Copertina
Autore Teofilo Folengo
Titolo Baldus
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2006 [1996] , pag. 1102, vol. 2, cop.fle., dim. 120x190x58 mm , Isbn 978-88-02-07225-8
OriginaleBaldus in Liber macaronices [1517]
CuratoreMario Chiesa
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe classici italiani
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Indice

   7 Introduzione

  33 Nota biografica

  37 Nota bibliografica

  47 Abbreviazioni


     BALDUS I-XII

  66 Libro primo
 118 Libro secondo

[...]

1004 Libro venticinquesimo


1049 Indice lessicale

1071 Indice dei nomi presenti nel testo


 

 

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Pagina 67

LIBRO PRIMO



M'è venuta la fantasia, più che bizzarra, di cantare la storia di Baldo con le Muse grasse. Per la sua fama altisonante, il suo nome gagliardo, la terra trema di spavento e l'Inferno se la fa addosso per il timore. Ma prima bisogna invocare il vostro aiuto, o Muse che scodellate l'arte macaronica. O che potrà forse la mia gondola districarsi in mezzo agli scogli del mare, se non l'avrà protetta il vostro aiuto? Non Melpomene, non Talia minchiona, non Febo che gratta il chitarrino mi dettino i carmi; se infatti considero le cavità della mia pancia ... non si conviene alla nostra poesia il chiacchiericcio del Parnaso. Soltanto le Muse panciute, le dotte sorelle Gosa, Comina, Strega, Mafelina, Togna, Pedrala vengano ad imboccare di macaroni il loro poeta e gli diano da cinque a otto vassoi di varie polente. Queste sono le famose dee grasse, le ninfe che colano unto, la cui residenza, il paese, il territorio loro proprio è nascosto in un remoto angolo del mondo, che nessuna caravella degli Spagnoli ha ancora scoperto. Colà si innalza fino alle scarpe della Luna una montagna: se qualcuno la paragona all'Olimpo smisurato, dirà l'Olimpo una collinetta piuttosto che un monte. Là non ci sono le vette del Caucaso, non la catena del Marocco, non il monte Etna che sputa fiamme di zolfo; le montagne di Bergamo non cavano di là quelle pietre rotonde che vedi girare quando un mulino macina granaglie. Ma noi abbiamo scalato laggiù montagne fatte di formaggio tenero, duro e mezzano. Credetemi, perché lo giuro, e non potrei dire una sola bugia per tutti i tesori che la terra nasconde: là scorrono a valle profondi fiumi di brodo, che fanno un lago di zuppa, un mare di sugo. Vi si vedono andare e venire zattere, barche, grippi maneggevoli tutti fatti di pasta per torte; in essi le Muse manovrano lacci e reti, reti di salcicce, intrecciate di trippe di vitello e pescano gnocchi, frittelle e gialle polpette. È però una cosa tremenda quando quel lago è in tempesta e con le onde ribollenti bagna le volte del cielo. Non fai un così grande trambusto, tu, lago di Garda, quando i venti urlano intorno alle case di Catullo. Ci sono là pendii di burro fresco e tenero, sui quali fumano fino alle nubi cento caldaie piene di casoncelli, di macaroni e di tagliatelle. Le Muse abitano sulla cima dell'alto monte e grattugiano in continuazione formaggio con grattugie forate. Alcune si dan da fare a preparare gnocchi teneri che rotolano in frotta per il formaggio e, ruzzolando dalla cima del monte fino al basso, diventano come botti dalla grossa pancia. Oh quanto è necessario allargare ben larghe le ganasce quando vuoi pascere il pancione con un così gran gnocco! E intanto puoi vederne altre tagliare la pasta e riempire cinquanta pentole di pamparde e di grasse lasagne. Altre ancora, poiché la padella brontola per il troppo fuoco, tirano da parte i tizzoni e vi soffiano dentro: infatti per il troppo fuoco il brodo salta fuori dalla pignatta. Insomma ognuna si dà da fare a preparare la propria minestra, e perciò si possono vedere mille camini fumanti e mille caldaie borbottano appese alle catene. Qui meglio di tutti ho pescato l'arte macaronesca, qui Mafelina mi ha fatto poeta panciuto.

