce radente del mattino li investe di lato.

Sono tutti seduti sullo zaino, tranne, a sinistra, Robert Guillaume che, in piedi con le mani sulle ginocchia, guarda nella macchina. Ha gli occhiali neri da ghiacciaio e un cappello da tennista a strisce per ripararsi dal sole, un foulard intorno al collo e un maglione di lana con un grosso ricamo di stelle alpine che gli attraversa tutto il torace. Sotto di lui, rivolto al sole e senza occhiali, c'è Antoine Vieille, seduto sullo zaino. Alla sua destra, Pierre Kohlmann col viso lungo e sorridente e gli occhi a fessura, intento a parlare con Bonatti. Di fronte ai francesi c'è Bonatti, con gli occhiali neri che gli nascondono lo sguardo, una camicia a scacchi e i pantaloni alla zuava. Al suo fianco Roberto Gallieni, visibilmente il più stanco: indossa una giacca a vento di tela con cappuccio. In disparte, più indietro, c'è Andrea Oggioni: non capisce la lingua, dunque non può comunicare e preferisce guardare le montagne. Intorno al gruppo si vedono le piccozze piantate nella neve e una corda che gira tutt'intorno.

Mazeaud chiuse la macchina nella custodia e si avvicinò al gruppo.

«Alors — disse Bonatti — écoute».

«Oui, Walter».

«Adesso io e Andrea andiamo ai Rochers Gruber a recuperare il materiale di cui ti ho parlato ieri sera. Poi ritorneremo qui da Roberto e vi seguiremo sul Pilone, che intanto voi avrete attaccato; ti va bene?».

«Bien sûr. Come hai detto ieri sera; noi nel frattempo attacchiamo il primo terzo» e guardò verso la grande bastionata rossa che incombeva sopra di loro.

«Piene, vieni che ti faccio vedere dove sono le fessure che abbiamo percorso due anni fa. Se trovi una linea migliore, fai pure quello che vuoi. Ma secondo me quella che abbiamo seguito noi è la più logica». I due si alzarono; Mazeaud si avvicinò e Bonatti tirò su il braccio destro con l'indice puntato.

«La vedi quella fessura che entra nel Pilone da sinistra?».

«Quella con la lama a ventaglio, cinquanta metri sopra la terminale del canalone?».

«Precisamente. Mi ricordo che abbiamo attaccato da quella parte, poi abbiamo girato sul lato est, che di qui non si vede».

«Bien sûr».

«Ma la via è molto evidente: secondo me la troverai subito, anche se mi sa che oggi è bagnata. Se non ricordo male ci sono dei bei passaggi in placca; in ogni caso sono facili, tra il quarto e il quinto grado. A un certo punto devi girare a destra... ».

«Penso che oggi andrò davanti io — lo interruppe Mazeaud — lascerò la cuspide sommitale, che è la parte più difficile, a Pierrot, che è il più allenato di noi».

«Entraîné! À boire des bières, peut-être!» sorrise Kohlmann.

«Va bene — disse Bonatti — non importa chi è più allenato. Ti sto facendo vedere dove condurre la cordata; poi domani passerò io in testa e, se non riusciremo a uscire in cima in giornata, dopodomani vedremo. Va bene?».

«Certo».

«Ti dicevo: dopo avere superato delle placche compatte ma non estremamente difficili, che da qui non si vedono, dovrai girare a destra, poi, se non mi sbaglio, uscire sul filo dello sperone. Attenzione a non farti tentare da quelle fessure facili che aggirano il pilastro sul lato est, perché di lì si finisce sicuramente nella merda. Da quel lato la cuspide sommitale non si sale più. Ma te ne accorgerai, perciò tieniti sul filo dello sperone, anche se è più difficile. Va bene?».

«Certamente».

«Da lì non c'è più tanto; se non mi sbaglio, arriverete presto alla cengia dopo un difficile strapiombino. Ricordati: uno strapiombo difficile. Ecco, lassù abbiamo lasciato un buon chiodo ad anello».

Bonatti abbassò il braccio e guardò Mazeaud. La brezza tiepida sembrava portare i raggi del sole.

«Perfetto — disse il francese — troveremo altro materiale?».

