Autore Gianni Fochi
Titolo Il segreto della chimica
EdizioneTea, Milano, 2012 [1999], saggistica , pag. 282, cop.fle., dim. 12,8x19,8x2 cm , Isbn 978-88-502-2732-7
LettoreLuca Vita, 2012
Classe chimica , storia della scienza , alimentazione , sensi












 

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Indice


    Premessa                                      7

 1. Dagli amici mi guardi Iddio                   9

 2. Una gran confusione                          17

 3. Cacciata dalla porta                         24

 4. Colpo dí fulmine                             30

 5. Affinità                                     47
    Un poeta e la sua amante                     47
    Il baratto degli elettroni                   53
    Formule non proprio misteriose               59

 6. Perché?                                      65
    L'universo conservatore                      65
    L'universo scialacquatore                    70
    Non perdiamoci nell'universo                 71
    Alleati o rivali?                            76

 7. La via in salita                             81
    Un sì solo non basta                         81
    Acceleriamo                                  86
    Compromessi                                  89

 8. Ritorno alla natura?                         92

 9. La natura porta il camice                   106
    Caverne, uova e acqua frizzante             106
    Uno schermo solare in cielo                 113
    Molecole e sex appeal                       116

10. Penso, dunque esiste (la chimica)           120

11. Profumo di molecola                         127
    Nasi veri e artificiali                     127
    Provette e profumi                          134
    L'alambicco dei sapori                      139

12. Mister Hyde, ovvero il lato inquietante     143
    Accidenti, piove!                           143
    La chimica apre l'ombrello                  151
    Il bianco più bianco                        157

13. Quando ci vuole, ci vuole                   164
    Il dolce sapore dell'inutile                164
    La parte dell'occhio                        174
    Chi cerca trova                             177

14. Il laboratorio in cucina                    181
    Il pranzo è servito                         181
    Caffè, signori?                             187
    Veloce e misterioso                         191
    Un tocco di classe                          192

15. Lo spadone di Paracelso                     195
    Becero ma geniale                           195
    Pura o applicata?                           201

16. Un metallo con le ali                       205
    Che tipo, quel tedesco!                     205
    Un maledetto toscano                        212

17. Un tocco di colore                          216
    Onori postumi (e ipocriti)                  216
    Rifiuti trasformati in risorse              219
    Per i finti straccioni                      225

18. Florenzio contro illinio                    234

19. La valle del silicone                       246
    Computer e avvenenza                        246
    Purissimo e drogato                         254

20. Muse in laboratorio                         260
    Molecole e melodie                          260
    L'isola in mezzo al caos                    267

21. Ruoli scambiati                             272
    Magia                                       272
    Che cos'hai in bocca?                       275

    Indice analitico                            281


 

 

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Pagina 7

Premessa



CHE cosa mai ci può essere di segreto nella chimica? La domanda sorgerà spontanea nella mente di alcuni fra coloro che si sono accostati a questa scienza nelle scuole medie superiori. Se hanno frequentato istituti di carattere professionale o tecnico-industriale, può darsi che parecchi campi della chimica non risultino loro affatto misteriosi. A maggior ragione non lo saranno per chi ha fatto studi chimici all'università, e forse potrebbe vedere nel titolo di questo libro un tentativo di far colpo sugli sprovveduti.

D'altronde, chi soltanto in un liceo (o in un'altra scuola non tecnica) ha qualche occasione d'incontrare questa materia, molto spesso ne fa la conoscenza in modo disorganico e confuso: finisce per considerarla piena non già di segreti, ma piuttosto di noia e fastidio, come succede in genere per le cose difficili che si è costretti a imparare più o meno a memoria, perché non sembrano avere un'essenza – un segreto, appunto – da cogliere.

Con quest'ultimo tipo di formazione intellettuale, quando s'incontrano alcuni aspetti pratici della chimica, o meglio certi settori in cui l'uomo ne applica i ritrovati, talvolta con brutte conseguenze per l'ambiente o la salute, non è possibile farsi un'idea equilibrata: si perde inevitabilmente di vista la realtà di una scienza che vive ed è sempre vissuta di molti aspetti diversi. Non solo il profano, tuttavia, corre un rischio del genere: per ragioni opposte, in certi casi vi sono soggette anche quelle persone che, per gli studi fatti o per motivi professionali, si trovano più addentro a questa disciplina. Esse sono talvolta ottime specialiste di settori molto particolari e quindi non sono più abituate a prendere in considerazione un insieme complesso e poliedrico.

Per tutti, insomma, una riflessione sull'estrema varietà dei campi in cui la chimica entra in gioco (alle volte occorre scavare un po', ma sotto sotto la si trova quasi dappertutto) e su alcuni concetti importanti e per nulla intuitivi può contribuire, in un certo senso, a svelare un segreto, a far capire che essa è diversa da come molte volte la concepiamo. Ci saranno perciò anche alcune pagine dove il lettore verrà introdotto, per quanto è possibile in un'opera divulgativa, a «segreti» di carattere scientifico, necessari per una comprensione almeno sommaria di certe sfaccettature capaci d'incuriosire.

Ai profani la lettura può dare una mano a sfatare alcuni miti: che l'essere del tutto digiuni di conoscenze chimiche sia una lacuna senza rilievo; che la chimica sia impossibile da capire e consista in una serie mostruosa di nozioni astruse da imparare soltanto a memoria; che le persone dedite a questa scienza siano umanamente e sentimentalmente aride e fredde; infine che sia la chimica, con l'inquinamento e con minacce di vario tipo alla nostra salute, a rovinare il mondo.

Spero che questa promessa di rovesciamento di prospettive consolidate risulti stimolante per tutte le persone che preferiscono ragionare anziché accodarsi passivamente alle idee di moda.

