Copertina
Autore Franco Fortini
Titolo Un dialogo ininterrotto
SottotitoloInterviste 1952-1994
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2003, Saggi Arte e letteratura , pag. 750, cop.fle., dim. 147x220x40 mm , Isbn 978-88-339-1384-1
CuratoreVelio Abati
LettoreRenato di Stefano, 2003
Classe politica , critica letteraria , storia letteraria , storia sociale , biografie
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Indice

XIII     «Dopo lungo giro ed erranza» di Velio Abati

LIII     Nota al testo

         Un dialogo ininterrotto

  3   1. I migliori racconti dell'Otto-Novecento (1952)
  5   2. Lo Stato-guida (1957)
 14   3. La critica letteraria in Italia (1960)
 30   4. La generazione degli anni difficili (1960)
 38   5. L'erotismo in letteratura (1961)
 46   6. Letteratura e politica (1962)
 48   7. Le due culture (1962)
 50   8. Una volta per sempre (1) (1963)
 52   9. Una volta per sempre (2) (1963)
 55  10. I nuovi romanzi? Una bella noia (1965)
 60  11. Resistenza (1) (1965)
 62  12. Resistenza (2) (1965)
 66  13. La letteratura si trasforma (1965)
 75  14. Il mestiere di poeta (1965)
 87  15. La crisi dell'ideologia? Un'invenzione di chi
         rinuncia (1966)
 91  16. Il caso Sinjavskij e Daniel (1966)
 92  17. Vittorini o dell'impegno (1966)
 99  18. Vittorini autore (1966)
111  19. Su Lettera a una professoressa (1967)
116  20. Libri fortiniani appena usciti e in cantiere (1969)
120  21. Metadisciplinarità della critica (1970)
127  22. Il Faust tradotto (1971)
135  23. Mandarini (1971)
137  24. La sinistra extraparlamentare (1972)
138  25. Gli scrittori e il Manzoni (1973)
141  26. Dell'oscurità (1973)
146  27. «Niente antistoria, ho già pranzato...» (1974)
150  28. Nuova cultura a Milano (1975)
156  29. L'«Officina» dei tempi perduti (1975)
158  30. Lo stato della critica (1975)
163  31. «Il Politecnico», un discorso aperto (1976)
171  32. Il rapporto con la lingua (1976)
173  33. La società dei socialisti (1976)
180  34. L'ordine nel porcile (1977)
184  35. Ma è vero che la cultura italiana è vile? (1977)
185  36. «Cospirare intellettualmente» (1977)
191  37. Crisi del prodotto-libro (1977)
194  38. Questioni di frontiera (1977)
196  39. Orgoglio e intransigenza (1977)
198  40. La dolcezza e il pugnale (1978)
206  41. Il mito dell'immediatezza (1978)
216  42. Una volta persempre. Poesie 1938-1973 (1) (1978)
219  43. Sul rapimento di Aldo Moro (1) (1978)
221  44. Sul rapimento di Aldo Moro (2) (1978)
223  45. Brecht (1978)
228  46. «Voi non siete giovani. Forse lo diventerete»(1978)
232  47. Una volta persempre. Poesie 1938-1973 (2) (1978)
236  48. Della poesia, della prosa (1978)
244  49. «Si vuol intimidire chi pensa» (1979)
247  50. La questione della borghesia (1979)
249  51. «Quest'anno faccio...» (1979)
252  52. Il silenzio degli intellettuali (1980)
256  53. Che cos'è la letteratura? (1980)
260  54. I rimorsi (1980)
264  55. Scelte di campo (1980)
278  56. Nuovi poeti italiani (1980)
280  57. Il tempo dei maestri e il tempo dei padri (1980)
284  58. Stampa e terrorismo (1981)
287  59. Il fantasma dell'ideologia (1981)
289  60. Impegnato, disimpegnato (1981)
292  61. Il profeta di classe (1981)
298  62. Le catene che danno le ali (1981)
311  63. «Un vero veduto dalla mente» (1981)
316  64. Alcune recenti antologie poetiche (1982)
322  65. Il ladro di ciliege (1982)
326  66. Latino a fumetti (1983)
327  67. Morale, il nome privato della politica (1983)
335  68. La condizione servile della critica (1983)
337  69. La neoavanguardia, vent'anni dopo (1983)
343  70. Rabbie e speranze (1984)
349  71. Paesaggio con serpente (1984)
354  72. Tra valore e disvalore (1984)
369  73. «Fermezza, ardore, gravità» (1985)
380  74. Vecchio copione al «Corriere della Sera» (1985)
383  75. Democrazia proletaria «vista» dall'esterno (1985)
389  76. La lingua del Padre (1985)
393  77. Lettera aperta dopo Sigonella (1985)
395  78. Intellettuale scomodo (1985)
400  79. A lezione (1985)
403  80. La scrittura elettronica (1985)
407  81. La traduzione come straniamento (1985-86)
411  82. Ricordarsi del futuro (1986)
415  83. A Siena, di guarnigione (1986)
418  84. Via Fieravecchia (1986)
421  85. I sorrisi dei mentitori (1986)
424  86. Fromm sdegnato dagli snob (1986)
425  87. Il libro dimenticato (1986)
427  88. La critica come genere (1986)
437  89. Editoria di cultura e editori di moda (1986)
448  90. L'«autentico» è un'illusione (1987)
454  91. Su Zanzotto (1987)
458  92. Una fotografia di Irving Penn (1987)
474  93. Fra miele e veleno l'utopia del futuro (1987)
479  94. Opposizioni radicali agli attuali poteri (1987)
481  95. «Letteratura ti assolvo» (1987)
485  96. «Breve opinione» sulla Rivoluzione d'Ottobre (1987)
486  97. Vale ancora la pena (1987)
496  98. L'ermeneutica e la critica psicoanalitica (1987)
501  99. Identità ebraica (1987)
507 100. Saggi italiani (1988)
511 101. Dalla scuola alla piazza (1988)
517 102. Verso il PCF? (1988)
519 103. Le Lezioni americane di Calvino (1988)
522 104. Invidia letteraria (1988)
523 105. Letteratura e '68 (1989)
532 106. Nei partiti mancano le idee (1989)
534 107. Solo il Vangelo è un libro per tutti (1989)
541 108. «Voterò comunista» (1989)
543 109. «Questo nuovo PCI io lo capisco» (1989)
545 110. Chi tradisce chi? (1989)
548 111. Contro lo snobismo di massa (1989)
557 112. In morte di Elvio Fachinelli (1989)
559 113. «Fare diversa questa realtà, non farne un'altra»
         (1989)
574 114. Finis historiae (1990)
591 115. Dissenso (1990)
595 116. In margine al Convegno di Siena (1990)
596 117. Di scrittori, di critici, oggi (1990)
598 118. Il Nobel a Octavio Paz (1990)
601 119. Extrema ratio (1990)
604 120. E venne il tempo del declino (1990)
606 121. A Firenze, il viluppo di fascismo e antifascismo
         (1990)
617 122. «Il papa? È nemico dei miei nemici» (1991)
619 123. Sempre antiamericano (1991)
624 124. Morselli ininteressante (1991)
625 125. Alcune precisazioni su postmoderno e allegoria
         (1991)
629 126. Libri da leggere (1992)
631 127. «Il mondo non è solo un testo» (1992)
635 128. L'attesa (1992)
638 129. Il nuovo corso dell'Einaudi (1) (1992)
640 130. Il nuovo corso dell'Einaudi (2) (1992)
642 131. Corruzione di vecchia data (1992)
643 132. Spregiudicatezza (1992)
645 133. Con Pampaloni antica discordia (1992)
648 134. Il crollo (1992)
650 135. Contro le mafie letterarie (1992)
652 136. Mandarli a casa (1992)
654 137. Antisemitismo (1) (1992)
655 138. Pensare Milano (1992)
658 139. Antisemitismo (2) (1993)
659 140. La neoavanguardia, trent'anni dopo (1993)
662 141. Leggere e scrivere (1) (1993)
665 142. La Gerusalemme depravata (1993)
667 143. Attraverso Pasolini (1) (1993)
670 144. Attraverso Pasolini (2) (1993)
673 145. Ghigliottina di carta (1993)
674 146. Leggere e scrivere (2) (1993)
678 147. «Macché antologie, sono le armi del potere» (1993)
679 148. Quei mercoledì letterari da Einaudi (1993)
684 149. «C'è un cattivo odore nell'aria» (1993)
696 150. Essere profeti oggi (1994)
697 151. Composita solvantur (1994)
702 152. Su una «provocazione» di Montanelli (1994)
703 153. «E se il marxismo fosse il futuro?» (1994)

