Autore Francesco Filippi
Titolo Noi però gli abbiamo fatte le strade
SottotitoloLe colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2021, Temi 305 , pag. 198, cop.fle., dim. 11,5x19,5x1,8 cm , Isbn 978-88-339-3702-1
LettoreLuca Vita, 2022
Classe storia contemporanea d'Italia , storia criminale , storia: Africa












 

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Indice


        Noi però gli abbiamo fatto le strade


  9     Introduzione. Ci siamo persi un pezzo


 16 1.  Partenze. Nascita accidentale di una potenza imperialista

        Premessa: perché le colonie?, 16
        Si comincia. Male, 18
        Questioni di prestigio, 21
        Come ti vendo l'occupazione. I: «portare la civiltà», 23
        Come ti vendo l'occupazione. II: «il grande banchetto», 25
        Da Assab a Massaua. Da Massaua ad Asmara.
            Nasce la «Colonia primigenia», 28


 30 2.  Arrivi. Balle coloniali: a ogni conquista la propria bugia

        Dalla «prospera Eritrea» all'Abissinia: alla conquista
            (fallita) di un Paese di selvaggi, 30
        «Vergine e fertile»: la prima colonia di «popolamento», 36
        Somalia: terra incognita, 38
        In Cina, per portare il fardello dell'uomo bianco, 43
        «Tripoli, la quarta sponda», 49
        «L'uomo bianco ha diritto al paradiso africano», 54
        Pacificare, ad ogni costo, 57
        Il Dodecaneso, una strana colonia «bianca», 63
        «Abissinia: l'impero fascista», 67


 74 3.  Contatti. Pregiudizi d'oltremare

        La fretta di conquistare, 74
        Perché siamo qui? 1. Occupiamo «terre di nessuno», 76
        Perché siamo qui? 2. «Siamo la modernità contro
            il Medioevo», 81
        Raccontare lo stereotipo per rafforzare il pregiudizio, 84
        La bestialità del colonizzato in due simboli:
            «anello al naso» e «sveglia al collo», 88
        Masse informi e senza storia. Somali, libici, abissini;
            una faccia una razza. Inferiore, 94
        «Bel suol d'amore»: immaginario erotico coloniale, 103


114 4.  Ritorni. Memoria coloniale e oblio coloniale

        I «testimoni» dell'oltremare: tanti soldati, pochi coloni,
            tutti reduci, 115
        Il grande silenzio, 121
        Elaborare la perdita, 123
        Tutta colpa di Mussolini, 128
        Riletture a caldo: siamo stati meglio degli inglesi, 129
        La «storia ufficiale», 133
        «In Africa era diverso», 136
        Il mito della bontà ha bisogno di prove: le strade, 137
        I rapporti con gli ex sudditi, 141


146 5.  Rigurgiti. Cosa rimane?

        Non è facile cancellare un secolo, 146
        Parole, parole, parole: lingue di Menelik, ambaradan,
            tucùl, 147
        L'Altro dopo la colonia: ritratti in bianco e nero, 151
        Due tipi di nero, 153
        Questo film non s'ha da proiettare, né domani né mai!, 160
        Restore Hope, tornare a Mogadiscio: i selvaggi e un nuovo,
            orribile «bel suol d'amore», 162
        Prede di guerra: l'obelisco di Axum, 170


174     Conclusioni

179     Ringraziamenti

181     Cronologia

187     Bibliografia


 

 

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Pagina 10

C'è un aspetto della storia italiana che, nel lungo periodo di memoria preso in esame, non è stato sostanzialmente ripreso a livello pubblico per favorirne l'interpretazione, per far nascere una nuova consapevolezza collettiva o anche solo per farne un'arma retorica del dibattito politico quotidiano.

Si tratta del colonialismo italiano.

Un fenomeno storicamente lungo e complesso: il primo avamposto coloniale dello Stato italiano data 1882, quando il governo di Agostino Depretis acquistò i diritti di gestione di un'area della baia di Assab, nel Mar Rosso, mentre la bandiera italiana viene ammainata per l'ultima volta in terra africana a Mogadiscio, in Somalia, il primo luglio del 1960.

Durato quasi ottant'anni, il colonialismo può essere definito uno degli eventi più stabili per durata e continuità della travagliata storia italiana. Ha avuto evidenti ripercussioni sulla storia, sulla politica e sulla società del Paese. Eppure a livello di memoria collettiva appare assai poco presente.