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Pagina 201

LIBRO QUARTO



Baldo aveva già cominciato a crescere in statura e ad alzarsi verso il cielo con le poderose membra. Già misura in altezza cinque braccia, largo nelle spalle quadrate, il petto possente; una corta cintura invece cinge i fianchi stretti. Ha gambe muscolose, piedi piccoli, caviglie sottili; è spedito nel camminare, così che con i passi leggeri segna appena le orme sul terreno. Ha occhi vivaci, sempre volti ora qua ora là; più mobili di quel raggio che si produce quando il sole colpisce uno specchio. Non ha ancora la barba troppo folta, né dura di setole, ma spuntano dal mento appena trenta peluzzi lanosi; ha il labbro superiore che sporge un poco sull'altro e questo è indizio che sarà saggio. Ma poiché non ha in questa tenera età una guida, frequenta perdigiorno, ruffiani, lestofanti, bravacci, bricconi e certi malandrini che son chiamati tagliacantoni e mangiaferri. Baldo si trova a suo agio solo con simili elementi, così come l'età immatura conduce il giovanottone e, a modo di puledro, gli fa spezzare non una sola cavezza della stalla; infatti questi giovani inesperti sentendo il sangue bollire, stando bene di stomaco, sempre pronto a mangiare, non mettono né prudenza né buon senso nel fare le cose, né badano ad alcunché che sia più lontano della punta del loro naso. In tutta la città si parla solo di Baldo, che con le sue forze smisurate sgomenta tutti e non cura gli dei, né i santi e neppure i diavoli. Non le spade, non mille giannette, non gli sbirri e gli zaffi possono spaventarlo, né Gaioffo in persona, pretore della città, può domare quell'animo fiero. Per la sua grande fama e il nome che incute spavento, non c'è braccio tanto robusto, schiena tanto resistente di gigante, o sguardo di Orlando, o mille Rinaldi che non si riempiano le brache per il troppo timore. Per esser temuto da tutti attacca al fianco uno spadone, che fu fabbricato nelle oscure botteghe di Vulcano; lo temprarono con il fuoco del fulmine guizzante quei noti fabbri, Brot lo zoppo, Sterops il guercio e Pirazzo il gobbo. Tanta agilità percorreva le sue membra, che qualsiasi tipo di salto si possa fare, sia quello di un gatto che cattura un sorcio, sia quello di una veloce leonessa che azzanna un capriolo, sarebbe stato eseguito da Baldo, senza la minima fatica. Perciò i caporioni di Cipada, la genia dei bravi e quelli che spergiurano di esser sempre tra loro fratelli si associano Baldo con il vincolo del giuramento: sia lui capo della compagnia e voglia prendere il governo; per lui ognuno poi non valuti la vita più d'uno spicchio d'aglio: infatti dove manca un capo, tutto va sottosopra. Ma tre di loro sopra tutti Baldo aveva scelto; non vi annoi ascoltare le loro origini.

