Copertina
Autore Dexter Filkins
Titolo Guerra per sempre
EdizioneBruno Mondadori, Milano, 2009, Presente storico , pag. 374, cop.fle., dim. 16,6x23x2,2 cm , Isbn 978-88-6159-292-6
OriginaleThe Forever War [2008]
TraduttorePierluigi Micalizzi
LettoreRiccardo Terzi, 2010
Classe guerra-pace , paesi: Iraq , paesi: Afghanistan
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Indice


  1   Prologo. Hells Bells

      Parte prima. Kabul, Afghanistan, settembre 1998

 11   1.    Solo questo
 37   2.    Presentimenti
 47   3.    Jang

      Parte seconda. Baghdad, Iraq, da marzo del 2003

 69   4.    Terra di speranza e di dolore
 85   5.    I love you Marzo 2003
 93   6.    Andato per sempre
            Video
            Il bacio
113   7     Una mano alzata
            Bionda
135   8.    Una malattia
            Vista dall'alto
147   9.    L'uomo interiore
167   10.   Suicidi
            La nuvola
            Mogadiscio
187   11.   Pearland
217   12.   Un mondo che scompare
            Bollettini (1)
239   13.   Chiacchiere
245   14.   Il Mandi
255   15.   Proteo
            Come ti chiami?
            Bollettini (2)
273   16.   La rivoluzione divora se stessa
            La normalità
283   17.   Il labirinto
            Il muro
299   18.   Vaffanculo noi
311   19.   Il capo
319   20.   La svolta
333   21.   Quelli che se ne sono andati

341   Epilogo. Laika

349   Ringraziamenti

353   Note

359   Indice analitico


 

 

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Pagina 1

Prologo

Hells Bells


Falluja, Iraq, novembre 2004

I marine erano appiattiti su un tetto quando la voce cominciò a diffondersi. I minareti erano illuminati dalla luce dei bombardamenti aerei e i razzi tracciavano scie sfavillanti nel cielo. Sul frastuono delle armi dalle moschee si levarono i primi suoni.

«Gli americani sono qui!» rimbombava una voce proveniente da un altoparlante di un minareto. «Guerra santa, guerra santa! Andate e combattete per la città delle moschee!»

I proiettili incrociavano da ogni dove, senza fine. Nessuno sollevava la testa.

«Pazzesco», urlò un marine a un commilitone sovrastando il rumore.

«Già», gridò quello di rimando, «e abbiamo conquistato una sola casa.»

Poi, un nuovo suono violento e atroce, come se provenisse dagli abissi, si fece strada minaccioso. Mi voltai a guardare al di sopra della mia spalla, verso il luogo da cui eravamo venuti, un terreno libero alla periferia nord di Falluja. Un gruppo di marine sostava sotto un enorme altoparlante, di quelli che si vedono ai concerti rock.

Gli AC/DC, la band australiana di heavy metal, diffondevano la loro musica sfrenata. Riconobbi immediatamente il motivo: Hells Bells, la canzone che celebra il potere satanico, invadeva il nostro campo di battaglia. Dietro i riff delle chitarre si udirono tredici rintocchi di campane di una chiesa:

I'm a rolling thunder, a pouring rain
I'm comin' on like a hurricane
My lightning's flashing across the sky
You're only young but you're gonna die.

I marine alzarono il volume e il crepitio degli spari cominciò a scemare. Gli attacchi aerei stavano sgretolando le case di fronte a noi. Un solo attimo e un intero edificio era scomparso. Le voci provenienti dalle moschee risuonavano di una furia isterica e riecheggiavano in tutta la fascia settentrionale della città.

«Allahu Akbar!» gridò uno degli uomini appostati sulle moschee. «Allah è grande! Non c'è nulla di più glorioso di morire per il tuo Signore, la tua fede e il tuo paese!»

I won't take no prisoners. won't spare no lives
Nobody's putting up a fight
I got my bell, I'm gonna take you to hell
I'm gonna get ya, Satan get ya!

«Allah è grande!»

Le urla proseguirono fino a quando le case di fronte a noi non scomparvero del tutto e gli spari e la musica cominciarono a svanire.

Per sette mesi Fallujia era stata sotto il controllo degli jihadisti in una condizione di servitù medievale. E adesso seimila marine la stavano riconquistando. Io ero al seguito di una compagnia di centocinquanta marine chiamata Bravo, primo battaglione, ottavo reggimento. Con me c'era Ashley Gilbertson, un fotografo australiano.

Entrammo nelle strade buie e la compagnia si divise in tre colonne. Percorremmo metà dell'isolato prima che il mortaio iniziasse a sparare. I mortai erano di grosso calibro, 82 mm, e le granate esplodevano nella via adiacente. Eravamo tutti raggelati. Tutti tranne Read Omohundro, un texano tarchiato e massiccio che comandava la Bravo. Trentaquattro anni, piuttosto vecchio per essere un capitano dei marine, Omohundro si era arruolato dopo il diploma, aveva frequentato la A&M University grazie a una borsa di studio ed era diventato ufficiale più tardi di altri, ma proprio per questo era uno dei migliori. Avanzava nell'oscurità come guidato da un sonar interno, intuendo la posizione dei suoi uomini, sicuro di sapere dove sarebbero cadute le bombe.

«Da questa parte», disse e noi continuammo ad avanzare nel buio per un altro isolato, fino a quando il capitano si fermò con un braccio alzato.

