Copertina
Autore Teofilo Folengo
Titolo Il Baldo
EdizioneDiabasis, Reggio Emilia, 2004 [1958], Il pomerio , pag. 340, cop.fle., dim. 162x230x23 mm , Isbn 978-88-8103-332-4
OriginaleBaldus in Opus maccaronicum o Maccheronee [1517]
TraduttoreGiuseppe Tonna
LettoreCorrado Leonardo, 2004
Classe classici italiani
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Indice

    Teofilo Folengo (Merlin Cocai)

    Il Baldo

    tradotto da Giuseppe Tonna

VII Giuseppe Tonna dal Baldus al Baldo
    di Giorgio Bernardi Perini

  3 Libro primo
 16 Libro secondo
 27 Libro terzo
 40 Libro quarto
 53 Libro quinto

    [...]

265 Libro ventunesimo
276 Libro ventiduesimo
289 Libro ventitreesimo
305 Libro ventiquattresimo
321 Libro venticinquesimo

 

 

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Pagina 3

Libro primo



Mi è venuta la fantasia - una matta fantasia - di cantare la storia di Baldo con le mie grasse Camene. La sua fama altisonante, il suo nome gagliardo fa venire ancora la tremarella alla terra, e la voragine infernale, nella sua nera paura, si caga addosso.

Ma in prima l'aiuto vostro bisogna chiamare, o Muse che date vita all'arte macaronica. Potrebbe la mia gondola strigarsi dagli scogli di questo mare, se il vostro favore non la raccomandasse? E non mi stiano a soffiare negli orecchi i loro carmi né Melpomene né quella minchiona di Talia né Febo che se ne sta grattando tutto il giorno la sua chitarrina: perché quando penso al budellame della mia pancia, non fa per me, per la mia piva, la chiacchiera del Parnaso. Ma solo le Muse mangione, le dotte sorelle, Gosa, Comina, Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala, vengano qui a imboccare il loro caro poeta di gnocchi, e mi diano cinque o anche otto tegame di polenta fumante.

Queste sono le mie dee e le mie ninfe, bell'e grasse che colano; e il loro albergo, la regione e terra loro è lontana lontana, in un cantone del mondo che la caravella degli Spagnoli non ancora è stata buona di trovare. C'è qui una grande montagna che si leva fino alle scarpe della luna e se uno la vuol paragonare allo smisurato Olimpo, non un monte ma una collina deve dire che è l'Olimpo. E qui non ci sono le corna del Caucaso, non la schiena del Marocco, non l'Etna che sputacchia ogni tanto le sue fiammate di zolfo: qui non viene Bergamo a cavare, come fa nelle sue montagne, le rotonde macine che poi vedi pirlare nei mulini e tritare le granaglie: ma Alpi di formaggio sono quelle che noi abbiamo passato per di là - formaggio ora tenero, ora ben stagionato, ora di mezza via.

Credetemi, non sono tanto storie, ve lo giuro: e poi una bugia, anche una sola, non la direi per tutto l'oro del mondo.

Al basso corrono giù profondi fiumi di buon brodo che poi vanno a formare un lago di zuppa, un mare di stracottini. E qui passano e ripassano barche, barbotte, brigantini snelli, a migliaia, tutti di torta: e sopra ci stanno le mie Muse e gettano lacci e reti - reti cucite con budelle di maiale e con busecche di vitello - e pescano gnocchi, frittole e gialle tomacelle. Ma è un grosso guaio quando quel lago va in travaglio e con l'onde turbate bagna il soffitto del cielo. Non combini una giostra così tumultuante, o lago di Garda, quando gridano i venti intorno al casamento di Catullo.

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Pagina 10

Il sole frattanto si tuffa tra le onde del mare, stanco, lasciando la sorella luna pregna del suo luccicore.

In quattro e quattr'otto viene apparecchiata una magnifica cena; e dove strepitano le mille faccende della cucina, s'apre fumosa una portaccia, i muri sgocciolano bisunti, la soglia sguazza sempre in un untume sporco. E ad entrare si tirano su, col naso, i buoni odori del lesso e dell'arrosto che ben aguzzano un appetito voglioso.

Qui ci son più di cento sguatteri sotto la legge dei cuochi: chi porta dentro legna, chi la pezza, chi la mette sotto le calde bronze, le caldare e le padelle. C'è chi scanna un porco; chi slonga il collo ai pollastri; chi cava dalla pancia di una bestia trippe mentre un altro, così impiccata, la sta scorticando; chi immerge nell'acqua bollente i capponi uccisi per spennarli meglio; chi fa bollire teste di vitello ridotte senz'osso, con ripieno, e cucite con tutta la pelle; chi infila in uno spiedo dei porcelli raccolti appena dal ventre della scrofa, uno dietro l'altro, dal buco del culo al naso, e li lardella con stecchi dalla punta sottile.