G. F., Pisa, giugno 1999

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2
Una gran confusione



L'OSSIGENO nel capitolo precedente ha presentato una faccia che molti non si aspettavano. Qui sarà ancora protagonista, ma resterà nascosto fino a poco prima dell'epilogo, dandoci un saggio di che cosa succedeva nella scienza quando ancora i chimici non lo conoscevano. Vedremo come fosse soltanto una maschera vuota il personaggio che calcava la scena mentre lui agiva da dietro le quinte, nascosto agli occhi degli scienziati. Ci verrà insomma rappresentato un esempio di come la scienza sia un edificio grande e complicatissimo, che viene costruito un po' alla volta, dalle fondamenta, con tanta fatica. Chi vi si dedica, parte dal lavoro altrui e va avanti. Sicché le conoscenze attuali non sarebbero immaginabili senza le conquiste di scienziati del passato, alcuni noti, altri più oscuri. Però il paragone edilizio, per quanto classico, non calza a pennello. Infatti alla base del lavoro dei muratori c'è un progetto: si costruisce un piano già sapendo cosa verrà al di sopra. Chiaramente nella ricerca scientifica questo non può succedere, anche se molti programmi vengono formulati in base a tempi lunghi, e quindi implicano una sorta di previsione.

Sappiamo tutti che la verità scientifica vale fino a prova contraria, e che il progresso avviene non solo per sviluppi di conoscenze già acquisite, ma anche per «rivoluzioni», cioè ribaltamenti nel modo d'interpretare la realtà; noi italiani abbiamo avuto Galileo, che basta da solo a ricordarcelo. Dunque sarebbe ingiusto e irragionevole disprezzare chi, esplorando l'ignoto, è incappato in errori. Perciò, volendo riprendere il paragone di prima, bisognerebbe modificarlo, immaginando un'impresa che, costretta a fare a meno d'ingegneri, architetti e geometri, procedesse per tentativi, abbattendo via via le parti dell'edificio che risultassero poco sicure o chiaramente sbagliate.

Nel Seicento era più che mai di tal genere la situazione della chimica, faticosamente tesa a uscire dal bozzolo dell'alchimia, disciplina che si era conquistata una temporanea dignità grazie allo svizzero Paracelso: egli aveva dimostrato, come vedremo nel capitolo 15, quanto essa fosse utile a preparare medicamenti. Eppure, anziché procedere sul terreno scientifico vero e proprio, l'alchimia si era impantanata nell'irrazionalità e nell'esoterismo. Non si potevano così risolvere i problemi sempre più stringenti che poneva, in particolare, la metallurgia. Le notevoli quantità di metalli che, durante i trattamenti termici necessari alla loro estrazione dai minerali, venivano perse nelle scorie, incidevano gravemente sull'economia delle imprese. Anche durante la fusione si avevano perdite, perché non si riusciva a evitare che una parte venisse «calcinata», come si diceva allora.

Bisognava capire perché ciò accadesse e cercare il modo di evitarlo o di ricuperare il metallo perso. Molti chimici si sentirono stimolati, e posero finalmente la loro attenzione ai fatti osservabili e agli esperimenti. Questo rappresentò un progresso notevole rispetto alle speculazioni pure, alle pretese verità raggiunte con la sola logica; tuttavia il passaggio non fu completo e coerente. Ci furono menti illuminate che diedero importanza ai minimi particolari dell'osservazione sperimentale, ma i più si contentarono di un punto di partenza ancorato alla realtà, per poi dare sfogo a fantasie: se esse non si conciliavano con tutti i dati sperimentali, pazienza!

Anzitutto venne giustamente notata la parentela esistente tra i fenomeni di combustione di varie sostanze e quelli di «calcinazione» dei metalli. In entrambi i casi, un forte riscaldamento trasformava un materiale compatto, come il legno o il piombo, in un mucchietto di cenere (per i metalli a quei tempi si parlava di «calce»). Inoltre, tutti e due i fenomeni avvenivano solo in presenza di aria.

Il bavarese Georg Ernst Stahl (1660-1734), professore all'università sassone di Halle, riadattando alcuni concetti alchimistici esposti dal suo maestro Johann Joachim Becher nei libri Physica subterranea (1669) e Alphabetum minerale (1689), parlò di principio di combustibilità, inteso come entità materiale, e lo chiamò «flogisto» nel suo libro Zymotechnia fundamentalis (1697).

Il termine, già usato come aggettivo da Aristotele nel senso di combustibile, divenne dunque sostantivo con Stahl e prese un significato estremamente concreto. Come il legno, la paglia, il carbone perdono bruciando sia una certa quantità di materia (le ceneri residue sono ben poca cosa rispetto alla massa originaria) sia la capacità di bruciare ulteriormente, così doveva essere per i metalli non nobili arroventati all'aria: una volta trasformati in «calce», essi avevano ormai perso la loro natura combustibile e, secondo Stahl, anche la sostanza che conferiva loro tale natura. Questo qualcosa era appunto il flogisto.

Già da molto tempo, però, alcuni studiosi avevano osservato che, durante la «calcinazione», i metalli aumentavano di peso anziché diminuire. Se ne erano accorti l'arabo Jabir íbn Hayyan, meglio conosciuto come Geber (IX secolo), il senese Vannoccio Biringuccio (De la pirotechnia, 1540) e il pavese Gerolamo Cardano (anch'egli del Cinquecento; noto per il giunto meccanico che da lui ha preso nome). Ma Stahl e i suoi numerosi seguaci non diedero importanza a quel fatto, che in realtà era una prova contraria alla loro teoria. Quest'atteggiamento aveva dietro di sé una cultura in cui gli aspetti quantitativi, come le variazioni di peso, erano ancora molto trascurati, privilegiando invece la qualità. Inoltre c'era confusione tra i concetti di peso e peso specifico: il metallo diventa più leggero nel senso che il peso specifico dell'ossido («calce») è minore di quello del metallo originario; ma il peso del pezzo metallico aumenta durante la «calcinazione».

Nel 1673 l'irlandese Robert Boyle, nel tentativo di spiegare questo fatto sperimentale, immaginò che il metallo inglobasse particelle di fuoco, da lui ritenuto una sostanza. Ma l'idea venne confutata sperimentalmente: nel libro Elementa chemiae (1724) l'olandese Hermann Boerhaave, professore a Leida, dimostrò che la «materia ignea», nella quale egli pure credeva, non aveva peso; nel 1756, poi, Mikhail Vasilevič Lomonosov a Pietroburgo, anticipando di un ventennio i celebri esperimenti di Antoine-Laurent Lavoisier, si accorse che l'aumento di peso era dovuto a cattura di aria nel pezzo metallico.

