Copertina
Autore Paolo Ferri
Titolo Nativi digitali
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2011, saggi , pag. 212, ill., cop.fle., dim. 14,5x21x1,4 cm , Isbn 978-88-6159-487-6
LettoreDavide Allodi, 2011
Classe informatica: sociologia , comunicazione , media , informatica: reti , scienze cognitive , scuola , bambini , libri
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Indice


  1  Introduzione

     Parte prima.   Chi sono i nativi digitali?

  7  1. Una razza in via di apparizione
 21  2. Le prassi comunicative e la dieta mediale dei nativi
 40  3. Come vedono e rappresentano il mondo

     Parte seconda. Nuove modalità di conoscenza
                    e apprendimento: l'intelligenza digitale

 49  4. La nuova cultura partecipativa dei nativi
 72  5. Verso un'intelligenza digitale

     Parte terza.   La sfida dei nativi ai sistemi
                    della formazione

 95  6. A scuola mi annoio
101  7. Gli stili di apprendimento e gli stili di insegnamento
113  8. I nuovi ambienti della formazione
128  9. Il ruolo degli editori e dei content provider

     Parte quarta.  Istruzioni per genitori e insegnanti

139  10. La società informazionale
153  11. I genitori immigranti
171  12. Gli insegnanti immigranti

185  Conclusioni.   I nativi digitali crescono

193  Bibliografia

207  Indice dei nomi


 

 

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Pagina 1

Introduzione


Secondo un fortunato apologo attribuito a Seymour Papert (1996), se un alieno dalla vita millenaria fosse ritornato sulla Terra nel 2000 dopo cinquecento anni di assenza, avrebbe trovato irriconoscibili i laboratori scientifici – per esempio quelli di fisica, non potendo mettere a confronto gli studi di Newton e Galileo con i Bell Labs o il CERN –, ma avrebbe riconosciuto facilmente un luogo deputato alle assemblee politiche, una chiesa o un'aula scolastica: non molto è cambiato da allora.

Dal centro alla periferia, il modello gutenberghiano di diffusione dei saperi richiede una configurazione uno-molti anche nelle modalità della comunicazione. Alcuni esempi: lo schermo televisivo e i nostri divani, una cattedra e molti studenti, una voce che parla in un'assemblea e molti astanti che ascoltano.

Oggi, però, i nuovi stili di comunicazione abilitati dalle tecnologie digitali tendono a trasformare la tradizionale configurazione della comunicazione (Bolter 1991), così come gli spazi dell'apprendimento per renderlo più adatto a bambini e bambine che hanno davvero caratteristiche molto "originali". Quello che è successo è che, tra il 1985 – anno della diffusione di massa dei Pc a interfaccia grafica e dei sistemi operativi a finestre – e il 1996 – l'inizio della rivoluzione di Internet –, si è affermata rapidamente una nuova "versione 2.0" dell' Homo sapiens: si tratta dei "nativi digitali". I nativi sono molto diversi da noi "figli di Gutenberg". Sono nati in una "società multischermo" e interagiscono con molti di questi schermi fin dalla più tenera età. Questo perché sono numerosi i monitor interattivi dai quali sono circondati fin dalla nascita – computer, consolle per videogiochi portatili, cellulari smartphone, navigatori satellitari. Ora è importante comprendere come per i nativi digitali questi schermi costituiscano soprattutto strumenti di comunicazione e di interazione sociale e tra pari (Prensky 2006). Per esempio, il display del cellulare è per i nativi uno spazio per giocare, per comunicare attraverso gli SMS. Come lo è l'obiettivo della videocamera del cellulare usata per "pubblicare" contenuti on-line. Solo pochi nativi utilizzano il telefonino per le comunicazioni in voce (anche a causa del costo), soprattutto per il loro differente stile comunicativo. Ora, ovviamente, è soprattutto lo schermo del computer connesso a Internet quello che amano di più. I "nativi" sono diversi da noi perché, a scuola (Pedró 2007; 2008), a casa e con gli amici, sono sempre accompagnati dalle loro protesi comunicative ed espressive digitali che contribuiscono a delineare il perimetro del loro sé e del loro agire (Moriggi, Nicoletti 2009). Per questo i "nativi" si "espongono" su Facebook, sui blog o su YouTube, vivono nello e sullo schermo, allo stesso modo in cui abitano il mondo reale. Questo rende il loro modo di "vedere e costruire il mondo" molto differente dal nostro (Goodmann 1978).

È la diffusione di Internet che ha enfatizzato in maniera eclatante questa trasformazione. I computer non sono più solo strumenti di produttività individuale, ma sono soprattutto mezzi di comunicazione, espressione e creazione condivisa della conoscenza.

La situazione di noi "immigranti digitali" appare, per contro, ancora molto più "prudente" e cauta, se non "negazionista" (Rivoltella 2006b; Mantovani, Ferri 2008). I nativi, invece, stanno sviluppando nuove rappresentazioni, metodi per conoscere e fare esperienza del mondo. Stanno, cioè, sperimentando differenti schemi di interpretazione della realtà che li circonda. Wim Veen – studioso olandese di nuovi media – utilizza, per esempio, la metafora dell' Homo Zappiens per identificarli:

Il termine Homo Zappiens identifica una generazione che ha avuto nel mouse, nel PC e nello schermo una finestra di accesso al mondo. Questa generazione, i nativi digitali di Prensky, mostra comportamenti di comunicazione e apprendimento differenti dalle generazioni precedenti; in particolare, apprende attraverso schermi, icone, suoni, giochi, "navigazioni" virtuali e in costante contatto telematico con il gruppo dei pari. Questo significa sviluppare comportamenti di apprendimento non lineari e non alfabetici (Veen, Vrakking 2006; trad. it. p. 11).

Lo stile di comunicazione e apprendimento dei nativi è ludico, fortemente orientato all'espressione di sé, alla personalizzazione e alla condivisione costante di informazione (sharing) con i pari (peering).

Per esempio, per quanto riguarda i videogiochi (su consolle, telefonino e notebook), alcuni di questi non hanno nulla a che fare con l'apprendimento poiché si limitano ad attivare funzioni neurali di tipo percettivo-motorio (azioni automatiche e di stimolo-risposta) che nel lungo periodo non aiutano le capacità di apprendimento. Altri video-giochi, quelli di strategia e costruzione di mondi possibili quali SimCity – il cui fine è costruire e amministrare una città –, sviluppano l'attenzione selettiva, la "riserva cognitiva" e la capacità di apprendere una modalità nuova. "Videogiocare" ai Sims o a SimCity implica una costante "attenzione selettiva", la ricerca incessante di soluzioni a problemi. Implica, cioè, lo sperimentare ruoli differenti all'interno del contesto del gioco e quindi rappresenta una modalità di attivazione di apprendimenti ed esperienze anche sociali: ormai si gioca on-line con altri "nativi umani" e non solo con o contro le macchine.

I videogiochi sono solo la punta di un iceberg. I nativi hanno a disposizione una grande quantità di strumenti digitali di apprendimento e comunicazione formativa e sociale. Molti strumenti hardware: notebook, tablet (iPad), consolle connesse a Internet (Wii, PlayStation 3), eBook (Kindle), iPod, smartphone; e molte piattaforme software 2.0: i social network (Facebook e MySpace, Habbo e Netlog), MSN Messenger, i blog, YouTube, Wikipedia e i wiki. Uno dei comportamenti di apprendimento più originali dei nativi è il multitasking: studiano mentre ascoltano musica, e nello stesso tempo si mantengono in contatto con gli amici attraverso MSN, mentre il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole. Il problema del sovraccarico cognitivo è risolto attraverso il continuo passaggio da un media a un altro, tramite uno "zapping" consapevole tra le differenti fonti di apprendimento e di comunicazione. I nativi digitali, infatti, stanno imparando a "navigare" tra i media in maniera non lineare e creativa. Noi adulti cerchiamo sempre un "manuale" o abbiamo bisogno di strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarci a esso.

I nativi no! Apprendono per esperienza e per approssimazioni successive. Non è detto che sia un dato positivo, ma è un fatto.