Per quanto riguarda la memoria pubblica, quella cioè che non solo è considerata patrimonio di una comunità ma che viene messa a fondamento per l'identità comune, in quanto base del sistema di valori di una società, si può dire ancor meno: nessuna delle molte date significative della lunga epopea dell'Italia coloniale è entrata in qualche modo nel novero delle festività o dei momenti pubblici di ricordo e riflessione; né quelle che potrebbero celebrare i presunti fasti né, tantomeno, quelle che dovrebbero ricordare i sicuri crimini.

[...]

È opinione comune, infatti, che il grande fenomeno dell'assalto bianco alla conquista delle ricchezze globali non abbia coinvolto che di striscio l'Italia e soprattutto abbia toccato pochissimi italiani. Nella memoria collettiva, poi, questo scarso coinvolgimento, soprattutto dopo la perdita del controllo delle colonie nel secondo dopoguerra, si trasforma a volte in una implicita ammissione di estraneità: che gli italiani abbiano aderito «tardi e male» all'assalto nei confronti di altri continenti pare essere la dimostrazione che gli italiani, «per loro natura», non siano portati al dominio sull' Altro.

[...]

E questo sebbene, paradossalmente, proprio opere come quelle di Angelo Del Boca sottolineino fin da subito che la «brava gente» è «italiana», in senso ampio, e non semplicemente fascista. In una sorta di separazione chirurgica, in molti distinsero, e ancor oggi a volte capita di sentirlo dire, tra colonialismo aggressivo, violento e fascista e il resto dell'esperienza italiana, che per contrasto dovrebbe apparire, anche qui, più blanda, meno feroce, addirittura «umana». E che, nel migliore dei casi, passa sotto silenzio.

Senza dubbio il fascismo imprime una disastrosa svolta violenta all'imperialismo italico, ma si tratta comunque di una delle molte fasi di un fenomeno che fu tutt'altro che pacifico: dai tentativi di invasione dell'Etiopia degli anni novanta dell'Ottocento alla guerra per la Libia del 1911-12 e ai successivi anni di guerriglia e rappresaglie. Le violenze contro le popolazioni ribelli nel Corno d'Africa a fine Ottocento e i massacri di civili in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan datano ben prima del 1922. Si possono notare molti più margini di continuità che non di frattura nella politica dell'oltremare tra Italia liberale e fascismo. Eppure sembra proprio che, almeno per la presenza della questione coloniale nel dibattito pubblico del nostro Paese trovino faticosamente spazio solo determinati racconti a scapito di altri, appiattendo la complessità di un movimento politico, militare, culturale e sociale che ha caratterizzato lo sviluppo stesso dell'Italia all'interno del panorama internazionale.

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Pagina 14

Questo libro non è, né vuole essere, un saggio sulla storia del colonialismo italiano: non si intende ripercorrere qui la lunga, dolorosa storia del rapporto dell'Italia con i Paesi che per quasi un secolo furono sotto il suo dominio.

Si prenderà invece in esame la percezione comune di questo passato nei suoi vari aspetti: politico, economico, sociale, culturale.

Le vicende che sconvolsero le vite di milioni di persone su più continenti per colpa dell'imperialismo italiano saranno qui trattate nella loro funzione di esempio del modo in cui la società italiana le ha percepite. Una storia fatta di massacri presenti ma non raccontati, di violenze nascoste e dimenticate, di sopraffazioni che hanno lasciato poche, flebili tracce nella memoria e nella coscienza del Paese.

Non è, questa, una storia dell'Italia «in Africa» o di qualsiasi luogo il Paese abbia invaso, occupato, dominato; al contrario si cercherà di individuare la traccia, nascosta ma persistente, dell'impatto che questa dominazione ha avuto sul Paese, sui suoi abitanti e sulla loro mentalità.

Al centro dell'analisi sarà «l'Africa in Italia», con le bugie, il razzismo, le dimenticanze di un secolo e mezzo di - mancato - confronto.

Si cercherà perciò di mettere in luce la prospettiva di un Paese che è stato lungamente influenzato dalla retorica dell'oltremare, che anzi ha contribuito a crearla a livello mondiale attraverso i filtri tipici di una nazione giunta tardi alla conquista del mondo e quindi affetta da tutti i complessi dell'«ultima arrivata».

Uno sguardo che, volenti o nolenti, ha lasciato segni profondi nel modo in cui la società italiana nel proprio complesso si confronta anche oggi con il tema dell'alterità, del diverso, dello straniero.

