Copertina
Autore Sonia Fioravanti
CoautoreLeonardo Spina
Titolo Anime con il naso rosso
SottotitoloClown Dottori: conquiste e prospettive della gelotologia
EdizioneArmando, Roma, 2006 , pag. 224, cop.fle., dim. 16x24x1,5 cm , Isbn 978-88-8358-833-4
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe medicina , umorismo
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Indice

Ringraziamenti                                           7

Preludio                                                11

Introduzione                                            13

PARTE PRIMA: LA RISORSA TERAPEUTICA                     21

Capitolo 1: Il Paradigma della "valle di lacrime"       23
            1° Interludio

Capitolo 2: Noi siamo i guaritori di noi stessi         29
            2° Interludio

Capitolo 3: L'esplosiva energia vivificante del ridere  36
            3° Interludio

Capitolo 4: Il ridere come antidoto alla paura          41
            4° Interludio

Capitolo 5: Dalla Bibbia alla P.N.E.I: un po' di storia
            e nuove conoscenze                          49
            5° Interludio

Capitolo 6: La legge dell'allineamento                  55
            6° Interludio

Capitolo 7: Elogio dell'idiota                          64
            7° Interludio

Capitolo 8: Ridere sacro                                70
            8° Interludio

Capitolo 9: Dal teatro all'ospedale:
            l'evoluzione del clown                      79
            9° Interludio

Capitolo 10: I volontari del sorriso                    91


PARTE SECONDA: I CAMPI DI INTERVENTO DELLA GELOTOLOGIA  99

Capitolo 11: Umanizzare la sanità                      101

Capitolo 12: Ridere in pediatria                       106

Capitolo 13: L'esperienza del CPO -
             Centro Paraplegici di Ostia               129

Capitolo 14: Comicoterapia con l'H                     136

Capitolo 15: La scintilla del vivere. Comicoterapia con
             gli anziani sani e affetti da Alzheimer   150

Capitolo 16: Ridere a scuola                           158

Capitolo 17: L'aggiornamento delle professioni         166

Capitolo 18: Altre follie: sesso, carceri,
             sale d'aspetto...                         171

Capitolo 19: Le missioni umanitarie                    182

Capitolo 20: Homo Ridens e la terra del sorriso        193


Appendice                                              201
    O riso da terra declaration                        202
    I cibi del buonumore                               203
    Dizionarietto etimologico delle parole del ridere  205
    I 130 films per ridere e star bene                 206

Note                                                   211

Bibliografia                                           218

 

 

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Pagina 11

Preludio


Dal diario del dott. Semolino, Clown Dottore

Ancona, novembre 2004, Ospedale pediatrico Salesi

Stanza di degenza di G., bimbo di sei anni, ammalato di leucemia, in cura da molti mesi


G. lo conosco bene... Col suo faccione buffo, qualche lentiggine, i capelli castani che stanno ora ricrescendo. Un bimbo vivace, a volte assorto: la malattia li rende saggi, posati... oppure sembra farli crescere troppo in fretta.

Stamattina entro nella sua stanza, come tante altre volte: comprendo subito che c 'è qualcosa di brutto nell'aria.

La mia frase di saluto mi muore nell'anima.

Mi succede quando mi sento fuori posto, me ne devo andare? No, resto. G. mi ha visto sulla porta, guarda un po' me, un po' la mamma, poco l'infermiera S. china su di lui.

Resto immobile, fisso, rigido come un baccalà.

L'infermiera, S., una bassetta vispa e decisa, sta ultimando la misurazione dei parametri con l'apposito kit (ha già bucato il dito e la macchina sta elaborando i valori del sangue). Da questa analisi dipende l'eliminazione del catetere centrale venoso segno tangibile del miglioramento del piccolo e della fine della cura chemioterapica.

Mamma L. ci spera, scruta l'infermiera che legge i valori e si fa scura scura. So che vorrebbe mordersi la lingua piuttosto che dire quello che deve: "Mi spiace, signora, i valori non vanno bene, sono appena sotto al limite, ma non ci siamo... Non è il caso di togliere il catetere, ancora no... ".

