Copertina
Autore Massimi Fini
Titolo Il Ribelle
Sottotitolodalla A alla Z
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006, i nodi , pag. 298, cop.ril.sov., dim. 140x220x28 mm , Isbn 978-88-317-8921-9
LettoreLuca Vita, 2006
Classe sociologia , politica , filosofia , costume , relativismo-assolutismo
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Indice


    IL RIBELLE

 15 Prefazione breve
 17 Relativismo culturale

    A

 26 Antropocentrismo
 29 Antropomorfismo
 29 Assicurazione
 29 Autarchia
 31 Azande

    B

 36 Buddismo
 38 Bullshit
 39 Bush (George W.)

    C

 41 Calipari (Nicola)
 41 Cannibali
 42 Capitalismo
 43 Cardarelli (Vincenzo)
 43 Cicale
 43 Cina
 43 Cina (vicina)
 44 Consenso
 44 Conservatore (Il)
 45 Croce (Benedetto)

    [...]


    S

222 Sessi
222 Shampoo
222 Silenzio
222 Sogni
223 Sogni (e controspecchi)
225 Solitudine
226 Storie (di famiglia)
230 Storie (dí famiglia) (II)
231 Sviluppo (sostenibile)

    T

234 Tecnica (la questione della)
240 Tumore (dell'Universo)
242 TV

    U

249 Uncle (zio)
249 Undici settembre

    V

252 Valori
252 Vecchi
252 Vecchiaia
254 Vecchiaia (II)
254 Velocità
254 Velo (islamico)
257 25 Aprile
258 Vincitori
258 Vivere
258 Vizio oscuro dell'Occidente (Il)
261 Vizio speculare dell'Oriente (Il)

    W

268 Willer (Tex)
269 Wojtyla

    Y

275 Yemen

    Z

277 Zero

279 Bibliografia
289 Indice dei nomi

 

 

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Pagina 17

Relativismo culturale



La nozione di relativismo culturale, che viene spesso confusa con quella di relativismo morale, con la quale si apparenta ma non coincide (vedi Ratzinger ), si fa risalire all'antropologia culturale e in particolare alla speculazione di Claude Lévi-Strauss, singolare figura di filosofo, antropologo, linguista, strutturalista, attivo dagli anni Quaranta fin quasi ai nostri giorni. Ma in realtà, oltre ad avere dei precursori, sia pur occasionali e non sistematici, in alcuni autori del XVI, XVII e XVIII secolo, da Montaigne a Voltaíre, le sue fondamenta più direttamente filosofiche si trovano in Nietzsche quando il pensatore tedesco, agli albori di quella che viene chiamata «la cultura della crisi» (crisi del positivismo ottocentesco, del pensiero occidentale e delle sue certezze), avverte, poi seguito dall'empiriocriticismo di Mach e Avenarius, che non esiste la realtà ma solo le sue interpretazioni. Tesi confermata di recente anche da una scienza «esatta» come la fisica che ha dovuto ammettere che non ci sono certezze assolute né verità oggettive, ma che la conoscenza di ogni fenomeno dipende dal punto di vista dell'osservatore. Oswald Spengler, che forse troppo sbrigativamente Thomas Mann ha liquidato come «la scimmia astuta di Nietzsche», è stato il primo a trasferire questa concezione in campo sociale, politico ed etico affermando che tutti i principi morali e religiosi e tutti i valori hanno un significato solo nell'ambito e per la durata della civiltà che li ha elaborati e professati.

