Copertina
Autore Giuseppe Fiori
Titolo Il venditore
SottotitoloStoria di Silvio Berlusconi e della Fininvest
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1995], Saggi , pag. 254, cop.fle., dim. 137x208x25 mm , Isbn 978-88-11-60046-6
LettoreRiccardo Terzi, 2004
Classe politica , economia , biografie , paesi: Italia: 1990
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Indice

Nota dell'editore                             I
Prefazione di Corrado Stajano               III

Prologo. Mitografia

1. Tre «autobiografie»                       13

Primo tempo. L'impero del mattone

1. L'infanzia, gli studi                     19
2. Il palazzinaro, l'impresario in grande,
   l'imprenditore originale                  27
3. L'anticomunista, la P2, Mangano           45
4. Larini, Craxi e poi Carboni               75

Secondo tempo. L'impero multimediale

1. Selvaggio West, nel segno di Craxi        87
2. Rainvest                                 121
3. «Soufflé» dell'Ego in rossonero          131
4. Un craxiano sulla Senna                  139
5. I TG prossimi venturi, il Mausoleo       149
6. La scalata in Mondadori, la legge Mammì  169
7. Le 22 holding, la crisi, Forza Italia    191

Appendice.
Cronologia 1996-2004 di Piero Colaprico     207

Indice dei nomi                             243
 

 

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Pagina III

Prefazione



Il venditore di Giuseppe Fiori è uscito nella primavera del 1995. Come mai, ci si può chiedere, lo scrittore di Gramsci, di Emilio Lussu, di Ernesto Rossi, di Enrico Berlinguer, uomini di passione e di ideali, pensò a un libro su Silvio Berlusconi, lunarmente lontano da quegli uomini generosi che si batterono e alcuni di loro morirono sul campo in nome di un'Italia civile e democratica? Che cosa attrasse Fiori nella griglia dei numeri e degli affari della pur romanzesca avventura di un personaggio così spregiudicato che doveva distorcere per anni l'ordinato sviluppo del Paese con dissennate promesse? Il senso del dovere di rendere testimonianza in un momento grave della vita collettiva, la percezione di un pericolo incombente?


La biografia di un uomo come Silvio Berlusconi sarebbe stata, in una normale società, nient'altro che il racconto della vita di un piccolo borghese venuto dal nulla che con la sua intraprendenza e con la sua astuzia nell'intrecciare rapporti di amicizia e di complicità coi protettori e coi soci politici utili per i suoi fini di profitto, ha saputo costruire un gigantesco patrimonio. Una storia come ne esistono tante in ogni continente, la radiografia di un cavaliere d'industria, singolare tutt'al più perché la merce prodotta dalle sue aziende è l'informazione televisiva - e il tempo libero dei cittadini - capace di condizionare i governi e la vita politica di un paese.

Ma la sua storia non è neppure quella di Quarto potere, un Orson Welles casalingo, o quella di Roger B. Smith, il presidente della General Motors raccontata in un altro film, Roger and me, di Michael Moore, protagonista la chiusura di una decina di fabbriche, il licenziamento di migliaia di operai e il declino di una città in un'amara e terribile America.

Quello di Berlusconi è il caso di un uomo borderline del Novecento riuscito a farsi luce in un mondo di ombre dove nulla è chiaro e nulla è stato chiarito. Si dice che nella vita avventurosa dei grandi capitani d'industria c'è sempre, soprattutto alle origini, una zona oscura. Ma poi il buio generalmente si dirada e le violazioni, le trasgressioni, le scorciatoie ai limiti o fuori della legge di quei giovani allora sconosciuti, vogliosi di ricchezza e di potere, vengono alla luce. Su quel che accade, invece, agli esordi imprenditoriali di Berlusconi, il segreto resta privo di smagliature. Di sospetto in sospetto, quanti hanno cercato qualche lume di verità sui suoi inizi - i finanziamenti arrivati chissà da dove - hanno scoperto sì le prove di un percorso non limpido, ma alla fine delle loro inchieste si sono trovati impotenti davanti alla targa di uno studio legale svizzero, probabile custode di quel mistero, pervicace protettore di una colossale fortuna fatta piovere su un giovane svelto e intraprendente che non aveva però dato prove d'eccezione delle sue capacità imprenditoriali incentrate allora sull'edilizia palazzinara. Ma era evidentemente affidabile per gestire grandi quantità di denaro e possedeva intermediatori che offrivano solide garanzie. A documentare quel passato i fedeli di Berlusconi offrono soltanto leggende color rosa, sapor del miele, più adatte ai sogni di gentili signorine ottocentesche che alle crudezze turbinose del presente.

