Copertina
Autore Massimo Fini
Titolo Senz'anima
SottotitoloItalia 1980-2010
EdizioneChiarelettere, Milano, 2010, Reverse , pag. 472, cop.fle., dim. 12,7x19,8x3 cm , Isbn 978-88-6190-107-0
LettoreLuca Vita, 2012
Classe paesi: Italia: 1980 , paesi: Italia: 1990
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Indice


Breve introduzione                                            5
Nota dell'autore                                              6

                            PARTE PRIMA
Apertura                                                      9

  Milano Due 1980
  All'alba di un mondo nuovo                                 11

Capitolo I   Un paese senza                                  21

- Dignità 23
- La retorica del 25 aprile 24
- Italiani, «brava gente» 26
- Pietà l'è morta 28
- I vecchi sono considerati soltanto dei relitti 31
- Quando il medico era un missionario 32
- La folla indecente alla casa degli orrori 33
- Commozione indotta 35
- La Tv al servizio del vuoto 37
- Il mostro in Tv è chi la fa 38
- C'è una nuova mafia in agguato.
  È quella della Tv-tribunale 40
- Va in scena il processo mediatico 42
- Morte in Tv 44
- Uno spot sul dolore 46
- «GF»: il cieco in arrivo nel circo-reality e l'ipocrisia
  di chiamarlo non vedente 47
- Il connubio innaturale tra show e beneficenza 48
- Delirio di onnipotenza 50
- C'era una volta la Tv di Ettore Bernabei 51
- Il crepuscolo degli intellettuali 53
- L'Italia della cultura debole fra cantanti, calciatori
  e veline 55
- Nella società del «proibito» dove tutti si dichiarano
  liberali 57
- Lo Stato non può toglierci il diritto di morire
  in santa pace 58
- Tra corpi perfetti e denaro dimenticata
  la «cura dell'anima» 60
- I «valori cristiani» che dimenticano Cristo 62
- Il sistema Mastella 64
- La riforma più urgente? Eliminare la partitocrazia 66
- L'Italia perduta degli anni Cinquanta e Sessanta 68
- Volgarità, disonestà e cinismo.
  Non mi riconosco in questa Italia 69
- L'autodistruzione di un paese 71
- Come una sconfitta diventa un orgoglio nazionale 72
- Troppe lacrime di coccodrillo 74
- Sdegnarsi di che? 76
- Vorrei essere un talebano... 78

                        PARTE SECONDA

Capitolo II   La crisi della partitocrazia (1985-1992)       83

- I partiti sono ko. Sta nascendo un'Italia diversa 85
- Mal comune non è mezzo gaudio 90
- Umiliati e offesi 92
- Processo in Tv garanzia di giustizia 95
- Sotto la crosta delle Leghe 97
- Le astuzie leghiste dell'onorevole Craxi 100
- Padrone d'Italia è Gattopardo 102
- Tutti cercano di riciclarsi tirando sul regime morente.
  Non sperino di ingannarci 105
- Scalfari cambia pelle: ora è «leghista nazionale».
  Ma resta quello di sempre 107
- Finalmente anche da noi il muro sta crollando 109
- Così finì a Roma la nomenklatura: per colpa della Tv 111

Capitolo III   Mani pulite                                  115

- Chi ruba paga. Solo i partiti non pagano mai 117
- Alle soglie della mafia 119
- Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi 121
- Ma Vespa ha detto la verità 122
- Caro Craxi, ti sei venduto anche Nenni 125
- Cardinal Martini, si tenga pure le sue pie illusioni 127
- Ammettiamo pure che lui non c'entri nulla... 129
- Caro Ferrara, i ladroni sono a casa tua 131
- Mani pulite oppure mani legate? 133
- Craxi più si agita e più affonda 136
- La morte lo riscatta ma non lo assolve 138
- Bettino Craxi, la tragedia di un uomo ridicolo 140
- Ma non è caduto soltanto il Muro di Bettino 142
- Da noi pentitismo fa rima con trasformismo 143
- La Chiesa denuncia ma troppo in ritardo 145
- Cattivi politici, pessimi uomini 147
- Onorevole Presidente 150
- Le prostitute di Tangentopoli 152
- Achille è peggio di Craxi 154
- Ombre rosse sulle toghe 156
- Guarda chi viene a farci la morale 157
- La favoletta del partito duro e puro 160