Eravamo nel bel mezzo di una sparatoria: ci disperdemmo lungo i muri, ai lati della strada. I ribelli sapevano quel che facevano, ci stavano isolando, colpendoci da destra e da sinistra. Le granate adesso cadevano vicine, esplodendo con un frastuono titanico, ogni volta più vicino. Avevo visto i mortai nei film e anche in Iraq, ma mai a così poca distanza e così grossi. Riuscivo a immaginare le schegge di metallo che si staccavano da ogni granata. Ero certo che saremmo morti se non ci fossimo mossi, però ero altrettanto sicuro che saremmo morti anche se lo avessimo fatto. Cercammo di tornare indietro ma alle nostre spalle si erano appostati i cecchini. Omohundro e il suo addetto radio, il sergente Kenneth Hudson, erano i soli che ancora rimanevano al centro della strada con le granate che esplodevano tutt'intorno. Hudson doveva essere davvero giovane. Alcuni marine, aspettandosi di essere colpiti da un momento all'altro, sogghignarono.

Quattro uomini emersero dall'oscurità. Non facevano parte della compagnia Bravo: non li avevo mai visti prima. Indossavano tute da pilota che brillavano nel buio, scarpe da tennis e cappucci che li facevano assomigliare a carnefici. Portavano occhiali di protezione i cui riflessi verdi illuminavano i loro volti. Mentre le granate continuavano a esplodere mi allontanai dal muro con le ginocchia tremanti per raggiungere il capitano che dalla strada segnalava ai carnefici la posizione dei cecchini. Lassù, disse. Uno dei quattro borbottò qualcosa che non riuscii a capire. Il riflesso verde mi impediva di scorgere i loro occhi, ma vidi che uno di loro saltellava come un giocatore di football dietro la linea di gioco e sembrava implorare l'allenatore di farlo entrare in campo.

Schizzarono via nel buio senza un rumore. Dopo qualche tempo i bombardamenti cessarono. Poi anche i cecchini smisero di sparare. Non abbiamo più rivisto quei quattro. Omohundro si alzò in piedi e guardò i suoi uomini appiattiti contro i muri. «Muoviamoci.»

Il passo si fece più rapido, come in un film girato al buio. Dall'alto si liberò su di noi una fiammata bianca. Si sentì un grido: «Fosforo!». Uno dei soldati mi strattonò e mi fece finire dentro un cespuglio di more. Mi aveva travolto e la cosa non mi aveva fatto piacere. Poi un altro marine afferrò il mio zaino additando dei grossi tizzoni ardenti che stavano perforando il mio sacco a pelo. «Ti penetrano fino alle ossa», urlò. Mi buttai lo zaino in spalla lasciandomi dietro una scia di piume bianche.

La quiete di un momento cedette il passo all'alba.

Ora procedevamo a passo di corsa, gli scarponi rimbombavano sul terreno come zoccoli, svoltammo dietro un angolo a destra, poi a sinistra e ci trovammo in Tharthar Street, dove una jeep, un Cherokee blu, attraversò le nostre fila. Si spalancò una portiera. Stavo ancora correndo, voltandomi per guardare, quando sbucò fuori un drappello di uomini armati di mitra e lanciagranate. Me li trovai di fronte all'improvviso: occhi neri, incarnato chiaro e ampie uniformi grigie sormontate da cinture cariche di munizioni. Pensai che ci avessero in pugno, lo credevano anche loro, quando i marine aprirono il fuoco dal tetto. Non so come o quando erano saliti lassù. La testa di uno degli jihadisti si spaccò come un pomodoro e il rosso cupo del suo sangue schizzò sulla sua pelle sudata mentre la testa scompariva. Il guerrigliero cadde riverso sulla strada spalancando le braccia come un Cristo decapitato. Altri tre jihadisti persero la vita su Tharthar Street mentre un paio riuscirono a dileguarsi. Due soldati li rincorsero e fecero fuoco: uno dei ribelli feriti rotolò per terra, tirò qualcosa sul suo giubbotto ed esplose.

«'Fanculo!», urlavano i ragazzi mentre tornavano indietro correndo. «'Fanculo! Jihadisti di merda, beduini figli di puttana! Hanno fatto tutto da soli. Cazzo!»

I ragazzi cominciarono a caricare esplosivo al plastico sul Cherokee, pezzi di grosse dimensioni. Uno di loro disse che stava per esplodere, poi si sentì gridare: «Salta tutto!». Ci riparammo dietro un muro: la terra tremò e la jeep si disintegrò. Sulla strada rimasero solo un asse e una parte del blocco motore avvolti dal fumo. Gli jihadisti erano spariti, fu come se quel momento non lo avessimo mai vissuto.

Con il respiro affannoso, ci radunammo al riparo in uno spazio dietro un muro di mattoni, accompagnati dal pesante rumore degli scarponi e dal clangore del metallo. Eravamo in quaranta, il primo plotone della compagnia Bravo, oltre me e Ashley. Altri soldati, poco più che adolescenti, salirono sul tetto con i loro enormi fucili. Davanti a noi si dipanava un viale a sei corsie, una delle vie principali di Falluja, la 40a strada. Proprio in quel punto i ribelli ci attaccarono da entrambi i lati. Ci fu un diluvio di proiettili, migliaia, che zigzagavano dinanzi a noi. I marine risposero immediatamente al fuoco, sparavano e gridavano, il selettore dei mitra sull'automatico, non smettevano più. C'era tutto il testosterone di quaranta ragazzi. Cercavano di farsi largo in cima al muro per poter sparare, mettendosi in piedi su bidoni di carburante e vecchie lavatrici. Io me ne stavo fermo contro la parete con gli scarponi dei ragazzi al livello della mia testa. Provavo la strana sensazione di essere al sicuro, e, nonostante il fragore delle armi da fuoco, ero quasi tranquillo. L'unico posto protetto. Gli involucri dei proiettili mi cadevano addosso.

