Copertina
Autore Goffredo Fofi
Titolo Da pochi a pochi
SottotitoloAppunti si sopravvivenza
EdizioneEleuthera, Milano, 2006 , pag. 152, cop.fle., dim. 124x190x10 mm , Isbn 978-88-89490-17-4
LettoreRiccardo Terzi, 2006
Classe politica
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Indice


     Prefazione                       7
  I. Tutti gabbati                   11
 II. Dentro l'Italia                 35
III. Passato e presente              71
 IV. Asfissiante cultura             89
  V. Che fare                       107


 

 

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Pagina 11

I
TUTTI GABBATI



Le tre condanne


Scegliere è impossibile, ma lo fosse stato, dubito che avrei scelto di vivere in questo presente, mentre mi sono andati benissimo gli anni fino ai Settanta... Soffro molto, ogni tanto, di vivere quest'epoca, di essere italiano, di essere una persona molto «sociale», grandemente attirata dallo spettacolo della vita, fortemente comunitaria, con un vivo senso e con un grande bisogno della comunità. In altri tempi ero orgoglioso del mio tempo, della mia nazionalità, del mio istinto di socialità. Oggi lo sono molto meno, e talvolta confesso di vergognarmene. Eppure, coerentemente con la definizione che mi viene spesso da darmi quando qualcuno mi accusa di avere una visione troppo nera, quella di «pessimista attivo», da preferire a quella gramsciana così famosa e sfruttata in altri tempi anche da chi era in realtà «ottimista della volontà di potenza», di queste «condanne» credo si debba farsi una forza: qui siamo, e qui dobbiamo fare la nostra parte, rompere le scatole, dare il nostro possibile contributo alla resistenza ai disastri che incombono. Come, lo si vedrà volta a volta, se si ha un super-io ben collocato, una coscienza dei propri doveri di «contemporaneo», di appartenente a una comunità, di cittadino, senza rinunciare a sentirsi ed essere individui, ma nel collegamento con altri individui che la pensino come noi, o che soffrano più di noi. Procederò in modi forse incoerenti, in queste povere riflessioni che seguiranno, e che tutte dipendono dall'assunzione di queste tre condanne come occasioni di chiarezza e di risposta. Procederò per esempi, per deviazioni, per messe a punto su oggetti talora secondari rispetto ad altri più importanti, che però io non sono in grado di affrontare con il solo apporto dell'esperienza. Spero che il cammino risulti alla fine chiaro al lettore paziente e partecipe. La conclusione possiamo dirla anche subito: accettare queste condanne e anzi farsene una forza, ma senza accettare i ricatti che se ne fanno opportunisticamente derivare. (Spero sia chiaro perché non si affrontano in queste pagine i temi oggi, e domani, centrali e dominanti, dalle cause e gli effetti della globalizzazione alla scienza all'ecologia alla pace, sui quali si leggono raramente cose convincenti e profonde, ma soprattutto si leggono banalità, e le più insipide sono forse quelle dei filosofi. Non sono in grado di poterli affrontare, e dunque affronto gli argomenti e i problemi che mi toccano più da vicino e per i quali può valere l'alibi dell'esperienza).


Grandi e piccole virtù


Noi non abbiamo avuto la Riforma, dicevano i vecchi maestri alla Salvemini (che aggiungeva: in compenso abbiamo avuto la Controriforma) e nessuno è mai riuscito a convincerci che il bene del singolo è effetto del bene collettivo. Lo Stato è tornato ad apparirci lontano, ed è da tempo che, di nuovo, «non possiamo non dirci qualunquisti» e che non ci fidiamo più degli uomini politici neanche quando transitoriamente li idolatriamo. Uno dei due motti più rappresentativi delle nostre convinzioni profonde, il napoletano «qua nessuno è fesso» (dell'altro, alla base di tutta la nostra mentalità, diremo avanti) va tornando di moda, e la città che lo ha inventato torna a essere un popolo di «fessi», tutta l'Italia è un popolo di «fessi»: perché se nessuno è «fesso» lo sono tutti, se tutti possono fregarmi, nessuno è onesto, me compreso. Ma c'è un altro modo di considerarsi diversi, oltre questa distorta concezione dell'individualismo, per potersi sentire ed essere più forti, ed è l'esaltazione, peraltro facilmente messa in discussione, dell'appartenenza a un gruppo. Anche se quest'appartenenza può durare poco, perché voltar gabbana è la naturale conseguenza del nostro, antropologicamente consolidato, culto del «particulare». Pur potentissimo, l'interesse del piccolo gruppo, dal clan alla lobby, dalla corporazione al partito, dalle «chiese» alle «mafie», si vede però costretto ad arretrare di fronte a una sola forza, rappresentata dal secondo grande motto della cultura nazionale, «ho famiglia».