Capitolo IV   La restaurazione                              163

- «L'Indipendente»: l'occasione mancata 165
- Eppure Mani pulite ci ha liberato dal vecchio regime 167
- Perché diciamo no al decreto 170
- Eravamo sei amici al bar 173
- Un eroe pericoloso 177
- Se queste sono le colpe del «pool»... 180
- Tonino a casa. Ingiustizia è fatta 182
- Soli 184
- Maramaldo dietro l'angolo 187
- Rivoluzione all'italiana 191
- Respinti con perdite 193
- Chi intimidisce chi 195
- Che bel giornale con tre narici 198
- Quando il forcaiolo si scopre garantista 201
- «Uscire da Tangentopoli» 202
- Il Cavaliere dello sfascio 204
- Non confondiamo: lo «strapotere» non è dei magistrati 206
- Caro lettore che paghi di tasca tua i loro lussi... 209
- Fare i processi è l'unica uscita da Tangentopoli 212
- Alla gogna multimediale non i corrotti ma i giudici 215
- Dietro i proclami una truffa linguistica.
  Così le parole «disarmano» i magistrati 217
- Quella penosa tribuna televisiva 220
- Attenzione: colpo di spugna in agguato 222
- Le vere vittime di Tangentopoli 226
- La gente comune non avrà mai giustizia 228

                        INTERMEZZO

        Due modi di intendersi classe dirigente

  Bettino Craxi
  Craxi non merita rispetto                                 237

  Giulio Andreotti
  La lezione dell'imputato Andreotti                        241

                        PARTE TERZA

Capitolo V   Sinistra e Destra nel mondo nuovo              247

  Sinistra. Che nostalgia per quel Pci tanto diverso        249
  Destra. Nove ragioni per dirgli di no                     252

Capitolo VI   Antropologia di Berlusconi                    255

- Ma gli italiani hanno votato una favola 257
- Bastava il Milan per capirlo 259
- Ma Berlusconi resta sempre un poveretto
  (Ancora sul caso Lentini) 261
- Arridatece Forlani 262
- Silvio bambino goloso 264
- L'invidia 266
- L'odio 268
- Onnipotenza 270
- Berlusconi, un delirio che parte da un complesso
  di inferiorità 272
- Se la nebbia quel giorno a Belgrado... 274

Capitolo VII   Crescendo rossiniano                         277

  Antefatto
  Cari Berlusconi e Previti, siete querelanti
  o delinquenti? 279

- Ma Berlusconi pensa solo ai calli suoi 283
- I pasticci della legge Cirami 285
- Il falso in bilancio e il ministro Castelli 287
- Il diritto fatto a pezzi 289
- Una legge che allunga i processi 292
- La giustizia ammanettata 294
- Ladropoli per sempre 295
- In Italia il più pulito c'ha la rogna 298
- Ci risiamo, ecco lo scempio delle leggi «ad personam» 300
- La spericolata cavalcata del Cavaliere in lotta contro
  le Istituzioni 302
- Nel Granducato di Curlandia 304
- La parabola di Mario Chiesa, un ripasso della nostra
  storia 306
- Berlusconi irriso all'estero ma agli italiani va bene
  così 308
- Il totalitarismo antropologico di Berlusconi 309
- Il gossip serve a mascherare le vere magagne d'Italia 311
- Quel «lodo» incongruente a salvaguardia del premier 313
- Il consenso della gente non autorizza a non rispettare
  la legge 315
- Riforma della Giustizia, ecco perché Berlusconi non può
  farla 315
- Ballarò 317
- I garantisti dalla doppia morale 317
- Guerra civile? No, ma uno psicolabile ne ha colto
  il clima 319
- Silvio Berlusconi e Giustina Putet 321