Le lacrime di L. sono evidenti, anche se le vorrebbe ricacciare, ingoia, non sa come commentare.

G. la guarda, ci sperava, finalmente avrebbe potuto togliersi quel fastidio, e con lui il sospetto di dover ancora prendere "la brutta medicina ". Si fa scuro anche lui.

È un lampo, uno di quei momenti in cui il Padreterno ti tocca e ti spinge e ti illumina...

"Macchè... macché...". Sono entrato deciso, con la voce un po' chioccia... mi rivolgo all'infermiera: "...ma quando mai! È tutto da rifare! Glie l'ho detto mille volte, quando deve fare i test mi deve avvertire! Sono o non sono il primario? G., lo sanno tutti, è un bambino speciale, che si crede? È magico, ma io e lui lavoriamo assieme, sono io che attivo la sua magia... È proprio quello che faremo adesso!

Mentre parlo noto che S. è uscita dalla stanza, senza fretta ...Devo averla combinata grossa...


L'infermiera, la adoro!, sta al gioco, contro ogni evidenza va a prendere il necessario per rifare il test.

Mi avvicino a G, dribblo la madre che un po'sorride, un po' è interdetta ed il resto è lacrime... tiro fuori una delle conchiglie magiche che mi porto dietro. Con gesti amplificati la porgo al bambino, glie la faccio stringere in pugno pronuncio la formula magica di rito "puozzecagnàtratratratratratra tra tra tra!!!"... "Ora il potere del soffio magico è in te, sei tornato ad essere un maghetto e puoi fare un incantesimo... ti va?".

G annuisce e ride, perché nel frattempo, scostandomi da lui, creo un inciampo; l'infermiera rientra, tento un valzer con lei, ma è solo un accenno... Chissà che casino ho combinato!

S. è tornata e, fantastico!, ha portato una nuova cartina reagente... sta al gioco! E io che pensavo fosse arrabbiata!

Così ripete l'operazione, lo ribuca ri-controlla i parametri sulla macchina, mentre io fingo di disinteressarmi e faccio un po' capolino dietro di lei, attirando l'attenzione di G.

L'infermiera si volta, ha la faccia incredula, riguarda i valori... poi annuncia...

"Avevo sbagliato, eh sì, prima avevo sbagliato. I valori ora sono a posto... possiamo toglierlo, 'sto catetere! Bene!".

L. la guarda, come se avesse parlato in ostrogoto. Mi guarda... vado vicino al bimbo e la sparo là... "Come mago, sei proprio in gamba, mo' te lo leva!!".

L'infermiera armeggia sotto al pigiamino e toglie finalmente il tubicino.

S. esce in lacrime... io... io saluto festosamente, e scappo... vado a chiamare Pippi, G. non può mica vedermi piangere!.

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Pagina 29

Capitolo 2

Noi siamo i guaritori di noi stessi


                                            Chi ride bene, vive ultimo

                                                   Francesco S. 7 anni



Al leggere questa semplice locuzione le cortecce celebrali di alcuni medici, scienziati organicisti e scientisti inveterati subiranno certamente impreviste convulsioni di tipo escretivo: inorridiranno e chiuderanno con rabbia il loro canale cognitivo e certamente pure il libro: come?! La massaia con la colite, lo studente con la diarrea, l'anziano con il Parkinson, l'impiegata col morbo di Khron, il minatore con il cancro... possono autoguarirsi?

Stando agli studi della PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI) pare proprio di sì.

E, del resto, un segnale chiarissimo della presenza di un "guaritore interno" scienziati e medici l'hanno sempre avuto sotto gli occhi.

Hanno finto di non vederlo per secoli, poi lo hanno denominato "variabile di disturbo", poi lo hanno stramaledetto (perché non potevano ancora capirlo); alla fine questo segnale (anche sulla scorta delle medicine non convenzionali e di quelle orientali) è diventato così forte e chiaro che qualcuno, finalmente, ha cominciato a lavorarci su: l' effetto placebo (è questo il segnale), non ci appare più tanto incomprensibile...