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Pagina 16

1. Partenze

Nascita accidentale di una potenza imperialista


[...]

Premessa: perché le colonie?


È il 1845 e a Lagos, nell'attuale Nigeria, una squadra della Royal Navy adibita al contrasto della tratta degli schiavi sulle rotte dell'Atlantico ferma una nave genovese, battente bandiera del Regno di Sardegna, per traffico di esseri umani. Due anni dopo, nel 1847, altre due imbarcazioni sarde vengono bloccate con la stessa accusa. Tra il 1848 e il 1849 sono quasi una cinquantina i viaggi che navi sabaude fanno tra Africa e Brasile e che la Gran Bretagna sospetta alimentino il traffico di schiavi.

Alla domanda sul perché sia importante oggi ragionare sui rapporti tra l'Italia e il mondo coloniale si potrebbe quindi rispondere che gli «italiani» hanno avuto a che fare con l'alterità coloniale - e con le sue peggiori brutture, come lo schiavismo - addirittura prima che esistesse l'Italia stessa.

Che cosa spinge uno Stato sovrano a invadere territori fuori dai propri confini per insediarvi degli avamposti in cui imporre nuovi assetti politici, economici e culturali?

Per quanto riguarda l'Italia sono moltissimi i motivi per cui nel corso del tempo e, in particolare, tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, i vari governi - liberali, fascisti, repubblicani - hanno cercato di occupare e costruire dei pezzi di Stato fuori dai limiti della penisola.

La cosa interessante è che spesso, anzi, quasi sempre, le motivazioni che muovono i governi sono diverse dalle motivazioni che gli stessi governi presentano all'opinione pubblica nel promuovere le imprese coloniali.

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Pagina 28

Da Assab a Massaua. Da Massaua ad Asmara.

Nasce la «Colonia primigenia»


Se Assab arriva nelle mani del governo italiano per una serie di trattative fumose tra imprenditori privati e sultani locali, il porto di Massaua, stazione commerciale ben più ricca e appetibile, giunge nelle possibilità italiane grazie a un fortunato intreccio internazionale. Il vicino Sudan, sotto controllo formale egiziano, è in aperta rivolta e il governo del Cairo, teoricamente indipendente ma di fatto manovrato dalla Gran Bretagna, ne è fortemente indebolito. Alcuni porti del Mar Rosso in possesso egiziano, tra cui appunto Massaua, risultano pericolosamente sguarniti. Il rischio è che qualche potenza europea, su tutti la Francia, se ne impossessi con un colpo di mano. Per questo motivo è la stessa diplomazia inglese a proporre all'Italia di allargare il proprio dominio, occupando anche il porto di Massaua dopo quello di Assab. Per il governo britannico, evidentemente, gli italiani non costituiscono un pericolo reale e, anzi, proprio come il governo egiziano, possono essere utilizzati a piacimento: pedine, più che protagonisti, nel grande gioco dell'assalto all'Africa. È così dunque che, su invito inglese nel 1885 e dopo un breve periodo di coabitazione - gli italiani sbarcano il 5 febbraio, gli ultimi soldati egiziani se ne vanno il 2 dicembre -, un contingente militare italiano prende effettivo possesso della città portuale.

Non essendo stata preparata mediaticamente, l'improvvisa occupazione di Massaua risulta difficilmente comprensibile: «Perché l'Italia è andata a Massaua: non pretendiamo di saperlo, e molti con noi non avranno questa pretensione. Qualcuno anzi ardisce dire che forse non lo sappia di preciso neppure il governo che ha fatto la spedizione», ironizza un editoriale del «Corriere della Sera» del luglio 1885, ma la linea di giustificazione del governo è ora più scopertamente imperialista: Assab non è sostenibile come unica colonia, troppo piccola e dispersa. L'aggiunta di Massaua potrebbe garantire un ritorno economico, oltre a rafforzare la presenza italiana nell'area. Un'area che viene descritta sempre più come appetibile e soprattutto «disponibile».

In realtà nemmeno il possesso di Massaua può garantire un ritorno economico, per gli stessi motivi che bloccano lo sviluppo di Assab: troppo scarsi i traffici, troppo forte la concorrenza delle altre basi europee nella zona. Queste occupazioni sono giustificabili solo come base commerciale non tanto per l'interscambio internazionale, ma come porti del ricco entroterra. L'altopiano etiopico, allora sede di un impero multietnico indipendente quasi sconosciuto all'opinione pubblica mondiale, rappresenta il possibile polmone di espansione delle ambizioni italiane: si tratta di una terra «libera» da ipoteche europee, sterminata e quindi immaginata come ricchissima.

