Copertina
Autore Franco Fortini
Titolo Asia Maggiore
SottotitoloViaggio nella Cina e altri scritti
Edizionemanifestolibri, Roma, 2007 [1956], La nuova talpa , pag. 270, ill., cop.fle., dim. 14,5x21x1,6 cm , Isbn 978-88-7285-479-2
CuratoreDonatello Santarone
PrefazioneEdoarda Masi
LettoreRiccardo Terzi, 2008
Classe viaggi , paesi: Cina , paesi: Russia
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Indice

«Contraddizioni e identità fra noi»: Fortini e la Cina       7
Donatello Santarone

Giustificazione e conclusione                               25

Biglietto d'andata                                          37


PECHINO                                                     41

Primo incontro - Dalla finestra - La folla - Parco Imperiale
All'Università - Il tè - Biblioteca nazionale - L'Opera -
Dimensioni - Mercato Orientale - Nuova Pechino - Punti di
vista - Le minoranze nazionali - Vigilia - Primo Ottobre -
Una statua - Draghi e melograni - Ciu En-lai - Marco Polo -
Giardino d'estate - Prigionieri - La signora Ien - Il Tempio
del Cielo - Saluto

MUKDEN                                                      87

I contadini - La miniera - I vecchi minatori - Delle Carte -
Pallacanestro - La Grande Muraglia - Gli interpreti

Ricordo di Leningrado                                      109


SHANGHAI                                                   117

Tumuli - Le poesie di Mao - Finestrino - «La condition
humaine» - Quartieri dell'Ovest - Manifesti - Una scuola -
Scambi culturali - Alle undici di sera - Magazzini generali -
Fotografie - Casa dei Pionieri - Dialogo coi professori di
marxismo - Un'ora difficile - Ombre bianche - A Marx via
Confucio - Missioni - Tsu Min - Pomeriggio sul Hwang Pu -
Pietre preziose - Lu Hsun - «Il sogno del padiglione rosso»

Illustrazioni (fotografie dell'autore)                      159


Ricordo di Mosca                                            177


HANGCHOW                                                    197

Un ventaglio - Snobismo occidentale-orientale - Sottane -
La Pagoda - Hu Feng - La discussione in treno - Museo di
marionette - In treno - Le cose che non abbiamo capito -
Alfabeti - Emanuelli - «Brain Washing» - I topolini -
Canton - Ultima sera - Passaggio a Hong Kong

Biglietto di ritorno                                        233



APPENDICE: ALTRI SCRITTI CINESI                             235

Lo spettro cinese (1968)                                    237
Lu Hsόn, la mancanza (1970)                                 243
Lettera da Shanghai (1977)                                  247

Postfazione                                                 259
Edoarda Masi

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI
fotografie dell'autore

Bambini in una via di Shanghai                              161
Una delle porte della città Proibita di Pechino             162
La bibliotecaria del Parco Imperiale di Pechino             163
Vecchia strada a Pechino                                    164
Preparativi per la festa del Primo Ottobre                  164
Stanza di un minatore nell'ospizio di Fu hsin               165
Giovane madre di Pechino                                    166
Un dirigente contadino manciuriano                          167
Contadino al lavoro                                         168
Una ragazza dello Yunnan                                    169
In una via di Shanghai                                      170
Dalle finestre della Casa di Cultura Operaia di Shanghai    171
Le battelliere di Hangchow                                  171
Tsu Min                                                     172
Una vallata dello Kwangtung, verso Canton                   173
Kowloon (Hong Kong). I conduttori di ricsciò                174
Victoria (Hong Kong). Il mercato dei marciapiedi            175

 

 

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«CONTRADDIZIONI E IDENTITΐ FRA NOI»:
FORTINI E LA CINA
Donatello Santarone



Di fronte alle odierne società multiculturali, frutto di lunghe storie di migrazioni internazionali che continuano e crescono nel mondo del capitalismo globalizzato, è necessario includere nel nostro corredo concettuale e percettivo una conoscenza meno sommaria, meno esotica, meno etnocentrica del cosiddetto Altro. Il quale, in verità, è molto meno «altro» di quanto appaia ad una prima superficiale impressione; il quale, ormai da mezzo secolo, si è prepotentemente affacciato da protagonista nello scenario della storia grazie alle lotte di affrancamento dal colonialismo; il quale, infine, è in mezzo a noi, vive e lavora tra noi. Si tratta di assumere una prospettiva di contemporaneità tra pari, di coesistenza di simili.