                        PARTE QUARTA

Capitolo VIII   Stroncature                                 325

  Francesco Cossiga                                         327
  Giorgio Napolitano                                        330
  Renato Schifani                                           333
  Giuliano Amato                                            336
  Emma Bonino                                               339
  Fabrizio Cicchitto                                        342
  Eugenio Scalfari                                          345
  Angelo Panebianco                                         348
  Ernesto Galli della Loggia                                351
  Bruno Vespa                                               354
  Michele Santoro                                           356
  Fabrizio Del Noce                                         359
  Carlo Rossella                                            362
  Giampaolo Pansa                                           365
  Magdi Allam                                               367
  Antonio Ricci                                             370
  Roberto Benigni                                           372
  Mina                                                      375
  Pecorella und Amodio                                      378

Capitolo IX   Visti da vicino e da lontano                  385

  Bettino Craxi                                             387
  Stefania Craxi                                            392
  Claudio Martelli. Io & Claudio                            395
  Raul Cardini                                              407
  Sergio Cusani                                             412
  Carlo De Benedetti                                        418
  Maurizio Costanzo                                         421
  Oriana Fallaci                                            425
  In morte di Indro Montanelli                              430
  Don Giussani                                              436
  Walter Tobagi. Quell'addio sull'uscio di casa             441
  Renato Vallanzasca                                        446
  Fabrizio De André. Un uomo con e molti politici senza     449

Capitolo X   Sociologia di Berlusconi                       453


 

 

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Pagina 23

Dignità


L'uomo occidentale non ha alcuna dignità. È innanzitutto una mancanza di dignità fisica, antropologica, esteriore. È inguaribilmente volgare. La volgarità, come il ridicolo, è data da un contrasto, da qualcosa che stride. Da uno scarto. Scarto fra interno ed esterno, fra essere e avere, fra come siamo e come ci presentiamo. E alla fine siamo quello che sembriamo.

Nel mondo dell'apparire e dell'immagine l'uomo ha la necessità, o crede di averla, di presentarsi in modo diverso da quello che è. Si maschera. Nel parlare, nel vestire, nell'abitare, nel comportarsi. E la volgarità è proprio un non stare nei propri panni. Un primitivo può essere rozzo, certo, ma non è mai volgare.

Questo scarto e questa disarmonia sono molto evidenti in pressoché tutte le donne dello show business televisivo — luogo privilegiato ed emblematico della società contemporanea — che possono quindi essere prese a paradigma della donna di oggi. In loro c'è sempre un'enfasi, un'esagerazione, qualcosa di falso, di costruito, di artefatto, di plastificato, di inverosimile.

Un altro elemento che contribuisce a involgarirci è la distanza che ci separa dai sofisticatissimi strumenti che usiamo. In quest'orgia di giochi l'uomo regredisce allo stadio infantile e, come un bambino, protetto, coccolato, viziato, a differenza di chi ha a che fare con le dure, ma pedagogiche, necessità della vita, non sa più distinguere, non sa fare una gerarchia di valori.

E la democrazia non aiuta in questo. La democrazia infatti è un metodo, un sistema di forme e di procedure, non è un valore in sé e non propone valori. È un contenitore, un sacco vuoto che andrebbe riempito. Ma il pensiero e la pratica liberale e laica, che sono il substrato su cui la democrazia è nata, mentre facevano tabula rasa dei valori precedenti, non sono stati in grado, in due secoli, di riempire questo vuoto se non con contenuti quantitativi e mercantili. E il nostro problema nell'attuale scontro con l'Islam sta proprio qui, nei valori. Di là i kamikaze con valori fortissimi, giusti o sbagliati che siano, di qua una settimana di lacrime e di strazio per diciassette soldati morti o mesi di angoscia per due volontarie e una giornalista che stavano dove non dovevano stare. Perché da noi non c'è più alcun valore che sia ritenuto degno del sacrificio di una vita.