Gambone cuoco presiede là all'arte leccatoria, attendendo allo studio della gola e alla bibbia del palato. A lui solo è affidato il compito di ammonire dalla dotta carrega e di dettare legge ai servi della cucina e ogni tanto di menare la cannella della fogliata e il pestello dell'agliata sulla schiena agli sguatteri e ai ragazzi bisunti.

C'è chi vicino al fuoco volta le fettine di fegato, vestite di bianca retella, nelle argute padelle tra il gridare del lardo. Altri sparge la gelatina di zenzero tritato che morde la lingua e sopra ci versa pévero e dolce cannella. Uno fa guazzare in un giallo sugo degli anitrotti e vi stende sopra, come fanno gli spagnoli, delle tenere fogliate; un altro con sorprendente bravura tira giù dallo spiedo i fagiani, ma prima li assaggia con le dita se sono cotti bene.

Cinque macine a mano, di pietra, dal cavo grembo nel mezzo, non si stancano di andare intorno in rapidi giri: e ne vien giù colando qui una salsa di mandorle, là la peverata. C'è chi cava dal forno uno stracotto di carne grassa e vi spreme sopra, dai sacchetti veneti, cinnamomo pesto. Un altro tira fuori dalla bronza i capponi lessi e li mette dentro il largo ventre di una tegama e li sparge con gocce di acquarosa e con zucchero trito e poi sopra vi posa un coperchio di terracotta carico di brage.

Ma perché sto qui a infastidire con queste lungaggini? Per farla breve, si parecchia una cena da far resuscitare i morti dalle fosse, anche con le casse attaccate al culo.

Ed ecco di piatti d'insalata cruda e cotta cento serventi, cento paggetti caricar le mense. Portano tutti lo stesso vestimento, di panno inglese, azzurro come l'aria, e grandi gigli vi biancheggiano sopra. Davanti, di dietro, ai fianchi, sono attillati secondo il costume tedesco, ma talmente che non si vede bene dove sia l'attaccatura del giubbone. Fanno inchini di riverenza con bel garbo, volando svelti di gambe continuamente qua e là.

Il re per primo si mise a sedere, a capo tavola, prendendo il posto che solo a lui spettava, e splendeva d'oro nella sua veste di broccato; alla sua destra sedeva la veneranda regina, alla sinistra Guidone, per ordine del re. E Baldovina pazza, pungolata dal fanciullo orbo, da Cupido, impaziente si lancia, orba anche lei, né cura di macchiare il suo onore per non aver aspettato l'invito, e in tutta fretta si mise a sedere vicino a Guidone e legna la meschina aggiunse al fuoco che la bruciava.

Siedon di seguito, l'uno dopo l'altro, i baroni, una numerosa squadra e fanno intorno alla tavola una lunga fila. Tutti erano affamati e vogliosi di menar le ganasce perché la fatica della giostra aveva fatto loro digerire anche le budelle.

Ed ecco sulla tavola ogni cosa portano i paggi con ordine mirabile: gli scalchi incedono davanti ai grandi piatti, li fanno posare in silenzio, fanno andar via con un cenno i ragazzi in silenzio, secondo la bella usanza della famiglia che serve al re nelle cene e ai personaggi di alto affare. Quindi nessuna parola, a meno che non ci sia bisogno; e nessuno fa rumore nello sbrigare le sue faccende. Certo alle volte gli scalchi mollano uno schiaffone a qualche paggio o pedate a cani e gatti che vengono a ficcarsi tra le gambe e a impicciarli.

Trenta tagliatori non cessano di rompere le carni e smembrare oche e vitelli e gialdi capponi; ficcano le forchette entro grossi salsicciotti e tagliano col coltellone affilato fette su fette. Ma spesso nel tagliare rubano i migliori bocconi e riservano per sé il grasso codrione dei capponi.

Qui l'Abruzzo aveva mandato i suoi persutti e Napoli gentile le soprassate e Milano le offelle dorate e quel tipo di salsiccia che fa vuotare ai francesi, gran bevitori, una selva di bottiglie.