Nella vita dell'uomo diventato il più ricco degli italiani esiste così, ufficialmente, un «prima» nutrito di ovvietà, privo com'è di radici visibili, e un «dopo» somigliante a una ragnatela districata in parte dalla fatica paziente di magistrati e di analisti finanziari. Berlusconi sa captare gli umori del tempo in cui vive. È un protagonista di Sentieri, di Beautiful, le lucrose telenovele delle sue TV, ma possiede una volontà d'acciaio, una grande capacità di lavoro, sa quel che vuole nell'ambìto emisfero del denaro. Si circonda di consiglieri, amici, spicciafaccende, ma fa un uso relativo di quel che gli viene detto. Assorbe i suoni delle parole e decide da solo.

Le protezioni politiche sono essenziali nella sua vita. Berlusconi è un potente del vecchio regime, la prima repubblica, è diventato potente proprio grazie a quel regime. Soltanto con avalli politici riesce a costruire il suo patrimonio mediatico beffando e violando la legge, facendosi fare le leggi come da un sarto, sulla misura di quel che gli è utile. (E quando potrà disporre in proprio del potere politico, preparerà da sé - o meglio sarà la centuria dei suoi avvocati ad assumersene l'onere - le leggi che gli servono per imbrigliare la legge dannosa per il suo interesse privato, cancellarla, vanificarla.)

Nei primi anni Novanta si sente in pericolo. Gli affari hanno avuto una grave ricaduta, debiti per migliaia di miliardi pesano minacciosi, i suoi protettori hanno perso l'autorevolezza di un tempo o, piuttosto, sono impegnati a difendere sé stessi dalle insidie dei fastidiosi custodi delle regole, i magistrati. Berlusconi si getta allora in politica in prima persona come l'uomo dell'antipolitica, lui che alla politica delle trame partitiche deve tutto. E all'antipolitica ritorna sempre, spudoratamente, nei momenti di difficoltà.

Un bel giorno «scende in campo», come ama dire. Il cavaliere nero, titola «il manifesto» quando, il 23 novembre 1993, inaugurando un ipermercato a Casalecchio di Reno, annuncia che tra Fini e Rutelli, in lizza per la carica di sindaco di Roma, sceglie di schierarsi - siamo ormai al ballottaggio - al fianco dell'allora leader del Movimento Sociale Italiano, poi sconfitto.

In quei mesi sta mettendo in piedi il suo movimento politico, a somiglianza delle aziende di cui è proprietario. I suoi attivisti sono i dipendenti, i venditori di prodotti porta a porta, i quadri intermedi, i dirigenti, gli amici di gioventù. Il modello è quello della nazionale di calcio - gli azzurri -, le urla degli spalti danno la denominazione al raggruppamento, Forza Italia. La sua è una povera cultura, ha una laurea in legge, ma della storia e della politica nulla sa, né della pratica né della grammatica e si fa forza di questa sua limitatezza che lo scioglie da ogni vincolo. Si dice liberale. Luigi Einaudi, che cita come un antenato, di certo inorridirebbe nell'ascoltare i suoi discorsi. È un uomo della destra perenne, la più retriva. Punta il suo carisma sull'io senza pudori e senza confini di un illimitato narcisismo.

Vezzeggia gli istinti, le debolezze e anche le speranze dell'italiano medio-minimo, lo stesso che si specchia nelle soap-opera delle sue TV, incantato dalla scoperta di un nuovo mondo e si specchia soprattutto nella sua ricchezza, speranzoso di far fortuna arruolandosi nella legione di un uomo che dal nulla ha saputo creare un impero, visto come un apprendista stregone capace di arricchire gli altri come ha arricchito sé stesso. «È ricco e quindi non ruba»: l'assioma penetrato nel profondo della mentalità dell'uomo qualunque rappresenta un'altra garanzia.