         Appendice
715 154. Paura del denaro (1994)
718 155. Canzone e poesia (1995)
732 156. Quel busto romano di una dea (1998)

739      Indice dei nomi

 

 

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Pagina 141

26. Dell'oscurità [Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, La Nuova Italia, Firenze 1973]


Tra le accuse più frequenti, e rituali, che si sono sentite fare ai tuoi scritti ideologici ce n'è una che forse è significativa nonostante la sua genericità apparente. È l'accusa di oscurità, di scarsa chiarezza. Negli ultimi tempi alcuni dei tuoi interventi più interessanti sono tornati sul tema dei linguaggi comunicativi e del loro uso, muovendo da una critica dell'atteggiamento miope o irresponsabile tenuto al riguardo dalla sinistra vecchia e nuova. Ma alle cose che scrivi è continuata ad arrivare quella accusa, non nuova, di oscurità. Che cosa significa?

Si è sempre chiari per qualcuno e oscuri per qualche altro. In genere le accuse di oscurità mi sono state mosse da intellettuali che capivano benissimo quel che volevo dire ma che, per limpida demagogia, lusingavano nei meno preparati il basso risentimento che talvolta fa dire con orgoglio all'operaio intimamente già fuggiasco dalla propria classe: «Parla più semplice, sono un operaio». Eppure nessuno sa meglio di me che cosa ha voluto dire mancare di chiarezza; e perché.