E questa debolezza noi la scontiamo anche nella vita quotidiana, nel nostro rapporto con gli immigrati, di origine islamica ma anche slava o sudamericana. Noi temiamo e drammaticamente subiamo la loro aggressività, individuale o di gruppo, incapaci di reagire, di uno scatto d'orgoglio, perché loro, pur nella miseria, o forse proprio grazie a essa, sono vitali e noi no. E proprio perché hanno poco o nulla da perdere dal punto di vista materiale, possono permettersi il lusso di rischiare, che noi, immersi nella grascia del benessere, avvinghiati ai nostri oggetti, abbiamo perduto.

E nel confronto con le genti di altre culture avvertiamo, con un sottile senso di umiliazione, che siamo diventati degli uomini diminuiti.

Dallo spettacolo teatrale Cyrano, se vi pare..., stagione 2004-2005

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Pagina 26

Italiani, «brava gente»


Da una ricerca dello European Values Study Group, una commissione di sociologi che ha fatto degli studi sul cambiamento dei costumi nel vecchio continente, risulta che gli italiani sono il popolo più tetro d'Europa, avido, poco generoso, scarsamente amorevole e pietoso.

Probabilmente gli italiani si indigneranno per questo giudizio (peraltro suffragato da una ricerca che dovrebbe essere seria, visto che è costata quasi due miliardi), abituati come sono a considerare l'Italia come il paese «del sole, del mandolino e dell'amore» e convinti tuttora d'essere della gente allegra, dei «bravi ragazzi», in fondo, che anche quando si trovano in qualche brutto pasticcio lo sono senza colpa e senza cattiveria.

Io temo che noi si confonda con una sorta di bonomia, di innocuità, di incapacità di fare del male, di allegria, quella che invece è solo la nostra cialtronaggine. Personalmente l'immagine dell'italiano «buono e generoso», incapace di fare veramente del male, non mi ha mai convinto. E credo che sarebbe bene che cominciassimo ad aprire gli occhi su noi stessi. Già dovrebbero farci pensare gli orrori della guerra civile e dirci di quali crudeltà, di quali efferatezze, di quale ferocia siano capaci quegli «allegri ragazzi» che sono gli italiani. Si dirà che la guerra civile è stata un momento eccezionale ed eccezionalmente drammatico della nostra storia. Ammettiamolo. Ma la mafia, con i suoi rituali di morte, di sadismo, di sfregi crudeli, col suo «sasso in bocca» e con i suoi piedi nel cemento, è un fenomeno che dura da prima dell'unità d'Italia ed è un fenomeno tipicamente italiano. Un prodotto, anzi, che abbiamo il poco lodevole onore di aver esportato in varie parti del mondo. Né è molto diverso il discorso per la camorra e la 'ndrangheta, altre forme di delinquenza particolarmente crudeli.

Componenti di ferocia, di efferatezza, di cupezza sono quindi da sempre presenti nel nostro popolo e in dosi massicce.

Ma se, ciò nonostante, l'immagine degli italiani come gente buona, allegra, generosa, lontana dagli estremismi e dalle cupe follie di certi popoli nordici, tedeschi in testa, poteva forse reggere fino a qualche tempo fa, più che altro per forza di inerzia, oggi questa immagine, solo che si abbia il coraggio di guardarsi un poco attorno, è decisamente fuori dal tempo e dalla nostra realtà.

In Italia è cresciuto, nell'ultimo decennio, il più crudele, spietato e sadico terrorismo che sia mai apparso sulla scena del mondo. Sono dei giovani italiani, dei «bravi ragazzi» (alcuni ne han anche la faccia) quelli che sequestrano degli uomini inermi, che li seviziano psicologicamente, insieme ai loro familiari, con un sapiente e orribile dosaggio di minacce e di barlumi di speranza, che costringono i loro prigionieri ai più umilianti messaggi, che fanno su quella pelle inerme i ricatti più odiosi e che, alla fine, uccidono gli ostaggi, come bestie, buttandoli negli immondezzai. Da nessun'altra parte è stato partorito un terrorismo del genere. Così come da nessun'altra parte si è avuto, a livello di massa, un ideologismo così forsennato, cupo, totalmente privo di ironia, di autoironia e di «joie de vivre» come quello espresso dal Sessantotto e dintorni.