Il misterioso salto dalla mente al corpo ha trovato qualche spiegazione, si è finalmente risposto a qualche interrogativo, eppure resta desolante il panorama applicativo di queste fondamentali scoperte...

Ma andiamo con ordine.


L'Effetto Placebo

Tutti i ricercatori sanno che negli esperimenti più rigorosi, quelli condotti con il metodo del doppio cieco, ci si imbatte sempre nel fattore della guarigione (o miglioramento) spontaneo: se si somministra dell'acqua fresca (...soluzione fisiologica) a dieci ammalati, convinti intimamente di prendere la giusta medicina per il loro malanno, state pur certi che tre o quattro persone guariranno o avranno sensibili miglioramenti (la percentuale, si calcola, è in genere molto più alta). Come mai? E perché gli scienziati si dannano, con l'idea della variabile di disturbo? E, tra coloro che invece della soluzione fisiologica hanno preso il farmaco in sperimentazione, quanti guariscono o stanno meglio per il medesimo effetto placebo e non per la molecola terapeutica contenuta nel farmaco? Non lo sapremo mai, e questo è un grosso limite alla sperimentazione.

Recentemente un alto dirigente della multinazionale farmaceutica Glaxo-SmithKline (GSK) ha ammesso che la percentuale di efficacia dei farmaci allopatici si aggira di media tra il 35 ed il 40%... Non è incredibile questo candore?

Il guarire mediante il placebo ha delle spiegazioni molto convincenti, semplici, che i ricercatori non possono prendere in considerazione convinti come sono (tutti in buona fede?) che solo il farmaco è in grado di sconfiggere una patologia.

Nel processo di cura (come nell'assunzione di una medicina) la componente delle emozioni del cosiddetto paziente è altissima; fiducia e speranza (potenti emozioni positive) operano questo piccolo miracolo: se egli prova fiducia nel medico che attua la somministrazione, oppure nella sostanza che assume, oppure nella struttura sanitaria dove si svolge la terapia, oppure ancora è credente e si affida a Dio, se la sua speranza è forte nell'investimento... insomma, se si fida... allora state certi che riuscirà a migliorare e guarire anche con l'acqua fresca.


Fa capolino l'amore

Dunque fiducia, fede (fides, in senso latino).

Ma è possibile provare fiducia solo se, nella storia personale (potremmo dire nell'anamnesi psico-sociale) si è vissuta l'esperienza di essere amati, se ci si è già fidati di qualcuno che non ci ha tradito. In questo senso i primissimi anni di vita, l'amore, il contatto, il calore, l'energia che riceviamo dai nostri genitori, dalla madre, in particolare, restano esperienza indelebile nella persona. State certi che chi è in grado di guarire grazie al placebo è persona che si è sentita amata.

E le persone che non hanno provato (o lo hanno fatto solo in parte) questa esperienza d'amore primordiale o non hanno compensato questa carenza?

Ovviamente hanno un sentimento di fiducia meno sviluppato, tenderanno a lasciarsi andare di meno, a considerare il mondo con più diffidenza e paura. Paure che hanno sviluppato nei momenti di abbandono (o presunto tale).

Nei rapporti d'amore avranno qualche difficoltà in più; attenzione, niente che non si possa recuperare: è possibile vivere esperienze compensative ma certo occorre uno sforzo supplementare.

Sarebbe veramente interessante se, in un qualche esperimento clinico si tenesse conto anche dell'anamnesi psicosociale dei partecipanti: da che famiglia provengono, quanto e come sono stati amati, dove e come hanno trascorso l'infanzia, se in tempi prossimi alla malattia hanno avuto traumi emotivi.

Così amore, fiducia e speranza fanno il loro ingresso trionfale nel campo della terapia e della guarigione, così come tra gli anni sessanta e settanta avevano fatto le emozioni negative nel campo della malattia.


L'altra faccia della medaglia

Gli innumerevoli studi sull'influenza dello stress nell'insorgere di malattie anche molto gravi ci illustravano l'altra faccia della medaglia.

Così come si può guarire, di emozioni si può morire: semplice ricordare il collasso cardiocircolatorio da paura, oppure quei casi in cui, sempre per uno spavento, i capelli possono divenire repentinamente bianchi.