La mancanza di chiarezza, nel mio caso, non era una efficienza tecnica (dico «era», perché mi illudo sia stata, soprattutto, del passato): vent'anni di esperienza, prima come giornalista, poi come copywriter (ossia come quello che scrive o riscrive testi pubblicitari) e poi un decennio di insegnamento mi hanno reso professionalmente capace di scrivere «chiaro», se voglio, ossia di scrivere nel modo che molti credono sia quello della chiarezza. Ma l'oscurità o l'intrico, quando non si tratta di incapacità tecnica, mi nascono dalla concorrenza di almeno tre elementi. Il primo è la scelta, più o meno cosciente, dei destinatari; e va da sé che non si parla qui di difficoltà derivanti dall'uso di terminologia tecnica. Scegliere dati interlocutori è scegliere un codice di riferimenti e di allusioni: ebbene, per un lungo periodo, diciamo per un quindicennio, ho creduto perfettamente inutile parlare ad una larga udienza, salvo che negli scritti di varia pubblicistica sull'«Avanti!». E ho parlato nel gergo di una setta. C'era un vizio di orgoglio, per rifiuto dell'ovvio; di vanità, per ricerca di interlocutori eletti; di pigrizia, per eccessivo rispetto a quanto mi fosse uscito di penna. Il secondo elemento è la condizione del linguaggio nella cultura circostante; dico del linguaggio, dovrei dire di tutte le forme della comunicazione. Il caos e l'arbitrio, il rifiuto di ogni convenzione formale, la pretesa di un diritto spontaneo alla parola: sono cresciuto nell'assenza di «forme», nella esaltazione dell'anarchia espressiva. Ne porto i segni. Ecco perché da tanto insisto per una verifica del linguaggio comunicativo: perché la lingua ha continuato a battere dove il dente non ha smesso di dolere.

Ma il terzo elemento è il più importante dei tre: ed è che la difficoltà, l'oscurità, il fumo si accompagnano necessariamente ad ogni discorso che si rifiuta a dispiegarsi perché ha come proprio centro una proposta o una allusione di totalità. Hanno parlato di mistica. Un corno, come diceva Vittorini. Essere verso il comunismo, per me, ha voluto dire indicare, con uno stesso gesto, l'assenza di unità umana (o l'alienazione, come si dice) e l'ipotesi di quella unità (o la fine dell'alienazione). Ebbene, pensare e scrivere voleva dire, per me, vuol dire, un equivalente di quel gesto. Ma allora, in versi, dove la natura stessa della poesia è ambiguità e piani diversi di significato, cercavo la «chiarezza», l'apparente chiarezza «prosastica», la semplicità ricca di significati che si rivela essere il contrario della semplicità di un significato solo; cercavo il nitore che è la spia della oscurità connessa alla parola, all'organismo e al suo morire. Mentre in prosa, fuggire il lirismo (non sempre con successo, ne convengo) voleva dire far cozzare fra loro il maggior numero possibile di elementi contraddittori, procedendo per grumi e magari per gridi, per accenni, per sottigliezze.

Tutto questo però non ha scusanti quando si sappia meglio a chi si parla. Ebbene, i visi dei miei interlocutori, per vent'anni, non li vedevo; fra me e loro stavano le burocrazie di partito, gli specialisti della «chiarezza». Come mai, se rilette oggi, le pagine di Dieci inverni sono così chiare? Una delle poche cose che ami nell'Alfieri è quel suo epigramma: «Mi trovan duro? | Anch'io lo so: | pensar li fo. | Taccia ho d'oscuro? | Mi schiarirà | poi libertà». C'è una libertà che si guadagna anche sulle proprie incomprensioni e sul proprio non voler capire. E c'è una libertà che si guadagna vincendo le proprie compiacenze e il proprio snobismo imparando a riscrivere tre, cinque volte, dieci volte. Oggi, in genere, non riesco quasi mai a scrivere di getto nemmeno la più semplice delle lettere. Sono, nonostante tutto, così persuaso della necessità profonda di insegnare a tutti la complessità, di lottare contro le semplificazioni apparenti e ingannevoli, che la sola via diritta a dire una cosa mi pare quella obliqua. (Stavo per dire: quella dialettica, se la parola non fosse quasi malfamata).

Così rispondendo ho fatto finta di dimenticare la cosa più importante. E cioè che posso aver scritto e scrivere torbido e oscuro perché non so pensare con ordine o, più schiettamente ancora, perché ho pensieri torbidi e oscuri. Ma certo. Non basta pretendere alla dialettica per scrivere come Adorno, grazie tante. Chi mi conosce sa che il mio rispetto per chi ha disciplina e ordine intellettuale, discorsività di scrittura e metodo e rigore è perfino eccessivo. Non mi è mai passato per la mente di considerarmi qualcosa di diverso da un «dilettante», tuttavia nel senso meno degradante della parola. Ma va da sé che non posso non riconoscermi le virtù dei miei vizi.

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Pagina 146

27.

«Niente antistoria, ho già pranzato...» [Enzo Golino, «Il Giorno», 22 ottobre 1974]


Quel singolare scrittore che è Franco Fortini rilutta ad ogni separato ruolo di poeta, saggista, ideologo, traduttore, politico, intellettuale. E si autodefinisce «dilettante », quasi un riflesso aggiornato del «lasciateci essere versatili!» di Goethe. Ha il gusto e la vocazione delle minoranze, di cui però riconosce i vizi del profetismo e del moralismo. Dalla trincea accerchiata avanza per sortite, non ama la presenza assidua. Ma in un punto almeno del suo eclettismo Fortini rivela un denominatore comune: lo strenuo confronto faccia a faccia con la storia, un corpo a corpo senza tregua. «Tante volte - dice - ho provato sulla mia pelle il brivido della storia, uno choc violento, l'avviso che in quel momento la storia stava cambiando per tutti». Quando è successo?