Dopo la buona mangiata di lesso, i maggiordomi fanno portare l'arrosto, cosce di porco, la sommata, fagiani, capretti, lepri e ogni sorta di cacciagione: gli uccelli che il falcone riesce ad adunghiare e quelli che sono rapina dello sparviero e quelli che l'astore sbudella con le sue branche acuminate. E insieme vengono in tavola i sapori di mandorla, bianchi niventi, e non può mancare la salsa verde né il sugo di cedro né il mosto dell'arancio un poco acerbo e la mostarda che a mangiarla manda su per il naso un forte agrore di senape che fa starnutire.

Infine arrivarono le torte di amido fresco, e quelle che si fanno col latte di vacca, le solade o tartare, e quella qualità che i nostri vecchi chiamano bianco mangiare. Poi piatti di tortelli di ogni sorta, nascosti sotto un velo di candido zucchero e di cannella.

Dopo queste grasse portate, i convitati si sentono pieni fino alla gola, le pance sono gonfie e tese, bisogna dar respiro alle fasce, allentarle intorno ai fianchi. Basta un segnale dei maggiordomi e tutta la tavola è sgombra, i servi portano via quel che resta di una simile pacchia. Poi viene una folla di tazze, una lunga fila, e d'oro e d'argento e di gemme, e recano nel loro grembo ogni specie di confetti, un mangiare da re, e si riversano sulla mensa, in abbondanza, la caricano, la fanno piegare. Ci sono morsellate, anici, pignoli, e marzapane e dolci confezionati in cento battaglie di cuochi.

Ma per tutti quanti ecco finalmente arrivare la portata di ostriche che allarga il cuore a vederle, fumanti su grandi piatti, a cui si dà come compagna la malvasia, regina dei vini, secondo la saggia costumanza dei vecchi che dicevano: solo così in verità fuoco con fuoco si smorzerà.

Certo qui non mancava quel vino che fa Somma Vesuviana strizzando i racemi: Somma, onore di Napoli, ma per la grande Roma causa di bagordi. Vedova e nuda questa montagna, ma produce un vino, il greco, che fa andare di traverso per strada ogni brigata. E insieme il vino mangiaguerra, e la vernaccia di Volta e quello di cui si vanta la bresciana Cellatica. Al secondo posto non viene il trebbiano di Modena e il moscato di Perugia che riempie la testa ai corpulenti tedeschi di mille fantasie. Né mancò, o Cesena, il vino della tua pianura, né mancarono quelle dolci orine bionde della Corsica. Tanti erano i vini, e molti altri ancora, più potenti di tutti questi fiaschi, che schiumavano nei bicchieri: un bere da non mettere vicino a nessun altro.

E già avevano incominciato, salendo il fumo alle berrette, ad allentare la briglia ad un parlare grossolano e cordialone. Per la sala si sente che tutti parlano, nessuno vuol tacere. Qui ciance, chiacchiere, baie e mille scioccaggini non hanno più nessuna redine e nessuna cavezza, come suole avvenire dopo un gran bere, alla fine di una lunga cena.

Qui c'era, come dicevamo, gente di ogni paese e i vini ruttano perciò un ben vario conversare: la torre di Babele, quando voleva andare al cielo, non udì certamente più lingue, di così molteplici accenti. Una enorme confusione: gli itali somigliano ai galli, i galli ai tedeschi, tanta è la materia divina di vini e la forma delle botticelle.

Poi si fanno avanti, nell'ampia sala, parecchi cantori, cantori valenti come suol dare la terra fiamminga. E questi in coro erompono in voci tremolanti, che avevano bevuto; un fiume di canto esce dal saldo petto di ciascuno e la gola docile lo trida.

Le voci in un attimo posero silenzio a quelle varie ciarle: tutto è queto e sospeso, non un piede, non una scragna né altro disturba la dolce consolazione dell'ascolto. Cinque sonatori di zufoli vengono e vanno, bravissimi, e infine in grave orchestra si levano i pifferi e col loro alto cantare si fanno sentire per tutta Parigi. Eccoli, ad uno ad uno, enfiare le ganasce, rossi e intenti, e pifferando non sbagliano mai a stoppare i larghi buchi: corrono con le dita qua e là sulla canna, stanno saldi col petto, e al muover delle lingue trillando si leva una musica che, erano in otto, avresti giurato fossero cinquanta.

Il petto di Baldovina arde a queste fornaci, né di meno s'arrostisce Guidone dentro le budella: e la buona e varia mangiata, i bicchieri e i calici (per cui Venere e Cupido hanno vasto impero) e inoltre i canti e i dolci liuti e gli arpicordi, le lire e l'altra musica li intrappolano coi lacci, li bruciano dentro e li spogliano della ragione. Amore con aria di vittoria aveva vuotato contro di loro cento faretre; non c'è più in tutte le loro parti del corpo un posto libero in cui quel manigoldo potesse lanciare ancora un dardo.