Tutta l'espansione italiana dopo il 1885 viene in gran parte spiegata all'opinione pubblica come un'opera di consolidamento delle posizioni, di razionalizzazione della struttura dei possedimenti coloniali e di protezione di successivi luoghi di interesse: per questo viene occupata Asmara, città dell'entroterra rispetto a Massaua. Per lo stesso motivo vengono attivati fortini di presidio sulla via degli altopiani, che provocano scontri sempre più intensi con i resistenti locali, e in una sorta di circolo vizioso si continuano a spendere sempre più soldi ed energie nella speranza di riuscire a far decollare «il sogno africano» italiano. Sogno che si va sempre più strutturando in senso imperialista: con un Regio Decreto, il 1° gennaio 1890 i possedimenti accumulati con la continua opera di erosione dei territori circostanti vengono organizzati in una colonia unitaria, che prende il nome di «Eritrea».

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Pagina 52

Il primo decennio del Novecento vede una serie di sommovimenti che lasciano ben sperare per quanto riguarda la posizione italiana: un aumento della tensione tra Francia e Germania proprio sullo scacchiere coloniale, con quelle che passano alla storia come «crisi marocchine», l'ultima delle quali proprio nel 1911; l'Impero ottomano entrato nella fase finale della sua crisi istituzionale; perfino l'Austria-Ungheria, mal digerita compagna di alleanza, dopo aver inglobato la Bosnia-Erzegovina nel 1908 a spese dei turchi sembra disposta a lasciare mano libera agli italiani nel Mediterraneo.

A quindici anni da Adua e nel cinquantesimo anniversario dell'Unità il momento del balzo verso sud sembra arrivato e l'Italia liberale pare pronta al colpo di mano.

Ad accelerare il tutto è una difficoltà interna al governo di Giovanni Giolitti, il quale sceglie, per ricompattare la maggioranza e stornare l'attenzione dalle difficoltà del suo dicastero, di giocare la carta della guerra. La corte e casa Savoia, come spesso capita nella storia d'Italia, appoggia con fervore quella che sembra una facile e gloriosa avventura. L'apparato militare e industriale si dichiarano pronti alla sfida. Una consistente fetta dell'élite economica e culturale del Paese sembra quindi favorevole all'impresa.

L'opinione pubblica sembra invece su posizioni più fredde: lo Stato italiano soffre di enormi disparità e inefficienze interne, la crisi economica non dà tregua, l'emigrazione vede centinaia di migliaia di persone abbandonare il Paese, le questioni sociali denunciano la crisi sistemica dell'Italia liberale. Una serie di problemi che pare abbiano bisogno di tutto fuorché di un'avventura coloniale dagli esiti dubbi e dai costi ancora incerti, ma sicuramente ingenti. In questo contesto il movimento pacifista nel Paese prende piede e si organizza, alimentato da motivazioni economiche ma anche umanitarie, tanto da arrivare a manifestazioni e scontri di piazza contro la guerra. Tra i più ferventi pacifisti anche l'allora socialista Benito Mussolini, che viene addirittura arrestato il 14 ottobre 1911 con le accuse, tra l'altro, di «istigazione alla violenza, resistenza alla forza pubblica, violazione della libertà delle reclute e degli esercenti, danneggiamento di linee ferroviarie, telefoniche e telegrafiche».

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In molti si erano illusi di potersi presentare agli abitanti delle terre conquistate come dei liberatori.

In realtà, dopo un iniziale favore, a causa di una serie di errori di valutazione gli italiani riescono a inimicarsi praticamente tutti i poteri locali. Anzi, un manipolo di ufficiali turchi rimasti a organizzare la guerriglia, riesce a riunire molte fazioni tripoline e della Cirenaica attorno alla causa comune religiosa. Ben presto la passeggiata trionfale degli italiani diventa una guerra santa contro gli infedeli. La scarsa conoscenza e la sottovalutazione dei conquistati sono le cause principali delle difficoltà incontrate dagli invasori: sebbene quella libica sia l'impresa coloniale di gran lunga più pensata e preparata fino a quel momento, gli invasori dimostrano di non avere affatto dimestichezza con le dinamiche locali.