Qualche giorno prima del rapporto Chruscëv al XX Congresso del PCUS, nel 1956, mentre già si avvertivano sui giornali i sintomi della destalinizzazione... Poi nel 1968, ascoltando alla radio le notizie sulla rivolta degli studenti a Parigi, nelle strade e nei luoghi che conoscevo, che amavo... O in Valdossola in un pomeriggio del 1944, durante la ritirata dei partigiani incalzati da tedeschi e fascisti; vidi sotto la pioggia, in un prato, accanto alle mucche che pascolavano, una pastora con i piedi scalzi, l'ombrello, ai fianchi il cinturone e la pistola: una immagine di trapasso, di mutamento... Oppure nel 1962, gli scioperi massicci alla FIAT di Torino dopo un ristagno quasi decennale: al telefono Raniero Panzieri ne dava a noi amici la cronaca esaltante.

Questi sono i fatti. Ma la storia esiste, questa cosa tanto lontana e tanto vicina che a molti appare priva di senso, addirittura irreale?

Certo, esiste - risponde Fortini. - È l'unione di passato, presente, futuro. Ma non bisogna guardare alla storia con l'ottica degli storici. La storia degli storici è necessariamente giustificatoria. Per fare gli storici bisogna essere scettici o conservatori.

E allora, gli storici di sinistra?

Una storia di sinistra fatta da storici di sinistra è una contraddizione. Nella sinistra ve ne sono di buoni storici, anche militanti: la loro posizione si può definire togliattiana, badano alla continuità più che alle fratture. Alcuni storici di opposizione si sono messi a fare la storia dal punto di vista della classe operaia e non del movimento operaio politicamente organizzato. Ma si sono accorti che il risvolto della classe era il capitale, e che senza la storia del capitale la storia della classe era un assurdo.

Chi fa oggi la storia?

La storia del mondo la fanno gli oppressi, soprattutto ora che i conflitti vengono esportati lontano dai prati di Harvard, lontano dai lungo fiume della Moskva. Come ho scritto in un saggio del 1963, Le mani di Radek, bisogna sapere che l'operaio cinese, il negro minatore del Sudafrica e l'insorto contadino venezuelano non sono il nostro passato, sono invece il nostro presente. Giacomo Noventa disse una volta: «il futuro è il presente di un altro»... Ecco, io penso che già oggi c'è chi vive un nostro possibile futuro.

A parole, o anche nei fatti?

Sì, nell'esperienza quotidiana: società rivoluzionarie che cambiano il proprio stato, uomini spiritualmente più avanzati di noi... Per questa ragione non credo in un umanesimo tranquillizzante, il futuro da una parte, il presente dall'altra, il passato chissà dove... L'unica via d'uscita dall'ipocrisia di certa beatitudine storicistica è nell'affermazione simultanea dell'infinito valore del presente e insieme dell'infinita nostra dipendenza dall'avvenire.

Però la storia passa sempre sopra le nostre teste, è un eden irraggiungibile se dipendiamo da un avvenire che non possiamo determinare...

Non è così. Intanto vorrei dire che c'è una tendenza eccessiva a parlare della storia delle vittime: è un errore grave ed è una storia falsa quella delle vittime perché tralascia la storia dei potenti, dei boia, o la naturalizza, cioè la rende simile alla natura, la uguaglia ad una normalità fatale. Questa visione della storia manca di dialettica.

D'accordo, ma questo che dici non spiega la nostra dipendenza dall'avvenire.

Dipendiamo dall'avvenire in quanto siamo riusciti a recuperare dal passato, con il balzo della tigre di cui parla Walter Benjamin, qualcosa che dovrà essere divorato nel futuro. I drogati dell'avvenire, soprattutto i giovani, io li esorto non alla storia degli storici, di cui ho già detto quel che penso, ma alla storia dei politici. Questa esortazione è una forma di resistenza a ciò che accade oggi nel nostro paese soprattutto nella scuola.

Alludi al rifiuto della storia, provocato anche dalla falsità e dalla stupidità di tanti testi scolastici?

Certo, ma non è solo questo. Si tratta di un fenomeno di portata più vasta, addirittura della perdita della memoria. Oggi per la maggior parte dei giovani Cristo è appena una interiezione, non un grande personaggio storico. Non si riesce più a recuperare il passato, parliamo di Dante e ti rispondono che vogliono Che Guevara o Allende. Anche nelle famiglie, per la droga del presente e del futuro, si sta perdendo il senso del passato, della memoria storica. È un aspetto ripugnante della crisi dei valori che stiamo vivendo. Per il militante politico, per l'operaio, come per tutti, è invece fondamentale conoscere il passato. È la loro storia, e non possono ignorare che una delle condizioni della resistenza degli sfrattati e dei colonizzati è il recupero della memoria storica di classe.

Tuttavia non sono pochi gli intellettuali che non credono alla storia, che respingono il passato con fastidio, magari giustificando il rifiuto con i guasti prodotti nella nostra cultura dallo storicismo, dalla inclinazione a interpretare il presente sempre in termini di passato.