Incredibilmente, il francese Jean Rey era arrivato a una conclusione simile nel 1630 e altrettanto avevano fatto gli inglesi Robert Hooke (Micrographia, 1665) e John Mayow (De salnitro, 1674). Quest'ultimo, in particolare, era già arrivato ad attribuire non a tutta l'aria, ma a un suo componente (quello che da Lavoisier in poi è conosciuto come ossigeno) l'aumento di peso dei metalli «calcinati». Non si era ancora al concetto di combinazione chimica fra metallo e aria. Rey scrisse che quest'ultima, per effetto del riscaldamento intenso e prolungato, diventava appiccicaticcia e, aderendo alle particelle minute del solido, l'appesantiva come l'acqua appesantisce la sabbia cui è mescolata. Questa visione, sebbene imperfetta, era più avanzata della teoria del flogisto; ciononostante (o, meglio, proprio per questo) non ebbe fortuna.

Bisogna tener presente che, secondo Rey, Hooke e Mayow, la «calcinazione» era una combinazione, sia pur di tipo fisico anziché chimico, mentre la mentalità dei dotti nel XVII secolo era ancora intrisa delle idee aristoteliche, secondo le quali il fuoco provoca una decomposizione (cioè il contrario della combinazione). Del resto, come accettare che l'aria, invisibile, leggera, impalpabile, in apparenza così poco concreta, potesse alterare sensibilmente il peso di un metallo? Fra l'altro, era noto che i gas, riscaldati, si rarefanno; dunque, a gente che era attenta — è vero — ai fatti sperimentali, ma che lo era solo superficialmente, riusciva difficile convincersi che l'aria si potesse concentrare fra le particelle di un solido arroventato, di fatto solidificandosi essa stessa. Era molto più facile accettare l'idea di quell'evanescente flogisto, che abbandonando i metalli li lasciava senza le qualità della lucentezza, della duttilità, della compattezza. Il carbone, poi, arroventato nel crogiolo insieme con la «calce», «riduceva» (cioè ripristinava, rigenerava) il metallo, cedendogli la sua carica di flogisto; altrettanto succedeva nelle operazioni estrattive, in cui il minerale veniva trattato col carbone nel forno. Può essere interessante notare che i termini ridurre, riduzione, riducente si trovano ancor oggi nel lessico dei chimici: sono usati, per estensione, ogni volta che vengono ceduti elettroni (in effetti, il carbone toglie ossigeno all'ossido metallico, e questo corrisponde al passaggio di elettroni dal carbonio al metallo).

La riscontrata necessità della presenza di aria perché le combustioni e le «calcinazioni» avvenissero, non era necessariamente in contrasto con la teoria di Stahl. Se per Rey, Hooke e Mayow l'aria doveva esserci per partecipare attivamente, secondo chi credeva nel flogisto essa serviva soltanto come solvente di quest'ultimo: nel vuoto esso non poteva liberarsi. In recipienti chiusi le «calcinazioni» procedevano appena un poco, perché la poca aria presente si saturava subito e non poteva ospitare altro flogisto.

Comunque, nell'insieme, la teoria di Stahl zoppicava in più punti; tuttavia essa fornì per prima a un gran numero di chimici un supporto mentale utile allo studio pratico dei fenomeni di combustione, di «calcinazione» e di riduzione, che fino allora non erano stati accomunati in una trattazione scientifica unitaria.

Molti illustri scienziati del Seicento e del Settecento credettero fermamente nel flogisto, arrampicandosi sugli specchi per adattarlo ai fatti contrari. Tali operazioni, spesso basate su pure fantasie, li portarono talvolta a conclusioni discordanti. L'inglese Henry Cavendish, per esempio, irritando Stahl ritenne d'identificare il flogisto con l'idrogeno: questo gas, altamente infiammabile e più leggero dell'aria, abbandonando i metalli che si trasformavano in «calci», li lasciava più pesanti. Il francese Guyton de Morveau e altri arrivarono addirittura ad attribuire al flogisto un peso negativo. Insomma, pur nel forte attaccamento al dogma centrale, lo svilupparsi di numerose eresie rese notevolmente aggrovigliata la matassa del pensiero chimico settecentesco.

Toccò a Lavoisier dare, con la sua rivoluzione chimica, il necessario colpo di spugna su tante speculazioni ormai prive di senso, convincendo gli studiosi onesti nel giro dei quindici anni che vanno dalla pubblicazione degli Opuscules physiques et chimiques (1774) all'uscita del celeberrimo Traité élémentaire de chimie (1789). Qualche scienziato si dimostrò più refrattario, ma può essere considerata emblematica la conversione di Giorgio Santi, professore all'università di Pisa. Nel 1788, in un testo francese, egli aveva definito la chimica antiflogistica una dragonnade académique (una «persecuzione accademica»); nel Viaggio al Montamiata (1795) ammise invece: «È questa rivoluzione chimica un torrente precipitoso, che trova ostacoli, è vero, ma che li supera, e che seco vittoriosamente tutto trasporta».

Val la pena di segnalare in conclusione che lo stesso Lavoisier commise un errore chimico nel battezzare l'elemento ossigeno, da lui finalmente scoperto come vero protagonista delle combustioni, delle «calcinazioni» e della respirazione; ma a questo accenneremo nel capitolo 18.

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5
Affinità



Un poeta e la sua amante


QUALCHE anno fa il film Le affinità elettive riportò all'attenzione del pubblico il romanzo omonimo di Goethe. Perché mai il grande tedesco aveva scelto un titolo del genere per quella sua opera? A che cosa si era ispirato? Molti penseranno subito a profondità metafisiche o per lo meno psicologiche, e sbaglieranno.

Non che la psicologia sia estranea a quelle pagine goethiane: tutt'altro. Ma il titolo e — potremmo dire — il motivo conduttore hanno origine in una sorta di metafora tratta pari pari dalla chimica di quel tempo. Il concetto di affinità, cioè la tendenza delle varie sostanze a combinarsi causando le reazioni chimiche, era stato formulato in maniera moderna dallo svedese Torbern Bergman nel 1775, cioè trentaquattro anni prima che Goethe pubblicasse il suo romanzo.