Non si tratta di un fenomeno marginale: in media il 90% dei preadolescenti statunitensi e quelli degli stati dell'Unione europea usa Internet, decine di milioni di adolescenti e preadolescenti statunitensi ed europei hanno un blog, una loro identità on-line su Facebook o MySpace, e lo stesso vale per i circa tre milioni di bambini e preadolescenti italiani. I nativi sono simbionti strutturali delle tecnologie e navigano e condividono contenuti e sapere con i loro pari attraverso la rete.

Questo nuovo stile cognitivo e di apprendimento pone a noi figli del libro un problema cruciale: come stabilire un linguaggio comune con loro, come superare il digital divide intergenerazionale? Non si tratta di un problema piccolo: la cultura alfabetica sta cedendo il passo a quella digitale e non è facile traghettare al digitale la memoria analogica della cultura dell' Homo sapiens 1.0 per renderla disponibile ai nativi che appartengono alla specie dell' Homo digitalis o dell' Homo sapiens 2.0. È la sfida e la responsabilità che portiamo noi immigranti digitali. Questo è tanto più vero dal momento che una serie di ricerche degli ultimi anni, come per esempio la "New Millennium Learners", un approfondimento di OCSE-PISA, dimostra che le tecnologie a casa e a scuola migliorano gli apprendimenti e rendono più "brillanti" i nostri digital kids (Pedró 2006, 2008). In tutti i paesi dell'OCSE, salvo rare eccezioni, esiste una correlazione diretta tra i punteggi ottenuti nell'indagine PISA sugli apprendimenti e l'utilizzo e un uso "appropriato" di tecnologie a casa e in famiglia» e questo è solo un esempio relativo all'apprendimento. Ma noi immigranti digitali che strumenti abbiamo per capire chi sono i nativi? Come possiamo comprendere il loro nuovo modo di vedere e costruire il mondo? Come comunicano? E cosa ancora più importante: come valorizzare le loro potenzialità? È a tali domande che ci proponiamo di fornire in questo volume alcune risposte, sicuramente non "vere", ma "sufficientemente fondate".

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Pagina 10

Oltre Gutenberg: gli strumenti della generazione touch

Il diffondersi dei media digitali e l'affermarsi dei nuovi stili di comunicazione interattiva sono il fenomeno più eclatante dell'economia e della società, ma anche dell'industria culturale e dell'editoria tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo millennio. Oggi i computer portatili, gli eBook e gli smartphone, così come i tablet Pc, sempre connessi in forma wireless e 3G a Internet, stanno assediando sempre più da presso il regno della carta stampata e la cittadella dell'editoria gutenberghiana. Questo assedio si è fatto tanto più serrato da quando, a partire dal 2007, i nuovi supporti interattivi touch, creati dal genio di Steve Jobs e di Apple – l'iPod, l'iPhone, l'iPad e i loro "doni" di altro marchio –, permettono di sfogliare semplicemente con un tocco dei polpastrelli le pagine digitali dei libri e dei quotidiani on-line o di navigare il web in punta di dito, attraverso applicazioni specifiche (Rotta, Bini e Zamperlin 2010; Ito et al. 2010). Gli schermi multi-touch di questi dispositivi mobili ed estremamente portatili permettono, infatti, a tutti gli utenti, siano essi lettori, ascoltatori o videogiocatori, di abbandonare mouse, tastiera e "chiavette" ADSL, oltre che i pesanti e ingombranti notebook del passato, e di utilizzare semplicemente le dita delle mani per navigare molto più agilmente tra i contenuti e nel web mediante i magici schermi/tavoletta sempre connessi a Internet e sempre più portabili (Roncaglia 2010). Allo stesso modo, questi nuovi strumenti touch permettono agli utenti di acquistare contenuti culturali on-line con una procedura molto semplificata: basta registrarsi una sola volta su Apple Store o su iTunes e inserire una sola volta il numero della carta di credito e la password per acquistare poi dal proprio dispositivo semplicemente e in mobilità tutti i contenuti che si desiderano. L'usabilità, la portabilità e la comodità di questi nuovi dispositivi sono la carta vincente: due o tre colpetti del dito sullo schermo e si è sul sito della libreria on-line preferita; altri due o tre colpetti, e attraverso la propria carta di credito si acquistano i contenuti; e poi in meno di due minuti si può leggere e consultare ogni campo della narrativa, della saggistica e anche della musica, della televisione o del video digitale e dei videogiochi. La "tecnologia caratterizzante" del trasferimento e della diffusione della cultura e dell'informazione è cambiata e la transizione dal supporto cartaceo a quello digitale è quasi ultimata (Bolter, Grusin 1996; Ferri 2004; Ferri, Mizzella e Scenini 2009). Questo fenomeno, che si sta dispiegando con una rapidità impressionante (più di due milioni gli iPad venduti nei primi tre mesi dalla presentazione), non può essere considerato semplicemente una moda o un fenomeno passeggero; e noi immigranti digitali, che consideriamo i "nuovi giocattoli" come un'incredibile innovazione da accettare o rifiutare, non siamo il principale soggetto attivo di questa trasformazione.

Il diffondersi dei media digitali e l'affermarsi di uno stile della comunicazione orientato all'interazione, alla produzione di contenuti e alla condivisione sono stati, infatti, accompagnati nel corso del dispiegarsi della rivoluzione digitale, durante gli ultimi diciassette anni, dall'affacciarsi sulla scena di una nuova forma evolutiva dell' Homo sapiens: i "nativi digitali" (Prensky 2001, 2006).


La storia di una definizione fortunata e di molte ricerche

Per avvicinarci al nostro oggetto prendiamo in considerazione la definizione di "nativi digitali" che Mark Prensky – si tratta del creatore di questa fortunata e discussa definizione – ha dato nel 2001. Prensky conia questa espressione riferendosi al dibattito sulla trasformazione delle istituzioni educative negli Stati Uniti affermatasi più di dieci anni fa:

È sorprendente per me come, nell'acceso dibattito sul declino della formazione negli Stati Uniti, spesso ignoriamo la più rilevante delle sue cause. I nostri studenti sono cambiati radicalmente. Gli studenti di oggi non sono più i soggetti per i quali il nostro sistema educativo è stato progettato e sviluppato.

Gli studenti di oggi non hanno subìto, cioè, una trasformazione incrementale come è successo in passato nel succedersi delle generazioni. Non hanno, cioè, semplicemente cambiato il loro gergo, i loro vestiti e i loro sistemi simbolici di riconoscimento e appartenenza, così come i loro stili di comportamento. Si è manifestata una discontinuità radicale (Prensky 2001, p. 1).

Si potrebbe anche chiamarla una "singolarità", un evento che cambia radicalmente le cose in modo permanente e irreversibile. Questa singolarità è stata determinata dall'ideazione e dalla rapida diffusione della tecnologia digitale negli ultimi decenni del XX secolo.

Prensky prosegue incominciando a tratteggiare i caratteri di questa singolarità e delineando i contorni della fine della tecnologia del libro come tecnologia caratterizzante della trasmissione dei saperi.

I bambini e anche gli studenti del college oggi rappresentano la prima generazione che è cresciuta all'interno di questo nuovo paradigma tecnologico. Hanno trascorso tutta la loro vita circondati da e utilizzando computer, videogiochi, lettori di musica digitali, videocamere, telefoni cellulari, giocattoli e tutti gli altri gadget e strumenti che sono stati creati dalla rivoluzione digitale. Hanno trascorso meno di 5000 ore della loro vita a leggere, ma oltre 10000 ore davanti ai videogiochi (per non parlare delle 20000 ore passate a guardare la Tv) (ibid.).

Giochi per computer, e-mail, Internet, telefoni cellulari e instant messaging sono parte integrante della loro vita.

È ormai chiaro che, a seguito del nuovo ambiente digitale nel quale sono immersi e della crescita esponenziale della loro interazione con gli strumenti della rivoluzione digitale, i bambini e gli studenti di oggi apprendono e gestiscono l'informazione e la comunicazione in modo sostanzialmente diverso da noi, loro predecessori. Queste differenze sono molto profonde. Riportiamo ancora Prensky:

Diversi tipi di esperienze portano a strutture cerebrali differenti [...]. È molto probabile che la mente e lo stesso cervello dei nostri studenti siano cambiati – e siano diversi dai nostri – a causa dell'ambiente in cui sono cresciuti. Se questo è vero, possiamo dire con certezza che anche i loro modelli di vedere e costruire il mondo sono cambiati.