«Ovviamente tutte le soste che abbiamo attrezzato per le doppie, e lì non vi potete sbagliare; ma lungo le fessure, se non ci sono stati altri tentativi, e non mi risulta, troverete ben poco» disse Bonatti sedendosi sul suo zaino.

«Ci arrangeremo, Walter, mi sembra tutto chiaro».

«Ma sì... grosse difficoltà non ne incontrerete. Speriamo solo che la roccia non sia troppo bagnata».

«Penso di no».

«Vedremo».

«Ah, Walter. Ovviamente vi lasceremo parecchio materiale in parete in modo da facilitarvi la salita; mi raccomando di togliere tutto, chiodi e cunei. Va bene?».

«Certo» disse Bonatti guardando il cielo, limpido e senza nuvole.

«Cosa ne dici del tempo, Walter? Mi sembra buono, no?».

«Ma sì, secondo me tiene. Poi come ti ho detto ieri sera, le previsioni di Radio Monteceneri davano

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I quattro francesi erano partiti alle 8 dal Colle di Peutérey e avevano puntato dritto al Pilone Centrale. A quell'ora la neve era già un po' molle e i piedi sprofondavano. Si erano messi in fila sul ghiacciaio, si erano legati, ed erano partiti così, l'uno dietro l'altro. Il plateau sommitale del Frêney dava la sensazione di essere su un immenso pulpito, di camminare su un tappeto sospeso nel vuoto, senza tempo e senza dimensione. Mentre procedevano uno dietro l'altro nell'aria rarefatta sotto il cielo blu scuro, quasi nero nel contrasto con la luce abbagliante della neve, si erano sentiti invadere dalla vastità. Ma quel luogo era anche paradossalmente raccolto, un grande anfiteatro a forma di diamante, dalle dimensioni enormi, ma delimitato, circoscritto e definito.

Mazeaud si era sentito piccolo come un bambino in una cattedrale gotica. Durante l'avvicinamento si era ricordato di quando, da piccolo, entrava nella solenne Notre Dame a Parigi. Vedeva i pilastri salire verso la volta nera del soffitto, la luce colorata delle grandi vetrate. Sentiva lo schiocco improvviso di qualche cosa che cadeva, l'odore dell'incenso e della cera. «Come la cera delle candele nei rifugi» aveva pensato ricordando quell'odore, mentre, vestito di sudore e di sole, si avvicinava al grande pilastro.

Alle 8 e 30 erano arrivati alla base del canale d'accesso al Pilone. A intervalli irregolari di pochi minuti, le scariche si facevano sentire violente alla loro sinistra. Si udiva il fischio delle pietre che roteavano nell'aria, poi il tonfo sordo sul nevaio scosceso, dove partiva una piccola slavina. Pierre Mazeaud era salito sulla destra del pendio per raggiungere la roccia, dove sarebbe iniziata la scalata.

I quattro alpinisti si erano mossi il più rapidamente possibile: ogni minuto in meno in quel posto era un minuto sottratto ai pericoli che venivano dall'alto. Sul canale d'accesso non avevano pensato più a niente, si era innescata la gara contro il tempo. La salita era diventata frenetica. Ogni tanto si sentiva un grido d'incitamento:

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«Cosa facciamo, Walter? Cosa facciamo, ici on sera obligés à descendre, dovremo scendere». «Walter, Walteeer, qu'est-ce qu'on va farre, écoute...». E puntando gli occhi sul soffitto della tenda Bonatti rispondeva: «Bisogna stare calmi. Questa è la cosa più importante...». Un fulmine lo interruppe. Ci fu un grido, poi il tuono, forte e spaventoso. Bonatti si mise le mani sulle orecchie e sollevò le spalle strizzando gli occhi.

«Il faut rester tranquilles — riprese subito dopo — scendere ora è troppo pericoloso. Tutte le soste e i chiodi sono ricoperti dal ghiaccio, e calarsi in queste condizioni è impensabile. Mi senti?».

«Oui, je t'écoute» urlò l'altro.

«Il faut attendre, bisogna aspettare che venga il bel tempo, poi tenteremo di uscire. Siamo vicini alla cima, e la parete è strapiombante, quindi non sarà molto carica di neve. Vedrai che usciamo domani, o magari anche questa sera. Mi senti?».

Non ci fu risposta.