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Pagina 523

LIBRO DODICESIMO



Era la stagione nella quale il sole scalda le corna del Toro, che porta sul dorso Europa per le profumate plaghe del cielo. Così la terra fecondata da nuova rugiada, si cinge intorno una nuova gonna ricamata di fiori: dovunque i boschi si coprono di fronde, da ogni parte le selve sciolgono al sole alto nel cielo capigliature verdi. Invita al sonno sull'erba, all'ombra, l'usignolo, un uccello che non pare mai stanco di cantare in gorga la sua canzone, né di giorno né di notte, sia quando Apollo fa correre i cavalli aggiogati al carro, sia quando Diana di notte spruzza la sua rugiada. Le sorgenti versano abbondanti ruscelli fra le erbe e bagnano con piccole onde tremule i prati novelli che la dea Primavera abbellisce di fiorellini variopinti. Questa era la stagione, quando insieme Baldo, Cingar e il prode Leonardo smontarono dai cavalli non lontano da Chioggia e distesero le membra su un prato nuovo all'ombra. Là un pino alza al cielo la chioma folta, che con le foglie impedisce il passaggio del calore del sole e sparge un'ombra molto fresca sotto le sue fronde. Là slacciano gli elmi dal capo e depongono le corazze e riprendono nuovo vigore al soffiare dello zefiro; e là con lunghi discorsi e molte parole Leonardo rivelò a Baldo il suo antico affetto così che ne nasce un sodalizio che non potrà mai esser sciolto: infatti conversando insieme gli amici si legano tra di loro. Ma mentre i due sussurrano queste cose con tranquillo colloquiare, Cingar alleggerisce i cavalli delle selle e mette loro la cavezza, poi li fa voltolare sull'erba e stallare; e mentre li fa stallare fa insieme scorregge con la bocca e, scorreggiando, con la lingua grida «oh oh!». Non lontano di là c'è il mare di Adria e il golfo di Venezia, verso il quale Cingar si dirige per far diguazzare i cavalli; e mentre va, canta allegro la Titalora. Come entra nel porto di Chioggia, subito prende prudentemente in mano dalla tasca la borsa dei denari, perché non gli sia tagliata di nascosto: questa è una caratteristica, una specifica dote, di quella popolazione. Trova là, ferma all'ancora, una caracca di mole immensa, che, panciuta, stazza sei mila botti. Questa si prepara ad andare in Turchia, carica di molte cose, non appena le si offra l'Austro favorevole. Immediatamente Cingar chiama e fa cenni al capitano, gli parla e gli promette di pagare con buona moneta se vuol condurre in Turchia, nella patria dei Mori, tre compagni e altrettanti cavalli. — È una cosa difficile — risponde il marinaio, — e non so trovare la maniera di risolvere una simile faccenda, perché tra poco verranno trenta pecorai tesini, di quelli, voglio dire, che hanno una grande quantità di pecore e, pieni di pane di miglio e di polenta grassa, stanno per caricare questa nave di pecore tesine. Cingar a lui: — E con ciò? su, capitano mio, accogli dei compagni cortesi, ti pagherò il doppio. Siamo tre e poca gente richiede poco spazio. — Alla fine il capitano accetta e lo prega che vengano in fretta, prima dei tesini. — Farò così — dice Cingar e volta i cavalli. Torna poi dai compagni che, alzatisi lieti, decidono di vedere paesi per mare e per terra. Così, trottando alla francese verso il mare, arrivano alla banchina dove sosta la grandissima barza, che in verità non sembra una barza ma una rocca sull'acqua. Là mercanti, parte turchi e parte tedeschi, sono intenti a caricare il marano con le proprie merci. Là puoi vedere anche mille facchini portare a gara per sei marchetti carichi da asino: tanta ingordigia di guadagno li rende pazzi. Per la maggior parte i facchini sono bergamaschi; non dico i bergamaschi che abitano nella città di Bergamo, dei quali è ben nota la grande saggezza, ma quelli che, pasciuti di castagne e di paniccia, la montagna di Clusone manda in tutto il mondo. Non portano assolutamente nulla con sé quando vengono giù, quando invece tornano su, oh! quanta roba portano ammassata sulle spalle robuste! Sono uomini bassi, grassi, grossi di sedere; hanno il petto coperto di pelo folto; uno struzzo poi potrà digerire il piombo meno facilmente di quanto i forti facchini possano digerire il ferro. Mangiano ottanta once di formaggio grasso per ogni pasto, per questo stanno saldi sui piedi, perché col mangiare formaggio rafforzano la schiena. «Il formaggio ingrossa — dice Pizzanfara — l'intelligenza». Però questa massima si dimostra errata nel caso dei nostri facchini: sono forse essi incapaci di difendere le proprie cause? Un vermocan detto da una bocca bergamasca è più efficace delle cento chiacchiere di cui abbonda un fiorentino. Non c'è paese che non sia pieno di facchini; dappertutto ci sono mosche, dappertutto frati zoccolanti e allo stesso modo vedi abitare facchini dappertutto. Non c'è altra popolazione che lavori nell'arte del facchinare, i facchini sono esclusivamente della razza bergamasca. Risiedono nelle abitazioni dei nobili e trovano frequentemente la maniera di entrare nelle grazie ora del padrone, ora della padrona. Là dunque i facchini si danno da fare per caricare la nave e portano pesi che un cammello porterebbe appena.

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