Ci sono altri esempi di come la mente (e fortissime emozioni assieme) possono materializzare persino delle convinzioni culturali.

In un recente studio su un nuovo tipo di chemioterapico il 30% degli individui del gruppo di controllo (cui, quindi, era stato somministrato il placebo) perse i capelli.

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Cosa succede quando si ride?

Un vero e proprio sconquasso psicofisiologico, biochimico, comunicativo.

Tutti gli esseri umani possiedono un potenziale genetico in grado di sviluppare il senso dell'umorismo che si perfeziona, poi, mediante fattori di apprendimento e culturali.

Esaminando velocemente i sistemi del corpo umano, salta agli occhi immediatamente l'uso inverso della respirazione: repentine e potenti espirazioni, quasi nulla l'inspirazione: viene estromessa tutta l'aria residuale, quella che staziona sul fondo dei polmoni, carica di impurità, che non viene quasi mai espulsa.

Il diaframma, in preda ad un vero e proprio spasmo è responsabile di questo ed anche di un benefico, vigoroso massaggio all'apparato digerente.

Rispetto all'apparato circolatorio, si ha un notevole aumento del ritmo cardiaco ed una maggiore, conseguente ossigenazione di tutti i tessuti.

L'aumento vertiginoso del battito cardiaco potrebbe rappresentare un problema per i sofferenti di cuore: sotto sforzo, ad esempio spalando la neve, si sono avuti molti decessi per infarto. Eppure, come asserisce William Fry, uno dei padri della gelotologia, nella letteratura medica non vi sono tracce di persone morte dal ridere. È un beneficio ancora misterioso che il ridere comporta, legato probabilmente al piacere correlato a questa azione.

Il sistema muscolare è altresì potentemente attivato: in azione i muscoli del viso, del collo, del cuoio capelluto, del torace, delle spalle, dell'addome e, a volte anche quelli delle braccia, delle gambe e quelli pelvici. La pelle aumenta la propria temperatura.


A livello cerebrale si ha un vertiginoso aumento dell'attività elettrochimica, con conseguente maggiore reattività, creatività, acutezza mentale. È risaputo che arguzia e saggezza sono fortemente correlate.

Conseguenza di questa iper attività una grande produzione di beta endorfine (sostanze analgesiche, euforizzanti e coadiuvanti del sistema immunitario).

Questo significa alzare la soglia della percezione del dolore, provare genuino piacere, aumentare la produzione ormonale "positiva" mentre si inibiscono gli ormoni che riducono la risposta immunitaria.

Questo aspetto va ulteriormente sottolineato: se da una parte si rafforza l'immunità, dall'altra si inibiscono le sostanze che la attenuano. Ecco spiegato, in termini scientifici, quanto già è noto a livello di saggezza popolare: il riso fa buon sangue.

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Capitolo 11

Umanizzare la sanità


                                Che cosa vieta di dire la verità ridendo?

                                                                   Orazio



Da sei o sette anni a questa parte si sente parlare di umanizzazione degli ospedali e, più in generale, dei luoghi di cura.

Per la verità questa istanza non proviene da chi gli ospedali li organizza e gestisce, cioè quella parte della classe medica ancorata ai principi della medicina ottocentesca.

Se, infatti, in moltissimi ospedali della penisola troviamo quella meritoria istituzione che sono i "Tribunali dei diritti del malato", allora vuol dire davvero che, per parafrasare Shakespeare: c'è del marcio in ospedale.

Non ce ne vogliano quegli onesti operatori della salute che si dannano l'anima per far funzionare la macchina della sanità pubblica, comunque sempre preferibile, a nostro avviso, alle storture insostenibili dei sistemi privatistici come quello americano.

Però, se il legislatore ha pensato e realizzato una legge come la 328/2000, dedicata all'introduzione del concetto di prestazione socio-sanitaria e di umanizzazione delle strutture, allora significa che il problema da anni denunciato dai pazienti esiste ed è grave; se si parla, ufficialmente, di umanizzare, significa che il rapporto tra sanità e persone in difficoltà è disumano e questo, va da sé, è intollerabile.