Anche se Giolitti si affretta nel proclamare la conquista italiana facendo dell'invasione una vera e propria guerra-lampo - la prime truppe italiane sbarcano a Tripoli íl 3 ottobre 1911, il decreto di annessione viene firmato dal re il 5 novembre - il conflitto si trascina in una serie di scontri che in brevissimo tempo distruggono l'idea che si possa subito fare delle nuove terre il paradiso promesso.

L'inaspettata resistenza all'invasione smentisce pubblicamente la propaganda italiana di una terra che è un frutto maturo pronto da cogliere. Appena le cose non vanno per il verso sperato, nei soldati si scatena un furore cieco, animalesco. In seguito a una serie di sanguinosi rovesci alla periferia di Tripoli, alla fine dell'ottobre 1911 le truppe occupanti scatenano una brutale repressione: «La città fu messa a ferro e fuoco: forse milleottocento, su trentamila abitanti di Tripoli furono fucilati o impiccati per rappresaglia».

Come se la volontà di resistenza da parte degli invasi non fosse contemplata e soprattutto con la mal celata consapevolezza di avere a che fare con non europei e, quindi, con individui privi della completa dignità umana, gli italiani si lasciano andare a distruzioni e saccheggi, a stupri e violenze che non sarebbero stati pensabili in un conflitto europeo.

L'uso spropositato della violenza è uno degli aspetti più deteriori del razzismo imperialista e i fatti di Tripoli dimostrano come, sebbene l'impero coloniale non sia al livello delle altre potenze bianche, l'efferatezza che gli italiani impiegano per costruirlo non è seconda a nessuno.

[...]

Dopo la pausa imposta dal primo conflitto mondiale, l'opera di assoggettamento, definita ormai platealmente come «riconquista» della colonia ribelle, prende nuovo impulso nel 1921 con l'arrivo a Tripoli del nuovo governatore Giuseppe Volpi (1877-1947). Sotto la sua guida prende corpo una sistematica occupazione militare del territorio, che riceve ulteriore impulso dall'avvento al potere di Mussolini. Si può dire che il fascismo erediti e continui l'opera avviata dai governi liberali, sia nei metodi violenti che nelle finalità, quelle dell'assoggettamento della popolazione locale. Semmai la riconquista della Libia assume dopo il 1922 una valenza propagandistica ancora più accentuata: il regime infatti vede nella resistenza della turbolenta colonia un affronto diretto alla propria capacità di gestire il territorio. Là dove la debole democrazia liberale sembrava aver fallito, il nuovo regime vuole trionfare e, per farlo, non lesina in mezzi e violenza.

Nel 1929 Rodolfo Graziani guida l'ultima fase della repressione: attraverso una puntigliosa - e dispendiosissima - occupazione militare prende il controllo dell'intera costa e si spinge all'interno, nella regione del Fezzan, dove l'esercito italiano applica le più feroci tecniche di contro-guerriglia allora conosciute: bombardamenti di popolazioni civili anche con l'impiego di gas, violenze contro le popolazioni e vere e proprie deportazioni di massa in campi di concentramento per togliere ai partigiani libici ogni forma di sostentamento. Pratiche di metodico annientamento che fanno parlare alcuni storici di vero e proprio genocidio. Nel 1931, vent'anni dopo l'inizio dell'invasione, con la cattura del leader della resistenza Omar al-Mukhtar, si chiudono le operazioni in grande stile dell'Italia in Libia, e la colonia viene dichiarata «pacificata». Il costo umano per i locali è pesantissimo: deportazioni, massacri, distruzioni accompagnano il raggiungimento della «pace italiana». In questo il regime mussoliniano riesce a far passare un messaggio molto chiaro alle masse: la violenza più efferata, inumana, è l'unico messaggio inteso dalle popolazioni coloniali.

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Pagina 72

Da questo investimento emotivo, riguardante le sorti stesse dell'Italia come nazione, scaturisce una serie di conseguenze anche molto pesanti nel modo di condurre la conquista e poi di instaurare il dominio. Il disprezzo per un nemico considerato subumano amplifica enormemente la brutalità impiegata in battaglia, giustificando l'uso dei gas o le violenze sistematiche contro i civili durante la guerra, e darà vita al regime di apartheid e implementerà l'uso di una legislazione razzista. La paura di fallire militarmente la sfida suprema fa sì che la spedizione raggiunga dimensioni impensate: centinaia di migliaia di uomini, uno spiegamento tecnologico - aerei, ma anche carri armati e salmerie meccanizzate - impensabile prima di allora per un'impresa coloniale. Costi esorbitanti che mettono in crisi la capacità bellica delle forze armate. Una crisi da cui nel 1939, allo scoppio della guerra in Europa, l'Italia non si è ancora ripresa. La volontà di confermare il dominio e la paura di dimostrare in ambito internazionale la propria debolezza inducono, specie nei primi tempi dopo l'invasione, a instaurare un vero e proprio regime di terrore, che in molte parti dell'impero conquistato rimarrà costosamente in piedi fino alla liberazione nel 1941.