«Il fatto è che in tanti aspetti noi siamo anche la Costa d'Avorio, lo Zambia o l'Algeria. E proprio per questo motivo abbiamo bisogno di un'area recintata, di quel vallo di cui parlo, che l'Occidente ha messo intorno a se stesso. Sentivo parlare di un film fantascientifico dove si immaginavano eserciti europei pronti ad aprire il fuoco sulle masse sterminate di africani decisi a varcare il mare, a Gibilterra, proprio come quando i mori passarono «d'Africa il mare, e in Spagna nocquer tanto» come diceva l'Ariosto. Questa idea, nella sua forma appunto ridicola, da fantascienza, però contiene un elemento certamente vero e cioè la tendenza dell'Occidente a chiudersi in se stesso. Anche nella sinistra non è facile parlare correttamente di queste cose. Troppo spesso ci si accontenta di dichiararsi «tutti fratelli», si aprono le braccia all' altro, ma l'altro, appunto, è l' altro. Cioè è sempre l' extra qualche cosa: non è qualcuno con cui realmente ci si confronti nella sua specificità, nella sua nazionalità: il muro c'è, è costruito. Noi siamo da una parte, gli «altri» dall'altra: poi a determinate condizioni, ovviamente, si possono aprire benissimo le porte, ma intanto il muro viene confermato». E ancora: «Lo straniero è sensibile, arrivando, a disuguaglianze e sopraffazioni che invece per gli abitanti del luogo rientrano nella assoluta normalità, e questo è un invito a vedere il nostro stesso paese, l'Italia voglio dire, con occhi di straniero se ne vogliamo afferrare l'immagine reale».


Includere la Cina nella nostra mente (il discorso, ovviamente, vale per l'India, l'Africa, l'America Latina...) significa iniziare a comprenderne la storia, la geografia e la cultura. Lo scienziato americano Jared Diamond, ad esempio, sottolinea «come la Cina divenne cinese», mettendo in luce una specificità particolare del grande paese asiatico: la sua omogeneità linguistica, culturale, politica. A differenza delle società multiculturali e multietniche, che rappresentano la stragrande maggioranza delle società contemporanee, quella cinese è una società che ha conosciuto fin da tempi molto antichi un processo massiccio di accentramento e unificazione.

Prendere sul serio la Cina significa riconoscere una civiltà millenaria a cui dobbiamo molto, ricordando pure che l'Italia ha stabilito contatti antichi con la Cina, documentati almeno dall'antichità romana per poi continuare fino a Marco Polo, a Padre Matteo Ricci, solo per citare i nomi più famosi.

Si tratta di nomi emblematici che testimoniano le antiche relazioni tra Italia e Cina. Matteo Ricci rappresentò un modo nuovo, rispettoso della cultura cinese, di avvicinarsi all'Altro. Anche se non va dimenticato che l'avvicinamento ai letterati confuciani era strumentale alla politica gesuitica di conquista delle classi dirigenti, né il fatto che egli arrivò in Cina appoggiandosi alla colonizzazione portoghese e dai portoghesi fu largamente finanziato. Tuttavia, provò a farsi cinese tra i cinesi e non è senza significato che, con il nome cinese Xitai, che significa il «Grande personaggio dell'Occidente», sia sepolto nella città di Pechino.

Ma il metodo di Matteo Ricci non fu sempre seguito. Nel 1900 l'Italia partecipò all'aggressione imperialista delle potenze europee alla Cina per aggiudicarsi altri scali portuali e nel giugno 1902 ebbe la concessione di un lembo della baia di Tien Tsin. Si trattò di un'altra pagina nera nella storia ancora del tutto rimossa del colonialismo italiano.