Poi c'è il terrorismo nero che butta le sue bombe nelle piazze, nelle banche, sui treni, ovunque ci sia da colpire a casaccio, con la gioia dei frequentatori dei cimiteri.

Vengono quindi le mene tenebrose e squallide di cosche come la P2 e d'un sottobosco clientelare e politico che ha invaso ormai strati vastissimi del Paese.

Infine ci sono i sequestri a fini di estorsione. In Italia si sequestra una persona alla settimana tanto che le relative notizie sono ormai relegate nelle pagine interne dei giornali. E fra i sequestrati ci sono dei bambini, cioè quanto di più caro, di più sacro, di più intoccabile ogni società, anche la più primitiva, ha. [...]

«Il Giorno», Calcio di rigore, 13 dicembre 1981

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Pagina 140

Bettino Craxi, la tragedia di un uomo ridicolo


Bettino Craxi sta diventando un uomo ridicolo. È la sorte dei prepotenti e degli arroganti quando pretendono di continuare a comportarsi come tali anche se non ne hanno più la forza. Allora tutti, anche coloro che gli erano stati servi fino al giorno innanzi, resi arditi dall'impotenza di quella prepotenza, scoprono d'incanto che il re è nudo, goffo, grottesco.

Dobbiamo ammettere che a noi, che servi del leader socialista non siamo stati mai e che, senza appartenere ad alcuna contrapposta consorteria, ne andiamo denunciando da tempo i comportamenti, taluni importanti commentatori, taluni importanti giornali, taluni importanti «compagni», che, come pescecani resi cupidi dal sentore del sangue, si precipitano sulla grondante balena craxiana, fanno un certo senso. Quasi quasi preferiamo, e ci spingiamo all'estremo limite dell'orrore, i Giuliano Ferrara che si rifiutano di bacchettare la mano che hanno per anni giudiziosamente e minuziosamente leccato.

Bisogna però aggiungere che Craxi sta facendo di tutto per offrirsi ai suoi fiocinatori, vecchi e nuovi. Sembra preso da una sorta di «cupio dissolvi», dalla sindrome dell' Heautontimorumenos («il punitore di se stesso») della commedia di Terenzio. Non si può infatti immaginare nulla di più sgangherato dell'attacco che dalle colonne dell'«Avanti!» ha mosso al giudice Di Pietro. Quand'anche le sue accuse al magistrato milanese fossero state meno risibili di quelle che si son poi rivelate, che cosa poteva sperare di ottenere se non il dileggio? Persino Craxi dovrebbe sapere che l'ufficio del pubblico ministero (come del resto tutta l'amministrazione della giustizia) è impersonale. Se si dimostrasse che Di Pietro, o chi per lui, è, per qualsiasi ragione, indegno di condurre quelle indagini, egli verrebbe semplicemente sostituito da un altro magistrato che non potrebbe che proseguirle nella linea che la magistratura milanese nel suo complesso ha già tracciato sulla scorta di innumerevoli confessioni incrociate e di altrettanto indubitabili riscontri. Vabbè che Craxi, oltre al resto, è ignorantissimo di cose giuridiche, ma possibile che non gli sia rimasto nemmeno un consigliere fidato?