Da molti anni ormai, una delle manifestazioni dell'ipocrisia di chi ci amministra e ci guida che mi colpiscono di più – assieme agli immensi pannelli che coprono i muri dei palazzi e delle chiese con la scusa dei lavori in corso, assieme alla fetida invasione delle automobili e di motociclette e motorini, che offendono l'antica bellezza delle città – è la cosiddetta «pubblicità progresso». Una cosa minima, pensano in molti, e anzi «progressista», «sociale». La «pubblicità progresso» è fatta di immagini preoccupanti o rassicuranti, intercambiabili, e di slogan in favore delle buone opere (e guarda: «compagnia delle opere» si chiama, tra parentesi, uno dei gruppi di potere più forti e di più forte coesione, dei tanti che navigano tra il palese e il nascosto, nella regione che considerammo a lungo come la più ricca e civile del paese, la Lombardia che fu dei Cattaneo dei Beccaria dei Manzoni). Ma essa consiste anzitutto in appelli alla nostra buona educazione, in richiami contro le tante forme di maleducazione diffuse tra noi, nel richiamo alla coscienza dei diritti-doveri del singolo in nome di una migliore convivenza.

La «pubblicità progresso» è una delle forme più raffinate di quel «fascismo del nostro tempo» che è la pubblicità, che è lo strumento privilegiato di propaganda cui si rivolgono i poteri economici – e allora il messaggio è «comprate!», il messaggio è il Consumo – e quelli politici – e allora il messaggio è «siate d'accordo!», il messaggio è il Consenso allo stato di cose presente, al mondo com'è. A volte i messaggi della «pubblicità progresso» sono condivisibili, nella loro melensa superficialità. Delle campagne più costose e nazionali vengono incaricate grandi e costose agenzie che hanno formato «esperti» in questo campo, o a quei loro copywriters che sono riusciti a far trionfare una marca di biscotti o uno stilista, ma ogni regione e provincia, ogni istituzione pubblica o privata ha i suoi. Dalle ex FFSS diventate Trenitalia – il ministero dei Trasporti spende più volentieri in look e in costose campagne che ci convincano che stiamo viaggiando sui treni migliori del mondo invece che per il rispetto degli orari o per il normale funzionamento dei gabinetti – ai gruppi del terzo settore e del fu volontariato, i modelli correnti sono subdoli e ricattatori. Qualche anno fa mi colpirono le cartoline diffuse dalla provincia di Napoli, alla cui presidenza era allora un esperto di lotta politica in zone di camorra. Su fondo nero, una mezza faccia bianca risaltava a fianco di una scritta ugualmente bianca, mentre una sottile fascia rossa portava in nero la scritta Sulle Piccole Illegalità Crescono i Grandi Crimini. Ecco cosa dicevano le grandi facce: «Sì, fumo sigarette di contrabbando. Ma che c'entra la camorra?», «Sì, non ho emesso lo scontrino. Ma che c'entra la frode fiscale?», «Sì, mi son dato malato. Ma che c'entra la truffa ai danni dello Stato?», «Sì, gioco al totonero. Ma che c'entrano i morti ammazzati?», «Sì, ho comprato uno stereo rubato. Ma che c'entra il racket?». Per il presidente di cui sopra e per i suoi amici di «Libera», si sarebbe potuto aggiungere: «Sì, ho fatto carriera grazie ai discorsi contro la camorra. Ma che c'entra la camorra?». Davvero chi smerciava e fumava sigarette di contrabbando a Napoli doveva sentirsi complice della camorra, e non vittima di un sistema economico che costringe ancora e sempre all'arte di arrangiarsi la parte più debole e meno protetta di una popolazione, quella che viene abbandonata alla disoccupazione o sottoccupazione? Anche i sensi di colpa dovrebbero avere delle priorità, per esempio quelli dei politici dovrebbero essere più grandi degli altri, ma costoro non ne hanno mai; non fa forse parte della loro arte istillarne negli altri, giocar di ricatti sul tipo del «vota per noi, perché gli altri sono peggiori di noi»?