Sono i tempi di Mani pulite, agli inizi degli anni Novanta, una calata agli inferi della corruzione, quando pareva vigere soltanto una regola non scritta: bisognava pagare. Per tutto, su tutto. Per ottenere un appalto, una fornitura, una concessione, un contratto, una tomba. Pagare e basta. I protagonisti erano sindaci, presidenti di enti pubblici, parlamentari, ministri, ex segretari di partito, imprenditori privati e dello Stato, marescialli e colonnelli della Guardia di finanza, leader della politica e portaborse, direttori generali e mezze maniche dell'amministrazione. Facevano la coda fuori dalle stanze della Procura della Repubblica di Milano e anche altrove, quando scoppiò lo scandalo. Confessavano il loro malfare, cercavano di ottenere dagli inquisitori un occhio di riguardo.

Berlusconi, che chiese a Di Pietro, il più conosciuto dei PM milanesi, di entrare nel suo primo governo come ministro dell'Interno, anni dopo definirà Mani pulite «un ballo giudiziario» e parlerà di una «guerra civile» che a causa della giustizia fu combattuta in quegli anni. Fra le guardie e i ladri?

Fino al novembre 1994, quando a Napoli gli fu recapitato il famoso invito a comparire, Berlusconi non era coinvolto nell'inchiesta. Dovrebbe ringraziarli quei magistrati di Mani pulite, disomogenei culturalmente e politicamente. Perché il beneficiario di quello che definisce «un complotto giudiziario» della sinistra è stato infatti soltanto lui, proprio perché ha rappresentato la novità contro la politica e la corruzione dei partiti.

Deputato, presidente del Consiglio per sette mesi nel 1994, la XII legislatura, per cinque anni all'opposizione nella XIII, di nuovo a capo del Governo nel 2001, la XIV legislatura, è titolare del più colossale conflitto di interessi che si conosca in un paese dell'Occidente, problema di somma gravità, padre di tutti i possibili inquinamenti, capace di rendere precaria la legalità istituzionale di uno Stato di diritto, lasciato irrisolto anche dall'opposizione allocchita, al governo dal 1996 al 2001.

Sistema subito gli affari di famiglia con la nuova legge sull'imposta di successione. Poi quelli delle sue aziende e dei suoi carichi giudiziari pendenti, con la depenalizzazione del falso in bilancio. Non perde tempo e comincia a saldare i conti con i magistrati che devono giudicarlo per reati di non lieve entità commessi prima di entrare in politica. Crea conflitti istituzionali continui in un sistema che dovrebbe essere liberal-democratico. È impudico nell'imporre alla sua maggioranza parlamentare che non sembra turbata da soprassalti di coscienza politica e morale, di approvare leggi studiate per la sua salvezza giudiziaria, marchingegni che riguardano i suoi affari personali e la sua personale impunità nei processi in corso: le rogatorie internazionali, la legge Cirami o del legittimo sospetto, il Lodo Schifani che viola i più elementari diritti di eguaglianza e viene giudicato incostituzionale dalla Consulta, il 13 gennaio 2004.

Gli premono le sue TV, mette in cantiere la legge Gasparri che il presidente della Repubblica non firma e rinvia al Parlamento il 15 dicembre 2003 a norma dell'articolo 74 primo comma della Costituzione violata in più punti.

La guerra di Berlusconi con i magistrati di Milano è senza quartiere. Non esiste paese civile al mondo in cui il presidente del Consiglio intralci il corso della giustizia con un accanimento così ossessivo per stornare da sé le accuse della magistratura.

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Pagina XVIII

Il venditore non sembra davvero un libro di dieci anni fa, ma di oggi, inquieto e allarmato. La nostra è una democrazia zoppa, a rischio, scrive Giuseppe Fiori nell'ultima pagina del suo libro: «Possiamo escludere, in passaggi aspri della dialettica sociale e politica, l'eventualità di tentazioni autoritarie (sia pure verso la dieta-blanda, non dieta-dura, secondo una distinzione della politologia argentina)? Dei problemi d'una democrazia incompiuta il più serio».

Milano, 10 marzo 2004

Corrado Stajano

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Pagina 45

Capitolo terzo


L'anticomunista, la P2, Mangano



1.
La politica non lo tenta, giudica inconcludenti, parassiti nefasti, quelli che la praticano, fondamentalmente è d'umori antiparlamentari (le camere luoghi di perdigiorno). Una sua sentenza, riecheggiamento d'una avversione diffusa nel paese: «Ho certezza che se dessimo le nostre aziende in mano ai politici le farebbero fallire. Ho una sola incertezza: quanti mesi impiegherebbero».