E già incominciava a spuntare con il suo lucore modesto la stella Diana, montata sopra un barroccio rosseggiante. Cantori, pifferi, danze e balli: tutti se ne vanno via, tutto ha un termine e scompare e quelle dolci ore indietro non ritornano più. Si va a dormire: si è già battuto le mani abbastanza, si è già gridato abbastanza. Son regalate vesti ai buffoni, la reggia si svuota, ognuno fa ritorno alla sua calda stanzuccia o all'osteria, e in preda al nero sonno si abbandonano i corpi. Soltanto Guidone è fuori di sé e va di qua e di là di corsa come una vacca pizzicata da un tavano, e non sa tenere diritto cammino.

È proprio vero che un grande amore fa ammattire anche i savi! E chi sarà tanto bravo da prendere questo augello? Non ci sono panie, non c'è trappola che valga. Cesare era un così valent'uomo che si sottomise il mondo, ma una vacca di donna lo mise sotto lui, piegandolo all'amore. Alcide con le sue potenti spalle come un pilastro tenne su il soffitto del cielo, che stava cadendo, e poi infilò una sottana da donna e buttò via la pelle del leone, posò la mazza e pigliò in mano il fuso. Il forte Sansone che soleva spaccare con le unghie porci dentati, tigri e grossi leoni, alla fine una puttanella da due soldi è riuscita a tosarlo, imbriaco com'era. Ed ora ecco Guidone che non si cura del suo onore e di quello del re: e ascoltando le blandizie di una tenera fanciulla, la rapisce: e calato il ponte del castello scappa via.

Il grande uomo come un facchino si porta sulla schiena la grave soma, e non volle mai posarla giù dalle sue dure spalle finché tutti e due uscirono dai paesi franciosi.

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Pagina 30

Arriva intanto il giorno in cui tutta Mantova fa festa e si dà a una allegria rumorosa: è il primo di maggio, una splendida giornata con un grande Apollo in un cielo chiaro.

Ogni nobile ha fatto piantare davanti al suo palazzo un alberello alto con i rami carichi di foglie - il popolo, dal nome del mese, lo chiama maio. Procedono lenti i carri trionfali con grande seguito di popolo dietro, di qua di là per le vie della città, trascinati, ciascuno, da un bue o da una vacca grassa: e nel collo e tra le corna e sul dorso sono ornati di rose di ogni colore.

Su ogni quadriga sta un alto trono combinato con piante, in tessuto di foglie di arancio e di mortella e di lauro, di maggiorana e rosmarino. E là c'è ogni genere di pioppe, ogni specie di olmi verdeggianti e di quercie: e tralci di edere penzolano dalle parti e sparpagliano i loro capelli trascinandosi a terra e coprono le quattro ruote della carretta e la adornano. E nevole di pasta e strisce di orpello, sospese fitte fitte ai fili, strepitano urtandosi al muoversi più leggero dell'aria. In cima a questa mascherata si vede stare in piedi Cupido, con tanto d'ali alle spalle, fanciullo orbo e senza mutande, e qua e là scocca strali dalla sua balestra impietosa.

Una turba di giovinette, redimita le trecce di serti di fiori, recano al braccio canestrelle di uova e vanno per tutta la città decantandole per venderle. E tra queste si mescola anche lui, Baldo, e anche lui grida e di tale ricavo vuol la sua parte fino all'ultimo quattrino. Anzi ogni volta che si divide il guadagno fa la parte del leone e incomincia subito a reclamare:

«A me dovete l'onore di prendere su per primo: quindi io avrò la prima parte». Ma dopo la prima, pretende anche la seconda.

Arrivando per caso nella piazza dove c'è la chiesa di San Lonardo, ecco vede una squadra di ragazzi tumultuante in vari giochi. Alcuni rotolano le cùgole sotto il cerchietto di fil di ferro ficcato in terra, altri lanciano palle per aria a colpi di scannello, altri frustano con una cordicella rinforzata di nodi le trottole in larghi giri, e altri fanno tre salti con un piede solo, a gallo zoppo, verso la meta segnata a terra.

Baldo in furia si tira via di dosso il giubbone e rimanendo in camiciola comincia prontamente anche lui a saltare. In principio fa finta di non essere capace di raggiungere i punti a cui arrivano gli altri ragazzi e a fine salto non riesce a reggersi in piedi. Poi si molla un pochino le stringhe intorno ai galloni, si cava le scarpe dai piedi, di testa la berretta: un sottile nastro gli tiene fermi in un fascio i capelli. Quindi con eleganza prende la rincorsa di proposito in un lento galoppo, ma così lieve che non stampa una pedata sul sabbione; poi facendo forza sul piede destro e curvando il sinistro si slancia, e pare un agnello o un capretto che esca dalla stalla e corra a salti per l'erba.