Sugli altri modi, fare i furbi denunciato da quella pubblicità napoletana ho meno resistenze, ma molte perplessità. Esse derivano dalla coscienza che il sistema economico in cui viviamo è pur sempre quello capitalistico, e che il capitale, nonostante quello che i capitalisti e i loro sodali o servi (i giornalisti) ci dicono, non è precisamente il regno della giustizia economica: e mai come oggi può colpirci la domanda di Brecht se svaligiare una banca sia più criminale che fondare una banca. Inoltre, da che ho l'età della ragione non ricordo una sola stagione, quasi ogni giorno della mia vita, che non sia stato scandito da qualche scandalo pubblico, non so ricordare una sola settimana e forse un sol giorno, in cui un giornale del mattino o un telegiornale della sera non ci abbiano sparato in fronte una qualche truffa o scandalo della nostra classe dirigente – politici, industriali, banchieri, funzionari pubblici e anche magistrati, prelati, «forze dell'ordine»... tutti in vario modo bravissimi nel mentire, mostrando il massimo di compunzione o di sdegno.

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Pagina 58

Perché non possiamo non dirci anti-americani


Un film ha raccontato qualche tempo fa la storia degli USA con sguardo disincantato e tuttavia epico, Gangs of New York, dell'italoamericano Martin Scorsese, che a New York è cresciuto e alla città ha dedicato altri bei film. Ma non è importante, Gangs of New York, solo per i suoi valori estetici quanto per il modo attuale di leggere la storia di quel grande paese. Un modo che è bensì fortemente «europeo», più europeo che mai, per questo regista che qui pesca da Shakespeare, da Victor Hugo, da Dickens a piene mani. Anche nella convinzione che il distacco di quel grande paese dall'Europa è stato lento e faticoso, poiché ondate di migranti dal Vecchio Mondo hanno continuato ad arrivare nel Nuovo, lottando con le prime ondate per il loro «posto al sole».

Scorsese racconta la guerra delle bande, «nativi» contro irlandesi, che a metà Ottocento furono l'ondata nuova e più forte. Gli unici veri «nativi» da quelle parti erano stati i pellirosse – respinti a Ovest e perlopiù massacrati dai poveri arrivati dall'Europa – quei veri nativi che avevano venduto l'isola di Manhattan a migranti europei per un tozzo di pane e le solite quattro collanine di vetro offerte da un popolo di furbi magliari. A metà Ottocento, assistiamo a una guerra di bande dove le bande sono anche quelle della borghesia, della polizia, di tutti i poteri e sottopoteri ufficiali, e mentre uno Stato ancora fragile è lacerato da una tremenda guerra civile che esige il sangue dei giovani e impone la coscrizione obbligatoria. Un alto prezzo di morte in una guerra tra fratelli, che predica nuove fratellanze ma intanto squarta e calpesta, violenta e divora.

Scorsese ricorda agli «americani» – cioè agli statunitensi, che da sempre credono di essere solo loro gli aventi diritto a questo nome; e anche dire statunitensi non dovrebbe bastare, poiché ci sono gli Stati Uniti del Messico, quelli dell'Argentina, del Brasile, del Canada... – che la loro storia di ieri è ugualissima a quella, che so, della ex Jugoslavia di qualche anno fa, o di altri consimili storie di nazioni nate o morte di guerre tribali; che la loro nazione è nata da un connubio peggio che pericoloso, ma forse come tutte le nazioni, tra malavita e politica, un incontro che è di nuovo al potere in tantissimi paesi, con ben poche eccezioni, dalla Russia a certi paesi arabi e, ma sì!, anche all'Italia e ai medesimi USA. Guerre barbariche, perché, infatti, dov'è la civiltà? forse dalla parte dell'imperialismo belga, o inglese, o francese di ieri? o di quello «americano» di oggi?

Ma, si dirà, dalla metà dello scorso secolo a oggi molte cose sono cambiate, e l'America non è più la stessa. Appunto. Cosa è diventata l'America (USA), oggi? C'è stato un periodo non molto lungo in cui è stato possibile pensare alla democrazia statunitense come a un grande modello. Ci hanno creduto Tocqueville, depresso dalle monarchie europee; ci ha creduto Hannah Arendt, emigrata per sfuggire al nazismo; mentre un grande filosofo e pedagogista wasp (bianco, anglosassone, protestante) come John Dewey ha pensato che fosse possibile coniugare Educazione e Democrazia, che fosse possibile cioè arrivare alla piena democrazia attraverso l'educazione.