Nella prima parte di questo, e precisamente nel capitolo 4, si trova che Edoardo legge libri di chimica, mentre il capitano ricorre all'esempio della reazione fra acido solforico diluito e calcare: «Si ha dunque una separazione e una nuova composizione, il che giustifica l'uso dell'espressione affinità elettiva, perché si ha l'impressione che un rapporto venga preferito all'altro, venga eletto in luogo dell'altro». Bergman aveva proprio parlato di attrazioni elettive doppie, che portano a doppie decomposizioni. L'artista compie il salto dalla descrizione chimica a quella dell'animo umano, dall'affinità elettiva fra i reagenti a quella tra un uomo e una donna, affinità così forte da mettere in crisi una combinazione già stabilita.

Aver citato Johann Wolfgang Goethe ci offre il destro di fornire una prima prova contro uno dei miti ricordati nella premessa: che i cultori della chimica siano aridi eruditi, persone fredde e prive di sentimenti particolarmente vivaci. Sicché, prima di abbandonare la parola affinità, oggi pochissimo usata, e di affrontare in termini un po' approfonditi le ragioni della tendenza a reagire, vogliamo spiegare perché Goethe andò a pescare proprio nelle acque della chimica.

Scopriamo così che ai suoi amori elencati dai biografi bisogna aggiungerne uno che è stato trascurato. Ne fornisce un chiaro indizio una lettera del 28 agosto 1770, in cui egli confessa esplicitamente di avere da molto tempo un'amante segreta (meine heimliche Geliebte). La frase, adatta ad attrarre l'attenzione di chi è abituato a seguire con invidia e qualche sospiro i pettegolezzi sugli amori dei personaggi del bel mondo, contiene anche il nome di questa figura sconosciuta: Chymie. Si tratta infatti della chimica (in tedesco moderno Chemie), scienza che influenzò lo sviluppo intellettuale del genio di Francoforte molto più di quanto si sappia.

Il futuro colosso della letteratura europea aveva sedici anni nel 1765, cioè quando il padre lo spedì all'università di Lipsia perché vi studiasse giurisprudenza. Il desiderio paterno doveva però compiersi solo sei anni più tardi e in altra sede (Strasburgo), sia per la pleurite e la tisi che nel 1768 fecero tornare il giovane in gravi condizioni dai suoi genitori, sia per il suo scarsissimo impegno negli studi giuridici.

Lo «studentello impetuoso», come egli stesso si definì in seguito, si dedicava a tutt'altro che alle pandette e ai codici. Si lanciava spesso e volentieri in corse a cavallo così sfrenate da procurargli cadute rovinose, e trascorreva molto tempo all'aria aperta senza badare alle intemperie; in questo seguiva l'ideale dello stato di natura vagheggiato da Rousseau. Inoltre studiava disegno e, quando andava all'università, frequentava soprattutto le lezioni e i laboratori di fisica e di medicina, rivelando quell'inclinazione per le scienze naturali che col tempo avrebbe prodotto opere ben note agli studiosi, fra cui in particolare una teoria dei colori.

Lo sbocciare dell'amore per la chimica coincide con un momento fondamentale nella vita di Goethe. Al diciannovenne Wolfgang, la cui salute è andata peggiorando, viene asportato un tumore alla gola che s'è aggiunto agli altri malanni. Il 7 e l'8 dicembre 1768 egli è in fin di vita: riesce a salvarlo il medico consigliato da un'amica di sua madre, Susanna Katharina von Klettenberg.

Sia questa (che poi fornirà a Goethe l'ispirazione per «l'anima bella» degli Anni di noviziato di Wilhelm Meister) sia il dottore erano appassionati alchimisti, e trasmisero la loro passione al giovane convalescente. Va ricordato che la rivoluzione di Lavoisier sarebbe cominciata solo qualche anno dopo, e i confini fra la chimica intesa come scienza in senso moderno e l'alchimia erano ancora un po' incerti. Inoltre un certo spirito alchimistico, cioè travalicante íl rigore scientifico in una sorta di ascesi filosofica, doveva essere proprio connaturato a Goethe. Appena può alzarsi, egli alterna alle letture alchimistiche gli esperimenti, dilettandosi in particolar modo di quelli che producono bei solidi ramificati. Anche negli anni seguenti decorerà le sue stanze con i cosiddetti alberi di Marte e di Diana, cioè con figure arboree ottenute facendo reagire sali di ferro o d'argento.

Non ha dunque senso interpretare l'opera di Goethe senza un'attenzione particolare al suo interesse alchimistico giovanile. Il pensiero del lettore correrà subito al Faust; ma la cosa non finisce lì. La Fiaba, uscita nel 1795 sulla rivista di Schiller Le Ore, col suo arduo simbolismo, tratto in buona parte proprio dal linguaggio iniziatico dell'alchimia, ha fatto versare fiumi d'inchiostro ai commentatori. Alcuni critici hanno suggerito di leggere questo componimento come «musica», abbandonandosi al fascino dell'insieme, senza intestardirsi a penetrarne i misteri. Hanno sicuramente ragione, visto che già Goethe stesso si divertiva un mondo agli sforzi interpretativi dei suoi contemporanei, rifiutandosi categoricamente di svelare le allegorie dei re d'oro, d'argento e di bronzo e degli altri misteriosi personaggi.

Senza dunque abbandonare la forza poetica propria dell'alchimia, nell'ultimo decennio del XVIII secolo Goethe, superati ormai i quarant'anni, si accosta alla chimica vera e propria, che frattanto si stava affermando sempre più come scienza moderna. Divenuto influente consigliere del duca di Weimar, si dedica ben presto a un progetto assai poco fondato. Sperando di risolvere la crisi finanziaria del ducato e la disoccupazione che vi sta creando gravi problemi sociali, concepisce l'idea di riaprire la miniera di rame abbandonata d'Ilmenau.