Ma, di questi tempi, l'antiparlamentarismo non è estraniamento dalla politica, una dislocazione esterna. Tutt'altro. Spesso è il modo rozzo di rapportarvisi degli strati reazionari o quantomeno insofferenti di regole e controlli (sviliti, nel loro vocabolario, a «lacci e lacciuoli»). Il tycoon in ascesa Berlusconi, sia pure indisponibile a forme di militanza, non appare distaccato o reticente. Si schiera. Soprattutto si schiera «contro», manifestando un anticomunismo della specie che un socialista (non un comunista), Emilio Lussu, usava definire, invece che «viscerale», «epilettico». Nella realtà italiana, sul finire degli anni Settanta - durante l'esperienza detta di unità nazionale o anche di solidarietà nazionale o democratica, con il PCI alle soglie del governo - bersaglio dell'anticomunismo non è Ceausescu, di cui Craxi è amico, ma il partito di Enrico Berlinguer, accerchiato da forze dissimili e tuttavia interagenti nel comune fine ostruzionistico e logorante; alla conclusione, un partito rimasto solo a subire l'urto concentrico dei gruppi di pressione «atlantici» e in pari tempo del brezneviano KGB e ancora del Vaticano, della Confindustria, delle correnti democristiane ostili al compromesso storico, del craxismo (la cui sostanza pare al direttore di «Paese Sera» esprimibile nella formula "Da Turati a Turatello"), degli infiltrati a sinistra per drenare a destra (il circo Pannella), della coalizione di poteri strutturata da Licio Gelli dentro la Loggia P2, dei settori sindacali corporativi più legati al sistema di potere democristiano, del terrorismo (di destra e di sinistra) e di chi lo usa.

È in questa fase che Berlusconi entra nell'editrice del «Giornale Nuovo» di Montanelli. Sappiamo da Confalonieri: «L'ingresso nel "Giornale", come anche la nascita della televisione, ha un'origine ideologica. Io me lo ricordo: c'era di fatto il compromesso storico, si diceva che i comunisti erano ormai al 35 per cento, che erano diventati democratici. E lo dicevano tutti, anche personaggi democristiani di gran calibro, come Marcora, come Andreotti. Ricordo anche i nostri timori [che Silvio si esponesse]. Gli dicevamo: "Ma perché vuoi entrare nel giornale di Montanelli? È un quotidiano conservatore, per la maggior parte degli italiani è addirittura un quotidiano di destra". Berlusconi rispondeva: "Io in questo sistema, in questo paese governato in questo modo, ho fatto fortuna. Per difendere questo paese io sono disposto a dare la metà del patrimonio che ho potuto mettere insieme in breve tempo". E così ha fatto, andando in aiuto del "Giornale" di Montanelli. Per un moto ideologico». Dirà lo stesso Berlusconi: «L'avventura del "Giornale" è nata perché personalmente ero molto preoccupato di vedere avanzare in Italia una sinistra che ancora non aveva percorso interamente il cammino verso la democrazia. Quindi è stata la scelta di scendere in campo per costituire un bastione contro la tendenza pericolosa che si era instaurata».

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Pagina 202

Nerissimo il 1992. I dati sono di fonte «R&S». Fininvest, con 10.469 miliardi di fatturato, diviene il quarto gruppo privato italiano, dietro Agnelli (56.599 miliardi), Ferruzzi (19.900 miliardi) e De Benedetti (16.182 miliardi). L'indebitamento finanziario è di 4528 miliardi, un'enormità, 3,34 lire di debiti per ogni lira di patrimonio. E, segnale infausto, va male anche la TV, finora comparto fiorente. La pay-Tv Telepiù - operazione compiuta nell'estate 1990 con l'arraffo precipitoso di frequenze, a lungo non trasparente l'azionariato - è ferma a 700.000 abbonati (in Francia Canal Plus ne ha 3 milioni e mezzo). Complessivamente (Publitalia inclusa) il comparto televisivo dà un utile di 10 miliardi nel 1991, chiude in rosso di 29 miliardi il 1992 e di 17 miliardi il 1993... A fine 1992 il saldo tra attività e passività correnti del gruppo Fininvest è negativo per 1111 miliardi.