Nel primo balzo sei braccia guadagna di terreno; il secondo è fatto con più forza ma riesce più corto, come c'era da aspettarsi: al terzo congiunge i piedi mettendoli ben alla pari, e con uno scatto si leva in alto e va a finire al di là di tutti i segni di prima.

Nessuno vuol più prendersi la gatta di giocare con lui e la gente che stava a curiosare fa tanto d'occhi al vedere la forza di quel cittoletto e pensano che ha già la destrezza, quel putto, di un paladino. Gli vengono intorno altri ragazzi un poco più grandicelli a sfidarlo, se vuol giocare alla palla grossa, la palla che salta leggera e viene gonfiata di vento nello stesso modo che si fa un clistere. Baldo non rifiuta l'invito, gli danno subito uno scanno, lo afferra a volo con la destra, se lo accomoda alle dita, è già pronto. Si dividono in due squadre, si fanno patti chiari, s'apre all'intorno una ghirlanda di gente che vuol assistere allo spettacolo di questa partita.

Ma sotto sotto c'è tutta una congiura contro Baldo: tutti sono d'accordo, nessuno escluso, a ingannare Baldo che nella sua bontà grande sempre se ne va aperto, leale, con il cuore in mano, né ha mai pensato fin dalla nascita di tradire alcuno. Ma i ragazzi di San Lonardo non potevano mandar giù che un pitocchetto di villa, uno stronzo di Cipada l'avesse così grassa con loro, cittadini di città e per di più delle prime famiglie, come i Passarini, gli Adotti e i Bonacorsi, e si portasse a casa la gloria di esser sempre vincitore in tutte le gare. E qui uno più birba degli altri salta su a dirgli:

«Baldo, se io lancio la posta tu non puoi aumentarla senza mettere fuori i quattrini e darli a qualcuno che li tenga in pegno».

Baldo era povero, si fece tutto rosso in viso: non aveva in scarsella una trentina marcia. Ma non sta tanto lì con le mani in mano: tutto quello che ha indosso vuol vendere ad un ebreo, ha già deciso. Si guarda intorno per trovare fra la gente, tra mille berrette rosse e nere, se ce n'è una gialla. Non una, ma tre, cinque, otto, un'infinità ne vede di berrette gialde. E Mantova li ingrassa, questi patarini bottegai! Giacca, cappa, camicia, tutto quello che ha vuol dar loro, ma c'è un mucchio di gente che si fa avanti e gli fa garanzia.

Si incomincia a giocare. Baldo per primo deve battere dal segno: punta il dito della sinistra, stringe lo scannello con la destra, si curva un poco in avanti nell'attesa, e «gioca!» gridava. Il compagno gli manda la palla e lui, correndo sotto, riusciva a pigliarla in cima allo scanno, e in un attimo la lanciava agli avversari: e quella, battuta con un colpo da maestro, vola pirlando a mezz'aria né troppo rasente a terra né levandosi troppo in alto, senza fare un campanile, come dicono. E così, ogni volta che quelli di contro la ribattono indietro, subito Baldo, sicuro, al ritorno la segue con gli occhi, e prende nella sua testa le misure, ora l'attende, ora si slancia in avanti e sempre la rimanda da campione come si era augurato e sempre la getta più lontano, ad ogni nuova battuta. Vinceva sempre e stabiliva la posta, era lui ad aumentarla, e battendo gli avversari uno dopo l'altro ritirava ad ogni partita i denari in continuazione. E prima che Febo si portasse il giorno in mare, Baldo si trovò ad aver guadagnato ben otto carlini del Reame.

Riprende il suo mantello e la sua berretta e se ne va, tutto solo, per raccontare a Berto e alla sua mamma il grosso guadagno che aveva fatto.

Ma un ragazzo che non la poteva mandar giù, di sangue non basso, nato o al ponte Adotto o al ponte della Massera, e che aveva perduto più soldi degli altri e n'era tutto addolorato, ecco si alza e prendendo con sé cinque o otto compagni, via dietro a Baldo di corsa: e giura che gli porterà via la borsa: o se non ce la farà a portargli via la borsa gli porterà via dalle spalle la cappa: ma se neppure la cappa, sacramenta da spaccone che vuol rompergli il cervello, lo triderà a colpi di sassi, quel miserabile.

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