Autore Francis Scott Fitzgerald
Titolo Il grande Gatsby
EdizioneNewton Compton, Roma, 2015 [2011], Classici moderni 8 , pag. 176, cop.rig., dim. 13x20x2,3 cm , Isbn 978-88-541-8059-8
OriginaleThe Great Gatsby [1925]
PrefazioneWalter Mauro
TraduttoreBruno Armando
LettoreSara Allodi, 2015
Classe narrativa statunitense , ragazzi












 

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Pagina 25

Capitolo primo


Quand'ero più giovane e indifeso, mio padre mi ha dato un consiglio che ho fatto mio da allora.

«Tutte le volte che ti viene da criticare qualcuno», mi ha detto, «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu».

Non ha detto nient'altro, ma siamo sempre stati insolitamente comunicativi in modo riservato, e capii che intendeva molto più di questo. Di conseguenza, tendo a evitare ogni giudizio, un'abitudine che mi ha fatto incontrare molti tipi curiosi e reso vittima di non pochi inveterati scocciatori. La mente anormale è rapida nell'individuare e attaccarsi a questa qualità quando si rivela in una persona normale, e perciò al college sono stato ingiustamente accusato di essere un politicante, perché ero a conoscenza dei dolori segreti di uomini sconosciuti e sfrenati. Molte confidenze non erano cercate - spesso ho finto di dormire, di essere preoccupato, oppure mostravo un'ostile frivolezza quando mi rendevo conto da qualche segno inconfondibile che si profilava all'orizzonte una rivelazione intima; perché le rivelazioni intime dei giovani, almeno nei termini in cui sono espresse, tendono a plagiare e sono alterate da evidenti omissioni. Astenersi dal giudicare implica un'infinita speranza. Ho ancora paura di perdermi qualcosa se mi dimentico che, come mio padre snobbisticamente suggeriva, e io snobbisticamente ripeto, il senso di un'indispensabile decenza è suddiviso in modo ineguale alla nascita.

E dopo essermi vantato della mia tolleranza, ammetto che ha un limite. La condotta può essere basata su una dura roccia o su un'instabile palude, ma dopo un certo punto non m'importa su cosa è fondata. Quando sono tornato dall'Est lo scorso autunno volevo che il mondo indossasse l'uniforme e restasse su una specie di eterno "attenti" morale; non volevo più riottose scorribande nel cuore umano con tanto di visioni privilegiate. Solo Gatbsy, l'uomo che dà il nome a questo libro, fu per me un'eccezione – Gatsby, che rappresentava tutto ciò per cui io provavo un disprezzo totale. Se la personalità è un ininterrotto susseguirsi di successi, allora c'era qualcosa di magnifico in lui, una sorta di elevata sensibilità alle promesse della vita, come se fosse collegato a uno di quei complicati strumenti che registrano i terremoti a migliaia di chilometri di distanza. Questa reattività non aveva niente a che fare con la flaccida impressionabilità a cui si dà dignità chiamandola "temperamento creativo" – era un dono straordinario di speranza, una romantica prontezza che non ho mai trovato in nessun altro e che probabilmente non troverò mai più. No. Gatsby si rivelò a posto, alla fine; era quello che dava la caccia a Gatsby, la polvere sozza che fluttuava nella scia dei suoi sogni che interruppe temporaneamente il mio interesse nei dolori transitori e nelle brevi euforie degli uomini.


La mia famiglia è stata influente, gente agiata di questa città del Midwest da tre generazioni. I Carraway sono una specie di clan, e secondo la tradizione discendiamo dai Duchi di Buccleuch, ma il vero fondatore del mio ramo è stato il fratello di mio nonno, che arrivò qui nel '51, mandò un sostituto alla Guerra Civile, e mise su un'attività di ferramenta all'ingrosso che mio padre manda avanti ancora oggi.

Non ho mai conosciuto questo prozio, ma si dice che gli assomigli – con particolare riferimento al quadro piuttosto brutto che è appeso nell'ufficio di mio padre. Mi sono laureato a New Haven nel 1915, solo un quarto di secolo dopo mio padre, e poco più tardi ho partecipato a quella tardiva migrazione teutonica conosciuta come la Grande Guerra. Apprezzai la controffensiva così tanto che tornai irrequieto.

Il Midwest, invece di essere il caldo centro del mondo, adesso mi sembrava il bordo ruvido dell'universo – così decisi di andare all'Est a imparare il lavoro di Borsa. Tutti quelli che conoscevo lavoravano in Borsa, perciò immaginai che ci fosse posto anche per un altro. Tutte le mie zie e i miei zii ne discussero come se stessero scegliendo la scuola per me, e finalmente dissero: «Be'... Sì», con facce serie ed esitanti. Mio padre acconsentì a sostenermi finanziariamente per un anno, così dopo molti rinvii andai all'Est, per sempre, pensavo io, nella primavera del '22.