L'apporto di Lévi-Strauss sta nell'aver considerato ogni cultura come un sistema, con le sue compensazioni interne e i suoi contrappesi, un insieme di elementi logicamente coerenti e strettamente collegati fra loro per cui una qualsiasi modificazione di uno di essi comporta una modificazione di tutti gli altri. Ne consegue che non si può estrapolare o cancellare dalle culture «altre» gli aspetti che non ci piacciono – che è la pretesa omologante che domina oggi in Occidente – senza modificare profondamente tutto il sistema e, quasi sempre, farne crollare l'intera impalcatura. E questo è esattamente il motivo per cui ogni intrusione occidentale nelle società del Terzo Mondo e in quelle ancor più arcaiche e «primitive», anche la più onestamente filantropica (vedi Azande ), per non parlare delle altre, ha portato sconquassi inenarrabili, creato ibridi incoerenti e mostruosi e distrutto, di fatto, quelle società, quelle culture e quelle civiltà.

Ma Lévi-Strauss, e con lui tutta l'antropologia moderna, a partire dai fondamentali studi di Franz Boas, rifiuta anche quella forma dello storicismo che è l' evoluzionismo, secondo il quale le società, partendo dal semplice (o dall'apparentemente semplice) e andando verso il sempre più complesso, tenderebbero a un unico fine e a un unico modello al cui culmine c'è, naturalmente, il modello di sviluppo occidentale quale è oggi.

A parte il fatto che all'osservazione antropologica le civiltà cosiddette «primitive» dimostrano una straordinaria raffinatezza psicologica, una notevole complessità nell'organizzazione sociale (per esempio in tutto il complicato sistema dei rapporti di parentela e di scambio esogamico), ricchezza culturale (l'elaborazione dei miti, delle leggende e di cosmogonie che non hanno nulla da invidiare, anzi, a quelle di religioni ritenute più evolute) e, soprattutto, una capacità di comprensione intuitiva, immediata, diretta della realtà, scomparsa nel nostro mondo, la questione di fondo è tuttavia un'altra: è assurdo fare di una società «uno stadio dello sviluppo di un'altra società». Si tratta semplicemente di società diverse, che partono da presupposti diversi, ognuna delle quali sviluppa soltanto alcune delle potenzialità, e non altre, presenti nella natura umana. Quelle cosiddette tradizionali sono tendenzialmente statiche e privilegiano l'equilibrio e l'armonia a scapito dell'efficienza economica e tecnologica. Invece le «società calde», come le definisce Lévi-Strauss, a cui la nostra appartiene, sono dinamiche e scelgono l'efficienza e lo sviluppo economico a danno però dell'equilibrio, dato che «producono entropia, disordine, conflitti sociali e lotte politiche, tutte cose contro le quali... i primitivi si premuniscono e forse in modo più cosciente e sistematico di quanto non supponiamo».

Non esistono quindi «culture inferiori» e «culture superiori». Ci vuole una bella dose di egocentrismo e di ingenuità, scrive Lévi-Strauss, per credere che il proprio modo di vivere e di pensare sia il solo «umano» e che tutto ciò che ne sta al di fuori sia «barbarie». E aggiunge: «Il barbaro è innanzitutto l'uomo che crede nella barbarie».

La società occidentale non è barbara o più barbara di altre – a meno di non voler fare del razzismo al contrario e dell'evoluzionismo negativo – ma oggi è piena zeppa di «barbari», di uomini e donne che fan parte di quella vastissima e cupa compagnia cantante la superiorità della nostra cultura e del nostro modello di sviluppo, gente con la verità in tasca che crede seriamente e fermamente che il proprio punto di vista sia l'unico possibile, valido e accettabile e non è in grado di comprendere e nemmeno di concepire tutto ciò che è «altro da sé».

Eppure non dovrebbe essere poi così difficile da capire se, prima di Nietzsche, prima di Mach, prima di Avenarius, prima di Boas, prima di Lévi-Strauss e prima della fisica moderna, già Montaigne (1533-1592), all'epoca delle grandi esplorazioni transoceaniche e della scoperta dei «selvaggi», scriveva nei suoi Saggi, in un famoso capitolo intitolato I cannibali: «Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l'esempio e l'idea delle opinioni e degli usi del Paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l'uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi nello stesso modo che chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo; laddove in verità sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall'ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici». E in ogni caso i filosofi e i pensatori europei, in quel tempo di scoperte e di conquiste, si posero perlomeno il problema di come rapportarsi alle culture «diverse» e «altre», estranee alla storia della civiltà mediterranea, in un dibattito intenso e appassionato che da Montaigne in poi è andato avanti per due secoli, fino a quando l' Illuminismo assolutizzando la Ragione ha assolutizzato anche se stesso e il nostro mondo facendone l'unico punto di riferimento, «il migliore dei mondi possibili».