In un paio di giorni impara a fare personalmente l'analisi del minerale: questo risulta molto povero, ma lui non si scoraggia. Si reca in Slesia, dove è stato sviluppato un processo estrattivo particolarmente efficace. Il minerale viene triturato e quindi mescolato con mercurio, che forma col metallo un amalgama liquido. Questo, separato dalle scorie solide, arriva poi in una fornace da dove il mercurio distilla via, lasciando il metallo estratto. Ma a Ilmenau neppure questo metodo risulta utile, perché di rame nel minerale ce n'è davvero troppo poco. La miniera viene coltivata ugualmente ancora qualche anno, solo per motivi sociali.

In un altro campo di applicazione della chimica, al quale pure si era appassionato, Goethe doveva andare incontro a delusioni e fallimenti: la realizzazione di un aerostato. Nel 1783, appena gli giunse la notizia del successo dei fratelli Montgolfier, ignorando che essi avevano usato aria calda e credendo che si fossero serviti dell'idrogeno, si diede a riempire piccoli palloni con questo gas leggero. Lo preparava facendo reagire l'acido solforico con limatura di ferro; ma gli esperimenti non gli riuscirono, perché non pensava a filtrare l'idrogeno prodotto, e così le minutissime goccioline acide da esso trascinate corrodevano il pallone e quindi ne acceleravano lo sgonfiarsi.

Nonostante questi insuccessi, l'amore di Goethe per la chimica non veniva meno. Per la sua amante spirituale ormai non più segreta, Goethe arrivava a trascurare quelle in carne e ossa, come quando (5 agosto 1784), tutto preso da un esperimento con l'ossigeno, si dimenticò che aveva un appuntamento con Charlotte von Stein.

Durante un periodo di cura a Bad Pyrmont (1801), egli diede origine a uno spettacolo che viene ripetuto anche oggi come attrazione per gli ospiti di quelle terme. In una caverna con esalazioni di biossido di carbonio, il poeta faceva galleggiare delle bolle di sapone nella fascia di contatto fra lo strato di quel gas pesante e l'aria respirabile. Intanto, uno stoppino acceso tendeva a spengersi se egli abbassava la mano che lo reggeva, ma si ravvivava appena risollevato in alto. Al momento di ripartire per Weimar, Goethe portò con sé alcune bottiglie piene del gas raccolto nel fondo della grotta; se ne servì poi per ripetere il gioco in piccolo, dopo averne versato il contenuto in bicchieri da spumante.

A parte queste curiosità, Goethe ebbe nella chimica un ruolo importante seppure indiretto. Christoph Meinel, storico di questa scienza, ha rilevato che si deve a lui un avvenimento tutt'altro che secondario: nel 1789 fece istituire una cattedra di chimica a Jena, lottando tenacemente contro le obiezioni della potentissima lobby dei professori di medicina, che in quel tempo, lì come nel resto d'Europa, avevano tutto l'interesse a mantenere questa disciplina nell'umile condizione di parte secondaria dei loro corsi.

Alla morte del primo designato, la cattedra passò a Johann Wolfgang Döbereiner; questi mise a punto un processo che dall'amido di patate produceva zucchero, allora così scarso a causa del blocco continentale imposto da Napoleone. Goethe fece costruire uno stabilimento, procurando il sostegno finanziario del governo e suo personale, e assunse anche il ruolo di propagandista: dava dimostrazioni pubbliche del procedimento, bollendo l'amido con acido in un vaso di coccio.

Quando Döbereiner inventò l'accendisigari (funzionava a idrogeno che s'infiammava spontaneamente all'aria grazie a una spugna di platino che fungeva da catalizzatore), Goethe gli consigliò di brevettarlo; il professore non gli diede retta, ma se ne pentì ben presto, perché la sua invenzione, resa di dominio pubblico, andò a ruba.

Allievo di Döbereiner divenne Friedlieb Ferdinand Runge. Questi nel 1819 fu ricevuto dal settantenne Goethe, che, studioso della vista, s'interessava moltissimo ai suoi lavori sull'effetto degli alcaloidi nella dilatazione della pupilla. Alla fine del colloquio il poeta gli regalò una scatola di chicchi di caffè, dicendogli: «Può usare anche questo per le sue ricerche!» Poco tempo dopo il venticinquenne Runge isolò la caffeina... Ma è ormai ora che chiudiamo questa digressione e apriamo finalmente il promesso discorso sull'origine della reattività chimica.


Il baratto degli elettroni

Abbiamo già preso confidenza col sistema periodico (vedi p. 44) come fonte d'informazioni sul numero di particelle dotate di carica positiva o negativa che si trovano negli atomi di un elemento qualunque. Riprendendo in esame le configurazioni elettroniche che abbiamo imparato a ricavare verso la fine del capitolo precedente, possiamo osservare un fatto che presto si rivelerà foriero di grosse conseguenze.

L'idrogeno ha un elettrone solo (che sta nella prima orbita), mentre il litio ne ha tre. Questi, però, si dispongono, come possiamo dedurre dalla regoletta 2n^2, in modo che nell'orbita più esterna (la seconda) se ne viene a trovare comunque soltanto uno. Altrettanto succede negli atomi di sodio: un elettrone nell'orbita più lontana dal nucleo (la terza, in questo caso). Un'occhiata alla tavola periodica ci rivela che questi tre elementi stanno uno sotto l'altro nella stessa colonna o, come si dice, nello stesso gruppo, che è il primo. Le configurazioni elettroniche degli altri elementi del gruppo (potassio, rubidio, cesio...), che si potrebbero ricavare se si applicassero i risultati di quella teoria più complicata a cui questo libro divulgativo ha scelto di non arrivare, presentano comunque un elettrone nell'orbita esterna: la quarta negli atomi di potassio, la quinta in quelli di rubidio, e così via.

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Penso, dunque esiste (la chimica)



IL capitolo precedente ha cercato di fornire qualche esempio di come la natura si basi largamente sulla chimica, sia per il mondo inanimato delle rocce e dell'atmosfera, sia per gli esseri viventi. Abbiamo visto un caso, quello dei feromoni, in cui solo qualcuno pensa che anche nell'uomo agiscano meccanismi simili a quelli che determinano certi comportamenti degli animali. Ora invece, per due capitoli, saranno proprio gli esseri umani a venire indicati senza dubbio come soggetti, sia pure inconsci, di reazioni chimiche che costituiscono la base stessa della loro vita materiale. Anche qui, naturalmente, non si potranno fare che pochi esempi rispetto ai tantissimi possibili, altrimenti ci vorrebbe un intero trattato di fisiologia umana; in questo capitolo ci limiteremo a osservare un aspetto per molti inatteso.