La cosa più pratica era trovare una stanza in città, ma era una stagione calda, e io avevo appena lasciato una terra di grandi praterie e alberi amichevoli, perciò quando un collega dell'ufficio mi propose di dividere una casa in una cittadina dei sobborghi, pensai fosse una grande idea. Lui trovò la casa, un bungalow di cartapesta rovinata a ottanta dollari al mese, ma all'ultimo momento la società lo mandò a Washington, e io me ne andai in campagna da solo. Avevo un cane – almeno lo ebbi finché non scappò dopo qualche giorno – una vecchia Dodge e una donna delle pulizie finlandese, che mi faceva il letto, mi preparava la colazione e borbottava perle di saggezza a se stessa davanti alla stufa elettrica.

Mi sentii solo per un giorno o due finché una mattina un uomo, arrivato più recentemente di me, mi fermò in strada.

«Come si arriva a West Egg?», mi chiese scoraggiato.

Glielo dissi. E quando ripresi a camminare non mi sentii più solo. Ero uno guida, un apri pista, uno del posto. Mi aveva casualmente conferito la cittadinanza della zona.

Così, con il sole e la grande esplosione di foglie sugli alberi, proprio come crescono le cose nei film accelerati, mi venne la solita convinzione che la vita ricominciasse con l'estate.

C'era così tanto da leggere, tanto per cominciare, e tanta buona salute da rubare alla giovane aria frizzante. Comprai una dozzina di libri sulle banche, il credito e le garanzie d'investimento, e li piazzai sullo scaffale da dove mi promettevano di svelarmi brillanti segreti che solo Mida, Morgan e Mecenate conoscevano. E avevo la ferma intenzione di leggere molti altri libri. M'interessavo abbastanza di letteratura al college – un anno avevo scritto una serie di solenni e banali editoriali per il «Yale News» – e adesso stavo per riportare queste cose nella mia vita e ritornare a essere il più limitato degli specialisti, "l'uomo versatile". Non è solo un epigramma: la vita sembra molto più di successo se la si vede da una finestra sola, dopo tutto. Solo per caso affittai una casa in una delle comunità più strane del Nord America. Si trovava su quella snella isola ribelle che si estende a est di New York – dove, fra altre curiosità naturali, ci sono due inusuali formazioni di terra. A una trentina di chilometri dalla città due uova enormi, identiche nei contorni e separate solo da una baia di cortesia, si gettano nel tratto d'acqua salata più mansueto dell'emisfero occidentale, l'enorme aia acquatica di Long Island Sound. Non sono ovali perfetti – come l'uovo nella storiella di Colombo, sono entrambi schiacciati a una estremità – ma la loro rassomiglianza deve essere fonte di continua confusione per i gabbiani che vi volano sopra. Per gli esseri non alati il fenomeno che colpisce di più è la loro diversità in ogni particolare che non sia la forma e la dimensione.

Io vivevo a West Egg, la... be', la meno alla moda delle due, anche se questo è il modo più banale per esprimere il bizzarro e non poco sinistro contrasto tra le due. La mia casa era sull'estremità dell'uovo, a una cinquantina di metri dallo stretto, e schiacciata tra due enormi edifici che si affittavano per dodicimila o quindicimila dollari a stagione. Quello alla mia destra era qualcosa di colossale sotto tutti i punti di vista – era una vera e propria copia di un Hτtel de Ville della Normandia, con una torre su un lato, nuova di zecca sotto una rada barba di edera in crescita, una piscina di marmo, e più di venti ettari di prato e giardino. Era il palazzo di Gatsby. O, meglio, visto che non conoscevo il signor Gatsby, era un palazzo, abitato da un gentiluomo con quel cognome. Casa mia era come un pugno nell'occhio, ma un pugno piccolo, tanto da essere stato ignorato, così avevo la vista sul mare, una vista parziale del giardino del mio vicino, e la consolante vicinanza di gente milionaria – tutto per ottanta dollari al mese.

Di là della baia di cortesia i palazzi bianchi della modaiola East Egg luccicavano sull'acqua, e la storia di quell'estate incomincia praticamente con la sera in cui andai a cenare da Tom Buchanan. Daisy, sua moglie, era mia cugina di secondo grado e Tom l'avevo conosciuto al college. E subito dopo la guerra avevo passato due giorni con loro a Chicago.

Suo marito, tra le varie imprese fisiche, era stato uno dei ricevitori più potenti della squadra di New Haven – un personaggio nazionale in un certo qual modo, uno di quegli uomini che raggiungono un'eccellenza così intensa e limitata a ventuno anni che tutto quello che fanno dopo sa di delusione. La sua famiglia era immensamente ricca – perfino al college la disinvoltura con cui spendeva era oggetto di critiche – ma adesso si era trasferito da Chicago all'Est in un modo che quasi toglieva il fiato; per esempio, si era portato appresso una mandria di pony da polo da Lake Forest. Era difficile da credere che un uomo della mia generazione fosse così ricco da poterlo fare.

Perché si fossero trasferiti all'Est non lo so. Avevano passato un anno in Francia senza un motivo particolare, e poi, inquieti, avevano girovagato qui e là ovunque si giocasse a polo e ci fossero dei ricchi. Questo era stato un trasferimento definitivo, disse Daisy al telefono, ma io non ci credevo – non sapevo leggere nel cuore di Daisy, ma sentivo che Tom avrebbe eternamente girovagato, un po' ansiosamente, alla ricerca di una qualche drammatica e turbolenta partita di football da risolvere.