Attraverso lo studio dei numerosi scrittori italiani del Novecento che hanno parlato della Cina possiamo aprire nuovi orizzonti di conoscenze e di interpretazioni. Basterà qui ricordare – oltre ad Asia Maggiore di Fortini – i libri di Carlo Cassola, Viaggio in Cina (1956), Curzio Malaparte, Io, in Russia e in Cina (1957), Carlo Bernari, Il gigante Cina (1957), Goffredo Parise, Cara Cina (1966), Giorgio Manganelli, Cina e altri orienti (1974), Alberto Arbasino, Cina (1981), Luigi Malerba, Cina Cina (1985). Senza considerare alcuni «ritorni», come quello di Alberto Moravia che si recò tre volte in Cina e scrisse Cina 1937, articoli per la «Gazzetta del Popolo» di Torino, La rivoluzione culturale in Cina nel 1967 e cinque articoli per il Corriere della sera nel 1986.

«Ho avuto, posso dire, tutto uno scaffale mentale, di testi sulla Cina, che vanno da opere divulgative sulla sua storia a frammenti della sua letteratura antica e moderna, letti in traduzioni di inverificabile qualità. Una quotidiana discussione mentale sui significati del «Paese di Mezzo» mi è durata per oltre venticinque anni e non può quindi, in nessun modo, venir descritta in termine di pagine di libri. Questi furono, certo, molti, da poeti antichi a Mao, da Il sogno della Camera Rossa a Lu Hsun; ma soprattutto furono opere di ricerca storica, di memorialistica e di politica, da Needham a Snow o da Hinton a Schurmann o Schramm. Credo che la dizione 'paesi allegorici', che ebbi a impiegare per una sezione di Questioni di frontiera, debba essere presa nel suo senso più forte. La cultura e l'esperienza di Edoarda Masi mi sono state un tramite necessario perché mi fosse possibile tracciare (con la rozza energia di una ignoranza che si ignora) i confini di un'altra parte del genere umano. Un libro come il suo Per la Cina vissuto tra la morte di Mao e la caduta della 'Banda dei Quattro' è stato, per me, un luogo intellettuale e morale, che mi ha riassunto, come ho detto, venticinque anni di riflessioni e letture su quel tema. Finché ho capito che non avrei potuto andare oltre. Al di là c'è la Cina odierna, non più fantasma né proiezione, un paese come gli altri paesi, da decifrare o ignorare, ma senza più pensarlo come m'era parso nel 1955, ossia 'altra faccia della luna'.

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BIGLIETTO D'ANDATA



Non ho mai sognata, mai immaginata la Cina. Quando sono stato invitato, ho fatto una breve recapitolazíone della mia ignoranza. Sono d'una generazione che ha passato l'adolescenza a sognare l'Europa, non il resto del mondo. Parigi, Londra, Madrid, e le città universitarie tedesche; quei luoghi che gli anni fascisti allontanavano o vietavano. E tutto è venuto solo dopo la guerra; molto tardi. Dire Cina era come dire Luna. Non sono moderno, in questo. L'Inde, la Chine, come cent'anni fa – luoghi remoti, quasi irreali, che rimavano con amours enfantines. L'urto, l'emozione, era nel sentire che quel paese remoto bussava ormai tanto forte al nostro, da venire a chiamare proprio me. «Stamattina – mi sono alzato – e ho incontrato – Mao Tze-dun...» L'ironica canzone popolare del tempo della guerra di Corea diventava realtà.

Zurigo, dodici anni dopo. Passeggiare lungo il Limmatquai, in un pomeriggio di domenica, era tornare al tempo di guerra. «Θ tanto mutata, vedrai», m'avevano detto; ma era sempre la stessa Zurigo, gli stessi tram bianco-azzurri, il Dolder nebbioso, la brava gente a spasso.

La mattina dopo, l'autobus che ci portava a Kioten, per l'aereo, è passato per Stampfenbachstrasse; e a un certo punto, di là, con una rampa di qualche gradino si va in Obstgartenstrasse, dove abitava, nel 1944, Fernando Schiavetti; e sua moglie, la signora Giulia, che ora è morta. L'ultimo dell'anno gettammo insieme il piombo fuso nell'acqua, a scrutare il futuro. Conobbi in quella casa di italiani coraggiosi non pochi uomini dell'emigrazione antifascista, della generazione dei nostri padri; e ora so che cosa ha voluto dire per me quell'inverno. Per questo, andando verso Schaffhauserplatz, mi sono voltato a guardare gli alberi e le casette di quella via e ho ricordato la signora Giulia.