Il capitano Omohundro stava in ginocchio e Hudson gli porgeva la radio. Omohundro strillò qualcosa e nel giro di pochi minuti fu di scena l'artiglieria americana. Uno dopo l'altro i colpi si abbatterono sugli edifici e uno colpì la moschea di Mohammadiya. L'artiglieria aveva una precisione incredibile: gli americani lanciavano da un miglio di distanza bombe da 155 mm che si annunciavano con un fischio simile a quello di un treno. La giornata era limpida e dalla mia postazione seguivo con gli occhi gli ordigni, le loro strie nere che si allungavano nel cielo fino all'obiettivo.

All'improvviso Omohundro ordinò «Andate!» e indicò la strada. Senza esitare. I ragazzi vi si diressero correndo, mentre i combattimenti ancora infuriavano spaventosi. Sembrava assurdo, ma tutti si catapultavano oltre il muro per raggiungere la strada. Lo feci anch'io. Ashley, davanti a me, si muoveva a scatti. Dopo dieci passi sentii i proiettili sibilarmi accanto e rimbalzare sul selciato. Mi resi conto che stavo per morire e allora rimasi impietrito, cosciente che avrei commesso un'idiozia sia se avessi corso sia se mi fossi fermato. Mi voltai e tornai verso il muro per cercarvi riparo. Mi sentii un codardo, ma non era la mia guerra, non era il mio esercito, ero soltanto un maledetto giornalista e avrei aspettato lì che la guerra finisse. Tornerete a prendermi quando sarà finita. Passarono alcuni marine rimasti indietro per coprire le spalle ai compagni: erano gli ultimi, stavano correndo in mezzo al fuoco lungo il viale. Così dimenticai i miei pensieri e mi accodai a loro. Sentivo l'aria dei proiettili sul mio collo. Sulla strada i marine si contorcevano in un groviglio di arti e sangue mentre altri commilitoni si chinavano sui corpi straziati e venivano a loro volta colpiti. Io continuavo a correre come una locomotiva, più veloce che potevo con i miei trenta chili di equipaggiamento, quando vidi due marine in un portone che mi facevano segno di raggiungerli. Dall'espressione del loro volto capivo che non erano sicuri che ce l'avrei fatta. Tenevano le braccia aperte, come se volessero salvarmi, e quando li raggiunsi mi afferrarono per lo zaino e mi trascinarono dentro. Mi stesi per terra un minuto cercando di riprendermi: mi sentivo vulnerabile proprio come un bambino. Un neonato nella culla, accudito da mamma e papà: loro diciannove anni e io quarantatré.

Vidi Ashley appoggiato a una parete che con un gesto mi diceva che andava tutto bene. Poi scorsi Omohundro che si era piazzato al secondo piano. Immobile come un macigno. Stava in piedi accanto a una finestra e osservava la scena. Alzò un braccio e schioccò le dita per farsi portare la radio.

«Hudson, la radio», ordinò.

«Hudson, dammi la radio», ripeté.

Si guardò intorno.

«È stato colpito, signore», disse qualcuno.

Hudson fu uno dei cinque uomini colpiti mentre attraversavano la 40a strada. Lui sopravvisse. Il sergente Lonny Wells di Vandergrift, Pennsylvania, morì dissanguato sul posto, proprio davanti ai nostri occhi. Mentre la vita lo abbandonava, il suo sguardo rivolto verso l'alto divenne angosciante.

Gli spari si fecero meno intensi. Guardai con Omohundro fuori dalla finestra. Eravamo sul lato opposto della strada rispetto alla moschea di Mohammadiya, circondata dal fumo e gravemente danneggiata, con la cupola crivellata dai colpi, ma ancora risplendente del suo verde. Un gruppetto di marine inzaccherati la stava circondando, scrutando attraverso le finestre senza avventurarsi dentro. Fummo allora spettatori di una scena stupefacente. Uomini con uniformi linde, come se provenissero da un altro mondo, armi in pugno, sguardo corrucciato, avanzavano in direzione della moschea: iracheni, una lunga fila, l'esercito iracheno. Uno dei marine si chinò, spalancò la porta della moschea e i soldati iracheni entrarono a passo di marcia.

Erano le due del pomeriggio. Da quando eravamo scesi dai mezzi di trasporto per entrare in città erano passate dodici ore. Avevamo percorso circa duecento metri. Omohundro ordinò agli uomini posizionati sul tetto di restare di guardia. Appoggiammo la schiena al muro, scivolammo sul pavimento e ci addormentammo.

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Pagina 11

1. Solo questo


Portarono l'uomo in mezzo al campo, vicino al centro dove i giocatori passavano più tempo durante la partita. Un campo da calcio, erba e terra nuda. C'era un'area speciale per i mutilati sul lato più lontano e una per le donne. Gli orfani camminavano avanti e indietro sugli spalti di fianco a me, vendendo caramelle e sigarette. Due uomini avevano un frustino e portavano dei lanciagranate sulla spalla.