I «se» non servono a niente, ma se fossero vivi oggi, c'è da dubitare che Tocqueville, Arendt, Dewey la penserebbero ancora sulla democrazia statunitense come ai loro tempi. Il mondo è radicalmente cambiato, soprattutto, con rapidità agghiacciante, negli ultimi trent'anni, e sono cambiati i dati stessi del problema. È possibile riconoscersi sempre in una parte (anche se molto minoritaria) degli USA, naturalmente, come in una parte ahinoi sempre più piccola dell'Italia e di altri paesi, e «internazionalisti» bisogna continuare a esserlo anche se pochi. Però, come in Italia, anche negli USA la democrazia sembra aver fallito ed essere diventata né più né meno che uno dei modi di gestire il potere più tranquillo di altri, qualora l'economia tiri – e spesso la si fa tirare, se si è un paese molto forte, costringendo gli altri ai propri voleri e interessi, e se la crisi è grave con la vecchia ricetta della fabbrica delle armi, dell'industria della guerra. (È ancora un film, Elephant, ad averci raccontato in modi più angosciati di altri l'America armata dell'interno e la disperazione dei suoi giovani di fronte al vuoto di senso che prepara una cultura della menzogna, della paura e della violenza).

Col consumo e col consenso si domina senza vere difficoltà; ma se cala il consumo? Intanto, per quel che riguarda gli USA, è indubbio che la loro massima abilità è stata, almeno dal '45, e negli ultimi anni con un successo in Italia che forse non ha equivalenti in nessun altro paese del pianeta, quella di riempirci di loro immagini e loro modelli che pian piano sono diventati anche nostri. L' American way of life di ieri aveva molte cose per piacerci (pensiamo ai modi complessi in cui ci veniva presentata da certi scrittori registi cantanti artisti amatissimi da noi perfino più dei nostri migliori), ma ha ancora quelle particolarità, quelle ragioni per attrarci? La violenza con cui ha finito per volersi imporre a tutti e dovunque, negli ultimi trent'anni, e dopo l'ultima crisi del Vietnam e la sconfitta dei movimenti negli anni Settanta, ci ha mostrato bensì un paese sempre meno simpatico, un'umanità sempre più robotizzata o infelice e una assenza di proposte di «un mondo migliore» invero sconcertante per la mediocrità dei suoi postulati e l'insincerità e frigidità dei suoi esempi. Sguardi e parole di Bush rappresentano con efficacia tutto questo.

In un numero dell'indispensabile «Internazionale» vidi molti mesi or sono una foto, su due piene pagine a colori, del fotografo di guerra Scott Nelson: sulla destra, davanti alla soglia di una povera casa dalla povera porta segnata con il gesso da un misterioso «F2», un giovane uomo barbuto, le mani dietro le spalle, con alle spalle un bambino che è presumibilmente suo figlio e che è scalzo mentre lui è in sandali, fronteggia con pacifica tranquillità e dignità tre figure enormi e incombenti, sulla parte sinistra della foto. Si tratta di tre soldati statunitensi sovraccarichi d'armi e in divise mimetiche mostruosamente rigonfie, dai volti paffuti e di scarsa espressione, che in un gesto tra paura e aggressività puntano mitragliette più che moderne.

Sono ancora «uomini», costoro? È questa «l'America» che vorrebbe imporre al mondo il suo way of life? Elsa Morante avrebbe detto: di qua, nella foto, tra i poveri e disarmati sta la Realtà, di là l'Irrealtà. Di qua l'umano, o quel che ancora ne resta, con le sue bellezze e le sue brutture – la vita e la morte, l'amore e il dolore, la fame e la fatica, e magari anche il terribile dell'umano che si annida nelle passioni e che porta all'odio. Di là l'essenza del non-umano, le armi più moderne (e già Auschwitz e Hiroshima hanno indicato tanti anni fa cosa fossero in realtà) e la televisione (l'educazione via media, la cultura della manipolazione del consenso). Ma quel che è ancora più grave è la forza di corruzione che sulle altre culture questa cultura del consumo, dell'alienazione, della robotizzazione, della violenza ha finito per avere. E oggi non è esagerato dire che la cultura statunitense, il potere statunitense, stanno portando il mondo alla sua, forse definitiva, rovina. No, non è esagerato.

Per tutto questo, e per molto d'altro, oggi «non possiamo non dirci anti-americani».

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Pagina 115

Quali minoranze


Si scherzava, anni fa, attorno a un nostro possibile slogan: «Minori, minorati, minoritari di tutto il mondo unitevi!». Ma non lo abbiamo mai usato, in nessun articolo e in nessuna occasione, ed è perché non ne eravamo veramente convinti. C'è minore e minore, c'è minorato e minorato, c'è minoritario e minoritario...