L'aspetto della gente, a Praga, sembra fatto apposta per la gioia professionale di certi giornalisti. Una folla «declassata». Gesti ed abiti, stanchi come da noi nel primo dopoguerra. Sembra non sia stato ancora inventato un costume, un portamento nuovo.

La folla in piazza Venceslao. Le vie deserte intorno al Cimitero Ebraico. Sulla Moldava, piantato in mezzo alla collina, brutto più che la parola possa esprimere, il monumento all'Armata Rossa. Dal teatro del Conservatorio, la musica di un concerto; sulle gradinate, fra due leoni di bronzo, studenti, ragazze, silenziosi.

Passammo qualche ora tra il Palazzo Reale, la Cattedrale e le vie di Mala Strana. Nella Cattedrale, suonavano l'organo. Dietro l'abside passò, con una eco aspra nei cortili, un picchetto di soldati. Il cielo era divenuto altissimo. Il sole accese qua e là vetri, cupole, campanili. Poi palazzi, chiese, portali, statue, cartigli tutta una splendida vegetazione barocca parve mutarsi per alchimia in una materia fossile, un carbone sinistro. Scendevo verso il fiume. Solo Venezia ho veduto, di novembre, annerire cosi. Le statue del ponte Carlo, le chiese che lo fronteggiano e poi, vòlte buie, case sull'acqua, una tenebra nitida, ormai un diamante.

La sera finisce in una birreria o caffè, affollato, fumoso, dai divani di velluto rosso; in discussioni sui prezzi scorti nelle vetrine, in calcoli difficili di cambi e valute; in una stanza d'albergo disperata, forse la stanza delle sguattere, fredda e sporca. Mi stringevo nella mente quella nerissima gloria di cuspidi e croci, lanterne, stelle.


– Varsavia è un attimo, sotto l'aereo che scende: il grattacielo di tipo sovietico nel centro della città, il trapezio verde dove fu íl Ghetto. Un aeroporto semideserto. Poi, nel pomeriggio nuvoloso, la Bielorussía. Ripercorro in aereo la medesima rotta di poco tempo fa, Minsk, Orcha, Mosca, la strada delle invasioni. Boschi, fiumi e paludi. L'aereo sovietico, che ha visibile l'indicatore di altitudine, comincia la discesa, si direbbe, goccia a goccia. Mosca, tra le nuvole.


– Si cala nel buio, a Gorki, in un odore di concime e petrolio. Ma quando ci si leva è già alba, il Volga roseo.

– Sverdlovsk, Omsk, Novosibirsk, Krasnojarsk, Irkutsk. Città immense, americane, western. Ciminiere, altiforni, fabbriche; sterminati quartieri di abitazione. Aeroporti in terra battuta dove si posano, come piccole mosche verdi, gli aerei che collegano i villaggi e le città.

– Non più la Russia. Qui sento che cosa significa Unione Sovietica. Un continente colonizzato, scoperto. Spazio.

– A Sverdlovsk, cioè Jekaterinburg, dove ammazzarono i Romanov, abbiamo mangiato in una saletta elegantemente apparecchiata, con luccicanti bicchieri di cristallo. Finito di mangiare, Treccani si è messo a disegnare una delle cameriere, una ragazza strana e bella. Una testa pallida e nobile, con una bocca casta, un po' dolorosa e sdegnosa, la treccia bionda intorno al capo; sapeva di essere bella e nei gesti manteneva una distanza stupita.