Per quanto mi riguarda non posso che condividere il rifiuto dello storicismo idealistico crociano e marxista. E sono anch'io contrario a quelle forme di storicismo volgare che immaginano la storia come una perfetta sequenza di causa e di effetto, un tempo lineare e continuo. Ma quando all'insegna dell'antistoria trovo un fronte larghissimo che va da Cassola a Citati, dalla Ginzburg a Elsa Morante, da Montale a Pasolini a Manganelli e a tanti altri, davanti a questo piatto dove galleggiano resti di Nietzsche, Heidegger, Valéry, Rilke, Guénon, Camus, Gandhi, e un po' di zen, vien voglia di dire «grazie, ho già pranzato».

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Pagina 180

34.

L'ordine nel porcile [Severino Saccardi, «Progetto», supplemento di «il manifesto», 28 aprile 1977]


Abbiamo chiesto al compagno Fortini, poeta e scrittore, docente all'Università di Siena, di esprimere la sua opinione su alcuni problemi connessi alla crisi di modelli e valori, vera «crisi morale e ideale» che investe la nostra società. Ritieni che all'interno di un processo di rigenerazione del modo di vivere e di pensare, di concepire la vita, abbia posto uno sforzo di riallacciarsi alla cultura precedente?

È stato detto e ripetuto che bisogna recuperare il meglio della cultura borghese. Oggi il problema, però, si è spostato. Si pone la questione del rapporto con la nostra stessa tradizione, con la tradizione marxista del movimento operaio. La cultura cui attingono parte dei più recenti movimenti giovanili di contestazione infatti non può, per lo più, dirsi affatto «marxista». Chi ha vissuto di persona gli ultimi decenni di storia assiste sbalordito alla mancanza di memoria storica di certi giovani. Non parlo di memoria in senso sentimentale, parlo della memoria della cultura e delle lotte, di una esperienza che viene elaborata e trasmessa. Si pensi, ad esempio, all'importanza che, per i compagni che hanno fatto la guerra di Liberazione, ha avuto la memoria del socialismo del periodo prefascista o la stessa memoria della oppressione fascista. Non si può dunque non essere preoccupati per la «mancanza di memoria» di certa cultura giovanile che parla di una mitica «riappropriazione della vita» fatta di attimi ognuno dei quali sia totalmente pieno e che finisce per sfociare nella sfera dell'esperienza mistica e nell'individualismo. Il «recupero della vita», il «vogliamo la nostra vita» è una tragica illusione. Il rivoluzionario vuole sì il recupero della integrità ma sa che può averlo per sé nella misura in cui avviene per gli altri. Questi giovani dovrebbero riflettere sulla frase di Adorno per cui «non si dà vita vera nella falsa» o sulla frase di Brecht che ricorda che «non si deve mettere ordine in un porcile».

Come ovviare a questo? Ricostruendo il nostro passato prossimo. Trenta anni fa c'era la figura (mitica e reale) dell'operaio che rubava le ore al sonno per decifrare Marx. Presto la figura sarà quella del giovane che ruberà le ore al sonno per sapere che cosa è accaduto nel suo immediato ieri.

Pensi che la sinistra abbia fatto seriamente i conti con la cultura cristiana?

Nei movimenti che sono nati negli anni sessanta sulla sinistra del comunismo italiano c'è stata una tendenza al recupero di valori che sembravano messi tra parentesi dai PC occidentali. I problemi etici tradizionalmente connessi con la concezione religiosa della vita, i temi dell'uomo non produttore, dell'infante, del vecchio, del malato, dell'emarginato sono stati, a lungo, quasi estranei completamente alla cultura della nostra sinistra. Solo con il movimento della seconda metà degli anni sessanta si è avuto un certo sviluppo di questa tematica (basti pensare a Lotta continua o ai cattolici di sinistra). Secondo me, negli ultimi anni si è verificato un parziale rovesciamento della situazione: questi temi hanno dilagato. Si veda, in questo senso, il discorso sul «recupero del corpo», certe suggestioni tese al «rifiuto della Storia», in una dimensione che ha molti elementi che un tempo si sarebbero detti di origine cristiana. Di fronte a questa diffusione di neoanarchismo o di forme di misticismo (che ha una forte presa sui gruppi più disperati di giovani dell'hinterland milanese) anche chi, come me, ha molto «predicato» perché non si dimenticasse l'esistenza di qualcosaltro, oltre il rassicurante universo del sapere scientifico e degli atteggiamenti radicali, è costretto a mettere in guardia da questi sbandamenti che vanno considerati veri e propri nemici della ragione.

Vi sono compagni i quali ritengono che il ragionamento, il discorso rigoroso sono strumenti con i quali il potere ci vuole asservire e che, quindi, dobbiamo opporre al potere non la parola, non la ragione, o il discorso, ma semplicemente l'immediatezza, il corpo, in sostanza l'esperienza di tipo mistico.

Qui passa una divisione molto netta: a questo io non ci sto! Proprio in nome di valori che, in altre circostanze, mi avrebbero fatto ricordare l'esistenza dei limiti dell'essere umano e cioè la malattia, la morte, la demenza, l'infanzia, la sfera dei sentimenti, proprio in nome di questo mi rifiuto di vedere trasformati i miei amici e compagni in una sorta di asilo, o di infanzia o di malattia mentale.

Quale valutazione dai del fenomeno della «liberazione sessuale », nei suoi vari aspetti?