«La gente arriva», diceva una voce dall'altoparlante, e aveva ragione. Le persone affluivano e prendevano posto. Non erano così entusiasti, per quanto potevo vedere più che altro si trascinavano. Probabilmente io ero il più entusiasta di tutti. Mi avevano riservato un posto speciale, sull'erba al bordo del campo. Negli Stati Uniti sarei stato sulla linea delle cinquanta iarde insieme agli allenatori. Vieni a sederti con noi, mi avrebbero detto, sei l'ospite d'onore.

Una Toyota Hilux bianca si fermò sul campo e dallo sportello posteriore scesero quattro uomini con dei cappucci verdi. Un quinto uomo, un prigioniero, con il capo scoperto, era seduto sul pianale del pick-up. Lo deposero appena oltre la metà campo, adagiato sulla schiena, e gli si accovacciarono intorno. Lo si vedeva a fatica. Così sdraiato, non si agitava minimamente, era mansueto. La voce dall'altoparlante affermava che era un borsaiolo.

«È la legge di Dio che ci ordina di fare tutto questo», disse la voce.

I cappucci verdi sembravano molto indaffarati e uno di loro si alzò. Sollevò la mano destra recisa per mostrarla alla folla. La teneva per il dito medio, descrivendo un semicerchio perché la gente potesse vedere. I mutilati e le donne. Poi si tolse il cappuccio e, mostrando il volto, inspirò. Gettò la mano nell'erba e scrollò leggermente le spalle.

Non ero in grado di dire se il ladro fosse stato anestetizzato. Non urlava. Aveva gli occhi spalancati e mentre gli uomini incappucciati lo rimettevano a sedere sul pianale della Hilux, fissava il suo moncone. Per tutto il tempo non smisi di prendere appunti.

Tornai a guardare la folla incredibilmente calma, quasi insensibile. Una reazione comprensibile, dopo tutto ciò che quelle persone avevano passato. Un piccolo dramma sulle gradinate vedeva protagonisti gli orfani e una delle guardie che li colpiva con il frustino.

«Tornate indietro», diceva, sollevando il frustino sopra la testa. I ragazzi si acquattarono.

Pensai che fosse finita, ma l'amputazione si rivelò solo un assaggio. Un'altra Toyota Hilux, questa di un marrone rossiccio, si fermò rombando al centro del campo; a bordo c'era un gruppo di individui armati i cui lunghi capelli sbucavano dai turbanti bianchi. Con loro c'era un uomo con gli occhi bendati. I talebani erano conosciuti per diverse cose e una di queste erano le Hilux, alte, veloci e minacciose: con questi veicoli avevano conquistato gran parte del paese. Quando vedevi una Hilux potevi stare certo che qualcosa di brutto stava per succedere.

«La gente arriva», ripeté la voce dall'altoparlante, a volume più alto e con maggiore eccitazione. «Viene a vedere con i suoi occhi che cosa significa shari'a.»

Gli uomini armati trassero l'uomo con gli occhi bendati dall'auto, lo scortarono fino al centro del campo e lo fecero sedere per terra. La testa e il corpo erano avvolti in una coperta di un grigio uniforme. Seduto lì, al centro dello stadio di Kabul, non sembrava nemmeno un uomo, ricordava invece un sacco di farina. Così conciato, era difficile capire anche da che parte fosse girato. Uno dei talebani disse che il suo nome era Atiqullah.

Un uomo, che si era levato il cappuccio, stava al centro del campo di fronte alla folla. La voce dall'altoparlante lo presentò come Mulvi Abdur Rahman Muzami, un giudice. Camminava avanti e indietro, il suo camice verde da chirurgo ancora intatto. La gente era tranquilla.

I talebani dissero che Atiqullah era stato arrestato per l'omicidio di un uomo durante un alterco per questioni di irrigazione. Un diverbio per l'acqua. Sostenevano che aveva colpito la vittima a morte con una scure. Aveva diciotto anni.

«Il Corano stabilisce che chi uccide deve essere ucciso per portare pace nella comunità», proclamò l'altoparlante. «Se la pena non viene comminata, tali crimini si diffonderanno. Torneranno il caos e l'anarchia.»

Nel frattempo alcune persone si erano riunite alle mie spalle. Erano le famiglie dell'omicida e della vittima. I due gruppi si spostavano avanti e indietro come in una partita di rugby. Spingendosi in avanti, prima parlò una famiglia e poi l'altra. La shari'a consente il perdono: l'esecuzione di Atiqullah poteva essere sospesa se questa fosse stata la volontà della famiglia della vittima.

Il giudice Muzami osservava a pochi passi di distanza.

«Per favore, risparmiate mio figlio», implorò Abdul Modin, il padre di Atiqullah. Piangeva.

«Non sono pronto per questo», rispose Ahmad Noor, il padre della vittima, che non piangeva. «Non sono pronto per il perdono. Ha ucciso mio figlio. Gli ha tagliato la gola. Non lo perdono.»

I membri delle due famiglie indossavano abiti verde oliva simili a vecchie coperte, i volti rugosi e impassibili. Piangevano tutti. Non riuscivo più a distinguerli uno dall'altro.

«Anche se tu mi dessi tutto l'oro del mondo», disse Noor, «non lo accetterei.»

Si voltò quindi verso un ragazzo accanto a lui. «Lo farà mio figlio», disse.

L'atmosfera si fece più cupa. Guardai dietro e vidi le guardie che colpivano alcuni bambini che avevano cercato di intrufolarsi nello stadio. Atiqullah era ancora seduto sul campo, forse del tutto ignaro. La voce gracchiò dall'altoparlante.