– Da Irkutsk si è subito fra i monti. Monti siberiani, verdi, folti. Si percorre una valle e, tutt'a un tratto, il turchino-grigio del Baikal. Le rive alte, a strapiombo, a scogliera. A nord, il lago si dilata come un mare. All'orizzonte, montagne di neve. Varcato il lago (che in quel punto sarà largo trenta o quaranta chilometri), si entra in un paesaggio d'altopiano, sempre più arido, di color bruciato, la Mongolia. Si scorgono accampamenti di tende bianche, circolari; tracciati di città di tende, abbandonate; greggi. Poi, la capitale dei nomadi, Ulàn Batòr e il suo aeroporto. Aria netta, vivace; odore di erbe aromatiche. Si è a circa mille metri, circondati da montagne color terra di Siena bruciata, desertiche. Pastori a cavallo, luce illimitata. Qui, solo qui, per la prima volta, dopo l'America siberiana, è Asia. Ci saluta un piccolo gruppo di abitanti, uomini donne e bambini, vestiti di stoffe a colori vivaci, ricamate; di turbanti; decorati di pendagli d'argento.

Una robusta ragazza siberiana ci versa il tè, per un pranzo di uova sode, salame, pane e burro. L'aereo riparte. Poco a poco le colline paiono sprofondare, divengono grige, nerastre, bianche, tormentate da letti di fiumi disseccati, da laghi inariditi, pietraie, fino all'orizzonte, da ogni parte. Θ il Gobi, il deserto, e lo sorvoliamo per quasi quattro ore. Un filo, la ferrovia, lo attraversa: la nuova linea della Transiberiana, che abbrevia di duemila chilometri il percorso Mosca-Pechino.

Lentamente, tracce di vegetazione cominciano a combattere con l'aridità. Ed è un seguito di montagne, di catene dalle forme paradossali, dove l'erosione ha messo a nudo una sostanza bluastra, violetta, per creare la piana cinese verso la quale voliamo. Non ho mai veduto né immaginato nulla di simile. Θ uno spettacolo straordinario. E si avverte una enorme presenza umana, nei villaggi e nelle città lungo i fiumi, su per i terrazzamenti delle risaie che dispongono le loro curve di livello lungo le pendici dei monti. Ora, su quel caos tumultuoso di forme, il sole disegna l'assurdo festone della Muraglia. Un'ultima catena di monti e improvvisa, unita, distesa, la pianura; una pianura di colore verde e arancio tutta alberi orti case pagode strade risaie. Pechino.

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PECHINO



                            Se una donna smette di tessere
                            tre uomini saranno senza vesti.
                            Se un uomo smette di arare
                            otto bocche saranno senza pane.
                            E quando fame e freddo ci tormentano
                            è così facile sbagliare!
                            Che cosa chiede il cuore della gente?
                            Che ci si possa a vicenda aiutare.
                            Questa è la legge da tenere a mente
                            e il sapiente la deve conservare.

                                            Yanc K'i (Secolo XIV)



PRIMO INCONTRO. Scendiamo dall'aereo, accolti dagli applausi di una quindicina di signori sorridenti, in giacche color sabbia e blu, mentre una piccola fanfara suona dagli altoparlanti. Ci fanno sedere intorno a un lungo tavolo; alle pareti, disposti senza distinzioni di gerarchia, i ritratti dei capi cinesi e di quelli sovietici, Stalin come Mao, Bulganin come Ciu En-lai, Mikojan come Ciu Teh.

Ma quando le auto partono verso la città e ognuno di noi fissa dal finestrino quel tanto di campagna che riesce a vedere — è certo un momento che non riusciremo più a trovare nella memoria, tanto i giorni seguenti ci renderanno familiare quel paesaggio. E, dicendo «Cina», ciascuno evocherà questo o quel luogo o viso o luce, ma probabilmente non quel primo percorso tra la polvere di una sera d'estate, dove tutto era quasi sorpreso dal viaggiatore prima del suo vero spiegarsi, e tutto su due dimensioni, ma non come una delle città dove siamo passati o abbiamo dormito, ché quelle avevano appunto il dovere di mostrarsi, per così dire, solo di profilo, segnate dall'abbandono, tappe e non luoghi d'arrivo, città e paesaggi che potevano servire ad immagini e a nozioni, ma queste separate da quelle, vere sì ma della ambigua verità del film; qui avremmo avuto più punti di vista, più giorni, e quel primo contatto si colorava, si specificava come primo d'una serie, era una «sentinella perduta» destinata al sacrificio. Stupore, ma stupore di cose già note, già viste, come se avessimo fatto metà del giro del mondo per ritrovarci nella piana di Caserta o di Fidenza.