Come dovremmo chiamare questi "nuovi" soggetti che sono ancora bambini o preadolescenti e scolari o studenti? Alcuni si riferiscono a loro identificandoli come la N[per Net]-generation o la D[per digitale]-generation. Ma la denominazione più efficace che ho coniato per loro è digital natives. I nostri studenti sono oggi tutti "madrelingua" e parlano il linguaggio digitale dei computer, dei videogiochi e di Internet (ibid.).

Ma dove porre il confine tra le generazione dei digital immigrants (d'ora in poi immigranti digitali) e quella dei nativi digitali? Ovviamente stabilire il confine preciso tra la fine della generazione dei Gutenberg natives — i figli del libro — e la nascita di quella dei digital natives non è possibile: si tratta di una schematizzazione polarizzante, il processo di "sostituzione" è ovviamente molto più graduale. Alcuni stabiliscono il confine tra le due generazioni nel 1985 e lo mettono in relazione alla diffusione su larga scala nei paesi sviluppati del personal computer e insieme a esso dei sistemi operativi a interfaccia grafica (la prima versione del sistema operativo Windows è stata rilasciata sul mercato nel 1985, appunto).

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Come si può evincere dai dati delle ricerche OCSE, e in maniera piuttosto sorprendente, gli studenti che ottengono i punteggi migliori nell'indagine PISA non sono quelli che in assoluto fanno uso quotidiano delle tecnologie didattiche a scuola. I punteggi migliori sono infatti conseguiti da quegli studenti che vivono e studiano in scuole e famiglie che possiedono le tecnologie, ma sono anche quelli che durante le ore curricolari fanno un uso non troppo frequente di questi strumenti.

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Il 28% dei soggetti, quelli che usano moderatamente (due-tre volte la settimana) il computer, ottiene punteggi medi di 516 punti.

Il 28% dei soggetti, quelli che usano raramente o non usano affatto il computer a scuola, ottiene punteggi medi di 507 punti.

Il restante 44% degli studenti, che usa frequentemente il computer a scuola, ottiene punteggi medi di 499 punti (Pedró 2006).

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Sorprendentemente, i punteggi degli utilizzatori frequenti e dei non utilizzatori sono del tutto assimilabili, con una prevalenza nei punteggi (507 contro 499) per i non utilizzatori a scuola.

L'uso a scuola del computer, quindi, non è così rilevante come la presenza delle tecnologie nel contesto familiare e sociale. Questo dato, solo apparentemente contraddittorio, conferma l'assunto teorico che è alla base della nostra posizione rispetto ai nativi digitali. I nativi sono differenti da noi perché vivono in un ecosistema mediale che co-evolve più con la loro vita familare e sociale, che con la scuola e i sistemi formativi, dove l'utilizzo delle tecnologie risulta meno produttivo, probabilmente per due ordini di ragioni: in primo luogo le difficoltà degli insegnanti "immigranti" a maneggiare le tecnologie in modo "significativo" per gli apprendimenti, in secondo luogo perché il setting in presenza della formazione vicaria i saperi in maniera abbastanza efficiente e spesso migliore della formazione abilitata dalla tecnologia. Tuttavia la tecnologia conta soprattutto in un ecosistema ormai completamente transitato da Gutenberg al digitale, come quello in cui nascono i nativi. La tecnologia digitale è cioè per loro il naturale ambiente di svago, socializzazione, formazione e divertimento. La ricerca OCSE che abbiamo parzialmente analizzato si occupa in particolare del versante educativo della transizione al digitale, ma, come abbiamo appena evidenziato, ogni prassi comunicativa dei nativi ha una sua naturale espansione digitale. Molti studiosi hanno evidenziato questo fenomeno.

Nati e cresciuti all'ombra degli schermi interattivi dei "nuovi media", sono loro i soggetti che attueranno pienamente la transizione dalla carta al silicio. Ma quali comportamenti caratterizzano il rapporto dei nativi digitali con la tecnologia? Dopo aver descritto la genealogia del termine e le prime ricerche che hanno messo in rilievo il fenomeno, proviamo a descriverlo più in profondità attraverso l'analisi dei risultati delle recenti ricerche del Pew Research Center's Internet & American Life Project.

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2. Le prassi comunicative e la dieta mediale dei nativi


La dieta mediale dei nativi

Per analizzare la "dieta mediale", i prodotti mediali che i nativi digitali consumano, ma anche producono e gestiscono, cominciamo ad analizzare i dati relativi all'ingrediente di base di questa dieta: i bit di informazione e comunicazione che gestiscono, fruiscono e producono attraverso il loro strumento di comunicazione preferito, Internet. Il tasso di penetrazione di Internet tra le giovani generazioni è impressionante, come dimostrano i dati statunitensi del Pew Internet Project (Jones, Fox 2009).

In particolare, secondo il rapporto del 2010 redatto per il Pew Internet Project da Mary Madden (2010), la percentuale di accesso a Internet dei bambini e degli adolescenti è cambiata molto velocemente negli ultimi anni attestandosi intorno al 93%. Un dato che implica una saturazione quasi totale nell'accesso a Internet di queste coorti di età, dal momento che è molto probabile che il 7% dei "non connessi" in realtà utilizzi la connessione di amici e conoscenti.


Dalle connessioni statiche a quelle mobili

Rispetto al passato ha poi assunto una rilevanza molto maggiore l'utilizzo di Internet in mobilità. Bambini, preadolescenti e teenager, infatti, usano le tecnologie digitali non solo negli spazi comuni della casa o nello studio di papà e mamma: è cresciuta nel tempo l'importanza dell'accesso a Internet attraverso dispositivi mobili e reti wireless.

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Pagina 40

3. Come vedono e rappresentano il mondo


Il virtuale come costitutivo del reale

Proviamo ora a trarre alcune conclusioni dall'analisi delle ricerche e dei dati che abbiamo presentato sul fenomeno dei nativi digitali. La transizione al digitale nei supporti per la comunicazione, la socializzazione, l'intrattenimento e la formazione implicano, come dicevamo sopra, una discontinuità forte rispetto alla cultura gutenberghiana degli immigranti digitali. I nativi digitali, infatti, vedono e costruiscono il mondo a partire da un'esperienza differente dalla nostra: per loro esiste il reale e altrettanto reale è la sua espansione "virtuale". Ed è proprio lo "slittamento di significato" subìto da questo termine, segnalato già nel 1995 da Pierre Lévy, a marcare in maniera estremamente chiara il confine tra nativi e immigranti digitali. Il "virtuale", afferma Lévy in un'intervista,

non è il falso o l'illusorio, come ho cercato di dire. Nel virtuale siamo immersi, fa parte di noi e a volte è dentro di noi. [...]. Il virtuale (dal latino virtualis che viene da virtus = forza, potenza) non è una categoria che si oppone al reale, come per troppo tempo si è creduto. Il virtuale è un nodo problematico, perché ha dentro di sé tutte le potenzialità da cui può scaturire l'essere in una sua entità specifica. È, per usare una semplice immagine dal sapore aristotelico, il seme che si attualizza nella pianta, anche se non si esaurisce in essa. [...] È un processo creativo, opposto all'attualizzazione e che trascende l'oggetto, inserendolo in un campo problematico e di relazione più vasto (Pecorini 1999).

Per noi immigranti digitali il termine "virtuale" si opponeva, infatti, fino a vent'anni fa, in modo netto al reale, era il luogo dell'illusorio, del falso, dell'inganno.

Per i nativi digitali il "virtuale" è una manifestazione del reale, altrettanto influente e significativa per le loro relazioni sociali, cognitive, formative. I nativi vivono in un mondo reale e virtuale insieme e questo, spesso, nell'inconsapevolezza da parte degli adulti di riferimento, genitori, insegnanti o datori di lavoro che siano. Il loro percorso di appropriazione dei nuovi media è oggi indipendente e spesso lontano e distonico (Rivoltella 2006b; Ferri 2008; Ferri et al. 2009) da quello degli adulti immigranti. I nativi crescono, apprendono, comunicano e socializzano all'interno di questo nuovo ecosistema mediale, "vivono" nei media digitali, non li utilizzano semplicemente come strumento di produttività individuale e di svago, sono in simbiosi strutturale con essi (Longo 2003). Vivono, cioè, all'interno del brave new world dell'informazione e della comunicazione digitale e globalizzata.