E così accadde che in una tiepida e ventosa sera mi recai a East Egg a trovare due vecchi amici che conoscevo appena. La loro casa era perfino più ricercata di quanto m'aspettassi, un allegro palazzo georgiano rosso e bianco che dominava la baia. Il prato incominciava sulla spiaggia e si stendeva per mezzo chilometro verso l'entrata principale, scavalcando meridiane, sentieri di mattoni e giardini fiammeggianti – per innalzarsi, infine, come per l'abbrivio della corsa, in rampicanti vivaci sui muri del palazzo. La facciata era spezzata da porte finestre, che adesso rilucevano di riflessi d'oro ed erano spalancate al vento caldo della sera, e Tom Buchanan, vestito da cavallerizzo, era in piedi a gambe larghe sulla veranda.

Era cambiato dai tempi di New Haven. Adesso era un uomo massiccio sui trent'anni, dai capelli biondo paglia, la bocca dura e i modi altezzosi. Due occhi che sprizzavano arroganza dominavano il viso e gli davano l'aria di sporgersi continuamene in avanti con fare aggressivo. Nemmeno l'effeminata eleganza degli abiti da cavallerizzo riusciva a nascondere l'enorme forza di quel corpo – sembrava riempire quegli stivali lucidi fino a tenderne i lacci, e quando muoveva la spalla si vedeva un gran fascio di muscoli sotto la giacca di stoffa leggera. Era un corpo capace di enorme forza, un corpo crudele.

La sua voce tenorile, aspra e roca, aumentava l'impressione di irritabilità che emanava da lui. C'era un tocco di disprezzo paternalistico in quella voce, perfino verso persone che amava – e c'erano uomini a New Haven che avevano odiato la sua determinazione.

«Però, non credere che voglia avere ragione su questa faccenda», sembrava dire, «solo perché sono più forte e più maschio di te». Eravamo nella stessa associazione studentesca, e per quanto non fossimo mai stati intimi, ho sempre avuto l'impressione che mi stimasse e desiderasse riuscirmi simpatico con quella sua provocatoria e rozza premura.

Parlammo per qualche minuto nel portico assolato.

«Ho trovato un bel posticino», disse, con gli occhi che lanciavano sguardi irrequieti.

Mi fece girare prendendomi per un braccio e con la larga mano aperta m'indicò la vista, che includeva un giardino all'italiana incavato, centinai di metri di aiuole di rose dal profumo intenso, e un motoscafo dalla prua schiacciata che sobbalzava in mare aperto.

«Apparteneva a Demaine, il petroliere». Mi fece voltare di nuovo, gentilmente ma bruscamente. «Entriamo».

Attraversammo un atrio spazioso ed entrammo in un salone luminoso color rosa, fragilmente legato alla casa da porte finestre ad ogni lato. Le finestre erano socchiuse e luccicavano bianche contro l'erba fresca che sembrava crescere fin dentro casa. Nella stanza spirava una brezza che gonfiava le tende spingendone un'estremità in dentro e l'altra in fuori come se fossero bandiere sbiadite, torcendole verso il soffitto simile a una torta nuziale glassata, e poi increspandole sul tappeto color vinaccia, creando un'ombra come fa il vento sul mare.

Il solo oggetto completamente immobile nella stanza era un enorme divano sul quale due giovani donne erano ancorate come nella navicella di un pallone aerostatico ormeggiato. Erano entrambe vestite di bianco, e i loro vestiti erano increspati e fluttuanti come se fossero appena state risospinte in casa dal vento dopo un volo intorno alla casa. Devo essere rimasto per qualche momento ad ascoltare gli schiocchi delle tende e il gemito di un quadro sulla parete. Poi ci fu un botto quando Tom Buchanan chiuse le finestre posteriori e il vento imprigionato si spense nella stanza, e le tende e i tappeti e le due giovani donne fluttuarono lentamente a terra.

La più giovane delle due non la conoscevo. Stava distesa ad un'estremità del divano, completamente immobile, e con il mento un poco sollevato, come se stesse tenendo qualcosa in equilibrio in procinto di cadere. Se mi scorse con la coda dell'occhio non lo diede a vedere – anzi, quasi mi sorpresi a mormorare delle scuse per averla disturbata entrando.

L'altra ragazza, Daisy, fece un tentativo d'alzarsi – si sporse leggermente in avanti con espressione consapevole – poi rise, un'assurda risata affascinante, e risi anch'io e avanzai nella stanza.

«Sono p-paralizzata dalla felicità».

Rise di nuovo, come se avesse detto qualcosa di molto spiritoso, e mi tenne la mano per un momento, guardandomi in faccia, assicurandomi che non c'era nessuno al mondo che le faceva più piacere vedere. Era un suo modo di fare. Accennò con un mormorio che la ragazza equilibrista si chiamava Baker. (Avevo sentito dire che il mormorio di Daisy era solo un modo per fare chinare la gente verso di lei; una critica irrilevante che non toglieva niente al suo fascino.)

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