Come mai Craxi si comporta in questa maniera che è stata definita «sconsiderata» da qualcuno dei suoi stessi compagni di partito? Sono state avanzate ipotesi caratteriali, ma la cosa più probabile, se si vuole uscire dai manuali di psicopatologia, è che il leader socialista ritenga tuttora paganti il ricatto e l'intimidazione nei confronti della magistratura che ha utilizzato più volte, e con successo, in passato. Craxi è forse l'unico in Italia che non si è ben reso conto che, dopo il 5 aprile, certi metodi non sono più praticabili, perché il clima è radicalmente cambiato e lo è perché cambiata è la situazione oggettiva. Se prima infatti i partiti, consorziati di fatto in una gigantesca associazione a delinquere, potevano fare tutto quel che volevano, sicuri, per la mancanza di un'opposizione, dell'impunità e i loro leader potevano, con una dialettica da magliari, cambiar di continuo le carte in tavola, facendo passare per oppressi gli oppressori, e viceversa, senza che nessuno desse loro l'altolà, adesso in questa sorta di circolo chiuso e vizioso si è aperta una breccia con l'affermazione della Lega e di altre forze estranee e ribelli all'ancien régime. E invece Craxi crede ancora di essere un contemporaneo dell'Urss di Breznev, non si è accorto che anche in Italia è arrivato l'89.

Anche gli altri però non sono immuni da qualche errore. Male ha fatto la stampa a personalizzare, secondo un inveterato costume nostrano, l'inchiesta nel nome di Di Pietro. Dimenticare che un'inchiesta giudiziaria è tale a prescindere da chi la conduce significa appunto dare esca a manovre del tipo di quella messa in atto da Craxi. Perché la persona di un giudice è sempre attaccabile, la sua funzione no.

E male fanno alcuni dei magistrati milanesi, come Colombo e Borrelli, quando, caricandosi di problemi politici e sociali che non gli competono, propongono una qualche sanatoria generale. I magistrati non hanno la disponibilità delle inchieste che conducono. Essi devono solo applicare la legge. E questo, e solo questo, ci attendiamo da loro.

«L'Europeo», Il Conformista, 11 settembre 1992

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Silvio Berlusconi e Giustina Putet


Non si era ancora spenta l'eco dei «farabutti» appioppato dal premier a chi nel Parlamento, nei giornali, nelle Tv non la pensa come lui o, peggio, lo critica, che Silvio Berlusconi, parlando a Milano dal palco della Festa della Libertà, ha scandito in un crescendo rossiniano: «Abbiamo un'opposizione che brucia le sagome dei nostri militari, che inneggia a "meno sei", che brucia la bandiera americana e la bandiera di Israele. Non accettiamo un'opposizione di questo tipo nel nostro paese. Vergogna! Vergogna! Vergogna!». Inutilmente in serata il portavoce Paolo Bonaiuti, intuendo che il premier aveva fatto abbondantemente pipì fuori dal vaso, ha cercato di spiegare che «Berlusconi ha voluto semplicemente deprecare alcune scritte vergognose da attribuire non ai partiti della sinistra parlamentare ma a frange estreme della sinistra extraparlamentare». Quelle parole, trasmesse in Tv, le hanno sentite tutti. E si riferivano all'opposizione. Ora, a parte il fatto che l'opposizione parlamentare ha sempre sostenuto, col voto, la missione italiana in Afghanistan — ma a questo punto diventa quasi un dettaglio — nessuno nella sinistra, parlamentare ma anche extraparlamentare, si è mai sognato di inneggiare alla morte dei soldati a Kabul. Le scritte oltraggiose sono comparse solo in alcuni, pochi, centri sociali. E poi cosa vuol dire quella frase «Non accettiamo un'opposizione di questo tipo nel nostro paese»? Che il premier si appresta forse a espellere in blocco l'opposizione dall'Italia, così come sta cercando di espellere, attraverso i suoi ministri e sottosegretari, dalla Rai-Tv i personaggi che non gli garbano (prerogativa che in nessun modo appartiene al governo) bollandoli insieme agli oppositori di sinistra come «elementi anti-italiani», espressione che ricorre ogni giorno anche sui suoi giornali e quanto mai sinistra perché ricorda le purghe staliniane contro gli «elementi oggettivamente antisovietici»?