Gli stili di comunicazione "partecipativi"

Anche i loro stili di comunicazione e forse i loro modi di pensare sono differenti. Una rassegna ragionata della letteratura scientifica in materia indica i valori che orientano gli stili comunicativi dei nativi (Becta 2008a, 2008b; Pedró 2008; OECD 2010): l'espressione di sé; la personalizzazione; la condivisione costante di informazione (sharing); il riferimento costante ai coetanei. I nativi crescono in un mondo di schermi digitali, per loro quello che per noi è "nuovo" e "scintillante" è il modo normale di accedere ai contenuti, di comunicare e di interagire sin dalla prima infanzia. Questa simbiosi digitale (Longo 2003) cambia, ovviamente, anche il loro modo di interpretare la realtà. Lo cambia come la galassia Gutenberg ha fatto con noi e con tutte le generazioni passate che l'hanno abitata (Ferri, Mizzella e Scenini 2009, cap. 1). Ma come la galassia Internet trasforma il modo in cui i nativi vedono e costruiscono il mondo? Le ricerche che il Gruppo di lavoro "Bambini e computer" dell'Università di Milano-Bicocca ha condotto sull'appropriazione degli strumenti digitali da parte dei bambini tra i 2 e i 6 anni (Mantovani, Ferri 2006, 2008), oltre a una serie di ricerche internazionali, ci permettono di formulare alcune prime generalizzazioni euristiche per provare a rispondere a questa complessa domanda. I nativi digitali stanno sviluppando nuove rappresentazioni, nuovi metodi per conoscere e fare esperienza del mondo, cioè stanno sperimentando differenti schemi di interpretazione della realtà che li circonda e conseguentemente differenti modalità di apprendimento e comunicazione.


Il gioco come metafora fondativa

Prendiamo per esempio in considerazione il primo codice comunicativo con cui vengono in contatto e che, come abbiamo visto sopra, utilizzano massicciamente. I nativi incontrano i videogiochi in tenerissima età, a 3 o 4 anni, come dimostrano i dati presentati precedentemente, attraverso il cellulare o le consolle portatili o fisse e il computer dei genitori. Alcuni videogiochi hanno poco a che fare con i processi cognitivi, l'apprendimento e la comunicazione, poiché si limitano ad attivare funzioni neurali di tipo percettivo-motorio, azioni automatiche e di stimolo-risposta, che nel lungo periodo rischiano di danneggiare le capacità di apprendimento dato che tendono a limitare "l'attenzione selettiva", il precursore della memoria. Altri videogiochi, però, soprattutto quelli che richiedono strategia, riflessione e costruzione di mondi possibili (quali Crash Bandicoot, Spyro the Dragon, Super Mario Bros., SimCity, Age of Empires), plasmano la loro mente in maniera del tutto opposta: sviluppano, cioè, l'attenzione selettiva, la "riserva cognitiva" e perciò l'"intelligenza" secondo una modalità nuova e del tutto originale rispetto a noi nativi gutenberghiani. Videogiocare, per esempio, a Crash Bandicoot, Spyro the Dragon o ai Sims implica un'attenzione selettiva e proattiva costante, la ricerca abduttiva di soluzioni a problemi che via via si manifestano nel gioco, la cooperazione (on-line o in presenza) con il gruppo dei pari – ormai si gioca on-line con altri "umani" e non solo in maniera solipsistica contro la macchina – insieme alla sperimentazione di ruoli differenti all'interno del contesto del gioco. L'imprinting precoce a queste modalità cognitive e di interazione sociale non potrà non influenzare il modo di vedere e costruire il mondo dei nativi. I videogiochi rappresentano cioè un gioco molto serio, che riesce ad attivare stili cognitivi, comunicativi e di relazione del tutto nuovi rispetto alla nostra esperienza del mondo analogica e gutenberghiana. Un approccio alla conoscenza e ai saperi che può essere descritto efficacemente dallo schema oppositivo rispetto a noi immigranti gutenberghiani che presentiamo qui sotto.

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  Immigranti digitali                 Nativi digitali
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— Codice alfabetico                 — Codice digitale

— Apprendimento lineare             — Apprendimento multitasking

— Stile comunicativo uno-molti      — Condividere e creare la conoscenza
                                      (mp3, Wikipedia)

— Apprendimento per assorbimento    — Apprendere ricercando, giocando, esplorando

— Internalizzazione, riflessione    — Esternalizzazione dell'apprendimento

— Autorità del testo                — Comunicazione versus riflessione

— Primo: leggere                    — No autorità del testo, multicodicalità

                                    — Connettersi, navigare ed esplorare
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Ma i videogiochi sono solo la punta di un iceberg, il primo contatto dei nativi con gli schermi.


Un'intelligenza multitasking e abduttiva e il peering

I nativi, infatti, hanno a disposizione una grande quantità di codici e di strumenti di apprendimento e comunicazione formativa e sociale: dai social network come Facebook, Netlog, Habbo a MSN Messenger, al telefono cellulare, ai siti di file sharing e condivisione dei contenuti on-line. Noi adulti gutenberghiani cerchiamo sempre un "manuale", una traccia lineare e alfabetica che ci guidi, o abbiamo bisogno di strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarci a esso.

I nativi digitali no: non è detto che ciò sia un fattore positivo, ma è un fatto. Apprendono per esperienza, un deweyiano learning by doing "inconsapevole" e naturale. Costruiscono la loro esperienza non linearmente ma per successive approssimazioni secondo una logica che è più vicina a quella "abduttiva" di Peirce, che non a quella induttiva di Galileo o a quella deduttiva di Aristotele che caratterizzavano lo stile di esperienza gutenberghiano.

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Pagina 49

4. La nuova cultura partecipativa dei nativi


La "rivoluzione della conoscenza"

Avviamo questo capitolo dedicato a delineare i tratti dell'intelligenza digitale dei nativi e le loro modalità di apprendimento con un'osservazione provocatoria: ha senso nel terzo millennio che il sistema e l'infrastruttura normativa della formazione scolastica in Italia siano per larghi tratti analoghi a quelli del secolo scorso? Ha senso che i nostri insegnanti e studenti — con la virtuosa eccezione di coloro che lavorano nella scuola dell'infanzia e in quella primaria — si affannino a insegnare e apprendere i contenuti di decine di materie senza approfondire adeguatamente le competenze metodologiche necessarie a ciascuna di esse? Ha senso cercare di dominare campi disciplinari sempre più vasti e in rapido e continuo cambiamento nei loro contenuti? Probabilmente no. Negli ultimi decenni del Novecento e sempre più rapidamente oggi la ricerca e le tecnologie digitali hanno imposto un'enorme accelerazione allo sviluppo delle conoscenze create e delle conoscenze disponibili. Secondo un'estrapolazione sviluppata sulla base di differenti fonti dal sociologo Guido Martinotti, se nel 1945 ogni cittadino del mondo aveva a disposizione 600 MB di informazione, l'equivalente di un CD musicale, oggi la nostra disponibilità di informazione è equivalente a 250 GB, la quantità di informazione contenuta in 54 DVD da 4,3 GB: un incremento esponenziale (Martinotti 1998). In realtà, oggi ogni cittadino del mondo ha accesso, almeno potenzialmente, attraverso Internet a centinaia di milioni di gigabyte di informazione, o meglio a tutta la conoscenza del mondo.

Il campo dei saperi e delle discipline e la stessa conoscenza scientifica negli ultimi decenni del Novecento si sono "accresciuti esponenzialmente" e grazie all'utilizzo delle tecnologie digitali si sono trasformati in un sistema estremamente dinamico, interrelato e in rapidissimo sviluppo, e questo genera i problemi dell'obsolescenza dei contenuti disciplinari che è divenuta sempre più rapida. I nativi crescono in questa epoca e non nell'epoca delle "ponderose" e "polverose" enciclopedie monumentali dei tempi di Gutenberg. Per fornire un'esemplificazione concreta di questo fenomeno, correlato alla rivoluzione digitale, basti pensare, per esempio, alla storia del Progetto Genoma Umano relativo alla sequenziazione e mappatura del DNA.

[...]