Il rapporto tra gli alberi e le case dei contadini, la pergola e il pozzo, la bicicletta e la viottola; il colore dei muri, dei visi umani, degli ortaggi; lo spartito dei campi, del granturco; i bambini sulle aie; i ciclisti operai che tornavano dalla città – tutto era un settembre italiano, con i suoi fossi, l'ozio prima di cena, il fumo dalle casipole, le nubi danzanti di moscerini, la conversazione col casellante del passaggio a livello, il carro di fieno che ingombra la strada e, diffusa con la luce, la presenza tiepida degli esseri umani per tutta la campagna. Ora veniva un sobborgo, una fila di capre, una folla che cresceva...

Su tre successive collinette poco alte, quasi dei tumuli, ho visto raccolti tre gruppi d'uomini. Stavano in piedi o seduti sui talloni. Accanto ad uno dei gruppi c'era piantata una bandierina rossa. – Che cos'è? – ho chiesto. – La riunione dopo il lavoro, istruzione e autocritica, – ci hanno risposto. La prima impressione, di già veduto, di già noto, era finita.

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LA FOLLA. Nessun'altra folla cinese è, come quella di Pechino, composta e degna, fosse pur quella dei quartieri più miseri. Folla di ciclisti lungo viali che paiono senza fine e che levano contro il baglio dell'orizzonte la grigia parete d'una porta; folla di sfaccendati per le sale dei magazzini generali, folla dei tram, delle librerie, dei bazar. Ma folla tranquilla, senza chiasso, abituata a code beneducate. Al quadrivio del Mercato Orientale, come a Charing Cross, ti senti portato dalla gente, senza che nessuno ti urti. Un formicolio più blu meno blu, dove s'inseriscono i toni grigio sabbia dei funzionari, quelli pesca dei poliziotti, qualche giubba di seta femminile, qualche lungo gabbano di taglio antico, le calzette a vivaci colori delle ragazze, i fiocchi rossi e verdi dei bambini. Si distinguono bene, in questa folla, i vari ordini della società cinese; un fondo, che direi antico più che vecchio, anche se corrisponde agli uomini e alle donne d'età avanzata, visi e corpi distrutti, di vecchi magri appoggiati al bastone, lo zucchetto in testa, i fili di barba penduli sul petto e — quando il gabbano non la cela — l'andatura lenta sulle ginocchia piegate, che un tempo era segno di distinzione; di lavoratori sfiniti, animali da soma vestiti di stracci, che tirano carri o portano pesi; vecchie donne dai piedi ridotti a due monconi, che trafficano sulle soglie delle botteghe, fumando; un fondo umano fisicamente debole, come segnato dall'oppio, rassegnato. Ma da questo fondo, quasi senza transizione, l'ondata della generazione nuova: quella dei «quadri» medi, funzionari, militari, occhi intelligentissimi, vigili, che portano con orgoglio i panni dimessi di tela, le donne cui le lunghe trecce nere danno un'espressione di giovane sfida e che talvolta vedi, tra la folla, sorreggere secondo il costume confuciano — loro, emancipate ed energiche — la vecchia madre o suocera, zoppicante sui piedi deformi. E poi i giovanissimi, gli adolescenti, con le facce piene di vita appassionata, le pupille allegre, brillanti di humour, sciami di ragazze dalle facce tonde, dai libri sottobraccio, che s'accompagnano a ragazzi, anch'essi pieni di un fervore e di una sicurezza ammirevolmente corretti da un filo di modestia.