Molti storici sottolineano il fatto che l'impresa d'Etiopia sia stata l'ultima grande conquista di un imperialismo che affonda le proprie radici nella seconda metà dell'Ottocento. Uno sforzo fuori tempo massimo rispetto alla storia del colonialismo - lo «statuto di Westminster», con cui la Gran Bretagna cerca di far evolvere la propria posizione coloniale attraverso il riconoscimento dei «dominions», le colonie a forte presenza bianca, è del 1931 - e c'è uno dispendio enorme di energie che poi effettivamente mancheranno al fascismo nello scacchiere di guerra europeo. Economicamente fallimentare, deleterio sul piano della politica internazionale ed effimero per quanto riguarda la durata della permanenza - cinque anni esatti dall'entrata delle truppe italiane ad Addis Abeba, il 5 maggio 1936, al ritorno nella capitale del Negus Hailé Selassié, il 5 maggio 1941 - eppure l'invasione dell'Etiopia è di gran lunga l'evento coloniale che più ha segnato la coscienza storica degli italiani e, come si vedrà, più ha influenzato la (mancata) percezione dell'Africa da parte della società civile del Paese.

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Ma la dimostrazione della forza e diffusione della promessa sessuale insita nell'oltremare rimane l'esempio emblematico dell'uso di canzonette allusive per accompagnare le varie campagne militari. I giovani fanti che partono per Tripoli nel 1911 cantano del «bel suol d'amor» a cui la canzone dei soldati deve giungere «dolce». Parole poco adatte a una campagna militare, che identificano il territorio da conquistare come un luogo erotico. A esplicitare il senso reale di questo suolo d'amore e fugare ogni dubbio sui sottintesi ci pensano gli stessi autori della canzone, il cui titolo originale è A Tripoli. La prima esecuzione pubblica del brano avviene al teatro Balbo di Torino l'8 setternbre 1911: la porta sul palco Gea della Garisenda, famosa cantante dell'epoca, che va in scena vestita solo di una bandiera tricolore.

Ancor più esplicita la canzone che accompagna l'invasione dell'Etiopia nel 1935: Faccetta Nera è un vero e proprio inno alla conquista sessuale della colonia. La canzone, in forma di orecchiabile marcetta, si rivolge direttamente alla donna etiope, «schiava tra le schiave», promettendole un tipo particolare di liberazione:

    La legge nostra è schiavitù d'amore
    Ma è libertà di vita e di pensiero
    [...]
    Faccetta nera, piccola abissina
    Ti porteremo a Roma, liberata
    Dal sole nostro tu sarai baciata
    Sarai in Camicia Nera pure tu...


La componente erotica sottesa al messaggio è tale da farla diventare l'inno non ufficiale dell'invasione tra i soldati e una delle canzoni più in voga di tutto il decennio, andando via via a perdere anche la propria connotazione politica, tanto da rimanere nella storia della canzone italiana senza particolari difficoltà.

Letta dal punto di vista del regime però, Faccetta nera diventa un inno alla promiscuità razziale, tanto che Mussolini stesso pare prodigarsi per cercare di fermare il successo del motivetto. Senza risultato.

La carica razzista e sessuale della canzone accompagna i soldati che, in effetti, applicheranno spesso alla lettera le strofe della canzone. Come ricorda Indro Montanelli, all'epoca giovane ufficiale italiano impegnato in rastrellamenti di sedicenti ribelli tra i villaggi etiopi, molti italiani si prendono una «piccola abissina» come bottino di guerra. La sua, racconterà lui stesso in una celebre intervista rilasciata in un programma della RAI nel 1969, è davvero piccola; dodici anni appena. Un «animalino docile» la definisce. Anche se la giornalista Elvira Banotti (1933-2014) lo incalza chiedendogli se avrebbe mai fatto questo con una ragazzina bianca della stessa età, il giornalista si trincera dietro uno stupito «ma in Africa si usa così. In Africa a dodici anni sposano... ».