È stato giusto che si lottasse per i diritti di minoranze e parti della società vilipese, trascurate, oppresse da maggioranze conformiste e imbecilli o, più semplicemente, maggioranze attaccate ai propri privilegi e pronte a difenderli senza rispetto per nessuno. Bene, è stato fatto – non completamente, non dovunque; e dove ancora la disuguaglianza è grande, dove l'oppressione è ancora forte, è giusto che si continui in questa azione, su questa strada. Ma con una esigenza ulteriore, dettata da una coscienza più chiara che è nata via via dalla nostra partecipazione o, quando questa non era possibile, dal nostro voler capire e dal nostro voler aiutare con gli scritti e le parole le minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali schiacciate in vario modo da maggioranze prepotenti e aggressive. Questa ulteriore esigenza è nata anche, talvolta, dalla coscienza dei limiti di questa nostra solidarietà e partecipazione, limiti che abbiamo avvertito nella nostra stessa convinzione e di cui talora quasi ci siamo vergognati per il fatto stesso di sentirli.

In breve: non ci soddisfa appieno, o non ci soddisfa più, un concetto di minoranza, diciamo così, di «nascita» e ci rendiamo ogni giorno di più conto della sua insufficienza, e rivendichiamo la possibilità di giudicare anche le minoranze non dal fatto che siano tali, ma dalle loro idee, dai loro progetti, dalle loro azioni e dal loro rapporto con altre minoranze (anche avversarie!). Dai modi del loro agire.

In breve: ci identifichiamo con le minoranze etiche presenti all'interno delle minoranze etniche, religiose, politiche, sessuali...

Non vogliamo più dare la nostra solidarietà e il contributo pur piccolo o minimo, quello che possiamo, a minoranze che si comportano – o sappiamo che molte probabilmente si comporteranno – nei confronti di altri con gli stessi metodi che condannano in chi oggi le opprime; che di fatto sembrano sognare nuovi oppressi stavolta sotto il loro giogo, in un rovesciamento puro e semplice del gioco del potere e del comando. Non ci schiereremo dunque con gli ebrei o con gli arabi, i cattolici o i protestanti, gli israeliani o i palestinesi, i castigliani o i baschi, i tutsu o gli hutu, gli inglesi o gli irlandesi, i turchi o i curdi, i bianchi o i neri, i maschi o le femmine, gli etero o i gay, i rossi o i neri, i gialli o gli azzurri, i grassi o i magri, i giovani o i vecchi... ma con quella parte di queste parti contrapposte che ci sembri davvero rispettosa del diritto all'esistenza e alla pari dignità per l'altro da sé, per il «nemico».

La logica tribale di questi anni – dalle guerre in ex Jugoslavia alle lontane Asie, dall'Africa nera alle nostre periferie – non deve assolutamente appartenerci, e nostro compito deve essere quello di trovare prima e allearci poi con quella parte della varie minoranze che sentiamo «nostra». Per esempio, non con «gli israeliani», e tantomeno con gli israeliani di destra o anche di centro, ma con gli israeliani «di sinistra»; non con «i palestinesi» in quanto tali, e tantomeno quelli accecati dal nazionalismo e dal fondamentalismo tal quale gli israeliani (nella convinzione peraltro che dietro questi poteri ci sono poteri stranieri – gli USA o parte degli ebrei della diaspora, gli Stati arabi o le sette religiose più ottuse – che spingono finanziano armano esigono la contrapposizione frontale tra questi due popoli, per i loro interessi tutt'altro che limpidi e generosi!), ma con i palestinesi «di sinistra», altrettanto pochi e soli degli israeliani, mentre la solidarietà, per esempio, della nostra sinistra è andata e va ciecamente e visceralmente nella direzione della contrapposizione di un potere contro un altro potere, di una «etnia» contro un'altra «etnia», secondo logiche di derivazione più stalinista che socialista.

E via dicendo, minoranza per minoranza, dentro un meccanismo di cui occorre contribuire a cambiare il corso, perché altrimenti ogni acritico «schierarsi con» e «schierarsi contro» non potrà che riprodurre disastri: catene di odio, sangue, guerra. Non ci convincono le «donne» e i «gay» in quanto tali, ma certa parte delle donne e dei gay; non gli inglesi o gli irlandesi, ma certa parte degli inglesi e degli irlandesi; eccetera. E il ragionamento non è a ben vedere diverso da quello dei nostri lontani padri socialisti, è quello dell'internazionalismo proletario che distingueva tra i proletari e gli Stati a cui i proletari appartenevano, e non si schieravano né con gli Stati né con le razze, le Chiese, i sessi, perfino i partiti...

Il concetto stesso di minoranza va riveduto alla luce di quanto è accaduto nelle minoranze degli ultimi quarant'anni. Contro ogni fondamentalismo e ogni retorica dell'identità, ogni fanatica esaltazione della differenza, ogni bisogno di avere – per sentirsi vivi, per giustificarsi – un nemico.

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