«Mi senti?» urlò di nuovo Bonatti.

«Oui, oui, je t'écoute».

«Ascolta, in questa stagione il brutto non dura a lungo, e a noi conviene aspettare: bastano solo sei ore di bel tempo e possiamo scendere sul versante francese passando dalla cima. Ci bastano solo sei ore di bel tempo. Sei ore e possiamo scendere dall'altra parte. Mi senti? E così avremo fatto anche il Pilone. Hai capito? Siete d'accordo?». I francesi sentivano Bonatti lontano. Non lo vedevano: la sua voce giungeva soffocata dai tuoni.

All'uscita della via mancavano solo centoventi metri, di cui cinquanta già attrezzati, e se ci fosse stata una schiarita di poche ore i sette avrebbero fatto molto più in fretta a salire in cima e da lì proseguire verso nord sui facili pendii che conducono alla via normale del Monte Bianco e alla capanna Vallot. Tentare di scendere lungo la via di salita invece sarebbe stato un rischio troppo forte: la ritirata verso il basso era lunghissima ed estremamente faticosa. Tra l'altro, arrivati alla base del Pilone, avrebbero trovato i ghiacciai in condizioni paurosamente instabili per la gran quantità di neve; attraversarli con il rischio delle valanghe e con i crepacci nascosti sarebbe stata una follia. Si doveva aspettare.

Mazeaud accostò le mani avvolte nei guanti di lana cruda ai lati della bocca e gridò verso il cielo sconvolto dalla tempesta: «Va bene, anche noi siamo tutti d'accordo. Non ci resta che attendere. Viveri ne avete?».

Dopo qualche secondo si sentì un urlo: «Sì, ne abbiamo in abbondanza; se ne volete, ne abbiamo anche per voi».

Passarono minuti senza fine nell'uragano che devastava il cielo.

«Qui ci sono tanti viveri, anche per voi; l'unico problema è che non abbiamo da bere; il nostro fornellino non rimane acceso e non possiamo sciogliere la neve...».

Il vento infuriava, e quando la raffica piena di frammenti di ghiaccio colpiva i teli, si sentiva un chiasso d'inferno, come una cascata di biglie sul marmo.

«Senti, Walter — disse Gallieni a un certo punto — qua non si riesce a respirare. Siamo in un sacco da morto, bisogna fare qualcosa».

Oggioni, accovacciato al suo fianco, sollevò la testa: «Sì, un sacco da morto. Va là, che almeno ci ripara».

«Roberto, cerca di capire — disse Bonatti — mancano solo ottanta metri, ottanta metri da attrezzare; non possiamo scendere adesso che il Pilone è ormai fatto. E poi è troppo pericoloso scendere di qui. Tu cosa dici, Andrea?».

«Mi disi che l'è mej aspettà. Domani al massimo il tempo si fa bello. Vuoi che non migliori per qualche ora?».

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Pagina 225

Ogni tanto Pierre Kohlmann cadeva e strattonava Bonatti, che lo seguiva facendogli sicurezza.

«Non perdiamo tempo, dobbiamo fare presto per gli altri!» urlava Bonatti.

E fu proprio in quel momento che si accese la follia della tragedia.

A circa quattrocento metri dal rifugio, Gallieni perse un guanto. Si chinò a raccoglierlo. Lo prese. E si mise la mano destra sotto l'ascella per riscaldarla. Kolhmann, legato in mezzo ai due, guardò Gallieni che si trovava davanti a lui.

«Un revolver! Ce fumier veut inc tuer!» pensò. Si divincolò dalla corda trattenuta da Bonatti e come un cane liberato dal guinzaglio si avventò con rabbia assassina su Gallieni.

«Salaud volevi uccidermi. Ma non te lo permetterò... maledetto bastardo!».

Si lanciò verso Gallieni e lo buttò a terra. Era buio pesto, ma gli occhi si erano abituati all'oscurità e vedevano come quelli dei gatti tra i veli neri della notte. Nella lotta, i due caddero e sparirono nella neve.

La mischia era paradossale. Kohlmann urlava. Impazzito, fuori dal mondo: il delirio aveva vinto la realtà. Le allucinazioni gli turbinavano intorno. Non sentiva suoni: vedeva solo immagini scivolare assurde e distorte di fronte a lui. «Ti ammazzo. Je te tue! Bastardo» urlava nella notte a pochi minuti dal rifugio. A pochi minuti dalla salvezza.