Potremmo infatti scegliere di addentrarci nei meandri della trasmissione degli impulsi nervosi fra un neurone e l'altro, dove diverse sostanze s'incaricano di far da mediatrici. Oppure potremmo scandagliare gli abissi misteriosi in cui il cervello lavora per dare una base concreta ai pensieri nati nella psiche, e addirittura, in qualche caso, per fornirle spunti. Si tratta di processi in parte noti e in parte appena appena intuiti, di cui comunque si fa già un gran parlare da molti anni, a causa della tendenza (potremmo addirittura dire: del bisogno innato in ognuno) di scivolar fuori, in campi di questo genere, dal terreno strettamente scientifico. C'è, come già facevano i positivisti ottocenteschi, chi trova nel chimismo cerebrale la base di un materialismo metafisico che arriva a identificare i pensieri stessi con sostanze chimiche e reazioni, e chi al contrario accetta la visione, molto più serena, dell'essere umano fatto di spirito, ma anche di corpo, e cioè di cellule e molecole che sfruttano le leggi della biologia, della chimica e della fisica.

Se ne fa già un gran parlare, dicevamo: sicché il ruolo della chimica in quei complicatissimi processi, pur ben lungi dall'esser chiaro nei dettagli per gli stessi scienziati, è ormai immaginato almeno dalle persone che seguono la divulgazione scientifica sulle pagine dei giornali. Ci siamo perciò sentiti autorizzati ad alterare il ben noto detto di Cartesio (Cogito ergo sum, «penso, dunque esisto») per intitolare questo capitolo. Vogliamo tuttavia presentare ai lettori qualcosa di cui invece non si parla affatto, e cioè il modo in cui la chimica entra da protagonista in un'altra nostra attività importantissima e continua, con probabile sorpresa di molti.

La luce è un segnale puramente fisico. Eppure è alla chimica che il senso della vista è legato strettamente fin dalla ricezione dello stimolo esterno. Le indagini, che hanno portato a comprendere íl funzionamento del microscopico ma complicatissimo laboratorio chimico esistente nel fondo dell'occhio, sono sempre state estremamente difficili. Infatti, oltre a dover risolvere i problemi normali nella ricerca biochimica, in questo campo occorre lavorare al buio, altrimenti non è possibile isolare e studiare le sostanze coinvolte nelle fasi iniziali. Non si può aprire alla luce una macchina fotografica senza alterare l'emulsione della pellicola: ebbene, per le ricerche sulla vista il problema è simile ma ancora più serio, e potrebbe interferire persino la lucina rossa che i fotografi usano per lavorare nella camera oscura. Prima dell'introduzione degli occhiali a raggi infrarossi, avvenuta negli anni '50, i ricercatori non potevano vedere quello che stavano facendo, e quindi lo studio della vista era come se fosse paradossalmente affidato a dei ciechi.

In questo quadro di difficoltà oggettive si sono inserite, come in qualunque altro settore della ricerca scientifica, quelle causate da invidie, gelosie e perfino scorrettezze. Poco prima del 1990, negli Stati Uniti, una commissione dei National Institutes of Health prese la grave decisione di sospendere i finanziamenti a un professore della Purdue University: egli era stato incaricato dalla National Academy of Science di esaminare il manoscritto su un aspetto della biochimica della vista inviato per la pubblicazione da Robert Rando, noto ricercatore di Harvard. Secondo l'accusa, l'esaminatore approfittò di quella conoscenza in anteprima per pubblicare un lavoro da lui presentato come originale, ma in realtà copiato.

Lasciamo perdere í retroscena e torniamo alle conoscenze sul funzionamento dell'occhio. La luce entra attraverso la cornea e la sua intensità viene regolata dall'iride; questa, agendo come il diaframma di una macchina fotografica, allarga o restringe la pupilla. Tuttavia il diametro di quest'ultima può variare, al massimo, di quattro volte; allora come facciamo a vedere sia al buio quasi completo sia in pieno sole, con un rapporto pari circa a dieci miliardi fra le luminosità estreme? Indicheremo più avanti che esiste una risposta chimica anche a questa domanda. Qui proseguiremo col fenomeno iniziale della visione.

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Profumo di molecola



Nasi veri e artificiali


SE qualche lettore potrà essersi meravigliato, leggendo che il primo atto del senso della vista è una reazione chimica, nessuno si stupirà invece del fatto che altri due nostri sensi, l'olfatto e il gusto, reagiscano a stimoli chimici. Quindi stavolta non si tratta di svelare nulla, ma solo di riflettere un tantino sui loro meccanismi, che svolgono certamente un ruolo notevole nella nostra vita.

Sebbene non siano di per sé sintomi di malattie mortali, i cosiddetti disturbi chemiosensòri, cioè la perdita di sensibilità di naso o palato, possono infatti esporre comunque a gravi pericoli. Evidentemente chi non è in grado di sentire odori o sapori sgradevoli rischia un'intossicazione molto più di una persona normale.

Per quanto riguarda l'olfatto, la perdita totale è rara, ma sono invece diffusissime le cosiddette anosmie specifiche, cioè le insensibilità a una o più sostanze particolari (anosmìa viene dal greco osmè, «odore», col prefisso privativo an). Praticamente non esiste una persona capace di sentire tutti gli odori. Sfruttando questi difetti, attribuiti a mancanza di alcuni tipi di ricettori olfattivi, negli ultimi trent'anni si è riusciti a stabilire una chiara relazione fra struttura molecolare di alcune sostanze volatili e la sensazione odorosa che provocano nei soggetti dotati dei ricettori opportuni.