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Il mito della bontà ha bisogno di prove: le strade


Scorrendo i documentari e cinegiornali Luce a partire in particolare dagli anni trenta salta subito all'occhio la quantità di filmati dedicati alle opere pubbliche realizzate dagli italiani nel Corno d'Africa. In particolare, dal 1935 in poi, si assiste a un'esplosione di immagini riguardanti le «nuove strade aperte dai colonizzatori.

La propaganda fascista sfrutta con molta abilità le opere belliche realizzate per l'invasione: in quasi tutte le riprese approntate per i cinegiornali del regime sono presenti inquadrature di strade, ponti e altre opere di viabilità costruite dagli italiani. Interi servizi fotografici delle troupe dell'Istituto Luce distaccato nelle colonie, il cosiddetto Reparto Africa Orientale, sono dedicati alle vie tracciate dal regime. In pratica, nel racconto della propaganda anni trenta, pare che gli italiani non abbiano fatto altro che costruire strade.

Date le limitatissime altre fonti di informazione disponibili sulle colonie di quel tempo, quello delle strade diventa un vero e proprio topos coloniale, rimasto in piedi anche dopo la perdita dell'impero d'oltremare. Ancora oggi fra i presunti tratti positivi delle invasioni italiane in particolare in Africa c'è lo sviluppo della rete viaria.

Il mito delle strade costruite in particolare da Mussolini ha una forza propagandistica molto forte, perché si ricollega chiaramente all'antica tradizione romana: proprio come gli antichi romani tracciavano vie per portare la civiltà attraverso l'impero, così ora gli italiani fascisti, eredi di Roma, fanno lo stesso. Lo sforzo infrastrutturale effettivamente è enorme, dettato soprattutto, al di là della propaganda, da esigenze di carattere militare: costruire le strade significa spostare velocemente truppe nelle varie zone delle colonie per poterle controllare. Con una serie di piani di costruzione seguiti direttamente da Mussolini, che dal 1937 al 1939 detiene anche la carica di ministro delle Colonie, alla vigilia della guerra la dittatura sbandiera una rete viaria «imperiale» di ben cinquemila chilometri di lunghezza. Un dato notevole all'apparenza, ma che va interpretato senza il peso della propaganda. In effetti ai cinquemila chilometri dichiarati dal regime vanno innanzitutto sottratti quattrocento chilometri di strade costruite prima dell'invasione del 1935 in Eritrea a scopi militari. In più, in questo conto, viene inserita anche l'antica via imperiale etiopica che conduce da Addis Abeba ad Asmara, che da sola misura più di mille chilometri. La strada, ribattezzata «via della vittoria», viene in parte risistemata e in alcuni punti più impervi resa carrozzabile, ma non la si può definire una creazione fascista: è la strada usata dagli italiani per l'invasione, riammodernata in parte per il traffico automobilistico.

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Sembra evidente, in questo crepuscolo di dominio tra gli anni trenta e quaranta, che il principale problema sta nell'enorme disparità tra gli obiettivi decantati e le reali forze messe in campo per la loro realizzazione. L'impero sognato dai colonialisti è troppo vasto per le forze dello Stato e troppo poco remunerativo per costituire un'occasione economica reale. Ci si limita perciò a «mantenere pulita la facciata», ignorando o nascondendo i problemi che non si ha la capacità di gestire.

Ma, grazie soprattutto al ferreo controllo sull'informazione e alla distanza tra l'opinione pubblica italiana e la realtà coloniale, questa facciata di operosa civilizzazione rimane in piedi nell'immaginario collettivo anche dopo la fine dei sogni imperiali. Come molti altri miti propagandistici riguardanti il Ventennio, quello delle strade rimane un ricordo difficilmente scalzabile nella scarsa memoria coloniale degli italiani, un vero e proprio topos narrativo che ha contribuito a formare il giudizio riguardante l'intera esperienza imperialista del Bel Paese.

Volutamente dimenticati o ignorati i danni prodotti, il poco che rimane nella memoria è costituito dai racconti propagandistici durati quasi un secolo attorno alle effimere conquiste della civilizzazione italica, disperatamente distante dalla realtà dei Paesi devastati e depredati dall'occupazione. Anche quando, all'interno del più ampio discorso postcoloniale, si identificano gli italiani come parte attiva di quell'imperialismo bianco e violento, ci si trincera spesso dietro agli stessi argomenti pensati dagli invasori: di fronte alle brutalità dell'invasione bianca si obietta appunto che «però gli abbiamo costruito le strade...». Come se queste infrastrutture, peraltro all'epoca utili più agli occupanti che agli occupati, potessero compensare i massacri, la cancellazione di intere culture e la perdita di indipendenza di milioni di persone.

