Copertina
Autore Franco Fortini
Titolo I cani del Sinai
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2002 [1967], , pag. 100, cop.fle., dim. 120x182x8 mm , Isbn 978-88-7462-000-5
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe politica , storia contemporanea , paesi: Israele
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Indice


  9 I cani del Sinai


 75 Una nota 1978 per Jean-Marie Straub


    Appendice
 85 Lettera agli ebrei italiani


 91 Nota al testo


 

 

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Pagina 9

"Fare il cane del Sinai" pare sia stata locuzione dialettale dei nomadi che un tempo percorsero il deserto altopiano di El Tih, a nord del monte Sinai. Variamente interpretata dagli studiosi, il suo significato oscilla tra "correre in aiuto del vincitore", "stare dalla parte dei padroni", "esibire nobili sentimenti".

Sul Sinai non ci sono cani.

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Pagina 11

1.


Gli avvenimenti hanno cominciato ad allontanarsi. Era tempo che qualcuno provasse un sentimento di vergogna. Non per l'atteggiamento assunto, per la scelta compiuta, razionale o emotiva. O non ancora. Prima di ogni altra considerazione: per essere stato così bene scaldato dalla propaganda. Vergogna è però troppo grave parola. Meglio: leggero dispetto, fastidio.

Un sentimento molto probabilmente previsto dagli specialisti della propaganda. Quel che conta è, come in guerra, non mancare il primo colpo, impegnare in una direzione. La gente non ama ricredersi. Quando dovrà farlo, lo farà in segreto. La certezza dell'inganno si muterà in cinismo. Guadagno per la causa della conservazione. Gli indifferenti sono i suoi più certi alleati.

La diversione: perfetta. Un piccolo capolavoro. Tutto in ordine, compresa la prevista incapacità dei nostri funzionari comunisti di prevedere, di interpretare, di esprimere in tempo utile ragioni buone e non cattive; intendo ragioni comuniste, non soltanto proarabe. Ho pensato al senso di frustrazione e di inganno che nei più giovani si accompagnerà alle emozioni del giugno scorso. Anche questo un risultato a favore del peggio.

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Pagina 56

21.


All'intenzione di quanti amano ricordarti che il mondo è complesso, che le semplificazioni procedono da incertezza o stereotipia intellettuale, da un mal risolto complesso di Edipo o – sarebbe lo stesso – da personalità autoritaria, preciserò che la complessità del reale, la sua lettura a infiniti livelli, non libera nessuno da una semplificazione oggettiva, dalla iscrizione di ogni vita in un ordine di comportamenti che sono comportamenti di classe; e che d'altra parte la semplificazione, soggettiva ed espressa in termini ideologici, di cui io, come tutti, faccio uso - interpretazione, "coscienza", votata allo scacco – non pretende (quasi mai) di essere strumento di rilevazione scientifica ma provocazione, reagente che induce altrui a rilevare la propria identità di classe, il clinamen interiore. Fin tanto che la guerra di giugno non era combattuta e vinta, ai lontani poteva rimanere incerto il grado di impegno classista, di fedeltà al servizio imperialistico, delle dirigenze politiche israeliane. Dico, a chi avesse dimenticato la guerra del 1956 e poi la violenza delle rappresaglie che in media hanno ucciso, per ogni israeliano, quattro arabi. Alla opinione appena informata e sentimentalmente benevola era visibile soprattutto la complessità delle componenti sociali di Israele, non poche delle quali erano certo prossime ad una realtà socialista molto più di tutte le ciarle "sociali" di un Nasser. Mentre oggi la "semplificazione" ha così ben operato a colpi di artiglieria, che recarsi ad un balletto israeliano, prenotarsi per un viaggio ai campi di battaglia del Sinai e così via ha un significato politico generale probabilmente opposto a quello che avrebbe avuto ancora dieci o dodici anni fa.

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Pagina 58

22.


All'intenzione di chi, come avessimo bisogno di ricordare, ci raffigura millenni di persecuzione e l'ultima, l'incommensurabile, dirò allora, a costo di andare ai limiti del vero, qual è il senso che non senza angoscia e dubbio alcuni hanno cercato in questi anni di identificare: non in quella storia secolare ma nella recente. Evocare i macelli nazisti equivale a chiederne una chiave, una interpretazione. Occorre appena aggiungere che si rifiutano fin da subito tanto l'interpretazione cristiana (il "segno di elezione") quanto quella umanistico-liberale (il "delirio del totalitarismo").

Quel senso era: di aver riassunto, nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell'uomo sull'uomo proprie dell'età moderna; di aver riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella insensibilità, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e di storia, come alienazione reificazione annichilimento.