Oggi, com'è noto, rimossa la «cultura della crisi», come si rimuove un incubo che si preferirebbe non aver mai sognato, dimenticato Lévi-Strauss (considerato un mezzo eretico dall'ortodossia marxista arrogantemente egemone per quasi tutta la seconda metà del Novecento), e ignorando persino le conclusioni della scienza, che pur è uno dei pilastri del nostro mondo, la cultura largamente dominante in Occidente (soprattutto fra le élite politiche e intellettuali che hanno diritto di parola e accesso ai mass media, molto meno fra le popolazioni dove aleggiano da tempo, sia pur sottotraccia e senza la possibilità di esprimersi pubblicamente, i dubbi più angosciosi) è quella del più ottuso e cieco evoluzionismo, espresso emblematicamente da Francis Fukuyama – e dagli innumerevoli Fukuyama – secondo cui esisterebbe una Storia universale dell'umanità valida per tutte le civiltà, per tutte le culture, per tutti i popoli del mondo che sarebbero inevitabilmente e inesorabilmente condotti dalla ferrea logica di un disegno finalistico, deciso non si sa bene da chi, immanente e insieme trascendente (una sorta di ircocervo, un animale mostruoso e inesistente), verso «la Terra Promessa della Democrazia», della «diffusione di una cultura generale del consumo», del «capitalismo su base tecnologica». Cioè verso il modo di vita, economico, sociale, istituzionale, etico, e gli schemi mentali dell'Occidente.

Per il «relativista culturale» non esistono invece né sistemi, né morali, né religioni, né principi universali. Naturalmente, poiché non siamo fatti di ghiaccio, ma di sangue, di carne, di sensazioni, di emozioni e non osserviamo la realtà con la freddezza dell'entomologo e della sua lente, ma viviamo in società concrete, anche il «relativista» ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente le sue, non una verità oggettiva valida anche per gli altri o addirittura per tutti.

Per quanto mi riguarda, se l'aspirazione dell'essere umano è di raggiungere non dico la felicità, parola proibita che gli americani hanno avuto l'imprudenza di includere nella loro Dichiarazione di Indipendenza, ma una certa serenità, mi pare più astuta, quantomeno dal punto di vista psicologico e della tenuta nervosa, una società che ricerca l'equilibrio in ciò che c'è già e dove ci si accontenta di quello che si ha, piuttosto di una come la nostra dove, come dico nel mio Cyrano, se vi pare..., tutto il meccanismo economico e produttivo e l'intero sistema spingono, con una coerenza ferrea e quasi omicida, «all'inseguimento inesausto di un futuro orgiastico, che pare sempre lì lì per essere colto, e che invece arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo», provocando così nell'individuo, nell'uomo concreto che questa società deve viverla, frustrazione, angoscia, anomia, nevrosi, depressione e, soprattutto, una formidabile perdita di senso (vedi Globalizzazione/Modello paranoico ).