«O voi che credete!» attaccò la voce. «In materia d'omicidio v'è prescritta la legge del taglione: libero per libero, schiavo per schiavo, donna per donna.

«Avete il diritto di vendicarvi.»

Uno dei cappucci verdi porse un kalashnikov al fratello della vittima.

La folla si zittì.

In quel momento un jumbo comparve con un rombo nel cielo. Il fratello restò in piedi stringendo il mitragliatore. Guardai in alto e mi chiesi che cosa ci facesse un jet in un posto simile. Che cosa ci faceva in volo sopra una città come quella? Mi domandai quale fosse la sua destinazione. Per un attimo pensai alla momentanea collisione dei secoli.

Il jet proseguì e l'eco svanì. Il fratello si accovacciò e prese la mira, puntando il kalashnikov alla testa di Atiqullah.

«La legge del taglione è garanzia di vita», disse l'altoparlante.

Il fratello sparò. Atiqullah rimase immobile un secondo, poi crollò sotto la coperta grigia. Sentii ciò che mi parve una vibrazione dalle tribune. Adesso il fratello era sopra Atiqullah, prese la mira e sparò di nuovo. Il corpo rimase immobile sotto la coperta.

«La legge del taglione è garanzia di vita», ripeté la voce.

Il fratello girò intorno ad Atiqullah, come se cercasse dei segni di vita. Credendo di averne scorti, si accovacciò e sparò ancora.

Gli spettatori invasero il campo come al termine di una partita di football al college. I due uomini, l'assassino e il vendicatore, furono portati via con le due diverse Hilux.

Il fratello rimase in piedi sul pianale del pick-up bianco che rombando si allontanava, circondato dai suoi. Aveva le braccia alzate e sorrideva.

Mi dovetti sbrigare per parlare con le persone prima che tornassero a casa. Tutti approvavano ma nessuno sembrava soddisfatto.

«In America avete la televisione e i film, il cinema», mi disse uno degli afgani. «Qui c'è solo questo.»

Uscii dallo stadio e mi accodai alla folla che camminava nelle strade. Vidi qualcosa con la coda dell'occhio. Era un ragazzo, un ragazzo di strada: aveva occhi verdi luminosi. Mi guardava da un vicolo. Indugiò qualche secondo ancora, seguendo con lo sguardo i miei occhi. Poi si voltò e si mise a correre.

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Pagina 273

16. La rivoluzione divora se stessa


L'uomo che si faceva chiamare Abu Marwa era seduto in una casa scarsamente illuminata di Baghdad, il volto ammantato dalle ombre di una stanza priva di corrente elettrica. Ormai la capitale era quasi sempre priva di energia elettrica e le tende erano chiuse per non rivelare l'uomo all'interno. Abu Marwa si lamentava di dover essere venuto a Baghdad che pullulava di soldati americani. Dopo lunghe discussioni, accettò di affrontare il viaggio da Yusufiya, venti miglia a sud.

Tre compagni di Abu Marwa stavano sistemati intorno a lui, sul divano e sulle sedie. Come lui stesso, erano membri dell'esercito islamico iracheno, uno dei gruppi di ribelli più impegnati. Indossavano kefiah a scacchi e dishdasha bianchi, avevano il volto segnato e impassibile, parlavano con voce roca attraverso il fumo delle loro stesse sigarette. Non era difficile immaginarli piazzare una bomba sotto un Humvee americano. Abu Marwa stava leggermente in disparte: aveva trentadue anni, indossava blue-jeans e una camicia gialla di quelle con i bottoni al colletto. Era ben rasato e aveva l'aspetto fresco di uno studente. Era stato capitano dell'esercito iracheno.

Non era venuto per parlare degli americani. C'era qualcos'altro. Con un cenno della testa cominciò il suo racconto.

«Secondo le tradizioni tribali e le credenze irachene, ogni tribù deve vendicare la morte di un suo membro», esordì. «È un impegno solenne, anche se significa che devi uccidere un membro di Al-Qaeda.»

Tutti concordavano nel dover uccidere gli americani, continuò Abu Marwa. Non c'era discussione. Il problema nasceva quando Al-Qaeda ammazzava non solo gli americani ma anche gli iracheni. Al-Qaeda faceva attentati dinamitardi alle moschee sciite e nei mercati pubblici e uccideva migliaia di civili iracheni. La guerra di Al-Qaeda, disse, non aveva nulla a che fare con la sua.

«Dovete distinguere tra la vera resistenza e Al-Qaeda», spiegò Abu Marwa, seduto nell'oscurità nell'angolo della stanza. «Noi vogliamo liberare il nostro paese, lo vogliamo liberare dagli americani. Siamo noi la vera resistenza.

«Al-Qaeda attacca anche quando ci sono molti civili vicini al bersaglio», proseguì. «Lo hanno fatto ripetutamente.

«Sunniti, sciiti, per noi non vuol dire niente.»


Per mesi i funzionari americani e iracheni avevano provato a sfruttare le divisioni interne ai ribelli sunniti. Da una parte c'erano i gruppi nazionalisti iracheni come l'esercito islamico, di cui Abu Marwa era membro, e il cui scopo era quello di cacciare gli americani dall'Iraq. Dall'altra c'erano gli islamici estremisti e violenti di Al-Qaeda e Ansar al-Sunnah che volevano far risorgere il califfato dei tempi passati. Questi gruppi erano fanaticamente a favore dei sunniti e ammazzavano i civili sciiti. Gli americani pensavano che i nazionalisti come Abu Marwa potessero essere rabboniti e forse persino aizzati contro gli islamici. Ma fino ad allora c'erano state poche prove di quel cambiamento.