La grande separazione

Noi sappiamo che la disumanizzazione dei luoghi di cura parte dalla concezione stessa della medicina occidentale, che, al suo strutturarsi come scienza e non più arte terapeutica, aveva già vivisezionato l'essere umano, decidendo di occuparsi della sola sfera materiale, (il corpo come macchina, i corpi tutti uguali).

Questo in barba a quanti già intuivano un percorso diverso per la cura: ripubblicato nel 1857 il testo Le meraviglie del corpo umano. Compendio metodico di anatomia, fisiologia ed igiene in relazione alla morale ed alla religione di J.B. Felix Descuret riportava le seguenti importanti riflessioni:

"Molte malattie avute per incurabili giungono a perfetta guarigione quando si arriva a distruggere la causa morale che le fa perdurare" e altrove "Non v'ha dubbio che certi sentimenti... si possono mettere in pratica per guarire l'anima ed il corpo".

Con questo, Descuret, in realtà non diceva niente di nuovo, limitandosi a sintetizzare il pensiero del padre della medicina, Ippocrate: gli umori derivavano, in questa concezione, dalla combinazione di cause morali ed ambientali.

Dalla vivisezione positivista dell'essere umano derivava anche che gli spazi, i tempi, i rapporti dedicati alla cura non tenevano in minima considerazione l'emotivo delle persone in difficoltà; ancora oggi la sfera spirituale è delegata ai cappellani (tranne alcuni casi illuminati, tutti ancora perfettamente immersi nella concezione della Valle di Lacrime); assolutamente non si ritiene che la sfera emozionale possa avere potere di cura.

Tutto questo produce meccanismi di alienazione ed espropriazione della partecipazione del paziente al suo percorso di guarigione, rafforzando, al contempo, il già grande potere del medico sulla persona (potere reale di vita e di morte).

È aperto il campo alla paura, anzi al rafforzamento di essa, dato che la persona ospedalizzata già percepisce la malattia come una violazione della propria integrità, disattivazione sociale e conseguente disorientamento psicologico.


La distanza come schermo

Gli spazi dei luoghi di cura vengono strutturati sulla concezione di asetticità che deriva probabilmente da ottocenteschi concetti di igiene: la neutralità dei colori, ad esempio, la freddezza e la depersonalizzazione degli ambienti.

Ulteriori gravi segnali di espropriazione della "normalità" del paziente sono poi gli orari (nessuno sa dirci perché sono così assurdi, ma non lo sono certo per motivi clinici). Le visite dei propri cari sono ridotte all'osso: fino a pochi anni fa non erano ammesse neanche le madri in pediatria!

Infine l'obbligo del pigiama, anche quando non è necessario, serve a far sì che l'ammalato si identifichi perfettamente, anzi precipiti, nella gestalt della sofferenza.

La cosiddetta distanza terapeutica tra medico e paziente, acuisce il senso di estraniazione e rafforza il rapporto di potere, cauterizzando, da un lato, l'emotivo del medico, spersonalizzando, dall'altro, ancora di più il paziente.

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Pagina 107

Cosa fa il Clown Dottore nelle pediatrie?

È importante comprendere come il Clown Dottore operi sempre a stretto contatto con l'equipe del centro o della corsia; anzi, per meglio dire, una volta che il suo lavoro è stato visionato (ed apprezzato) dai sanitari, egli entra a far parte a pieno titolo dell'equipe curante.

In corsia pediatrica la sua opera può essere utile sia nella mattinata che nel pomeriggio. Come è intuitivo questa differenza temporale comporta anche una diversa applicazione del suo estro creativo.

I Clown Dottori operano in equipe (coppia), possibilmente maschio e femmina, un meccanismo assai collaudato che consente sia di improvvisare (meccanismo Augusto/Bianco) sia di operare su più fronti (bambino/mamma o altro parente), sia di sostenersi vicendevolmente in momenti difficili.


Ancora "in borghese" i due operatori (che avranno l'accortezza di essere igienicamente in ordine e sbarbati) si recano nella stanza della caposala o del responsabile del reparto e si informano dello stato della corsia.