Ma ricavare questo senso e una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi note che rendono possibile la distruzione dell'uomo, di cui la strage ebraica è solo un esempio, è stato di pochi. Molti portavoce della cosidetta "cultura" d'Occidente cercavano interpretazioni extrastoriche e metapolitiche e rapidamente giungevano a situare le stragi naziste nell'ordine del "sacro", a considerarle opera del Male In Sé, in sostanza ad accettare, rovesciandone i contenuti, uno dei miti centrali della mistica nazista: la purezza o purificazione attraverso l'olocausto. È stata questa, nell'ordine internazionale una operazione analoga a quella compiuta per interpretare il fascismo. Nell'un caso come nell'altro la posizione sovietica — e comunista — nella misura in cui tendeva alla coesistenza, ossia al democratismo Onu, tendeva anche a perpetuare — d'accordo con i portavoce ideologici occidentali — la versione patetico-propagandistica dell'Orrore e della Bestialità. Naturalmente l'interpretazione classista è stata portata innanzi e in forme ormai canoniche; tuttavia il limite moralistico, con il suo ottimismo di fondo, ha continuato fino a ieri a favorire una "fissazione" del Nazismo in forme mitologiche di cui hanno beneficiato, in sostanza, le forme atipiche di esso, ossia quelle, altrettanto feroci, dell'Imperialismo Moderno. Per dissolvere quella fissazione e far ritrovare alla strage nazista il suo carattere di sanguinosa "normalità" è stato necessario che entrassero nella lotta i paesi nei quali il colonialismo europeo aveva istallati ben più vasti Lager di quelli nazisti e ben più numerosi milioni di vite umane aveva distrutto di quante non ne avessero dissolte le SS.

Parlo delle stesse vittime, degli stessi scampati: quando rileggo le righe di esultanza con cui Mordecai Anielewicz, poco prima di cadere anch'egli ucciso, annuncia di aver raggiunto lo scopo ultimo della sua vita, di promuovere la resistenza armata degli ebrei del ghetto di Varsavia, la passione che si prova, la lezione che si riceve dall'uomo che si adempie vincendo strapotenti avversità e si rivolta contro forza ingiustizia male, deve separarsi dalla necessità di criticare quale è stato l'esito politico del movimento che contava uomini come lui, voglio dire il movimento che in Israele organizzò i Kibutz e parve, vent'anni fa, un modello di socialismo. E finalmente bisogna dire che nell'azione di coloro che con maggiore coerenza ed eroismo hanno combattuto il nazismo e di cui leggiamo i pensieri o le lettere ultime; e anche, anzi più, forse, in coloro che non furono in nessun modo eccezionali e non hanno lasciato nessuna traccia, in coloro che sono stati soltanto vittime, ho sempre sentito che c'era qualcosa che andava al di là della lotta contro il nazismo, qualcosa che – non fosse che per un attimo, il supremo – concorreva, lo sapessero o no, al "sogno d'una cosa" che gli uomini hanno "da tanto tempo", all'enorme sogno degli uomini. Di qui l'ordine di criticare ogni interpretazione, ebrea o non ebrea, della strage che si mantenga sostanzialmente nei termini della strage: quelli della sacralità del sangue, della colpa, della intimidazione morale, delle scomuniche.

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Pagina 61

23.


Non è antirazzista chi rifiuta soltanto l'ereditarietà biologica, il determinismo del sangue. Anche una separazione ed una gerarchia fra gli uomini fondata solo sulle loro eredità storiche può condurre ad aberrazioni razziste. D'altra parte il rifiuto illuministico-giacobino delle eredità storiche porta al borghese "democratico", alla sua "eguaglianza" ipocrita; e conduce finalmente alla psicologia volgare e alla sociologia volgare, quali studio delle differenze fra gli uomini stabilite a partire da una immaginaria identità supposta una volta per tutte e che, non essendo più in prospettiva, non riuscendo a proporsi come fine, diventa sempre più una ipotesi rituale, la maschera delle gerarchie di fatto ed accettate.

Se l'eredità storica dei diversi gruppi umani e degli individui non è vissuta come consapevolezza-prassi, essa diventa il più ipocrita alibi dei giorni nostri, sotto la forma di uno storicismo degradato che pretende conoscere il donde con il rifiuto del dove. Gli uomini i gruppi i popoli non sono uguali; ma non sono diversi solo perché il loro passato è diverso e perché diversamente li determina. Non sono, non debbono, non possono essere uguali, anzi debbono essere, sono costretti ad essere, diversi, perché qui e ora agiscono diversamente, perché diversamente si collocano nel complesso delle forze storiche, nella simultaneità del mondo. Il loro passato li ha collocati dove sono; ma è il futuro a farli muovere. E sono diversi rispetto a te perché coinvolgono, con il loro agire nel presente, la tua diversità, il tuo agire. "Non mi interessa che cosa è stato fatto all'uomo ma che cosa egli fa di quel che è stato fatto di lui" (Sartre).