Alla fine stava succedendo. Gli iracheni «comuni» si stavano ribellando ad Al-Qaeda. Avevo avuto notizia di scontri tra ribelli nazionalisti e terroristi di Al-Qaeda nel Triangolo sunnita. Una specie di guerra civile stava deflagrando all'interno della rivolta.

«Al-Qaeda ha ucciso due persone del nostro gruppo», disse uno dei ribelli dal divano. «Continuano ad ammazzare i nostri.»

L'uomo che parlava era Abu Lil. Fumava Marlboro, aveva una voce cavernosa ed era talmente sprofondato sul divano da dover piegare la testa verso l'alto per parlare. «Ci siamo confrontati con Al-Qaeda sulla questione, quindici mesi fa», disse. «In una casa colonica fuori Mosul. Cinque di noi e venticinque uomini di Al-Qaeda, per la maggior parte stranieri. Pakistani e, non ne sono certo, indonesiani. Questi non parlavano arabo. Avevano bisogno di un interprete.»

Che due gruppi di ribelli si incontrassero era inconsueto, spesso condividevano competenze e talento e univano le forze per le operazioni di vasta portata, spiegò Abu Lil. Questa volta era diverso. Abu Lil e gli altri presenti all'incontro dissero ai guerriglieri di Al-Qaeda che non erano contenti della morte dei civili iracheni. Pochi giorni prima, continuò Abu Lil, un attacco di Al-Qaeda aveva ucciso due soldati americani e numerosi iracheni che si trovavano per caso nelle vicinanze. L'incidente aveva convinto Abu Lil e gli altri a sollecitare un incontro. I guerriglieri di Al-Qaeda erano imperturbabili.

«Dissero, 'La jihad richiede le sue vittime'», raccontò Abu Lil. «'Gli iracheni devono essere disposti a pagare il prezzo.'

«Noi abbiamo osservato: 'È un prezzo troppo alto'.»

Dopo sette ore l'incontro terminò, continuò. Abu Lil e i suoi compagni ne erano usciti impotenti e infuriati.

«Avrei voluto avere una bomba atomica», disse. «Gli abbiamo detto: 'Voi non siete iracheni. Chi vi ha dato il potere di fare questo?'»

Lasciate che vi porti un altro esempio, disse Abu Marwa. Era seduto in un angolo, sul lato opposto del salotto, su una sedia. Solo alcuni mesi prima, spiegò, gli uomini di Al-Qaeda avevano rapito suo zio Abu Taha che, come la madre di Abu Marwa, era sciita. Abu Marwa, come tutti gli altri ribelli nella stanza, era sunnita. Gruppi come Al-Qaeda e l'esercito islamico erano a maggioranza sunnita. Ma il caso di Abu Marwa era frequente: molti iracheni sunniti, attraverso il matrimonio, avevano parenti sciiti. Il matrimonio misto, e le relazioni tra sunniti e sciiti, erano al centro della lotta di Abu Marwa contro Al-Qaeda. Quando scoprì che suo zio era stato rapito, egli cominciò un'affannosa ricerca nei villaggi e nelle città a sud di Baghdad.

A quel tempo, raccontò Abu Marwa, tutti i villaggi sunniti dell'area intorno a Yusufiya, dove viveva la sua famiglia, erano controllati da uno dei gruppi di ribelli in competizione per il territorio. Ogni villaggio era una specie di feudo in una guerra per bande. Quando i ribelli volevano entrare in un villaggio che non controllavano, dovevano chiedere il permesso al gruppo dominante.

E così Abu Marwa cominciò a perlustrare i rigogliosi terreni agricoli intorno a Yusufiya, entrando di notte nei frutteti, spesso scortato. Giungeva al confine di un territorio controllato dall'esercito di Maometto, disse, e un combattente di quel gruppo lo presentava a un combattente del gruppo di Ansar al-Sunnah, dove cominciava il suo feudo.

Dopo tre giorni, disse Abu Marwa, riuscì ad arrivare alla periferia di Karagol, a circa dieci miglia da Yusufiya. Secondo la gente del posto, suo zio era stato portato lì.

«Karagol è un villaggio di Al-Qaeda», spiegò. «Le pattuglie americane che attraversano il villaggio non se ne rendevano conto. Lo attraversavano e basta, e Al-Qaeda li osservava.»

Finalmente uno della scorta lo condusse a Karagol e poi a casa di un uomo del posto di cui si diceva essere uno dei giustizieri di Al-Qaeda. Prima di andarsene, l'uomo della scorta gli disse di fare attenzione perché il boia era un uomo brutale e psicotico che, tra l'altro, conservava le teste dei nemici uccisi. Abu Marwa salì gli ultimi gradini da solo e il sicario di Al-Qaeda lo fece entrare. «Il boia esaminò un registro con un lungo elenco di nomi e quello di Abu Taha non c'era».

Feci una smorfia di incredulità per la piega fantastica che aveva preso la storia.

«In nome di Dio è vero!» esclamò Abu Marwa. «Era l'uomo che eseguiva le decapitazioni per conto di Al-Qaeda. Tante decapitazioni.»

Gli altri ribelli continuarono a guardare impassibili. Una nube di fumo di sigarette aleggiava tra i capelli.

