Copertina
Autore Massimo Fini
Titolo Ragazzo
SottotitoloStoria di una vecchiaia
EdizioneMarsilio, Venezia, 2007, i nodi , pag. 112, cop.ril.sov., dim. 14x22x1,3 cm , Isbn 978-88-317-9273-8
LettoreLuca Vita, 2007
Classe biografie , salute
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Indice


 11 Introduzione brevissima

 13 Ragazzo

 19 Puer aeternus

 41 Senex

 89 «La terza età»



 

 

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Pagina 13

Ragazzo



Ragazzo. Che meravigliosa parola. Essere un ragazzo. Avere vent'anni. «Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita», la frase a effetto con cui Paul Nizan apre il suo Aden Arabia è una sciocchezza d'autore.

Sono stati scritti un'infinità di saggi sulla vecchiaia, dal celeberrimo De senectute di Cicerone al recentissimo Memorie di un vecchio felice. Elogio della tarda età di Pietro Ottone, e tutti, salvo rarissime eccezioni, tendono, in un'orgia di retorica, di ipocrisie e di rimozioni, a darne un'immagine edulcorata, accattivante o, quantomeno, a giustificarla, a fornirle un senso e uno scopo, a farsene una ragione. Non esistono invece saggi sulla giovinezza. Per la semplice ragione che la giovinezza non ha bisogno di essere giustificata, né di farsene una ragione, né di darsi uno scopo e un senso, o anche un non-senso, che non siano quelli della vita stessa. Perché la giovinezza è la vita, la vecchiaia già l'ombra della morte.

Lo stesso Cicerone si smaschera da solo quando scrive: «È una vecchiaia infelice quella costretta a cercare argomenti per difendersi». E tutto il suo libricino è una patetica arringa per perorarne la causa. E così Ottone. Nessuno scriverebbe mai «Memorie di un giovane felice». Perché non è un titolo. Non fa notizia, come il cane che morde l'uomo. Non sorprende.

I Latini, che erano meno ipocriti di noi, più concreti e meno abituati a mentirsi addosso, parlano di atra senectus, cupa vecchiaia. E atra vuol dire anche funesta, triste, fosca, oscura, nera. E buia. La vecchiaia è soprattutto buia. Si abbassano tutti gli orizzonti. Si fa sera. Cala la notte e non ci sarà una nuova alba.

Senectus ipsa est morbus (Terenzio): la vecchiaia è in sé una malattia dicevano ancora i Latini. Ma mentre da una malattia, anche la più grave, si può sempre sperare di guarire, dalla vecchiaia no. E infatti Seneca, correggendo Terenzio, aggiunge enim insanabilis morbus est, in verità è una malattia insanabile. È un decadere inesorabile. È come un grafico di Borsa quando tira l'Orso: ci può essere qualche picco apparentemente all'insù ma in una linea che non fa che scendere. Lasciato un gradino si sa che non lo si risalirà più. E la scala va giù, sempre più giù.

A nessuno, in nessuna epoca della Storia, è mai piaciuto invecchiare, benché nelle società premoderne il vecchio avesse almeno la compensazione di godere di un naturale prestigio. Ma noi, anche per le buone ragioni che diremo più avanti, abbiamo, al di là delle retoriche di rito, un autentico orrore della vecchiaia. Tanto che non osiamo più nemmeno nominarla. La chiamiamo «la terza età» (siamo arrivati anche alle iperboli della «quarta età»). E continuiamo a spostarne in avanti l'inizio. A rigore non dovrebbero più esserci vecchi, tanto abbiamo portato in là questo inizio. Secondo un recente sondaggio l'85% degli ottantenni rifiuta di considerarsi vecchio. E un savonese di quell'età mi ha detto, stupito: «Nu capisciu. Una vota ghean tanti vegi» (Non capisco. Una volta si vedevano in giro tanti vecchi). Evidentemente pensava che fossero tali solo quelli più anziani di lui e faceva una certa fatica a trovarne.

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In termini più generali, è però anche vero che esperienza è il nome elegante che noi diamo alla perdita di curiosità, che è uno dei drammi e dei segni più inequivocabili della vecchiaia. Tutto appare lontano, lontano. Indifferente. Sfocato in un mondo di ombre. Ma le ombre siamo noi. Ombre di noi stessi. Gli altri, bene o male, stanno vivendo.

Da vecchi si ha molto 'tempo libero'. In genere non si lavora più, si hanno meno impegni, si dorme pochissimo. Un amico di mio padre, che era stato direttore di banca e uomo assai attivo, mi raccontava lo strazio di svegliarsi alle quattro del mattino e di avere davanti questa giornata sterminata di cui pur si deve fare qualcosa. Aspettava in qualche modo le otto, l'orario di apertura delle biblioteche, e poi si precipitava alla Nazionale di Roma dove abitava.