Se non esiste una morale universale, né tantomeno la certezza di un Dio, ciò significa che il «relativista» è necessariamente un amorale o, peggio, un immorale come sembra pensare Papa Ratzinger, confondendo peraltro il relativismo culturale col relativismo morale? Per nulla. Il fatto che rispetti i valori di culture diverse dalla sua, anche quando gli paiono aberranti, e finché rimangono all'interno di quelle culture e non pretendono di prevaricarne altre, non vuol dire che non ne abbia dei propri. Possono essere quelli dominanti nella società cui appartiene oppure, se questi valori non lo convincono, non lo riguardano, non sono i suoi, li sente eterodiretti o ipocriti o fasulli, si apre allora per lui la strada tracciata da Nietzsche in Al di là del bene e del male: si creerà da sé la propria tavola di valori. Ma questa posizione lungi dall'essere un cinico disimpegno o un'autorizzazione a fare ciò che più ci pare e piace è, al contrario, una tremenda e prometeica assunzione di responsabilità. Perché costui — e non la famiglia, la società, i vicini, le cattive compagnie o «n'imporre que» — è individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le conseguenze davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni. Senza scuse. Senza sconti, perché quello che ha assunto è un impegno con se stesso e verso se stesso. Questo tipo d'uomo è il Ribelle.

In tale ottica anche un criminale può essere un uomo morale, se rimane fedele ai codici che si è dato. Immorali sono invece quei bonshommes, quelle brave persone, quei puri gigli di campo che affettano pubblicamente di onorare i valori comuni alla loro società (magari considerandoli "universali"), cui sono soliti obbligare gli altri, scandalizzandosi e indignandosi se non lo fanno, e che poi li tradiscono quotidianamente sottobanco. Sono gli uomini dalla «doppia morale», una pubblica, buona per i gonzi che ci vogliono credere o per coloro che, senza essere gonzi, per un intimo sentimento di lealtà nei confronti dei propri concittadini, non intendevano violarla (vedi Poker ), e una tacita, nascosta, e del tutto contraria, valida solo per loro e i loro simili che, sentendosi straordinariamente intelligenti, han capito, o credono di aver capito, come vanno le cose del mondo.

Sono quel fior fiore della società che Sartre, nella Nausea, facendo visitare al suo protagonista, Antonio Roquentin, il museo di Bouville, dove sono raccolti i ritratti degli uomini più rispettabili e commendevoli della città, alla fine di un lungo e memorabile capitolo, definisce con una sola parola: «Sporcaccioni».

Di questi uomini sleali, di queste femmine della morale, è piena la nostra società complessa dove i comportamenti degli individui sono difficilmente controllabili e verificabili e altrettanto facilmente mistificabili e che ha quindi completamente perduto alcuni valori, relativi anch'essi, naturalmente, ma indispensabili per poter vivere insieme, che erano invece fondamentali non solo fra i popoli «primitivi» (per i quali l'onta massima è «perdere la faccia»), ma anche presso ogni comunità ristretta, di ridotte dimensioni, semplice, come il villaggio preindustriale e premoderno, dove ognuno conosceva tutti ed era da tutti conosciuto e barare al gioco della vita era impossibile o molto difficile. Questi valori si possono riassumere in uno solo. Si chiama dignità.

Quel che si è detto per gli individui vale anche per le società e i regimi. Tutti i sistemi di governo, oltre che relativi, sono illegittimi (sono solo, quando lo sono, legali, che è cosa diversa), perché poggiano su un punto di partenza necessariamente arbitrario, ma possono essere più o meno tollerabili a seconda che, come l'individuo singolo, rispettino le premesse e i postulati su cui si sostengono o dicono di farlo. Se, sottobanco, stravolgono o addirittura capovolgono queste premesse e questi postulati, allora siamo alla frode in grande stile. E questa è la storia della democrazia moderna, rappresentativa, della «democrazia reale» e, insomma, della democrazia che oggi governa in Occidente in attesa di imporsi definitivamente anche nel resto del vasto mondo.

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Pagina 102

Guerra & commercio Benjamin Constant scriveva nel 1819: «È l'esperienza che provandogli, al popolo, che la guerra, cioè l'impiego della sua forza, contro la forza altrui, lo espone a varie resistenze e a vari insuccessi, lo induce a ricorrere al commercio, cioè a un mezzo più dolce e più sicuro per impegnare l'interesse di un altro ad acconsentire a ciò che conviene al suo interesse. La guerra è l'impulso, il commercio è il calcolo. Ma per ciò stesso deve venire un'epoca in cui il commercio sostituirà la guerra».