Questo era uno di quei momenti in Iraq, non il primo, in cui mi sentivo come se mi fossi allontanato dal mondo che pensavo di conoscere. L'intera storia, ovviamente, avrebbe potuto essere un'invenzione. Lo stesso Abu Marwa avrebbe potuto essere un impostore. In Iraq era così: ti sentivi svincolato, fluttuante, arrivavi alla verità attraverso regole diverse. Ma Abu Marwa sembrava vero: la mia era una sensazione viscerale. E per quanto la sua storia fosse fantastica, suonava vera. In altre occasioni i sospettati di appartenere ad Al-Qaeda avevano riferito agli inquirenti iracheni che conservavano teschi e scheletri e che tenevano un registro delle vittime allo scopo di ottenere il plauso dei superiori. Nel 2005, per esempio, nel corso del processo a suo carico un iracheno confessò di aver cavato gli occhi con un coltello a un poliziotto che aveva ammazzato e di esserseli messi in tasca per poi portarli allo sceicco mandante dell'omicidio.

Non riuscendo a trovare lo zio, Abu Marwa proseguì verso il centro di Karagol, dove un altro uomo del posto lo avvertì di stare alla larga. «'Se sai che ce l'hanno quelli di Al-Qaeda, ti consiglio di non andarci'», ricordava che gli aveva detto l'uomo.

Pochi giorni dopo Abu Marwa trovò lo zio all'obitorio. Lo avevano trapanato con strumenti a corrente elettrica. La mascella pendeva da un lato e il naso era rotto. Il corpo era pieno di bruciature di sigaretta. Le ginocchia erano sbucciate, come se lo avessero trascinato. «Ero completamente fuori di me» disse. «Un folle sarebbe stato più razionale di me.»

Abu Marwa convocò una riunione del suo gruppo, «Tuono», una cellula fedele all'esercito islamico. Dopo diversi giorni, spiegò, la rete dei servizi segreti del gruppo aveva scoperto che i responsabili dell'omicidio erano due siriani, membri di Al-Qaeda, Abu Ghassan e Abu Wadhah, jihadisti di Aleppo. «Dopo molte riunioni decidemmo di farli fuori», disse.

Abu Marwa sapeva che prendersela con Al-Qaeda avrebbe messo in grave pericolo lui stesso e i suoi compagni dell'esercito islamico. «È più che folle voler colpire Al-Qaeda», dichiarò. «Nemmeno l'insieme delle forze della resistenza potrebbe pensare di agire così.»

Nel giro di pochi giorni, Abu Marwa e i suoi compagni di cellula trovarono i due combattenti siriani. In un paio di settimane misero a punto una complicata imboscata. Con la loro berlina Opel beige i siriani percorrevano regolarmente un tratto di strada deserto. Lì, sul ciglio della strada, i compagni di Abu Marwa parcheggiarono una BMW. Quando i siriani si avvicinarono i ribelli si comportarono come viaggiatori impegnati a cambiare una gomma forata. Li colpirono. «Abbiamo finto di non avere il cric», raccontò Abu Marwa. Appena si sono fermati gli hanno sparato.

«Quando hanno ammazzato mio zio, ho promesso a mia zia che avrei vendicato la sua morte», disse. Lei, raccontò Abu Marwa, rispose con un detto arabo spesso pronunciato e raramente messo in pratica: Ashrab min Damhum. Berrò il loro sangue.

Dopo l'uccisione dei siriani, Abu Mawra prese le loro kefiah e le portò a sua zia, come prova dell'avvenuta vendetta. Le accettò con gratitudine. Poi Abu Marwa le porse una boccetta contenente il sangue dei due assassini.

«Ha bevuto il sangue dei siriani», disse Abu Marwa, sempre seduto al buio sul divano. «Vedete, volevamo vendetta, lei era piena di rabbia.»

Mentre mi alzavo per andarmene, ritornò la corrente e la casa si illuminò all'improvviso, dando l'impressione di trovarsi in un cinema al termine del film. Uscii per primo mentre Abu Marwa e i suoi tre compagni si attardarono.

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18. Vaffanculo noi


Al mattino potevi osservare dal tetto del centro governativo di Ramadi gli iracheni che a poco a poco si riversavano nelle strade. Il paesaggio urbano era completamente distrutto per un miglio in ogni direzione. Solo rovine, come Grozny o Dresda. I marine avevano dato nomi agli edifici bombardati, Formaggio svizzero, Corazzata grigia. Le attività umane si svolgevano al di là di tutto questo, agli estremi confini della distruzione. Dalla sommità del centro governativo gli iracheni sembravano figure minuscole in un paesaggio gigantesco, che arrancavano verso una meta sconosciuta. Verso mezzogiorno, il paesaggio si sarebbe svuotato di nuovo.

Tra i marine di stanza lì era una barzelletta. «Centro governativo»: il centro non c'era e nemmeno il governo. Il centro della città era stato cancellato e il governo aveva cessato di esistere. C'era il governatore, un uomo mezzo matto che si chiamava Mamoon Sanai Rashid, ma la maggioranza dei membri del governo erano morti o si erano nascosti. Pochi mesi prima, il segretario di Rashid era stato decapitato. Rashid conduceva una vita insolita, monastica, andava in auto con i marine, volava con i marine, si circondava di marine tra le macerie della sua città.