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IL TΘ. Trasparente e al profumo di gelsomino nel nord, è nei treni un infuso di foglie verdi, dove più volte si rinnova l'acqua calda, per diventare somigliante al tè bruno, al tè inglese, nella regione di Canton. Di regola, non contiene zucchero, né latte, ma nei vagoni ristoranti dell'espresso Shanghai-Canton portano in tavola le scatole del latte condensato e lo zucchero in piccole scaglie. Penso, con disagio, che qui il tè, seppur non è accompagnato dal cerimoniale complicato dei giapponesi, deve tuttavia possedere una sua ricca dignità, una tradizione dalla quale siamo esclusi; e che invece è nota anche alla più povera gente che seduta sui talloni scalda, a piccolo fuoco di canipoli, l'acqua del tè sulle soglie, per la via, sotto la pioggia. Di qui l'importanza «rivoluzionaria» dell'episodio che segue. Una sera, a Pechino, fummo invitati ad uno spettacolo di complessi artistici stranieri; la sala, nuova e degna, doveva essere quella di un consiglio municipale o statale, perché un banco correva lungo le poltrone della platea. Il presidente Mao assisté allo spettacolo; e al suo ingresso il pubblico, quasi esclusivamente composto di stranieri venuti a Pechino per le celebrazioni del Primo Ottobre, applaudì lungamente. Era una serata, si direbbe, di gala. Ma nell'intervallo, se si voleva bere del tè, e altro non c'era, bisognava prendere dai tavoli disposti nel foyer una di quelle tazze smaltate che i soldati dell'Esercito popolare portano spesso appesa alla cintura, poi mettersi in coda presso alcuni grandi recipienti forniti di rubinetto e pieni di tè. Preceduti e seguiti da altri ospiti stranieri o attachés d'ambasciata o mogli di funzionari si giungeva dinanzi ad una vaschetta mezza colma di una soluzione al permanganato, rosso barbera; vi si sciacquava la tazza dove altri aveva bevuto, poi la si passava in un'altra vaschetta d'acqua e quindi si aspettava il proprio turno al rubinetto del tè. Riversato su di un foglio di carta spiegato sul tavolo, c'era lo zucchero. Questa procedura igienico-militaresca, questa semplicità spartana rappresenta bene il momento, lo stile, della Nuova Cina, un momento che dura da cinque anni e non accenna affatto a passare. Direi che, a mantenerlo, contribuisce proprio la particolare evoluzione del socialismo cinese, la coscienza di aver certo vinta la propria battaglia fondamentale ma di dover evitare in ogni modo la fretta. L'austerità dei dirigenti politici, dei quadri del partito e dei giovani, il senso di «essere in guerra» è aumentata proprio dal fatto che per le vie delle città cinesi incontri ancora l'imprenditore privato, l'industriale, sua moglie, i suoi figli, protetti dalla qualifica di «borghesia nazionale». In un certo senso l'austerità dei nuovi «quadri» è garantita dalla sopravvivenza degli avversari. (E in treno, una notte, due soldati dormivano nelle due cuccette di sinistra del mio scompartimento. Il giorno seguente, venuta la luce, li ho veduti conversare insieme da camerati. Solo qualche ora più tardi ho saputo che erano un maggiore e il suo attendente. A distinguerli, non c'era che qualche ruga sul viso dell'ufficiale).

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DIMENSIONI. Pechino è, approssimativamente, quadrata, e circondata da una muraglia. A circa due terzi del quadrato, una muraglia interna, identica a quelle esterne, spartisce la città in due e una linea ferroviaria la segue. La parte maggiore o città cinese (Nei Cheng) è a nord, la minore o città tartara (Wai Cheng) a sud. I lati della città sono lungi fra sei e otto chilometri; tutta Milano vi starebbe benissimo dentro, ma la popolazione è più vicina, credo, ai tre che ai due milioni. A metà corre da est a ovest (tutta la città è rigidamente orientata) un largo e lunghissimo viale che nel centro della capitale si apre col Ten An Men, la Piazza Rossa della Cina. Essa è anche l'ingresso meridionale della Città Proibita, cioè del complesso di edifici e di giardini imperiali. La Città Proibita è un rettangolo circondato da muraglie, situato nel mezzo della città: le sue dimensioni sono all'incirca quelle del trapezio che va da Castel Sant'Angelo a Porta Pia, da qui a Porta San Giovanni e da Porta San Giovanni a Porta San Paolo. Contiene tre laghi, un numero grande di edifici e padiglioni, due colline artificiali. Dentro la città Proibita, cintato anch'esso da muraglie dipinte di color cinabro, c'è il Palazzo Imperiale vero e proprio, cortili, padiglioni, scalinate, canali. Lunghezza, un chilometro; larghezza, seicento metri. Quando lo si attraversa non ci si rende conto delle sue dimensioni, perché molte suddivisioni interne lo spartiscono in tanti cortili. Cinque o sei vasti cortili consecutivi stanno sull'asse centrale; diecine di altri si aprono a destra e a sinistra.