Il ragionamento è questo: se una persona sente un grandissimo numero di odori, ma non quelli delle sostanze A, B e C, e le altre persone avvertono la presenza di A, B e C con un unico odore, è molto probabile che A, B e C siano adatte a stimolare lo stesso tipo di ricettore, proprio quello che manca al soggetto anomalo. Allora diventa interessante cercar di cogliere le analogie strutturali fra le molecole di A, B e C: per poter interagire con lo stesso ricettore, infatti, esse devono assomigliarsi in qualcosa.

A dire il vero la faccenda è assai complicata. Come ha spiegato nel marzo 1999 Piero Piazzano sulla rivista telematica The Alchemist (già citata nel capitolo 8), il nostro naso riesce a distinguere oltre diecimila odori diversi, pur disponendo solo di un migliaio di ricettori. In effetti la ricercatrice Linda Buck del Massachusetts ha dimostrato che a ciascun odore l'olfatto assegna un codice, combinando le risposte di più ricettori.

Nonostante questa difficoltà aggiuntiva, un certo numero di risultati sperimentali fa oggi ritenere che la somiglianza fra le suddette molecole A, B e C possa riassumersi in forma, dimensioni e presenza di gruppi di atomi con proprietà simili in posizioni corrispondenti.

In un certo senso, quindi, aveva ragione Cartesio, anche se collegava troppo rozzamente forma e proprietà, e attribuiva, per esempio, l'odore acuto dei vapori acidi a molecole spigolose e pungenti. Anche Lucrezio, molti secoli prima, aveva una visione di quel genere. L'idea moderna, naturalmente, è assai più raffinata: si basa sull'ipotesi che la forma geometrica e le caratteristiche chimiche dei ricettori nasali siano adatte a ricevere alcune molecole piuttosto che altre.

Sono ancora pochi, tuttavia, i casi in cui si è potuta stabilire una relazione sicura fra struttura e odore. Uno di questi è quello del componente naturale dell'aroma di peperone (una pirazina) e di un suo equivalente sintetico (un tiazolo). Si tratta di sostanze dall'odore potentissimo o, come si dice scientificamente, dalla soglia olfattiva molto bassa. Quest'ultimo concetto merita di essere chiarito con alcuni esempi.

Se ci avviciniamo sottovento a un gruppo di una decina di abeti durante una giornata estiva un po' umida (cielo poco nuvoloso) con una brezza leggera (circa dieci chilometri all'ora), cominciamo a sentire l'odore di un idrocarburo detto α-pinene (componente principale dell'acqua ragia, o essenza di trementina) quando siamo a una quindicina di metri di distanza. Più lontano la sua concentrazione nell'aria è al di sotto della sua soglia olfattiva, cioè del minimo riconoscibile a naso, che è circa tre parti per miliardo (tre volumi di vapore di α-pinene in un miliardo di uguali volumi d'aria).

Un livello così basso sembra davvero un'inezia, ma aspettiamoci ben altro: molto più potenti sono alcuni effluvi sgradevoli. Il secreto delle ghiandole situate nella regione anale della puzzola nordamericana Spilogale gracilis contiene alcuni fetidi composti solforati; di essi il più abbondante è l'iso-amìl-mercaptàno (i mercaptàni sono composti organici contenenti un gruppo —SH), che però, con una soglia olfattiva di una parte per miliardo, si sente a non più di sette metri in condizioni paragonabili a quelle descritte per l'α-pinene emanato dal boschetto di dieci abeti. Non un puzzo da record, insomma. Ma il secondo componente, il crotìl-mercaptàno, pur presente in dosi circa pari a metà, ha una soglia olfattiva di soltanto due centesimi di parti per miliardo (due parti su cento miliardi); così se ne sente l'odore anche a una quarantina di metri dalla puzzola che l'ha emesso.

L'odore del pesce marcio è dovuto a composti azotati detti ammine; il maggiore responsabile di quella sgradevolissima sensazione è la trimetìl-ammina.

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Provette e profumi


Nonostante che le conoscenze in materia di odori siano tuttora alquanto empiriche e il funzionamento dell'olfatto non sia ancora stato ben chiarito, tuttavia negli ultimi centodieci anni la chimica ha dato un enorme contributo allo sviluppo dell'arte antichissima della profumeria.

Testimonianze della fabbricazione di profumi si hanno nelle vestigia dell'antico Egitto, nella Bibbia, nella mitologia greca, nelle opere di Teofrasto, allievo di Aristotele e suo successore alla direzione della scuola peripatetica. Sino quasi alla fine del secolo scorso, tuttavia, i profumieri non hanno avuto a disposizione che pochi ingredienti di origine animale o estratti da fiori, agrumi, erbe, resine e legni aromatici.

Questi componenti naturali, in parte usati ancor oggi, hanno il non piccolo difetto di essere costosi; inoltre sono incostanti nelle qualità, perché risentono notevolmente della provenienza delle materie prime e di cambiamenti anche piccoli (e perciò incontrollabili) nei processi estrattivi. Infine, il loro approvvigionamento, in certi casi, può incontrare ostacoli improvvisi e quindi non è da considerarsi garantito. Emblematico è il caso dell'ambra grigia, che era un sottoprodotto dell'industria baleniera e fu vietato non moltissimi anni fa per proteggere i cetacei.

Si capisce dunque come l'introduzione del primo ingrediente sintetico rivoluzionò la profumeria. Ciò avvenne nel 1882, quando Paul Parquet creò il profumo Fougère Royale per la Houbigant. Egli aggiunse all'acqua di Colonia la cumarina, sostanza a cui si deve l'odore del fieno tagliato da poco e per la quale William Henry Perkin, cinque anni prima, aveva inventato una sintesi conveniente. La parola francese fougère (felce) passò a indicare il nuovo tipo di accordo.

L'acqua di Colonia, il più tradizionale dei profumi, era nata quasi due secoli prima (1695) dalla creatività di Giampaolo Feminis, merciaio ambulante di Crana in Val Vigezzo (Novara); fu poi lanciata a Colonia (donde il nome) da suo nipote, Gian Antonio Farina, nel 1716. Un discendente di questi, il famoso Giovanni Maria Farina, creò nel 1806 il marchio Eau de Cologne. Con l'aggiunta del primo prodotto sintetico a opera di Parquet, si aprivano possibilità non immaginabili prima.