Al centro governativo c'erano due mondi, il tetto e gli interni. A meno che non si uscisse armati di tutto punto per combattere, l'esterno era off-limits. Nel momento in cui mettevi piede fuori, dovevi correre. Dovevi correre in ogni caso, anche per raggiungere il tuo Humvee. Non si poteva rimanere fermi. C'erano i cecchini. I bagni non funzionavano, visto che mancava l'acqua, ma non potevi nemmeno andare fuori. Non c'erano bagni portatili perché erano bersagli per i cecchini. Dovevi fare i bisogni all'interno, in un sacchetto verde, chiamato Wag Bag per via delle sostanze infiammabili contenute nel rivestimento. Una volta finito, si legava il sacchetto e lo si metteva in un normale sacco dell'immondizia che uno dei soldati portava fuori e bruciava di notte.

I cecchini erano bravi. In Iraq, i ribelli avranno avuto le pezze al culo e si arrangiavano a montare testate esplosive su bossoli arrugginiti, ma alcuni di loro erano ex militari, e altri tiratori scelti. Avevano fucili russi Dragunov con cannocchiali enormi e canna lunga. Miravano al collo, nel punto vulnerabile tra l'elmetto e il giubbotto antiproiettile.

I marine, tutti della compagnia Kilo, vivevano all'interno, circa settantacinque per volta. Il posto, ovviamente, puzzava di piscio rancido e vestiti sporchi e di troppi corpi esageratamente ammassati. Non c'erano docce, ci si faceva la doccia all'aperto. Gli orinatoi non funzionavano ma si usavano comunque, qualche volta l'urina defluiva nella tubazione, altre volte fuoriusciva sul pavimento e irrancidiva. Dormivano in otto in una stanza, ammassati insieme come i ragazzi alla casa dello studente. Le camere avevano finestre, ma la maggior parte erano state infrante a fucilate e chiuse con il cartone.

I turni presso il centro governativo duravano due settimane, abbastanza a lungo per far uscire di testa chiunque. Un marine, David, viveva appartato in un sottotetto al secondo piano dalla parte opposta rispetto alle scale che portavano al tetto. Era di Tampa. Il suo compito era rifornire di cibo e acqua i commilitoni, non era un servizio impegnativo, ma era meglio di niente. David era un personaggio alla Boo Radley, amichevole ma un po' più lento degli altri. Trascorreva la maggior parte del tempo nel suo buco a giocare con violenti videogame. Ogni volta che passavo davanti alla sua stanza sentivo le esplosioni. «Non sono mai stato sul tetto», diceva David indicando le luce del sole che proveniva dalla tromba delle scale. «Non ci voglio proprio andare lassù.» E nessuno ce lo costringeva.

I marine erano giovani e sfruttavano al meglio le circostanze. Avevano allestito una palestra al pianterreno, buia e polverosa, ascoltavano i Metallica e sollevavano pesi finché non si addormentavano. Musica e pesi a manetta. Dormivano di più di quanto ci si potesse immaginare. I generatori fornivano corrente alternata, le finestre rattoppate con il cartone rendevano le stanze buie, e molti ragazzi dormivano sul tetto nel bel mezzo dei combattimenti.

Fuori il caldo era insopportabile, ma gli uomini uscivano lo stesso per la maggior parte dei giorni, carichi di armi e di equipaggiamento. Anche di notte, tra le macerie. Per prendersi cura delle persone lasciate sole. Qualche volta, quando scappavano, lanciavano bombolette che emettevano un fumo verde. Non li ho mai sentiti parlare con il cuore e con il cervello.

«Usciamo e ammazziamo questa gente», diceva il capitano Andrew Del Gaudio. Aveva lui il comando.

C'era una semplicità primordiale lì a Ramadi, che la rendeva eccitante, anche se la situazione era pericolosa. Non c'erano politici a complicare le cose, come a Baghdad. La gente combatteva fino alla morte. Chiesi a Del Gaudio come se la passavano i suoi uomini.

«Vediamo, il soldato scelto Tussey, ferito alla coscia.

«Il soldato scelto Zimmerman, ferito alla gamba.

«Il soldato scelto Sardinas, scheggia, colpito in faccia.

«Il caporale Wilson, una scheggia nella gola.

«È tutto quello che mi viene in mente in questo momento», disse il capitano.

Del Gaudio aveva trent'anni, un italo-americano di Parkchester, nel Bronx. Seduto, con indosso una t-shirt e lo sguardo torvo, mi ricordava quei tipi dei film degli anni cinquanta. Marlon Brando senza il suo fascino. Penso che avesse il diritto di essere arrabbiato, intrappolato in questo merdaio deserto e con l'incarico di ammazzare la gente. Chiesi a Del Gaudio di portarmi con loro in un pattugliamento notturno e lui mi rispose di scordarmelo. «Probabilmente calpesteresti qualcosa e faresti saltare il culo a tutti.»

Uscii dal suo ufficio e chiusi la porta dietro di me. C'erano alcuni ragazzi intorno a un foglio. Lo avevano messo su un cartoncino dotato di fermaglio e penna. Parlavano di Lara Logan, la fascinosa corrispondente della CBS che era stata lì in visita un paio di settimane prima. Sul foglio si raccoglievano i suggerimenti per il logo della t-shirt della compagnia Kilo. I ragazzi sarebbero tornati a casa presto.

«Compagnia Kilo», aveva scritto uno dei marine, «ha ammazzato più persone del cancro.»

«Compagnia Kilo: vaffanculo l'Iraq.»

«Compagnia Kilo: vaffanculo Ramadi.»

«Compagnia Kilo: vaffanculo Lara Logan.»

«Compagnia Kilo: vaffanculo noi.»

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