L'ottimismo primottocentesco e positivista di Constant sarebbe stato clamorosamente smentito dal Novecento con due guerre mondiali combattute proprio dai Paesi più dediti al commercio internazionale.

Oggi, accanto a spietate guerre commerciali fra Stati e fra multinazionali che mettono alla fame milioni di uomini, restano le guerre combattute con le armi – armi devastanti – proprio per ragioni commerciali ed economiche, per assicurarsi le fonti di energia (le guerre all'Iraq, alla Cecenia e, in parte, anche all'Afghanistan, sono questo). Il calcolo non ha eliminato le ragioni della guerra, gliene ha offerta qualcuna in più. Per millenni le guerre si sono fatte certamente per interessi economici, ma anche per questioni di prestigio, per spirito d'avventura e di conquista o per ragioni ideologiche. Oggi rimangono quasi esclusivamente le guerre «per calcolo» (magari mascherate ipocritamente, con qualche alto ideale) che, di tutte, sono le più tristi e squallide perché non hanno alle spalle nemmeno una passione umana.

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Pagina 103

Guerriglia e Terrorismo Suscitò sconcerto, indignazione, scandalo e un subisso di critiche, un anno fa, la sentenza del giudice milanese Giuseppina Forleo che, pur avendo riconosciuto che un gruppo di islamici reclutava in Italia guerriglieri da mandare a combattere in Iraq, li ha assolti dall'accusa di terrorismo.

Si tratta invece di una sentenza, peraltro poi confermata in Corte d'Appello, di grande rilievo, perché traccia in modo nitido, giuridicamente e logicamente ineccepibile, i confini fra guerriglia e terrorismo, una distinzione che è diventata di capitale importanza in un'epoca in cui, per l'enorme disparità militare e tecnologica delle forze in campo, molte guerre non possono essere combattute, dalla parte più debole, che con le modalità della guerriglia o del terrorismo, due forme di violenza contigue ma qualitativamente assai diverse e sulle quali si fa spesso una voluta confusione.

«Condannare come terrorismo ogni guerriglia violenta – afferma il giudice – significherebbe negare l'elementare diritto di resistenza all'occupazione di truppe straniere» e quello all'autodeterminazione dei popoli solennemente sancito a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo. «È guerriglia – prosegue la sentenza – quando l'attacco violento è indirizzato su obbiettivi militari, è terrorismo quando colpisce indiscriminatamente militari e civili».

Fin qui la sentenza. Io andrei più in là, comprendendo nella guerriglia anche gli atti violenti che avendo principalmente obbiettivi militari coinvolgono civili. Altrimenti dovrebbero essere condannati i militari americani ogni volta che i loro «missili chirurgici» provocano i devastanti «effetti collaterali» che conosciamo. Ed è la tesi che ha poi sostenuto la Corte d'Appello di Milano modificando, su questo punto, la sentenza Forleo.

In riferimento alla situazione irachena qualcuno ha obiettato che gli angloamericani e gli italiani non si considerano forze di occupazione bensì di liberazione. Ma questa è una convinzione di parte, non una valutazione giuridica. Sarebbe troppo comodo, e in definitiva privo di senso giuridico, se spettasse alle parti in causa decidere qual è la loro posizione. Tutte le truppe occupanti possono trovare ottimi pretesti per considerarsi «liberatrici». Bisogna vedere che cosa ne pensano i «liberati».

A me pare che la sentenza della Forleo e della Corte d'Appello milanese restituiscano il suo posto alla guerra, i cui atti non possono essere giudicati col metro del diritto vigente in tempo di pace (altrimenti tutti i combattenti sono degli assassini, potenziali o reali), allo ius belli e al concetto schmittiano di iustus hostis per cui il nemico è il nemico ed è quindi legittimo ucciderlo, ma non è necessariamente un criminale, che è invece la linea americana da Norimberga fino a Guantanamo passando per Milosevic. A meno che non si voglia sostenere la tesi che la guerra è tale solo quando la facciamo noi, mentre quando la fanno gli altri contro di noi è sempre e solo terrorismo.