Negli ultimi anni del secolo i chimici riuscirono a produrre per sintesi la vanillina e gli iononi; la prima fece nascere i moderni profumi orientaleggianti, il cui capostipite fu Shalimar di Guerlain (1925). A questa famiglia, tuttora viva, appartengono oggi Obsession di Calvin Klein e Must de Cartier. L'aggiunta degli iononi creò una variante con note di violetta (il greco ìon significa «viola»); questo tema, già presente in L'heure bleue di Guerlain (1912), è oggi ripreso da Oscar de la Renta della Stern.

Nel 1917 il còrso François Coty creò un profumo con cui voleva ricordare l'odore della sua terra nativa, ma senza preoccuparsi di dichiararlo esplicitamente, tant'è vero che ritenne più utile commercialmente chiamarlo Chypre. La novità, rispetto a un tema vecchio di sette secoli (l'avevano importato i crociati e il nome deriva dall'isola di Cipro), sta nel più intenso odore di cuoio dovuto all'aggiunta di derivati della chinolina.

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L'alambicco dei sapori


Per l'altro nostro senso chimico, il gusto, siamo ancora allo stadio delle teorie, e i fatti sperimentali sono poco illuminanti. Anthelme Brillat-Savarin aveva scritto nella Fisiologia del gusto (1825): «Coloro che verranno dopo di noi ne sapranno di più: senza dubbio la chimica rivelerà loro le cause e gli elementi fondamentali dei sapori». Per ora, tuttavia, la profezia del famoso buongustaio e dietologo francese s'è avverata solo in piccola parte.

Si può dire che i sapori base sono pochi: dolce, salato, acido, amaro, a cui alcuni studiosi ne aggiungono talvolta un altro o due. L'effetto d'insieme di un cibo è però dovuto senza dubbio anche all'odore, spesso percepibile internamente attraverso la faringe e le coane, e al tatto, presente, ovviamente, anche all'interno della bocca, che reagisce diversamente alle diverse viscosità dei liquidi e alle diverse forme, dimensioni, morbidezza e cremosità degli alimenti solidi e semisolidi.

Il primo obiettivo della ricerca è dunque identificare i componenti responsabili del sapore; dopo di che si può tentare di andar oltre e rispondere a domande del tipo: perché quella sostanza ha quel certo sapore? Perché di due composti chimici, che hanno strutture molecolari a prima vista simili, uno ha sapore intenso e l'altro è insipido?

Tanto per cominciare, diciamo che il termine chimico acido è nato secoli fa, quando tale etichetta veniva attribuita a ciò che ha sapore, appunto, acido. Ora i chimici usano altre definizioni e altri metodi sperimentali per stabilire se una sostanza è – chimicamente parlando – acida. Anzi, sarebbe bene che ogni insegnante di scienze dicesse chiaramente ai principianti che le sostanze del laboratorio chimico non vanno assaggiate mai. Purtroppo, in alcuni libri delle scuole medie inferiori e superiori si trovano ancora definizioni tentatrici, quando non addirittura inviti più o meno espressi a fare degli assaggi: gli autori di quei libri non si rendono conto che gli inesperti possono, di propria iniziativa, mettersi ad assaggiare qualcosa di veramente pericoloso.

Tornando al sapore acido, esso è davvero collegato all'acidità chimica, cioè alla presenza di atomi d'idrogeno ionizzabili, ma può essere influenzato dal resto della molecola. L'acido acetico, a parità di concentrazione, ha infatti un sapore più acido di quello dell'acido citrico, e, in genere, gli acidi organici risultano più acidi all'assaggio che non quelli inorganici.

La sensazione di salato è dovuta agli ioni sodio e potassio; anche in questo caso, però, non bisogna perdere di vista l'intera composizione: mentre il cloruro di sodio (il sale da cucina) è emblematico del sapore di sale, il corrispondente bromuro, noto sedativo, ha un gusto misto (salato/amaro).

Per la sensazione di amaro, diremo che essa sembra dovuta a molecole con gruppi idrofobici, cioè con scarsa o nulla affinità per l'acqua, le quali vengono catturate, nei ricettori gustativi, da cavità anch'esse idrofobiche. Per le sostanze dolci le relazioni struttura-sapore, ancora più complicate, sono solo vagamente interpretabili. Le teorie, se vogliono essere generali, registrano ancora numerose eccezioni, mentre hanno fornito qualche buon risultato se si sono limitate a certe classi di sostanze. In questi casi esse, basandosi su alcune caratteristiche strutturali di composti dolci ben noti, hanno superato almeno la prova dell'utilità, cioè hanno permesso di progettare la sintesi di dolcificanti sintetici particolarmente potenti; alcuni di questi, a cui accenneremo nel capitolo 13, sono oltre duecentomila volte più dolci del saccarosio, cioè dello zucchero comune.

Perché una molecola provochi una sensazione di dolce, sembrerebbe importante la presenza di un legame azoto-idrogeno o ossigeno-idrogeno situato a 2,8-4 ångström da un altro atomo d'ossigeno o d'azoto (l'ångström, lo ricordiamo, è la decimilionesima parte del millimetro). È probabile che si stabilisca così, col ricettore, un doppio legame detto appunto «a idrogeno», reso possibile dalle rispettive strutture. Se la distanza fra l'atomo d'azoto o d'ossigeno che porta l'atomo d'idrogeno e l'altro atomo d'azoto o d'ossigeno è maggiore di 4 ångström, la molecola non combacia coi due punti di attacco sul ricettore; se la distanza è minore di 2,8 ångström, allora il legame a idrogeno si stabilisce all'interno della molecola stessa, e questa perde la possibilità di attaccarsi al posto giusto per suscitare la sensazione di dolce.

La teoria basata sul legame a idrogeno fu lanciata nel 1967 da Robert Shallenberger e Terry Acree, ma già nel 1914 il tedesco Georg Cohn, che pubblicò ben novecento pagine di strutture di composti organici, raggruppati secondo i rispettivi sapori, aveva sostenuto che per il sapore dolce erano necessari nella molecola gruppi azoto-idrogeno e ossigeno-idrogeno.

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