Questo esempio ci permette di comprendere meglio come l'accelerazione che le enormi e incrementali capacità di calcolo dei computer hanno impresso a tutti i campi del sapere, ha fatto sì che le "discipline scientifiche e umanistiche" abbiano clamorosamente accelerato il loro sviluppo e quindi anche l'obsolescenza delle conoscenze precedenti. I progressi della ricerca scientifica hanno conosciuto una fortissima accelerazione tanto che le nuove scoperte e i brevetti in tutti i campi del sapere hanno subìto una crescita formidabile. Le tradizionali divisioni tra campi di conoscenza e "discipline" hanno cominciato a cadere. La biologia, la matematica, la fisica, ma anche la storia, l'antropologia e la linguistica si sono "meticciate" e "contaminate", trasformandosi da un sistema relativamente statico di discipline, molto rigidamente definito nei suoi confini, in un ecosistema reticolare dinamico e in perenne e continua crescita e interrelazione. I contenuti disciplinari perciò mutano e si riaggiornano con grande rapidità. I nativi devono e dovranno maneggiare a scuola e all'università questa complessità, questo corpus di saperi mobile e in costante aggiornamento: sono nati nell'epoca dell'"informazione veloce", sono figli della rete e non "figli delle enciclopedie". Per questo nei principali paesi sviluppati dell'Europa continentale e nei paesi anglosassoni, è stata decisa un svolta metodologica che tende alla riduzione delle "discipline" (OECD 2009). Le riforme dei sistemi educativi più avanzati tendono, infatti, a una progressiva riduzione delle materie da approfondire e a una forte crescita della dimensione metodologica e interdisciplinare. Tendono, poi, a una più forte opzionalizzazione dei contenuti, a una riduzione degli allievi per classe, in modo da permettere una maggiore personalizzazione degli apprendimenti. L'idea è semplice: in uno scenario nel quale i contenuti disciplinari, soprattutto nelle materie scientifiche e giuridico-economiche, ma anche in molte materie umanistiche, sono un corpus di conoscenze sempre più dinamico e sottoposto a trasformazioni, intersezioni e aggiornamenti continui, un approccio di natura nozionistica al sapere e alla didattica è praticamente impossibile e diventa importantissimo che vengano privilegiate la qualità alla quantità, la metodologia e la metariflessione alle nozioni. Si tratta, cioè, di privilegiare un maggiore approfondimento metodologico e la didattica laboratoriale allo studio delle nozioni, in modo da permettere a bambini e studenti di acquisire un solido "metodo" di studio e di ricerca, in alcuni campi del sapere, che possa poi essere applicato anche ad altri settori. Questo processo non è solo sincronico ma anche diacronico, nel senso che anche all'interno dello stesso campo del sapere specifico, gli studenti si troveranno di fronte nel corso della loro vita di apprendimento – del loro lifelong learning – a grandi cambiamenti e trasformazioni nei contenuti; quello che conta è che il "metodo" di studio e di ricerca che hanno appreso permetta loro di mantenersi aggiornati anche nei mutati scenari disciplinari e interdisciplinari che caratterizzeranno la loro vita di cittadini della nostra società informazionale globalizzata.

È meglio imparare in modo approfondito meno materie piuttosto che "appiccicarsi" nella testa nozioni che rapidamente saranno rese obsolete dalle successive scoperte. In Italia sia l'impianto normativo della "nuova scuola superiore" sia i tagli all'organico, agli investimenti in ricerca e formazione e anche agli stipendi del personale della scuola e dell'università paiono nettamente in controtendenza rispetto alle direzioni europee. Questo è tanto più grave perché il problema della "rivoluzione digitale della conoscenza" non si limita a questo. La rivoluzione digitale, infatti, e la transizione al digitale dei "contenuti" dell'apprendimento, così come la circolazione digitale dei saperi, implicano una seconda rilevantissima conseguenza: un nuovo stile di accesso ai mutati contenuti e supporti del sapere.


Oltre il libro: i nuovi supporti

Per i nativi i supporti per l'apprendimento sono e saranno digitali. Anche il libro ha mutato la sua funzione e sta diventando digitale. I nostri – quelli che abbiamo usato noi "immigranti" – strumenti "gutenberghiani" di lavoro e di pubblicazione hanno cambiato radicalmente forma, così come tutte le forme di creazione, trasmissione e riproduzione della conoscenza. Gli oggetti della conoscenza stanno diventando e in buona parte sono già diventati digitali. Molto spesso noi immigranti tendiamo a non rendercene conto o a rifiutare questo cambiamento. Quante volte abbiamo detto o abbiamo sentito dire che il libro non morirà mai. Il fatto è che nella sua forma tradizionale gutenberghiana è già morto.

Oggi questo "oggetto culturale", che è stato la macchina di autoapprendimento sulla quale da quattrocento anni si fonda la civiltà occidentale, è composto di atomi materiali solo nella sua forma finale: il libro di carta che, se non possediamo ancora un eBook reader connesso a Internet, acquistiamo in libreria. Infatti, tutte le fasi della sua creazione e produzione sono avvenute in un altro codice, quello digitale, appunto. È stato scritto, salvo ormai rarissime eccezioni, con un word processor e un computer, e il "manoscritto" è stato inviato via e-mail all'editore. È stato rivisto al computer da un editor, che lo ha fatto impaginare a un grafico attraverso un software di videoimpaginazione, le correzioni di bozze sono state inserite in un file, e sempre un file è stato mandato "in stampa" attraverso una macchina digitale che ha prodotto solo nell'ultima fase del suo processo produttivo la sua impressione in carta e inchiostro: il "simulacro" di libro gutenberghiano che leggiamo e teniamo fra le mani. Noi immigranti digitali a volte non ci rendiamo conto della rilevanza di questa trasformazione, i nativi digitali considerano tale transizione come già compiuta.

Quello che sta cambiando così radicalmente è l'oggetto culturale "caratterizzante" della nostra civiltà e di tutta la nostra tradizione culturale occidentale. «In principio era il Verbo [Logos in greco]» recita l' incipit del Vangelo di Giovanni e sul verbo, sulla parola, laica o religiosa che sia, tramandata attraverso i libri, le gazzette, i giornali e le riviste si fonda la nostra cultura: questa tradizione sta finendo. A partire dal 1985, da quando cioè i personal computer sono entrati massicciamente negli uffici e nelle case delle nostre città e paesi, e in maniera ancora più chiara dal 1996, cioè da quando Internet e le reti telematiche sono diventate un fenomeno di massa, a noi "immigranti" sta accadendo di vivere un'esperienza molto singolare, che è capitata solo cinquecento anni fa agli studiosi che hanno vissuto la rivoluzione del libro a stampa (Eisenstein 1979). L'oggetto delle nostre ricerche giovanili, delle nostre passioni e delle nostre fatiche, la conoscenza scritta, il sapere codificato alfabeticamente in libri e riviste, ha cambiato supporto. È cambiata la tecnologia "caratterizzante" di creazione, rappresentazione e diffusione del sapere, così come sono cambiate le sue modalità di consumo e divulgazione.

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Il multitasking

La nuova capacità dei nativi di produrre contenuti a partire da basi dati esistenti va spesso di pari passo con un approccio radicalmente differente nelle "modalità" di accedere e manipolare le informazioni. Noi immigranti tendiamo a eseguire un compito cognitivo alla volta, seguendo il modello lineare della comunicazione alfabetica e gutenberghiano, i nativi tendono invece a utilizzare una modalità parallela di gestione dei contenuti informativi e del sapere. La manifestazione più eclatante di questo fenomeno e quella che ha suscitato un grande dibattito sulla sua reale efficacia cognitiva prende il nome di multitasking. Come sostiene Alberto Marinelli:

Le tecnologie di rete abilitano una nuova forma di spatial and temporal co-presence perché rendono possibile, per la prima volta, intraprendere due o più attività indipendentemente dalla loro co-presenza spaziale [...]. L'organizzazione cronologica delle attività durante la giornata e, insieme, la distinzione tra tempo di lavoro (di scuola) e tempo libero, è sempre più intaccata dalla possibilità di accedere alle risorse di rete indipendentemente dalla localizzazione fisica e dal tipo di device o dispositivo tecnologico utilizzato. Le attività on line possono essere condotte everywhere at any time. In sintesi, possiamo affermare che l'impatto delle tecnologie di rete non si misura tanto sulla sostituzione di attività off line con attività on line, quanto sul numero complessivo di attività che possono essere svolte contemporaneamente (multitasked) (Marinelli 2009, p. 14).