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Pagina 105

Guevara (Ernesto «Che») La prima volta che seppi di Guevara fu nel '56, o nel '52, non ricordo bene. A quell'epoca Guevara non era ancora un'icona della sinistra (il Sessantotto era di là da venire), tanto che il mio «incontro» con il «Che» avvenne sulle pagine di «Gente», il settimanale di Edilio Rusconi che di tutto poteva essere sospettato tranne che di pruriti rivoluzionari.

Scartabellando nella mazzetta dei giornali che mio padre, direttore del «Corriere Lombardo», portava ogni giorno a casa, trovai questo servizio fotografico sul rivoluzionario cubano. Mi ricordo in particolare un'immagine di Guevara a torso nudo, sdraiato mollemente su un fianco sopra un lettino da campo. La mia fantasia di adolescente fu colpita dalla straordinaria bellezza dell'uomo. Nelle didascalie si raccontava di questo giovane medico argentino che, con altri ribelli, era sbarcato nella Cuba di Batista per combattere per la libertà di un Paese non suo. Il settimanale di Rusconi gli dimostrava una certa simpatia. Lo interpretava come un eroe romantico, un «cavaliere dell'ideale», in fondo innocuo. In quegli anni il mondo non era ancora integrato, «globale», come oggi, e quello che avveniva nella lontana Cuba poteva essere considerato con un certo distacco dai conservatori di casa nostra.

Il Sessantotto cambiò radicalmente la prospettiva. Guevara, che nel frattempo era andato a morire in Bolivia per un'altra causa non sua, abbandonando dopo pochi anni i comodi agi del potere appena conquistato (L'Avana era caduta nelle mani dei «castristi» il 2 gennaio del 1959), divenne il simbolo stesso della Rivoluzione, più di Lenin, più di Mao, più di Stalin. Ernesto Guevara, divenuto definitivamente «il Che», fu il mito della generazione che aveva vent'anni nel Sessantotto, almeno della sua componente libertaria. Perché piaceva tanto, perché piaceva più di tutti? Perché «il Che», con i suoi ideali, col suo agire totalmente disinteressato, nobilitava e mascherava alcune inconfessabili pulsioni della mia generazione: la voglia di violenza, la voglia di guerra. La nostra infatti era la prima generazione che non aveva fatto la guerra e che non l'aveva nemmeno vissuta. Era la prima generazione per la quale la guerra, a causa della bomba atomica, era diventata tabù, l'innominabile. Ma anche i giovani del Sessantotto, come sempre i giovani, avevano voglia di menar le mani. E rimpiangevano la guerra, anche se non osavano confessarlo nemmeno a se stessi. E «il Che» legittimava se non la guerra perlomeno la guerriglia, se non le armi almeno i bastoni, i cubetti di porfido, le molotov (parlo per la generazione, non per me, io abbandonai il Sessantotto dopo la sua prima fase libertaria, che durò tre mesi, quando vidi che si era presa l'abitudine di sprangare dieci contro uno chi la pensava diversamente, una forma di slealtà intollerabile che mi pareva non c'entrasse niente con la Rivoluzione, tantomeno con Guevara).

Se «incontrava» nella sinistra extraparlamentare, Ernesto «Che» Guevara piaceva molto meno a quella ortodossa. I comunisti italiani gli rimproveravano una certa vaghezza e fumisteria ideologica (mi ricordo in proposito alcuni sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola) e, soprattutto, che avesse abbandonato il potere. Al positivismo marxista la romantica rinuncia di Guevara pareva inconcepibile, blasfema, un segno di debolezza di carattere. Se si ha il potere, si ha il dovere di usarlo. Senza contare poi che Guevara, con quel passare da una rivoluzione all'altra (prima di Cuba ci aveva già provato nel 1953, giovanissimo, in Guatemala), sembrava incarnare un po' troppo da vicino quella «Rivoluzione permanente» teorizzata da Leone Trotzkij che allora era off limits per i comunisti che, nonostante il rapporto Kruscev del 1956, rimanevano profondamente, intimamente e inguaribilmente stalinisti.