Il femminismo è uno dei fenomeni più importanti e rivoluzionari che si siano manifestati in questi ultimi tempi. Le critiche anche dure che si possono fare a questo movimento, le sue contraddizioni, non possono far dimenticare la fondatezza storica e politica del movimento nel suo complesso e la sua forza dirompente. Questa sta però provocando e provocherà tensioni e guai gravissimi.

Il movimento femminista può anche provocare conseguenze castranti per quanto riguarda i rapporti tra i sessi. Molti uomini, anche i meno «maschilisti», avvertono una certa difficoltà per il fatto che il femminismo tende oggettivamente a distruggere punti di riferimento culturali, immagini di tradizione storica, immagini che l'uomo interponeva tra sé e la donna nei suoi rapporti. Questo è tragico e può portare a conseguenze molto serie. C'è da augurarsi che le compagne sappiano gestire, oltre al proprio corpo, anche l'enorme responsabilità che questa rivoluzione comporta.

D'altronde, la sessualità è fondamentalmente contraddittoria e tragica. Dice una canzone francese: «non esiste amore felice»; non c'è un erotismo felice se non nei sogni regressivi verso l'infanzia. Io continuo a credere che il fondamento della sessualità stia nell'ostacolo che il sesso incontra. Ritengo che quello che chiamiamo piacere sia determinato dagli ostacoli inconsci all'esercizio della sessualità e che, dunque, non vi sia sessualità senza violazione di una norma. Togliendo la norma, si finisce col togliere la stessa sessualità.

Questo non significa che non si debba lottare contro le «istituzioni della sessualità», principalmente contro l'istituzione familiare che nella sua forma attuale non è che uno degli strumenti apparecchiati, per la sua sopravvivenza, dall'economia capitalista.

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Pagina 191

37.

Crisi del prodotto-libro [Gian Carlo Ferretti, «Rinascita», 21 ottobre 1977]


I. Nel quadro dell'attuale, tumultuoso sviluppo di sempre nuovi mezzi di informazione, si torna a parlare di una crisi del prodotto-libro considerato nelle sue varie implicazioni. Qual è il tuo pensiero in proposito?

Anche se non mi sono mai parse troppo serie le ricorrenti speculazioni sull'agonia del libro, so che la tendenza di molti è di trattare il settimanale come un quotidiano, la rivista come un settimanale e il libro come una rivista: dico, i libri di scritture non letterarie. Chi di libri ne ha troppi, cioè gli addetti all'apparato dell'industria culturale, si abitua a cogliere, da ogni libro, una sigla, una formula: dimentica che un libro è, come dice Mario Rossi, quella cosa che si legge da sinistra a destra e dall'alto in basso; legge «trasversalmente»; si ingravida di innumerevoli fantasmi e di gattini ciechi. Chi di libri ne ha o ne può avere troppo pochi, li consuma fino all'osso, per convertirli in mestiere, in qualifica, in pratica utile; e fa benissimo, anche se non ogni scuola è una scuola serale né ogni libro è uno strumento. Fra i due estremi, sta non solo la mitica «provincia che legge davvero» ma, in realtà, tutti noi; che tendiamo a sommare i difetti di chi ha troppi libri con quelli di chi ne ha pochi. Senza possibile dubbio, oggi si legge di più e meglio; me lo dice una quinquennale esperienza ferroviaria sulle «seconde» della Milano-Firenze-Siena. Stando alle opere che certe mattine di nebbia imbiancano fra le mani dei viaggiatori fra i venti e i trent'anni, si potrebbe agevolmente organizzare in ogni due vagoni una classe di studi marxisti. Però tanta moltiplicazione pare soprattutto la conseguenza della crescita della popolazione universitaria. Il rapporto editoria-docenti-seminari si è fatto, con l'altissima percentuale di studenti che non frequentano i corsi, sempre più stretto: i libri «funzionano» sempre più come altrettanti fascicoli di una sterminata Open University. Questo spettacoloso aumento quantitativo dei libri adempie paradossalmente l'ormai storico appello sessantottesco di Viale a distruggere i libri.

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Pagina 548

111.

Contro lo snobismo di massa [«Laboratorio Samizdat», IV, 7 novembre 1989]

[...]

La via della rinuncia ascetica continua a sembrarmi valida soltanto come itinerario individuale, per così dire, al bene. Come ci sono delle persone, che la mattina fanno un certo tipo di ginnastica piuttosto che un altro o che consumano solo certi prodotti dietetici, perché pensano che faccia bene alla salute, così certamente fa molto bene rinunciare alla molteplicità inutile, non passare troppe ore davanti alla Tv oppure non rincorrere tutte le novità librarie o non mettersi in coda con migliaia di persone per vedere sette quadri di impressionisti, cosa che avviene in questo momento un po' dovunque in Europa.

Questo possiamo £arlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assaliti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero - non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno - di essere persone che - attraverso la linea dell'ascetismo, la drammatizzazione della storia, l'ostacolare il godimento dei consumi - vogliono in realtà l'oppressione, la tirannia, il gulag.

Forse non hanno tutti i torti. Non perché chi vuole queste cose desideri il gulag, l'oppressione o la tirannia, ma perché volere quei processi ecologici (che non riguardano soltanto l'industria inquinante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente) significa - per me certamente - scatenare un certo tipo di conflitti, che possono avere, oltre a quelle positive, anche delle conseguenze estremamente negative, cioè quelle che noi chiamiamo le tirannie o le tragedie storiche.