Questa peculiare forma di intensificazione e condensazione nel tempo di esperienze cognitive multiple in forma non lineare è stato criticato da molti perché non permetterebbe lo svilupparsi di una "attenzione selettiva efficace" e implicherebbe una forma di fruizione dei contenuti e una rielaborazione delle informazioni che si caratterizzano per il loro andamento non lineare. Sul multitasking come processo cognitivo e sui suoi rischi si sono sollevate aspre polemiche che sono ben caratterizzate dalla posizione di Nicholas Carr (2010), il quale analizza in maniera allarmata, a partire da alcune ricerche neurofisiologiche, gli effetti del predominio del multitasking sulla lettura lineare gutenberghiana. Le posizioni dello studioso riassumono efficacemente quelle degli "apocalittici" in tema di effetti delle tecnologie digitali sulle modalità di apprendimento. In particolare egli sostiene come sono e saranno competenze cognitive nobili quali il pensiero astratto e la memoria associativa a lungo termine a essere messe a rischio dal predominio della fruizione digitale e non lineare sul web. Inoltre, secondo Carr lo svolgimento di un numero crescente di processi cognitivi in simultanea renderebbe inefficienti i processi stessi e implicherebbe performance più basse e tempi più alti rispetto allo svolgimento di questi compiti in maniera tradizionale. La nostra posizione su questo tema è molto cauta, le evidenze relative alle mappature delle funzioni cerebrali che emergono della neurofisiologia non permettono di trarre generalizzazioni univoche. È evidente come i nativi digitali tendano a privilegiare questo tipo di modalità di acquisizione e manipolazione dei contenuti dal momento che la ritengono più stimolante (aumenta i livelli di adrenalina e dopamina), più naturale e varia rispetto alla lettura consecutiva gutenberghiana. Allo stesso modo è chiaro che ogni nuova tecnologia della creazione, diffusione e appropriazione dei saperi entra in collisione con quelle precedenti e attiva differenti modalità cognitive di approccio ai contenuti che possono privilegiare o restringere il ruolo di questa o quella funzione cerebrale. Come ha dimostrato, per esempio, Tomas Maldonado (2005), le forme e le modalità di utilizzo della memoria sono cambiate nei secoli e stanno cambiando anche oggi sotto la spinta della "tecnologia caratterizzante" della nostra epoca — il web e le reti di comunicazione digitali — e tuttavia questo non è necessariamente un fatto negativo. È sicuramente vero che le nuove tecnologie mettono in tensione le capacità di attenzione selettiva attraverso il sovraccarico di stimoli e codici cui ci permettono di accedere e la conseguente maggiore difficoltà nell'archiviare nella memoria a lungo termine i dati. Ma è anche corretto quello che sostiene Henry Jenkins:

Invece di impegnarsi a focalizzare l'attenzione, i giovani rispondono a un ambiente mediale ricco facendo ricorso al multitasking – scansionando il flusso informativo per rilevarne cambiamenti significativi e, al tempo stesso, esponendosi a stimoli multipli. Il multitasking e l'attenzione non dovrebbero essere viste come forze opposte tra loro. Dovremmo, piuttosto, pensare ad esse come abilità complementari, entrambe usate dal cervello in modo strategico per affrontare in maniera intelligente i limiti della memoria a breve termine (Jenkins 2009; trad. it. p. 122).


L'attenzione, infatti, cerca di prevenire il sovraccarico informativo limitando e tenendo sotto controllo quali informazioni entrano nella memoria a breve termine e selezionandole in questa fase. Le persone che praticano il multitasking con successo cercano di ridurre le richieste sulla memoria a breve termine identificando e utilizzando la rete come estensione della memoria. Utilizzando cioè i luoghi in cui le differenti informazioni sono depositate esternamente nel web come supporto alle proprie attività. Il problema del sovraccarico cognitivo, perciò, è spesso risolto attraverso il continuo passaggio da un medium a un altro, tramite uno zapping consapevole tra le differenti fonti di apprendimento e di comunicazione. Questo comportamento non è solo foriero di disattenzione e di disorientamento cognitivo, ma a nostro avviso, e concordiamo con Jenkins, delinea un nuova modalità di apprendimento che implica un costante monitoraggio delle fonti informative disponibili nel nostro ecosistema mediale. Si tratta di una nuova ecologia dei media (Calvani 2007), un consapevole riposizionarsi dell'attenzione su questo o quel "task cognitivo" a seconda del suo interesse per l'attività o il compito svolto in quel momento. Il nostro attuale ambiente cognitivo è più ricco e ridondante, ma anche più carico di "rumore" rispetto a quello del passato: silenzio, lettura e scrittura. La ricchezza di stimoli e di codici che caratterizza l'attuale bulimia informativa non è necessariamente un male... anzi, a certe condizioni è decisamente positiva. Afferma a questo proposito Antonio Calvani:

Un buona ecologia mediale induce anche ad un'analisi critica della futilità e della ridondanza che caratterizzano gran parte degli usi correnti (dei media) nella scuola proponendo anche forme positive, adeguatamente stimolanti e rispettose di uno sviluppo armonico ma anche ricco della persona, e non soltanto esprimente una vocazione "calmierante" (ivi, p. 27).

Il problema è formare a questa "ecologia mediale" gli insegnanti, prima che gli studenti, e insegnare loro a orientarsi nella molteplicità di codici e a governarli criticamente.

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In altri termini e più concretamente, quando interagiamo con gli strumenti digitali, per esempio quando decidiamo di cliccare su questo o quel link nel web, stiamo utilizzando una nuova forma di intelligenza? Lavoriamo, cioè, sulla "zona di sviluppo prossimale" della nostra mente aggiungendo una specifica facoltà alle nostre capacità cognitive o stiamo semplicemente operando un'assimilazione del modo di funzionare delle forme di intelligenza "tradizionali"? Ancora in altri termini, la co-evoluzione delle tecnologie digitali e del loro uso sociale ha dato vita a una nuova forma di intelligenza – quella digitale appunto – o essa può essere ricondotta alle forme di intelligenza che conoscevamo nell'epoca analogica?

La risposta a questa domanda è decisiva per comprendere se i nativi digitali, quando navigano in Internet o videogiocano, oppure apprendono o comunicano attraverso i social network, si stiano muovendo su un terreno d'esperienza e di cognizione nuovo, che quindi richiede nuovi strumenti di indagine e nuove metodologie di comprensione, oppure semplicemente utilizzino strumenti nuovi attraverso facoltà cognitive conosciute anche in passato. Discontinuità o continuismo? Esistono davvero i nativi digitali? Hanno davvero sviluppato, in questi anni, una nuova forma di intelligenza della quale è necessario indagare la differenza specifica? La risposta a queste domande non può essere impressionistica, ma deve fondarsi su uno schema interpretativo sufficientemente consolidato e corroborato.

Le domande che abbiamo posto, infatti, possono avere grandi implicazioni sul modo in cui vengono analizzati, compresi, gestiti e governati i processi sociali, formativi e professionali contemporanei.

Comprendere meglio la nostra relazione con gli strumenti digitali significa, infatti, comprendere e gestire meglio la nostra vita in quasi tutte le sue dimensioni contemporanee.

La nostra opinione, in proposito, è piuttosto radicale: i nativi digitali esistono e la loro differenza specifica è l'intelligenza digitale.

Per giustificare questa affermazione, viste le sue rilevanti implicazioni, ci proponiamo di dimostrarla in maniera "obiettiva" e proveremo a farlo seguendo lo schema di dimostrazione dell'esistenza dell'intelligenza digitale che Antonio Battro propone nel suo Verso un'intelligenza digitale (Battro, Denham 2007).

Si tratta cioè di sottoporre a prova le evidenze empiriche e osservative che abbiamo analizzato nei capitoli precedenti relative ai comportamenti cognitivi e sociali dei nativi digitali. Occorre passare al vaglio di un protocollo "scientifico", proposto da Gardner, la nuova forma specifica attraverso cui i nativi vedono e costruiscono il mondo.