Contro i determinismi biologici, contro l'egalitarismo illuministico ma anche contro i fatalismi storicistici e contro i più recenti tentativi di fondare una identità di categorie su differenze di "sistemi" o "strutture" (il "pensiero selvaggio"): la mia vicinanza a te, la tua lontananza da me si misurano da quel che noi due facciamo, dal come e dove lo facciamo, nel contesto di un confronto, di una lotta immediata e universale. Qualcosa di simile, che non è pragmatismo se non al suo livello più basso ma che cessa di esserlo non appena include la dialettica, mi sembra il senso di molte odierne azioni dei cinesi e delle interpretazioni che essi ne formulano.

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Pagina 70

27.


Guardo da questa collina uno spazio di cielo, di montagne e di mare. Queste linee mi sono più familiari delle vie della città dove sono nato e di quella dove vivo. Venti o trent'anni hanno modificato quelle scene e me in esse. Tutto mi pare ora più piccolo, come più premuto. Lo spettacolo delle stagioni è già troppo veloce. Veramente non so più vincere il fastidio delle apparenze se non dimenticandolo nella gradevole illusione di interesse che il lavoro riesce ancora a provocare. La tentazione di credere unica realtà la forma e unica forma la parola, l'invito alla calma del distacco: non sono mai stati forti come ora. Ma anche più forte la resistenza e non mi rassegnerò.

Sorvolando città in aereo o traversandole con i treni di notte, si sa che accade di pensare ai conoscenti o amici in quelle, nei loro lavori o nel sonno o nella consumazione qualsiasi della loro vita. Di qua mi pare di poterne scorgere molti: quasi tutti in una o altra forma ubbidienti a quello che ancora chiamiamo destino e che è solo il nome di volgari potenze, di violenze che potremmo arrestare, di cicatrici dimenticate. Dalla pianura viene il rumore confuso delle diecimila auto in corsa sulle vie del litorale e della campagna, il lampo di un vetro in una curva fa specchio, un clacson più acuto. Il senso dello spreco. Della infelicità. Della pietà, finalmente. Perché quel ronzio, quei lampi, quegli acuti di clacson sono quasi le voci o i segni di gente che conosci, che non chiami amici perché non lo sono ma che si sono incontrati con la tua vita e sapevano o sanno quel che tu sai, hanno voluto o vogliono qualcosa di non molto diverso da quel che vuoi tu, anzi tu non sei in nulla diverso da loro.

Due estremità mi sono certe: l'avvenire del mondo umano, almeno dalla mia a qualche altra generazione; e la mia sorte individuale. Questa è una fine qualsiasi di una biografia che non aspetta da se stessa, come ha fatto finora, se non verità indirette; quello è il conflitto tutto spiegato e lungo, non davvero finale ma conclusivo di un'era, per il comunismo mondiale. E in quello - che per varietà e violenza eversiva avrà bisogno di tutte le forze che dal passato muovono verso quel fine - troverà luogo anche il minimo segno tracciato da coloro che in questa estate europea senza speranza né onore usano, gravati da un incerto fastidio o da una rabbia inutile, dell'intelligenza e dalla passione residue e ripetono le due o tre verità senza fine che si sono illuminate per essi nel momento più alto o più basso della loro esistenza.

Ma tutto il resto, fra questo corpo e l'avvenire, è oscurità e caos. Non vorrei dire nulla sull'immediato domani. I segni sono contraddittori. Il nostro lavoro non ha luogo. Non tutto, ma molto può accadere. E poi non ho più voglia di spiare quel che accadrà ma solo di fare quel che posso ora per ora. Se la parola rivoluzione non fosse quasi ridicola per l'abuso, bisognerebbe dire che oggi l'azione rivoluzionaria ha da essere anche più riformista del riformista, apparentemente miope, dedita a piccole opere certe, a fabbricare diamanti o selci artificiali e micidiali, a sabotare minutamente, a distruggere con pazienza ma fino a terra: la talpa, di cui hanno parlato i classici. Solo in questa prospettiva posso giustificare ai miei occhi queste pagine, di apparente polemica immediata e di apparente autobiografia. I cani del Sinai non sono soltanto quei miei connazionali europei che hanno sfogato il loro odio per il diverso e il contrario (ieri gli ebrei, oggi gli arabi, domani il cinese, il sudamericano, qualunque "rosso"): sono anche metafora ironica dei nostri più vicini e goffi nemici, quelli che latrano in difesa delle tavole d'una legge che nessun dio ha mai dato e che nessuno sa più decifrare, tanto è lorda di vecchia strage. Attirarsi qualche latrato o qualche morso, è cosa davvero di nessun momento, senza merito né demerito. Bisogna voler ben altro: e anzitutto credere, come Lenin diceva, che ad ogni situazione esista una via d'uscita e la possibilità di trovarla. E cioè che la verità esiste, assoluta nella sua relatività.


                Se tu non vuoi più credere alla verità,
                nessuno vorrà più credere a te.
                                       Zelman Lewental,
                      Sonderkommando del Crematorio II,
                    Auschwitz-Birkenau, 15 agosto 1944.

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