Non siamo affatto garantiti (come vogliono farci credere i nostri governanti e i loro porta spada o portavoce o portacroce) dalla democrazia. No, non siamo protetti. La democrazia è un complesso di tecniche per l'accertamento delle volontà, per la guida politica di un gruppo, di un popolo, di una nazione, ma non si applica ai valori. Per dirla molto sinteticamente, come diceva un mio amico, il poeta Giacomo Noventa, «l'esistenza di Dio non si vota a maggioranza». Ma neanche si votano a maggioranza infinite altre cose, che hanno a che fare, appunto, con i valori, cioè con le ragioni che - come si diceva una volta - ha l'uomo di vivere e di morire. La democrazia in queste cose non funziona: i più non hanno ragione sui meno. In tutte le questioni veramente essenziali della nostra esistenza appunto: la vita, la morte, la malattia, l'amore - non vale la regola della maggioranza. Ed ecco perché, allora, sono assolutamente persuaso che una lotta per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo, qualora fosse portata avanti (cominciando innanzitutto dalla lotta per stabilire cosa è superfluo e cosa non lo è...) porterebbe a tali conseguenze e così dirompenti che l'ipotesi di una possibile susseguente oppressione (tirannia o violenza) va presa in considerazione. Non per approvarla, ma per sapere che ad ogni sforzo verso una verità e una vita superiore o migliore corrisponde la possibilità del suo contrario. Detto altrimenti: chi vuole evitare la tragedia, come condizione della vita umana, può farlo. Ma, a questo punto, apra il televisore e se lo guardi fino al momento della morte.

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Pagina 591

115.

Dissenso [«Escamotage», III, 8-9, gennaio-giugno 1990]


Milano, 9 dicembre 1989

Cari amici di «Escamotage», solo ora ho avuto il tempo di leggere la vostra lettera e di avvicinarmi alla rivista. Dovrei dirvi grazie per le parole di considerazione e di invito. E più per il lavoro che fate, in una condizione e situazione molto difficile. Siccome nelle righe che ho iniziato a scrivervi esprimerò qualche dissenso dalla vostra scelta tematica, mi è importante dirvi subito nel modo meno cerimoniale possibile che per quanto è dell'orientamento generale e dell'animo propositivo posso solo dirvi di continuare e resistere alle difficoltà.

Cerco di formulare quindi il dissenso. Dal successo di questo mio tentativo ritengo discenda l'inizio di una risposta a quanto mi chiedete ossia un giudizio su «questo momento di poesia».

Mi pare che il centro della vostra attività sia in una idea di contiguità, anzi di unità, fra operazioni letterarie e artistiche, ricerca nell'ambito di scienze umane - quali la psichiatria, la sociologia, la storiografia e altre ancora - e attività pratico-politica, ossia di promozione culturale, di consapevolezza e di organizzazione. Questa unità tendenziale (fra teoria e prassi, come fra comportamento ed espressione, «vita» e «arte») ha una storia assai lunga (che, posso dirlo, ha anche attraversata la mia esistenza) e che, nel nostro secolo, ha avuto i suoi snodi maggiori in tre momenti: nel primo decennio del secolo in alcuni movimenti di avanguardia, italiani e europei; poi negli anni tra il 1925 e il '35 soprattutto ad opera dei surrealisti; e finalmente, soprattutto in Italia, nel quindicennio 1960-75. Rivolta etica, passione di rinnovamento politico, ricerca delle connessioni e implicazioni fra ratio e irratio, aspirazione ad una integrità individuale e a una integrazione sociale e quindi ad uscire dalla mercificazione e dalla alienazione: questi mi paiono atteggiamenti morali e intellettuali ricorrenti di generazione in generazione, attraverso tutto il XX secolo. Sembra verisimile che questi moventi si ritrovino in buona parte delle intelligenze e dei sentimenti che muovono i giovani dell'Est, come anche in tutta una parte dei giovani migliori in Italia, indipendentemente dalle loro classificazioni politiche.