Pongono al personale domande precise: quanti bambini sono presenti? Vi sono casi particolari? Possono esservi, infatti, diversissime tipologie patologiche, alcune infettive, altre che orientano o impediscono la possibilità di lavorare (bambini appena operati, oppure che in giornata hanno avuto esami invasivi o, ancora, immunodepressi ecc...). Possono informarsi, amichevolmente, anche sullo stato del personale per inserire, una volta entrati in ruolo, elementi di sdrammatizzazione anche con gli operatori.


I Clown Dottori indossano vestiti dai colori male abbinati, troppo grandi o troppo piccoli con delle toppe e molte tasche; potranno avere calze o calzini di diverso colore. Mai la parrucca (camuffamento troppo vistoso, industriale che crea distacco e, nei piccolissimi, genera timore).

Quasi sempre hanno un cappello buffo o demodé oppure accessoriato strambamente, ma non troppo vistoso. Questo costume deve rendere l'idea che il Clown sia povero, emarginato, che ha trovato gli abiti chissà dove (e in effetti il supermercato del Clown è la bancarella dell'usato nei mercati rionali).

Sconsigliamo, così, stoffe che riflettano la luce e diano l'idea di "ricco". Le scarpe potranno essere quelle classiche, grandissime, oppure povere o colorate.

Sopra questo costume si indossa un camice bianco, con pitture e disegni a piacimento, con bottoni spaiati o colorati, a volte bretellone. Qualcuno vi attacca dei pupazzetti tremolanti, strumentini musicali, cianfrusaglie varie. Per tutto un periodo uno dei Clown Dottori portò cucito sul retro del camice un pupazzo/clown dell'altezza di circa un metro (Gennarino, il suo assistente) che con due fili opportunamente sistemati era in grado di salutare e di gioire.

Sulla schiena o sul taschino si può leggere il nome-Clown.

Il trucco del Clown Dottore è appositamente studiato per non essere aggressivo o pesante, visto che potrebbe intimorire i bimbi (accade che i bambini molto piccoli abbiano già di per sé paura del Clown, poiché troppo dissimile dagli altri adulti).

Si consiglia di usare due, massimo tre colori, di sottolineare solo qualche elemento del viso, di non usare la matita nera ad evidenziare gli occhi, insomma di essere leggeri.

Il naso rosso, meglio se piccolo, può essere indossato, oppure dipinto.

Il Clown Dottore reca con sé una valigetta, buffa o demodé, con gli attrezzi del mestiere: scherzi, giochi di prestigio, uno o più burattini, uno o più strumenti musicali, attrezzatura pseudo medica, un ricettario. Al collo un fonendoscopio trasgressivo; in tasca le bolle di sapone ed i palloncini.

Quando i Clown Dottori entrano in reparto così conciati la gestalt della corsia è già stravolta, cambia l'atmosfera, si respira già aria di caos!


Leo 10 anni

Ospedale San Camillo di Roma, Reparto di Chirurgia pediatrica

...Io sto bene qua, perché so' un po' matto, faccio cose strane, me invento le cose e mamma s'arrabbia perché faccio un macello, e qui è pieno di gente matta come me, pure l'infermieri e quelli colorati, e allora possiamo fa tutti insieme una festa de' matti e non dice niente nessuno, neanche i dottori, una festa bella, però, colorata...

...I bambini ricoverati che possono lasciare il letto, Lucrezia, Francesco, Giulia, Leo si precipitano a vedere, qualcuno esclama "sono arrivati i clown!". Pian piano una piccola comunità si stringe intorno ai piccoli degenti: i genitori, i clown, gli infermieri. In un attimo sembra di calarsi in un mondo altro, un mondo in cui il normale linguaggio, la normale logica sono sospesi...


Di mattina e di pomeriggio...

Dicevamo prima che, a seconda se l'intervento è mattutino o pomeridiano, i Clown Dottori sono chiamati a compiti differenti.