Per condurre questa analisi sottoporremo l'intelligenza digitale alla verifica "sperimentale" che Howard Gardner richiede per definire l'emergere di una nuova forma di intelligenza e per poterla classificare in quanto tale. Una nuova "intelligenza" o "una nuova forma mentis", per essere tale e non costituire semplicemente un derivato di una forma di intelligenza già formalizzata, secondo Gardner (1983) deve rispondere alle seguenti caratteristiche e rispettare le seguenti condizioni:

1) Deve poter essere rilevata o attraverso prove "obiettive" — per esempio le mappature delle funzioni cerebrali (mediante PET e RMN) — che permettano di verificare differenti mappature cerebrali rispetto a quelle che caratterizzano le intelligenze tradizionali, oppure attraverso il manifestarsi di una lesione cerebrale che inibisce questa particolare forma di intelligenza (Battro, Denham 2007, capp. 1-5).

2) Deve poter essere ricostruita una sua storia evolutiva specifica. Si possono cioè rintracciare nel mondo predigitale le prove della sua esistenza in "potenza", per esempio attraverso l'analisi di come venivano utilizzati strumenti "binari", caratterizzati cioè dal meccanismo acceso-spento di natura analogica (ivi, cap. 2).

3) Deve poter essere articolata e cioè strutturata e ramificata in almeno due sottodomini, che ne specifichino le funzioni e le dinamiche di funzionamento (ivi, cap. 3).

4) L'intelligenza presa in esame deve poter essere codificata in un sistema simbolico particolare, come, per esempio, quello della musica, che viene identificata dalla sua notazione specifica e che varia a seconda della propria epoca.

5) Deve poter essere ricostruibile il suo sviluppo e cioè il suo articolarsi dal semplice al complesso, dal più esperto al meno esperto.

6) Devono esistere nel dominio dell'intelligenza digitale "casi eccezionali", cioè casi di talenti precoci, e devono esistere "incapacità" a sviluppare un'intelligenza digitale, cioè disabilità digitali che possono inibire lo sviluppo di questo tipo di intelligenza (ivi, cap. 5).

7) Può interferire o perturbare il funzionamento di altre intelligenze o si può trasferire in maniera proattiva ad altre intelligenze? Si tratta cioè di comprendere se l'intelligenza digitale può essere soggetta a interferenze — per esempio, per noi "nativi gutenberghiani" è difficile eseguire un calcolo a mente se nel frattempo stiamo parlando — o se può migliorare e potenziare altre intelligenze.

8) Deve poter essere misurata. Si può, cioè, in qualche modo, misurare l'intelligenza digitale e valutarne lo sviluppo.

Analizziamo quindi più distesamente se l'intelligenza digitale dei nativi così come l'abbiamo presentata qui risponda alle condizioni poste da Gardner e possa perciò essere propriamente definita come una nuova modalità del conoscere.

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L'intelligenza digitale esiste

Seguendo e integrando le argomentazioni di Antonio Battro abbiamo fornito una dimostrazione – ovviamente provvisoria e falsificabile – dell'esistenza e delle caratteristiche proprie dell'intelligenza digitale, cioè del modo in cui vedono e costruiscono il mondo i nativi digitali. Prima di affrontare il passo successivo del nostro ragionamento, il modo in cui i nativi apprendono a scuola, è necessario però mettere in rilievo un ultimo punto del discorso che abbiamo sin qui condotto. Riteniamo che l'affermarsi dei media digitali nel campo del conoscere abbia rappresentato un punto di discontinuità radicale e per così dire senza ritorno della storia dell'evoluzione dell' Homo sapiens. Il digitale come "tecnologia caratterizzante" dell'intrattenimento, della socialità e della cultura nelle società informazionali identifica una "singolarità" rispetto al passato che a nostro avviso rende inutili e forse un po' oziose le polemiche tra fautori e detrattori della rivoluzione digitale. Il digitale "è qui per restare" e con lui dobbiamo convivere. Ogni salto di paradigma, ogni "singolarità" implica una certa incommensurabilità con il paradigma precedente, in questo caso con la galassia Gutenberg. Oggi siamo "nel nuovo" e dobbiamo capirne e analizzarne le caratteristiche, positive o negative che siano. Un punto privilegiato per proseguire quest'indagine è prendere in considerazione il modo in cui i nativi apprendono e come si relazionano alla scuola e all'educazione formale. La comprensione di questo fenomeno, infatti, integra e aiuta la comprensione di come i nativi, oggi bambini e preadolescenti, svilupperanno da adulti le loro attività sociali, affettive e professionali nel "mondo nuovo" dell'informazione digitale.

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Le ICT in questa prospettiva non devono, ovviamente, essere intese come "macchine per insegnare" (Skinner 1968), ma come "strumento" abilitante della possibilità da parte dello studente di co-costruire il proprio percorso di apprendimento, di socializzarlo e perciò di personalizzarlo rispetto ai suoi stili cognitivi e ai suoi bisogni formativi: una tendenza che come abbiamo visto è una caratteristica specifica della dieta mediale dei nativi digitali.

Per comprendere l'isomorfismo tra didattica costruttivista e diffusione "riflessiva" delle tecnologie digitali di rete nella scuola è necessario analizzare più a fondo il fenomeno della seconda rivoluzione digitale in corso nel mondo dell'educazione: il "megacambiamento" socioeconomico e nelle forme della comunicazione (Ferri 1998, 2004) che ha caratterizzato la transizione delle società a capitalismo avanzato dal modello postindustriale (Bell 1973) a quello informazionale (Castells 1996, 1997, 2000).

Ciò che distingue i personal-digital media dai mass media gutenberghiani è stato ben evidenziato, ancora una volta, da Pierre Lévy nel suo Il virtuale (Lévy 1995). In questo profetico saggio – scritto mentre la rivoluzione digitale si stava avviando – Lévy mette in rilievo come il modello della comunicazione educativa digitale stabilisca una radicale discontinuità rispetto a quella gutenberghiana: i media digitali, anche nel campo dell'educazione, sono definiti da Lévy come molecolari e si contrappongono a suo avviso ai media molari gutenberghiani. I mass media gutenberghiani sono basati, come abbiamo accennato, su una struttura comunicativa gerarchica, uno-molti, e si rivolgono a "studenti massa", uno identico all'altro, simili agli operai massa degli anni trenta o agli operai/impiegati massa degli anni settanta. I media digitali sono basati su un modello molti-molti della comunicazione interattiva bidirezionale, quale per esempio quella che caratterizza i gesti comunicativi e formativi che si svolgono all'interno dei social network contemporanei, e gli utenti dei social network sono gli scolari e gli studenti di oggi. In questo senso, la rete istituisce una nuova modalità dell'interazione e della comunicativa educativa che si caratterizza per una maggiore orizzontalità, per il suo essere strutturalmente biunivoca e "transitiva" dialogante. Si caratterizza, inoltre, per il suo potere di creare e sostenere comunità, anche di apprendimento: «L'abilità minima a navigare nel cyberspazio – afferma Lévy – si acquista probabilmente in tempi più ridotti di quelli necessari per imparare a leggere e, come l'alfabetizzazione, sarà associata a ben altri benefici sociali, economici e culturali, rispetto al semplice esercizio del diritto di cittadinanza» (ivi; trad. it. p. 76). Inoltre, una seconda grande differenza tra media molari e media molecolari è costituita dalla scala dei costi e degli investimenti (finanziari, tecnologici, di risorse umane) necessari per avere accesso e per creare informazione e formazione.

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L'analisi dei comportamenti cognitivi dei nativi digitali ci permette ora di rileggere alla luce di quanto esposto il modello di "formazione digitalmente aumentato" che prende il nome di technology enhanced learning. Per essere utili ai nativi il computer e le tecnologie digitali devono dunque essere considerati come ambienti di apprendimento, secondo lo schema qui sotto proposto. Nella nostra prospettiva, cioè, il computer e le tecnologie digitali della comunicazione sono intese come parte dello "sfondo integratore" all'interno del quale è collocato l'ambiente di apprendimento arricchito, sono il ponte che la scuola formale può gettare verso la "cultura partecipativa" dei nativi. I computer, le LIM e le connessioni Wi-Fi a banda larga non devono essere intesi, quindi, come "istruttori", cioè come sostituti dell'insegnante all'interno del processo educativo secondo l'approccio della prima cibernetica cognitivista e neocomportamentista (Skinner 1968), ma anche di molti tecnoentusiasti contemporanei.