Dopo il Sessantotto il mito di Guevara conobbe una certa eclissi. I comunisti continuavano a guardarlo, e non a torto dal loro punto di vista, con diffidenza, gli ex contestatori, invecchiati, inseritisi nell'un tempo odiato «sistema», divenuti manager, imprenditori, direttori di giornale, conduttori televisivi, passati spesso alla destra, lo avevano relegato fra le debolezze di gioventù, preferendo rimuovere quella loro imbarazzante infatuazione.

Verso la fine degli anni Ottanta, in occasione del ventennale della morte, Guevara fu oggetto di un inaspettato revival da parte della destra o, per essere più precisi, di quella che allora si chiamava la «nuova destra» o «destra radicale». Inaspettato, ma non ingiustificato. Solo in superficie infatti Guevara è un uomo di sinistra, in realtà, con il suo ardore per l'azione, è un dannunziano, un bayroniano, un esteta, un Oscar Wilde delle armi, un dandy della Rivoluzione. È stato l'ultima incarnazione del mito dell'eroe romantico.

Oggi, assorbita anche la «nuova destra» dal potere, appecoronatasi definitivamente la sinistra ai dettami del «nuovo ordine mondiale» americano, alle leggi del mercato e della «libera intrapresa», Guevara resiste come prodotto puramente consumistico (i gadget, le magliette, i berretti, i tatuaggi), in virtù dell'enorme capacità del sistema produttivo di inglobare e far proprio anche ciò che gli è più antitetico risputandolo fuori come business. Cosa che sta agli antipodi dell'idealismo, un po' ingenuo, del «Che».

Di recente è stato coinvolto in una polemica sgradevole fra gli scrittori latino-americani Vargas Llosa e Sepulveda, per gli atti di spietatezza cui anche Guevara fu costretto nella sua attività di guerrigliero. La rivoluzione, come la guerra, si sa, non è una festa da ballo. Chi rischia la vita sul campo, lealmente, ha diritto a una certa durezza. «Le idee in nome delle quali si versa il sangue, proprio e altrui – dice Trotzkij – sono, proprio per questo fatto, degli assoluti e non si può trattarle come verità relative che possono essere disinvoltamente confrontate con le altre». E lo stesso Trotzkij, uomo di moralità integerrima, rivoluzionaria e personale, dovette soffocare nel sangue la rivolta dei marinai di Kronstadt, anarchici che pur sentiva vicini. Non si possono giudicare gli atti di guerra o di guerriglia con l'ipocrita «buonismo» di chi sta seduto in poltrona in tempo di pace (ipocrita perché poi basta che le nostre vite vengano messe a rischio, anche solo ipotetico, che si diventa ben più feroci di Guevara e di Trotzkij, come si è visto dopo l'11 settembre).

Comunque sia, per noi che fummo anarchici e libertari nella nostra giovinezza, e lo rimaniamo, «il Che» è un mito che non rinneghiamo. Perché, fosse di sinistra o di destra, o tutte e due le cose, o, più probabilmente, nessuna, «il Che» resta un esempio, pressoché unico nel mondo moderno, dominato dal cinismo, dalla realpolitik, dalla forza del denaro, dalla perdita di ogni valore, giusto o sbagliato o illusorio che sia, di un uomo che non solo ha combattuto il Potere, ma lo ha intimamente e sinceramente disprezzato al punto di aver la forza di abbandonarlo per inseguire, pagando con la vita, un sogno. Incarna, in modo assoluto, la figura commovente, perché eternamente perdente, del Ribelle. «Hasta la vista, comandante Che Guevara».

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