Ma nemmeno queste brevi notti sono tranquille. Se si fa un bel sogno il risveglio è amaro. Se è brutto è un incubo. Spesso sono dei dormiveglia e ci si gira e rigira nel letto alla ricerca di qualche buona ragione per non tormentarsi. Ma non la si trova. Doloroso il ricordo del passato, noioso il presente, cupo il futuro. Ma forse il momento peggiore è quando ci si corica. Se durante il giorno siamo riusciti in qualche maniera a distrarci da noi stessi, in quel momento l'occhio alle nostre spalle, che non ci molla e sempre ci osserva, e non inganna, vede quel che deve vedere; un vecchio che va a letto, solo.

Con tanto tempo a disposizione, da vecchi si può leggere, si può andar per mostre, si possono fare insomma molte di quelle cose che nella giovinezza e nella maturità, occupati nella vita, non si aveva il tempo di fare. Ma tutto ciò ha perso il suo senso. Si impara per impiegare in qualche modo la propria conoscenza. Quella del vecchio è a fondo perduto, come di chi componga, disfi e ridisfi continuamente un puzzle. Eppure, poiché sente che il tempo stringe, gli monta una sorta di ossessione, alla Bouvard e Pecuchet, di conoscenza onnivora; vuol leggere tutto, vedere tutto, impadronirsi di tecniche e di scienze di cui non gli è mai importato nulla e, di fatto, continua a non importargli nulla.

«Quest'anno mi sono fatto il Nepal». Non è amore di conoscenza, è una nevrosi catalogatoria, da album di figurine di collezionisti bambini. È mettere una tacca su un coltello che ha perso il filo e non serve più. Non è un piacere ma un dovere, una faticaccia consumata sui pullmann dei tour operator specializzati nella «terza età» o su traghetti carontei, più infernali di quelli dei boat people alimentati almeno dalla speranza, dove ogni tanto qualcuno si accascia e muore.

Eppoi in questi tour c'è anche il fastidio di dover stare fra vecchi, e i vecchi, in linea di massima, detestano la compagnia di chiunque ma su tutto non sopportano gli altri vecchi. «Un mondo popolato in maggioranza da vecchi mi farebbe orrore» disse lo psicologo Cesare Musatti quando aveva novant'anni ed era quindi al di là di ogni sospetto. Che sia solo o in compagnia, che si muova o stia fermo, il vecchio non ha scampo. È un uomo braccato. Sta aspettando solo la morte. E lo sa. E disperdere i pochi giorni o anni che gli restano in attività ormai prive di senso e di direzione, tanto per «ammazzare il tempo», lo frustra profondamente. Passano, inutili, i giorni, uno dopo l'altro, e intanto il tuo cuore già stanco batte e si logora. E ti monta una rabbia, un furore impotente perché stai sprecando gli ultimi sgoccioli della tua vita ma non puoi fare diversamente. Non si può «ammazzare il tempo». È il tempo che ammazza noi.

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La generazione del Sessantotto – se parliamo di europei occidentali – non ha vissuto, in seguito, nessun evento collettivo fondante che le abbia consentito di maturare e di crescere. Quando compii quarantacinque anni (sono del 1944) mi venne spontaneo fare un confronto con quanto mio padre, che era del 1901, e la sua generazione avevano vissuto nello stesso arco di tempo. Mio padre aveva attraversato il conflitto '15-18, il fascismo, la seconda guerra mondiale, il crollo del regime, la Resistenza e la Repubblica di Salò, la caduta della monarchia, il ritorno della democrazia. Per me, in quarantacinque anni, è cambiato tutto, ma non è successo niente. Nella vita di mio padre è avvenuto esattamente l'opposto: è successo di tutto, ma non è cambiato niente. Intendo dire che il mondo valoriale della generazione di mio padre, pur attraversando i drammi e i traumi della prima metà del Novecento, era rimasto per mezzo secolo sostanzialmente immutato. Erano ancora i valori dell'Ottocento. E anche nella vita quotidiana non c'erano stati questi grandi mutamenti (la sola innovazione che si era diffusa in tutta la società era stata la luce elettrica, il telefono già molto meno). Nel mio mezzo secolo la vita quotidiana ha conosciuto una trasformazione radicale in virtù dei formidabili cambiamenti tecnologici (si pensi solo all'automobile e all'aereo come mezzi di trasporto di massa, alla tv, agli elettrodomestici, al computer) che hanno finito per incidere profondamente anche il terreno etico e mutare i valori di riferimento. Ma questi avvenimenti io li ho solo subiti. Mio padre è stato, in qualche modo, parte attiva della sua storia, io no. La guerra è una prova (secondo Norman Mailer addirittura la prova suprema), una misura di se stessi. Sia che si combatta sia che si faccia parte della popolazione civile la nostra vita dipende, in larga misura, da noi, dal nostro coraggio, dal nostro sangue freddo, dalla nostra astuzia, dalla nostra capacità di sbrigarcela, dalla nostra paura, dalla nostra viltà, dalle nostre scelte. A un regime dittatoriale bisogna dire sì o no. Ma non si può dire sì o no alla televisione. La televisione, come tutte le altre grandi innovazioni tecnologiche che hanno una diffusione di massa, si insinua prepotentemente nella nostra vita, la modifica in modo profondo insieme ai suoi valori, senza che noi in questo processo, che pur è collettivo, si abbia alcuna parte se non del tutta passiva.

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