Nella parte meridionale della città uno spazio molto grande è occupato dagli edifici e dai giardini del Tempio del Cielo. Ma una buona parte della parte meridionale, pur cintata di muraglie, non ha costruzioni urbane. Nonostante la pianta assai semplice, ad angolo retto, a Pechino è difficile orizzontarsi. Compaiono improvvisamente le eterne muraglie interminabili, sempre eguali. Si è costretti a lunghi giri per passare dall'una all'altra parte della città.


MERCATO ORIENTALE. Nulla o poco del pittoresco che il nome potrebbe suggerire; eppure uno dei luoghi più incantati di Pechino. Vi sono tornato non so quante volte. M'avvedo che è difficile a descrivere: è un quartiere intero dissimulato dietro altre case e negozi con entrate e uscite che poco si distinguono da quelle vicine, un po' come l'ingresso del Tribunale nel Processo. Un quartiere di vicoli – anche qui! – veneziani, complicati e come raddoppiati da bancherelle d'ogni sorta; ma su tutto, un alto tetto nerastro che costringe alla illuminazione elettrica; o, di rado, un lembo di cielo. In questa fittissima città di vetrine e di empori, una folla silenziosa: gli unici rumori sono quelli di qualche radio che trasmette opera cinese o il violento spurgarsi di un venditore di valigie. Oltre ai negozi di oggetti di paglia, di berretti, guanti, pellicce, scarpe, dolci, balocchi, liquori – con quanta pazienza, a gesti, hanno capito che volevo una specie di cognac cinese, che dovevo poi scoprire profumato, non so, alla trementina; e la cassiera ascoltava assorta i miagolii e gli schianti di gong che da una piccola radio trasmettevano una vicenda di duemila anni or sono – i più singolari sono quelli dei venditori di cineserie e i librai antiquari. Sembra che un secolo di predominio straniero abbia lasciato qui le sue spoglie intellettuali: perché accanto alle cataste di antiche pubblicazioni cinesi su carta di riso si aprono scaffali e scaffali di libri europei, di vecchie riviste, che evocano gli ozi o gli studi o le nostalgie di funzionari, e delle loro mogli, libri che datano in modo ridicolo e straziante dai begli anni, quando Pechino era capitale degli ultimi Manciù e dei primi generali repubblicani, quando i nostri addetti militari cavalcavano nel glacis delle Legazioni, e la sera, andando a teatro, si potevano vedere esposte, accanto all'ingresso, le teste dei soldati che avevano cercato di entrare senza biglietto, decapitati per ordine di un generale moralista... Numeri spaiati del «Crapouillot», romanzi di Dekobra; ma anche intere biblioteche inglesi di opere ponderose su tutti gli aspetti della vita, della geografia, della cultura e della storia cinese — prova della scrupolosa attenzione con la quale il Colonial Office aveva studiato questo paese — e i classici della letteratura e della filosofia (chi acquisterà quella bella edizione delle opere complete di Nietzsche? Rocco C., che mi ha accompagnato là una sera, ha voluto, non senza melanconica civetteria, un Chaucer stampato a Oxford). In grandissima maggioranza, opere inglesi; poi tedesche; infine francesi. Ho bouquiné a lungo; e di italiano non ho trovato che un dizionarietto; forse i nostri attachés non son riusciti a vendere i loro D'Annunzio e i loro Pitigrilli... In compenso, quanta musica italiana; in grige legature, i dischi dell' Otello o del Barbiere. Ma su questo disfatto cimitero europeo, cui siedono guardiani piccoli cinesi in pantofole leggendo un loro libro, canta un grammofono a tromba, erto fra album, annate del Punch, cartoline-ricordo: Ramona...

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