Insomma un discorso così grave, pronunciato in un contesto già grave, che ha indotto il pur prudente, cauto, misurato Pier Ferdinando Casini, alieno per temperamento e formazione politica da atti clamorosi, a chiedere l'intervento del Quirinale e dei presidenti di Camera e Senato perché «il premier non può in alcun modo falsificare la realtà e ridicolizzare l'opposizione di questo paese che ha difeso e difende i militari italiani impegnati in missione di pace». E il capo dello Stato ha raccolto l'invito e ha difeso, una volta tanto, l'opposizione pur riuscendo, tortuosamente, a non nominare mai il premier.

Tutto risolto quindi? No. Perché il problema è fondamentalmente un altro. Ciò che ha impressionato nel discorso del premier, inframmezzato al solito con frizzi, lazzi e battute galanti alle signore, non è solo il contenuto ma il tono, violentissimo, isterico, delirante, un tono che sarebbe inquietante anche se Berlusconi, invece di attaccare i gangli stessi della democrazia, avesse parlato della marmellata.

Ciò che è in dubbio, bisogna pur avere il coraggio di affrontare questa questione, è la salute mentale del premier. Quel delirio di onnipotenza, che in passato ha permesso all'uomo di ottenere notevoli risultati (perché non si raggiunge nulla se non c'è un certo scarto fra i propri sogni e la realtà) è diventato ora patologico, devastante, incontenibile, distruttivo e autodistruttivo. «Mio marito è malato» disse qualche mese fa la moglie Veronica, lamentando che gli amici, o presunti tali, e i suoi sottopanza invece che aiutarlo a contenersi nei suoi deliri lo incoraggiassero, così come lo ha incoraggiato, osannandolo, l'altro giorno a Milano la folla dei suoi adoranti fan.

Temo che se nessuno dei suoi è in grado di far capire al premier che ha imboccato una brutta e ripidissima china, o se lui stesso non ritrova la propria piena lucidità, Silvio Berlusconi sia destinato a fare la fine di Giustina Putet (per chi ricorda Clochemerle, il boccaccesco romanzo di Chevallier). Farà cioè, prima o poi, qualcosa di così clamoroso da richiedere l'intervento della forza pubblica. Non per ragioni penali. Ma mentali.

www.massimofini.it, 30 settembre 2009

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Capitolo X
Sociologia di Berlusconi



Silvio Berlusconi è il prototipo dell' Ipermodernità o, se si preferisce, della Postmodernità. A differenza della borghesia d'antan non ha alle spalle una storia, tradizioni, cultura, ideologie, radici. Persino il suo cognome è impersonale, anonimo, come il suo aspetto fisico. Non ha valori che non siano quel liberismo che più che un'ideologia è un meccanismo, un attivismo, un fare per il fare. Quei pochi che professa pubblicamente, il cattolicesimo, la famiglia, sono blandi, edulcorati, all'acqua di rose, non lo impegnano e non lo implicano.

Essendo un sacco vuoto come lui stesso in un certo senso ha ammesso («A seconda di chi mi sta davanti mi faccio concavo o convesso») ognuno può metterci ciò che preferisce. Non per nulla in Forza Italia, il suo partito primigenio, come nella vecchia Dc, e più che nella vecchia Dc, è entrato di tutto e il contrario di tutto.

La sua mancanza di radici è segnata emblematicamente dai suoi primi studi televisivi collocati in luoghi (Milano Due, Cologno Monzese) che non hanno storia, tradizione, passato. Stanno lì ma potrebbero essere ovunque. Lui stesso non ha un habitat. Sta dappertutto e da nessuna parte. Sta nell'etere. Tanto è vero che a Milano e in Lombardia la presenza di Berlusconi, nonostante l'importanza e la possa del personaggio, non si avverte minimamente, a differenza della vecchia borghesia meneghina, dei Pirelli, dei Borletti, dei Falck, dei Crespi, dei Brion che davano un tono alla città e che oggi appartengono al trapassato. Berlusconi non ha alcun legame con Milano, la milanesità, la Lombardia. C'è voluto l'attentato di Tartaglia, col lancio di quel simulacro di Duomo, perché Berlusconi lamentasse di essere stato colpito «proprio nella mia città». Ma Milano non è più, o meno, «sua» di qualsiasi altro luogo del paese. Ufficialmente abita ad Arcore, in Brianza, ma raramente ho visto un uomo così fuori posto come Berlusconi nella settecentesca villa dei Casati Stampa impreziosita dai dipinti del più lombardo dei pittori, Bernardino Luini. Gli è decisamente più consona l'imperiale, moderna, avveniristica e kitsch Villa Certosa.