La neve scendeva entrando nel delirio come cenere spenta.


- 55 -

In quella mattina, in quella livida mattina di luglio, l'onda del vento scrosciava sulla realtà eliminandone ogni traccia. Kohlmann si avventò su Gallieni. I due rotolarono verso valle per alcuni metri. Le corde si attorcigliarono intorno a loro tenendoli uniti in una prigione di delirio.

Bonatti urlava. «Qu'est-ce que tu fais, tirati su. Ooooh!» e si precipitò sui due.

Fu la follia. A quattrocento metri dal rifugio. Kohlmann scaraventava le mani livide e gelate sulla faccia di Gallieni. Smise solo quando Bonatti lo afferrò da dietro. Il francese si girò di scatto e, con un salto, si scagliò su di lui. Bonatti lo schivò e Kohlmann cadde nella neve. Si divincolava, si contorceva. «Aaaah — urlava —. Salauds, salauds!». Gridava così forte che forse al rifugio lo avrebbero sentito.

Poi si rialzò e si scagliò su Gallieni facendolo rotolare a terra. Era una rissa tra moribondi. Ogni movimento era rallentato.

Kohlmann vedeva mostri enormi stare sopra di lui. Allora spiccava il volo per raggiungere le loro teste maligne, ma le sue ali di piombo lo trascinavano nella neve, tramortito, con la faccia avvolta dal ghiaccio. Piangeva, si contorceva, poi si rialzava e ricadeva: dentro di sé, nel silenzio tombale, vedeva immagini distorte, allucinazioni di morte. La sua testa era in un viaggio nel viaggio: vedeva fumo silenzioso, e dentro le bolle grigie, riusciva a scorgere facce paurose chiamarlo per nome.

Bonatti corse lontano da lui. La corda andò in tensione e Kohlmann fu trascinato via da Gallieni. Allora prese la rincorsa per avventarsi su Bonatti ma Gallieni corse dalla parte opposta, e Kohlmann si trovò in mezzo ai due trattenuto dalle corde tese. Rimasero così, come tenessero un toro nel centro dell'arena. L'aria era carica di nubi e vento e neve e buio. Tutti avevano perso già da ore la frontale e vedevano solo le proprie ombre proiettarsi informi sullo schermo chiaro del nevaio. Rimasero così a lungo. Al centro Kohlmann, ormai bloccato, alle due estremità Gallieni e Bonatti.

Verso le due e mezza le corde si allentarono. Il francese ebbe ancora qualche sussulto, poi si accasciò vinto dalle sue allucinazioni. Bonatti e Gallieni si slegarono dalla corda e corsero via. «Molla, fuggiamo!» gridò Bonatti.

Erano le tre. Il rifugio si trovava a dieci minuti di marcia.

Si abbracciarono e avanzarono: anche loro deliranti. Trascinandosi come moribondi, si sorreggevano a vicenda. Ogni tanto si guardavano alle spalle per vedere se Kohlmann li inseguisse. A tratti cadevano: prima l'uno, poi l'altro. Poi insieme. Sembrava che Kohlmann fosse ancora dietro di loro e li spingesse per terra. Il buio avvolgeva ogni cosa. Avrebbero potuto essere chiunque. Caddero ancora. Poi si rialzarono. Bonatti reggeva il compagno.

«Walter, Walter» sussurrava Gallieni. Bonatti non rispondeva e avanzava seguendo il suo istinto, tra quelle rocce in cui era di casa.

Avanzavano lentamente. «Dov'è il rifugio? Deve essere qui! Non possiamo essere lontani».

«Walter, dov'è il rifugio?» chiedeva a bassa voce Gallieni. L'altro non rispondeva.

Erano passate quasi ventiquattro ore da quando erano usciti, dopo una notte di delirio, dal crepaccio sul Colle di Peutérey. Gallieni aveva visto Vieille morire a pochi metri da lui; ora sarebbe morto volentieri abbandonandosi alle carezze del vento. «Dov'è Kohlmann?» chiedeva, e l'altro non rispondeva. Erano due moribondi. Il vento li stava uccidendo a pochi metri dal rifugio.

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