Le tecnologie digitali, però, non sono nemmeno una semplice fonte di informazione/formazione neutra che non interagisce e non modifica le caratteristiche dell'ambiente didattico. Allo stesso modo, le tecnologie della formazione non costituiscono semplici strumenti di lavoro, di natura produttivistica.

Sono una parte fondamentale del setting di apprendimento del nuovo millennio. In questo senso un ambiente tecnologicamente aumentato è il luogo, lo spazio reale e/o virtuale ricco di mezzi, strumenti, sostegni per l'apprendimento, in cui chi impara è protagonista della costruzione del proprio sapere (comportamenti, atteggiamenti, abilità, contenuti...); in cui si collabora, si coopera, si scambiano e si condividono le conoscenze (Mantovani, Ferri 2008) tra pari e con gli insegnanti.

Se l'ambiente formativo è pedagogicamente e tecnologicamente arricchito e predisposto per l'integrazione di stili di apprendimento e di stili didattici differenti, allora è più semplice trasformare una semplice aula, una classe piena di scolari e studenti in una comunità di apprendimento e forse anche in una comunità di pratiche.

Una comunità di apprendimento è anche, in vario grado, una comunità di pratiche (Wenger 1998). Nelle comunità di apprendimento prevale l'obiettivo di acquisire conoscenze, abilità, competenze. Le comunità di pratiche, invece, si presentano come aggregati sociali che hanno l'obiettivo di trovare soluzioni a problemi, nel nostro caso a problemi formativi, attraverso lo scambio delle esperienze e la costruzione di pratiche condivise. Le comunità di pratiche spesso non sono codificate o istituzionali ma si strutturano nell'agire quotidiano e nelle differenti interazioni sociali, emotive e cognitive che si danno nella materialità del lavoro, nel nostro caso del lavoro didattico.

Le classi delle nostre scuole non sono spesso né comunità di apprendimento, né comunità di pratiche, ma semplici luoghi di trasferimento di informazioni e contenuti. Oggi le tecnologie digitali possono offrire nuovi strumenti agli insegnanti per operare questa trasformazione, una trasformazione tanto più necessaria, perché i nativi digitali intendono, come abbiamo visto, l'apprendimento come un "fare" e non come uno "studiare" e privilegiano le "sensate esperienze" alle astratte teorie. Gli strumenti digitali: LIM, aule virtuali, LCMS, ambienti virtuali di connessione tra pari e con la famiglia nel tempo extrascolastico, permettono cioè, se correttamente utilizzati, di far meglio coincidere i "saperi formali" della scuola con i "saperi informali" degli studenti.

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La rete globale dei flussi informazionali organizza la posizione degli attori, delle organizzazioni e delle istituzioni all'interno della società e dell'economia. Un esempio di questa organizzazione a "rete asimmetrica" è quello della posizione di una singola regione o di uno stato all'interno del sistema dell'economia mondiale globalizzata. Si pensi all'area di Bombay in India o di Shanghai in Cina, che sono nodi fondamentali della rete globale, anche se ospitano grandi sacche di povertà e miseria umana. La marginalità o centralità di un'area dipende, infatti, dal suo tasso di interazione con la rete digitale delle istituzioni transnazionali e dal contributo che può fornire in termini di flussi informazionali alla rete stessa. Allo stesso modo la posizione sociale degli individui dipende, sempre più direttamente, dal loro livello di formazione, cioè dalla quantità di informazioni e conoscenza che possono generare e scambiare all'interno del nodo della rete in cui sono collocati.

La dinamica sociale e i rapporti tra i nodi della rete interdipendente dei flussi digitali sono sempre più legati alla capacità di un sistema sociale o di un individuo di interagire e di "pesare" all'interno dei flussi informazionali che costituiscono la struttura della rete in termini di creatività, di capacità di gestione e di capacità di contatto e attrazione. A questo proposito, si pensi per esempio al ruolo di Internet nell'affermazione delle nuove star dello show business: Lady Gaga deve infatti il suo successo alla viralità della rete, oltre che alla discutibile originalità della sua musica. Ma in questo sistema di interdipendenza "asimmetrica" il ruolo di chi controlla i flussi, sia esso una popstar, il leader di una grande azienda o il proprietario di un grande network informativo globale, ma anche il direttore di un grande centro di ricerca del capitalismo accademico, tende a esercitare sempre meno controllo sui flussi stessi. «I flussi del potere si trasformano facilmente nel potere dei flussi» (Castells 1999, p. 59). La rete dei flussi è, infatti, soggetta a una dinamica trasformativa molto veloce e quindi a "perturbazioni" di segno positivo o negativo nel flusso. Per esempio, un scoperta scientifica di grande rilievo (la sequenziazione del genoma umano e la scoperta delle cellule staminali) o il blocco dei flussi generato da un attentato terroristico (l'attacco alle Torri gemelle) o da un'epidemia (l'influenza suina) generano conseguenze estremamente rilevanti a livello sociale, economico e culturale, tanto che la dinamica dei flussi risulta spesso al di fuori del controllo anche di chi gestisce i nodi a maggior potenziale della rete.

La logica dei flussi nella nostra società è globale e universale ma non onnicomprensiva. Non esiste il "grande fratello". Non esiste cioè la possibilità per la rete dei flussi degli scambi informazionali globali di ridurre all'uniformità la molteplicità: il mondo di oggi è un mondo multipolare e irriconducibile all'unità. Anzi, più la rete dei flussi globali di informazioni tende a omogeneizzare e a livellare consumi e culture, più diventa radicale l'affermazione, nei singoli contesti, delle identità culturali, etniche e biologiche (Castells 1997). Al potere dei flussi si contrappone cioè il "potere dell'identità" e questa dialettica condiziona l'intera dinamica dei flussi informazionali globali. Da questo punto di vista la società in rete è una "società del rischio" e della impredittibilità, dal momento che la logica dei flussi informazionali globali tende a entrare, spesso, in rotta di collisione con l'affermazione delle "identità" individuali, locali, etniche e di genere. La dimostrazione più chiara di questo fenomeno sono le recenti "rinascite" delle piccole patrie "razziste", "leghiste" o "islamiche" che siano, dei fondamentalismi religiosi o etnici con le loro drammatiche conseguenze.

Ma quali sono le principali implicazioni di questa tendenza globale del sistema della comunicazione e dei media con particolare riferimento al problema della transizione dall'età del libro e dei mass media – noi immigranti siamo nati in questo mondo – a quella della comunicazione digitale veloce nella quale i nativi digitali sono immersi?

In primo luogo è necessario notare come il potere degli individui e delle organizzazioni dipenda sempre più dalla loro capacità di accedere alla conoscenza, e dalla loro capacità di generarne di nuova, reimmettendola nella rete globale: per questo viviamo nella "società della conoscenza"; di qui la rilevanza della creatività e della produzione di contenuti, anche individuali, per la rete. Inoltre, la produttività e il tasso di competitività di un sistema economico e sociale dipendono in larga misura dalla sua capacità, e dalla capacità dei sottosistemi sociali e culturali a esso correlati, di innovare e di creare nuova conoscenza. Si pensi a questo proposito al nesso strettissimo che lega le innovazioni nel settore dell'Information and Communication Technology e le aziende della Silicon Valley ai centri di ricerca quali le università californiane di Berkeley, Irvine, Stanford e Los Angeles. Oppure al nesso tra il sistema delle università della East Coast degli Stati Uniti e le multinazionali farmaceutiche e biotech. Oppure, in un modello economico differente, al ruolo della Nokia nella rinascita della società finlandese (Castells, Himanen 2002). Infine, i flussi di immagini, suoni e messaggi creati dai nuovi media e l'esponenziale crescita della comunicazione bidirezionale da essi generata sono un elemento fondamentale e senza il quale non esisterebbe la "società in rete". La fissità e l'immobilità della stampa e la intrasitività della comunicazione televisiva non sono più in grado di reggere la necessità e l'urgenza sociale di scambiare, condividere e commerciare nuova informazione e nuove tendenze.

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La "società in rete" e il "capitalismo culturale", come è dimostrato dai lavori di Rifkin e di Castells, vanno di pari passo e co-evolvono con l'affermarsi e lo svilupparsi delle tecnologie digitali della comunicazione e dell'informazione, dal momento che esse generano, veicolano e distribuiscono la conoscenza, i prodotti e i servizi che ne costituiscono l'essenza.

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