Nel primo caso dovranno assistere gli infermieri in pratiche generalmente invasive e paurose, per lo più prelievi o medicazioni. Così essi accompagneranno, giocando e folleggiando, il bambino nella medicheria e lo assisteranno, attirando su di loro la sua attenzione, attraverso gags, scherzetti, frizzi e lazzi vari, in un atmosfera di favola e di magia: tutto questo diminuisce l'ansia e lo stress, sia del piccolo che dell'operatore sanitario che del genitore, presente o no in quel momento. Il dottore o l'infermiere, coinvolti anch'essi, saranno visti con occhi diversi, non come minacciosi aggressori, ma come compagni di gioco... le operazioni necessarie potranno essere così compiute con serenità, tutta la situazione risulterà meno traumatica.


Giulia, 6 anni, alla mamma

"Non è un'analisi, è un gioco! Corri, vieni anche tu!".


L'intervento del clown, che inizialmente è di distrazione, mette in moto un meccanismo psicofisiologico molto più profondo studiato in ipnosi clinica, detto della dissociazione, secondo il quale l'investimento emozionale su stimoli esterni diversi dal proprio corpo (ad esempio le bolle di sapone soffiate dal Clown, una gag...), porta ad uno spostamento dell'attenzione e ad una particolare focalizzazione della coscienza sullo stimolo stesso.

Possiamo dire che si crea un vero e proprio stato alterato di coscienza e un distacco dal corpo, nel quale la percezione fisica del dolore viene ridotta o eliminata.


È questo, a nostro avviso uno degli ottimi impieghi dei Clown Dottori, assieme al momento del pre e post operatorio.


Dal diario del dottor Broccolo

Roma 2 febbraio 2004, Istituto Dermopatico dell'Immacolata

Edo avrà sì e no sette anni.

Deve essere la prima volta che gli medicano le mani, che porta fasciate, perché vedo tra le infermiere una strana aria circospetta.

Prima di farlo entrare la caposala ci fa: "ragazzi, questa medicazione è impegnativa, il bambino ha sulle palme delle mani un sacco di vesciche purulente: gliele dobbiamo aprire col bisturi una per una e medicargliele, sarà un po' dolorosa, ma soprattutto lunga e forse lui si spaventa...".

Io e il dottor Solletico decidiamo velocemente di giocare anche noi alla medicazione, mentre entra il bimbo, Solletico è già pronto come paziente, accusa forti dolori alle mani.

Edo è subito rapito nella situazione, l'ho salutato così: "Buongiorno dottore! capita proprio al momento giusto, dobbiamo visitare e medicare questo signore che ha male alle mani, alle braccia, alla testa, dappertutto, io non sono tanto esperto, mi dica lei...".

La caposala chiede al bimbo di tenere le mani sul tavolo della medicazione, con le palme in su, lui esegue meccanicamente, già la sua attenzione è tutta su di noi. Solletico è seduto accanto a lui e si lamenta buffamente. Io continuo: "Allora dottore, come devo procedere, cosa gli farebbe lei?".

Edo: "Gli farei una puntura!".

Eseguo con gesti amplificati con la siringa enorme. Solletico urla. Edo ride, l'infermiera gli tiene le mani con un po' più di forza, lui guarda, ha sentito dolore, io, pronto: "E adesso che gli faresti?". Edo: gli darei una botta in testa. Detto fatto eseguo col martellone spuntato dalla valigia. Solletico urla buffamente, piange in modo sgangherato. Edo sghignazza un po' sadicamente. La caposala continua col suo bisturi... "E adesso?" "Mettigli la crema!" Mi guardo intorno... vedo della pomata (chissà a che serve?) e la spiaccico sulle guance a Solletico, impiastricciandola col rosso del trucco... "E adesso?" "Adesso mettigli un cerotto" mentre lo dice, sussulta, la caposala ha di nuovo affondato il bisturi in una piaghetta, "Glielo metto su di un occhio, almeno non piange più!". Ecco qua, il povero Solletico si ritrova orbo. Edo ride ancora.

Siamo andati avanti così per mezz'ora. La caposala mi ha confessato dopo che contava di medicargli una sola mano (la seconda l'avrebbe fatta domani...) e invece... eccolo uscire dopo più di 40 minuti dalla medicheria con il lavoro fatto ad entrambe le mani...