Ancora buio il 1993. Fatturato 11.500 miliardi, utile prima delle imposte 120 miliardi. Commenterà Giuseppe Turani: «Non si può certo dire che si tratti di una grande performance. Soprattutto perché conferma un trend negativo. Seguire l'andamento dell'utile Fininvest prima delle imposte (cioè prima dei maquillage di bilancio) è come vedere una candela che si sta spegnendo, e anche con una certa velocità [...] Fra il 1987 e il 1993 Berlusconi ha moltiplicato per cinque il proprio fatturato, per dodici i debiti e ha ridotto di venti volte i propri utili. Dentro la Fininvest, ex ragazza prodigio della scena imprenditoriale italiana, c'è come una malattia, una specie di tisi che la consuma, giorno dopo giorno».

L'equilibrio statico è a rischio, l'impero scricchiola, i frutti dell'impresa avvizziscono, e ancora più sconvolgente è il quadro esterno, il disastro politico. Un uragano (l'inchiesta milanese dei procuratori Borrelli - D'Ambrosio - Di Pietro - Colombo - Davigo) ha spazzato il CAF, gli amici, i complici, i padroni del Parlamento e delle banche, Arcangeli salvatori. Potrà Berlusconi sopravvivere all'estinzione del ceto dirigente che l'ha aiutato a superare le contrarietà e l'ha abituato ai privilegi, alla subordinazione di legislatori, di burocrazie ministeriali, di banche alle sue esigenze? Può un'azienda che è sempre stata appesa al filo della politica fare a meno di quel filo e di quella politica?

Spiega Turani: «La sua Fininvest era già finita in un vicolo cieco alla fine degli anni Ottanta, ma sperava di tirarla fuori con l'aiuto del CAF. Sparito questo, intravvede subito una possibilità ancor più grandiosa: prendere il posto del CAF, prendersi tutto il Paese. Questo era ciò a cui lui pensava mentre le banche leggevano con cura i suoi bilanci e mandavano segnali d'allarme, imponendogli, fra l'altro, di prendere Franco Tatò come amministratore delegato [ottobre 1993, n.d.a.] perché avevano deciso che di lui non potevano più fidarsi, che ormai i suoi debiti avevano superato il livello di guardia».

Soffia nel Paese un vento di sollevazione contro la «nomenklatura» del vecchio regime democristiano-socialista, e Berlusconi - ricorda uno storico tedesco, Michael Braun - «non solo è un potente del vecchio regime, potente è diventato grazie anche a questo regime». Allora? Dire leninianamente che il berlusconismo è la fase suprema del craxismo è solo una battuta facile, ma non del tutto incongrua. Aiuta a capire gli anni Novanta una riflessione sul carattere degli italiani, generalmente sovversivi dell'altrui e conservatori del proprio. Cioè dobbiamo chiederci se la maggioranza degli italiani punti davvero oltre che a un radicale ricambio del personale politico dirigente - a una svolta reale, o la verità non sia che l'imprenditoria cresciuta con gli spot Fininvest e le tradizionali clientele dei Grandi Ladroni ripudiati cerchino rifugio in organizzazioni solo apparentemente nuove, per conservare comunque benefici e immunità, il diritto all'evasione fiscale, all'abuso edilizio, agli incarichi ben remunerati per la propria tribù, al bell'impiego, alla carriera facilitata, alla casa avuta in affitto da un'istituzione, il diritto a gestire scuole private con danaro pubblico, cliniche private con danaro pubblico, il diritto all'appalto rotondo, al mutuo a tasso agevolato, all'incentivo a fondo perduto; e per quelle clientele il peggio della prima Repubblica «non sia già quanto facevano i Craxi, gli Andreotti, i Forlani, ma il "consociativismo", cioè l'influenza dell'opposizione comunista sulle decisioni del governo»; e biasimino la lottizzazione «non perché ai loro occhi la politica debba rinunziare a ingerirsi direttamente in determinate sfere come la RAI, le holding statali e così via, ma perché a loro avviso non c'è più nulla da spartire tra governo e opposizione: perché adesso ogni posto, ogni posizione spetta alla maggioranza di destra senza eccezioni».

Entrato in politica per disperazione, Berlusconi non deve travestirsi. L'aspettano com'è. Di lui decantano il meglio, amano il peggio.