È questa totale mancanza di passato che dà a Berlusconi le mani libere e un grande vantaggio sui suoi avversari politici, laici e cattolici che, per quanto annacquati, devono tenere conto in qualche misura di una storia, di una tradizione, di un retaggio.

Berlusconi, anche se molti lo scambiano per tale chiamando i suoi avversari «progressisti», è tutto fuorché un conservatore. È, al contrario, un innovatore. Un costruttore. E come ogni costruttore dove passa distrugge tutto ciò che c'era prima. È avvenuto nell'edilizia, nel calcio, in politica. Peccato che tutto ciò che crea sia peggio di quel che distrugge. Ma non è tutta colpa sua. È il destino dell'uomo moderno.

Dotato di una straordinaria energia Berlusconi si esaurisce in un puro fare. Ed è perennemente insoddisfatto. Essendo una specie di avamposto della Modernità incontra l'ostilità delle leadership, soprattutto intellettuali ma non solo, ancora legate ai vecchi schemi. È stato, lasciamo perdere per una volta il come, un grande imprenditore ma non è mai veramente entrato, finché è esistito, nel «salotto buono» della finanza (Cuccia e dintorni) dov'era guardato con grande diffidenza. E ora che, sbaragliati gli avversari, il «salotto buono» è lui, non è più buono. Pur avendo avuto in politica il successo che ha avuto non è mai stato, almeno a livello internazionale, preso sul serio. Una macchietta, «il buffone d'Europa» come titolava la scorsa estate una copertina dell'«Express».

Ma le ragioni della sua infelicità vanno al di là di questi mancati riconoscimenti (che provvede a darsi da sé) e sono molto più profonde. Come molti uomini del nostro tempo, che rappresenta al massimo grado, non può mai raggiungere un momento di equilibrio, di armonia, di pace con se stesso. Colto un obiettivo deve immediatamente inseguirne un altro, salito un gradino farne un altro e poi un altro ancora e così all'infinito. Nulla lo appaga. In Berlusconi questo meccanismo, psichiatricamente paranoico, della perfetta infelicità, tipico della nostra epoca, raggiunge livelli parossistici. Diventasse anche l'uomo più importante del mondo gli mancherebbe ancora qualcosa. Il suo abbietto ed evidente terrore della morte, benché sia un uomo tutt'altro che privo di coraggio, la sua patetica e infantile illusione di arrivare, almeno, ai cent'anni, il desiderio folle d'immortalità, che è anch'esso un sintomo dell'epoca, derivano dal fatto che il suo delirio narcisistico si rifiuta di prendere in considerazione una fine che porrebbe termine ai suoi sogni illimitati e toglierebbe senso a una vita che non ne ha mai avuto uno. Che, nonostante tutto il suo potere e i suoi quattrini, non è mai riuscito a godersi, se non, forse, in questi ultimi, stanchi, giorni del declino e proprio perché è il declino e che peraltro smascherano crudamente tutta la solitudine dell'uomo.

Anni fa partecipava a un G8 che si teneva in un'isola greca. Si affacciò un momento a uno splendido belvedere, ma girò immediatamente le spalle, risucchiato dal suo demone, il fare per il fare, che non consente sosta, contemplazione, riflessione. Se si ferma è perduto. Se solo per un attimo si guarda allo specchio è spacciato. Ma, probabilmente, non lo farà mai. E questa è la sua vera, unica, invidiabile fortuna.

marzo 2010

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