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Cronologia


15 novembre 1869 Giuseppe Sapeto, a nome della Compagnia di navigazione genovese Rubattino, acquista alcuni ettari di terreno nella baia di Assab, sul Mar Rosso.

3 luglio 1882 Il governo acquista i diritti di possesso della baia di Assab dalla compagnia Rubattino, avviando l'occupazione governativa di quel tratto di costa del Mar Rosso.

27 giugno 1884 All'Esposizione Generale Italiana di Torino vengono esposti per la prima volta degli abitanti provenienti dai possedimenti del Mar Rosso in qualità di «esemplari di selvaggio» che l'Italia sta civilizzando.

3 febbraio 1885 In seguito a un accordo con la Gran Bretagna, un contingente militare italiano prende possesso della città portuale di Massaua, sul Mar Rosso.

26 gennaio 1887 Un distaccamento di soldati italiani al confine tra Etiopia e i possedimenti italiani viene attaccato e sconfitto dalle milizie etiopi nei pressi di Dogali. È la maggiore sconfitta di un esercito italiano fuori dai confini nazionali, fino a quel momento si contano 430 morti, che verranno ricordati come «i Cinquecento» dalla propaganda dell'epoca.

8 febbraio 1889 Viene siglato un trattato che riconosce il protettorato italiano sul sultanato di Obbia, nell'attuale costa indiana della Somalia.

2 maggio 1889 Viene siglato a Uccialli, località al confine tra Etiopia e i possedimenti italiani, un trattato di amicizia tra Impero d'Etiopia e Regno d'Italia. Nella versione italiana del trattato, ma non in quella etiope, viene dichiarato il controllo della politica estera dell'impero da parte degli italiani. Il trattato viene immediatamente disconosciuto dal sovrano etiopico, Menelik II.

1° gennaio 1890 I vari possedimenti italiani nel Mar Rosso vengono costituiti in una colonia unitaria che prende il nome di Eritrea.

[...]

1° luglio 1960 La Somalia ottiene l'indipendenza dall'Italia.

7 ottobre 1970 In seguito alla giornata della vendetta il dittatore Muhammar Gheddafi espelle gli ultimi coloni italiani ancora presenti in Libia, provocando la fuga in Italia di circa ventimila persone.

30 dicembre 1981 Entra in distribuzione internazionale il film Il Leone del deserto sulle gesta del leader della resistenza libica Omar al-Mukhtar. Il film ha varia accoglienza internazionale ma ne viene proibita la diffusione in Italia, in quanto pellicola «lesiva dell'onore delle forze armate».

13 dicembre 1992 I primi reparti militari italiani sbarcano in Somalia all'interno dell'operazione ONU di peace keeping Restore Hope,

25 giugno 1993 Viene approvata la cosiddetta «legge Mancino», che identifica e punisce esplicitamente i reati a sfondo razziale.

20 marzo 1994 I giornalisti Ilaria Alpi e Milan Hrovatin vengono uccisi da miliziani somali mentre stanno indagando su traffici illegali tra l'Italia e la Somalia.

21 aprile 1997 Finisce sui giornali italiani l'intervista-confessione di un ex militare impegnato in Somalia durante l'operazione Restore Hope in cui si denunciano violenze sessuali e torture ai danni di civili somali.

25 novembre 1997 Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scaifaro, in visita in Etiopia, chiede ufficialmente scusa per i crimini del colonialismo italiano.

Aprile 2005 Giunge in Etiopia l'ultimo pezzo della stele di Axum. Sessantotto anni dopo il suo trafugamento e trasporto in Italia, quarantanove anni dopo l'impegno internazionale per l'effettiva restituzione.

30 agosto 2008 Viene firmato a Bengasi il trattato di amicizia tra Italia e Libia in cui Roma ammette le proprie responsabilità nei confronti dei decenni di dominio coloniale e che prevede, a titolo di risarcimento, un investimento di cinque miliardi di dollari da parte dell'Italia in opere infrastrutturali da realizzarsi nel Paese nordafricano.

2 febbraio 2017 Con la firma di un memorandum Italia e Libia si accordano per la gestione dei flussi migratori illegali e dei respingimenti di migranti nel Mediterraneo.

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