Dentro Solletico sembra una mummia: completamente bendato dalla testa alla vita, legato alla sedia, con un solo occhio che fa capolino tra le fasce.

Gli faccio: "quasi quasi ti lascio così e me ne vado!".

Lui risponde: "La prossima volta, caro, tu fai il paziente ed io la medicazione... chiaro?".

Edo ha versato sì e no tre lacrime...

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Pagina 127

Dal diario del dott. Pastrocchio

Curteri (SA), Maggio 2005

Siamo molto emozionati oggi io e la dottoressa Ullallà.

È il primo giorno in un nuovo ospedale e sappiamo benissimo che avremo gli occhi di tutto il personale puntati addosso.

Vogliamo proprio fare bella figura. Alle nove in punto siamo in reparto, vestiti e truccati. C'è silenzio.

È un reparto di pediatria molto piccolo, solo due stanzette e il nido. Le mamme degli gnometti sono nel reparto di ginecologia che è sullo stesso piano.

Noi entriamo nella prima stanzetta a fare il nostro giro visita. C'è una bimba piccola che ride tantissimo alle facce di Ullallà. Pastrocchio è più interessato alla mamma che alla vista del cuore che parla e che le chiede "sei molto bella ti vuoi fidanzare con me?" scoppia in una risata molto rumorosa, e di lì è un crescendo, tanto che arriva la caposala ridendo, ormai già contagiata dalla nostra energia. Ci chiede di accompagnare gli gnometti dalle mamme nell'altro reparto. Praticamente ci siamo ritrovati a spingere queste cullette e fare distribuzione di bimbi alle mamme che non credevano ai lor occhi quando ci vedevano arrivare coi loro bimbi... è stato bellissimo.

Ma quella bella energia è accompagnata anche da urla di dolore che arrivavano da una stanza in fondo. L'infermiera ci ha chiesto se potevamo fare qualcosa per quella paziente che da tre giorni era ricoverata con un fortissimo ascesso all'apparato genitale, e non c'erano antidolorifici che la calmavano.

Nella stanza c'è Terry, una ragazza di 30 anni, dolcissima, tetraplegica.

Entriamo e lei piange dal dolore, ma si lascia conquistare facilmente.

La madre è entusiasta e ci chiede continuamente se siano stati mandati da un'angelo.

Impara velocemente i nostri nomi, ed è bellissimo sentirsi chiamati da lei.

Ha un grande potere, e lo scopre moltiplicando le palline. Ride tanto Terry. Non sente più il dolore, e l'unica cosa che sembra interessarle è il nostro essere scemi.

Insieme ci coccoliamo la mamma. La pettiniamo, la massaggiamo, Terry le taglia perfino i capelli. Non vuole che andiamo via, ma è veramente tardi e dobbiamo salutarla. Sulla porta troviamo il medico e l'infermiera che ci ringraziano.

È anche il momento giusto per provare a farle l'intervento di pulizia dell'ascesso.

Ci hanno già provato nei due giorni passati, ma hanno dovuto interrompere perché a Terry venivano le crisi epilettiche. Noi continuiamo il nostro giro, ma sentiamo dalle altre stanze il dolore di Terry sottoposta a quella pratica dolorosa e invasiva. Siamo tornati indietro e ci siamo messi fuori la porta a mandarle dentro bolle di sapone, e a suonare la musica che già prima le avevo suonato. Ullallà è praticamente tirata dentro e costretta a vedere anche l'intervento. Il medico esce dopo un po' e mi sorride.

"Bravi!!" è stata l'unica cosa che è riuscito a dire.

Rientro anche io in camera. Sappiamo quanto abbia potuto sentire dolore, e non ci meraviglia che voglia piangere. Allora le dico che è inutile che fa finta di piangere per non farci andare via, perché noi dobbiamo andare dagli altri bimbi. A quella battuta lei comincia a ridere, e ridendo ridendo si è addormentata.

La mamma ci ha abbracciato forte forte. Erano riusciti a farle l'intervento senza che ci fosse neanche l'inizio di crisi, e si era addormentata ridendo dopo tre giorni.

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