Ora a queste posizioni si è opposto lungo tutto il secolo (e si oppone in questo momento anche con la mia fiochissima voce) un pensiero che tende a stabilire un ordine nei rapporti di causa e di effetto, un «prima» e un «dopo» e quindi - ad esempio, per le arti e le lettere, ma non solo per quelle - ponendosi dal punto di vista del processo di mediazione fra produttore e destinatari e di quello della recezione. Una interpretazione storica e sociologica che evidenzia le servitù piuttosto che le libertà della produzione - artistica e letteraria ma non solo tale - e diffida di ogni immediatezza, di ogni sintesi, di ogni «passione»; ricordando in particolare che uno dei momenti più straordinari di partecipazione, quello del '68-69, sorto proprio (e giustamente cioè inevitabilmente) in nome del superamento immediato di ogni distinzione fra etica, estetica e politica, per non aver saputo/potuto organizzare al proprio interno processi di mediazione ha portato rapidamente una parte rilevantissima dei propri aderenti alle più diverse sperimentazioni biografiche che una unità, intermittente o illusoria, prometteva, anche in forme distruttive e autodistruttive; e così aprendo una voragine che subito è stata in parte colmata dalla reazione politica e ideologica. Ma mentre, nel periodo 1967-78, mi ero limitato (se posso scendere da queste considerazioni amplissime alla mia limitata autobiografia intellettuale) a mettere in guardia dal delirio della immediatezza e della «autenticità», oggi è proprio la dispiegata vittoria della reazione politica in tanta parte del mondo, azzerando la storia, la memoria, le visioni del mondo e le prospettive, quella che dovrebbe impedirci di ripetere l'eterno assalto «dell'anima» che vorrebbe, come dice Hegel, «pervertire il corso pervertito del mondo». Grazie al cielo della realtà storica ed economica, la fase attuale di sviluppo del capitale mondiale ha chiuso con la «modernità» e con le sue - spesso splendide - rivolte di schiavi. Costringendoci così ad operare (produrre, pensare, scrivere eccetera) nel massimo possibile di consapevolezza della propria eteronomia e quindi, vorrei dire, col massimo possibile di «cinismo» (vietandosi perciò ogni illusione di avanguardismo eversivo o maledettistico) ma anche a preparare l'altro e il diverso - che è già presente, disgregato e per ora irriconoscibile, fra noi - mediante l'invenzione di strumenti consociativi e della loro sperimentazione su obiettivi limitati e concreti, che per forza potranno somigliare (ma solo somigliare) alle vecchie imprese politiche o movimentistiche, ossia per la «rivoluzione», parola tanto più screditata quanto più forte è l'esigenza che essa esprime. Ciò non potrà farsi senza il massimo rigore nella strategia intellettuale unito al massimo di flessibilità nella tattica dell'operare quotidiano. Quella vetusta formula - che fondò il comunismo politico ottant'anni fa - non è affatto detto debba sortire ad una riesumazione della forma-partito; ma certo può evitare la vergogna di fare della agitazione culturale per sentirsi «vivi».

Dopo queste considerazioni, troppo universali per non essere un poco ridicole, passo a più modeste misure.

È la mia, come avrete capito, una critica alla formula della rivista. Ma di qui discende anche il discorso, specifico, sulla «poesia».

Personalmente, patisco di una saturazione, intossicazione, nausea di quei testi che si presentano come «poesia»; dattiloscritti o stampati, in edizioncine improbabili o in (spesso altrettanto improbabili) solenni edizioni di grande sigla; di sconosciuti o di meritatamente noti; di giovani o di miei coetanei. Tale nausea riguarda anche, o prima di tutti, i miei medesimi versi.

Tutto questo non mi toglie del tutto il discernimento. Ma esso riguarda sempre meno quello specifico testo e sempre più invece il logotipo o formula o tendenza o gruppo sotto il quale è possibile rubricare, con una rapida occhiata, il dattiloscritto o la plaquette.

Per andare oltre occorre un tempo, una pazienza e una disponibilità che non sono più date all'amatore di stampe ma solo ai gruppi, formali o informali, o bande o cricche o scuole o sottoscuole, che fra di loro si intendono e si decifrano senza difficoltà (è sempre stato così, dai tempi di Catullo). Oppure dalla sola sede che, maneggiando la poesia scritta ieri come quella scritta sei secoli fa (dico: le facoltà di lettere, docenti, ricercatori, studenti), accresce prodigiosamente la carta stampata sulla poesia contemporanea, assicura accurate letture, e scerne in vista del vero tribunale critico ossia i docenti di scuole secondarie e i loro manuali.

Ma sì, è possibile distinguere fra i neo-orfici e i neoaffettuosi, i postmoderni del pastiche e del centone e quelli dell'altera indifferenza, gli sperimentatori impenitenti o pentiti, i plurilinguisti e i monolinguisti, i dialettali e i vernacoli (in premio un rimario rilegato in pelle umana a chi indovina il nome giusto per ognuna di queste categorie). E, va da sé, fra tutti costoro ci sono dei poeti veri, dei testi che ti arrestano e ti assalgono... Ma la domanda preliminare è sempre una: è possibile, più di cent'anni dopo Verlaine, credere che la poesia sia la nuova ventura, o avventura, éclose au vent frais du matin (se non ricordo male), e quindi un frammento della Vita in statu nascenti, senza partecipare di un mondo che ha il suo luogo deputato per l'orrore come per il vento della giovinezza mattutina, che anzi li fa coesistere ormai istituzionalmente e, materialmente, li vende, l'uno accanto all'altro, nei chioschi delle stazioni? O non si deve piuttosto parlare il meno possibile di poesia e agire invece per preservare, o istituire di nuovo, quelle regioni della esistenza umana - vale a dire: prima degli altri che della propria; o degli altri perché essenziali alla propria - nelle quali viene quotidianamente arsa e incenerita la possibilità di discernere e produrre «valore», quel «valore» di cui la cosiddetta «poesia», ossia i «versi», è uno, ma solo uno, dei latori possibili?

Questo è, dio sa quanto insoddisfacente, quel che avevo da dirvi. È elusivo? È contraddittorio? Lo so. E quanto meno so capacitarmi che la stesura di un testo, un contributo, un articolo e simili siano un serio supporto ad una iniziativa seria e non invece un gesto, più faticoso di una firma ma altrettanto futile, tanto più dovrei rinviarvi a quanto per tanti anni ho già scritto in argomento; in prosa e, perché no - dirò, ancora contraddicendomi - anche in versi.

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Pagina 617

122.

«Il papa? È nemico dei miei nemici» [Michele Gulinucci, L'Espresso, 4 agosto 1991]


Franco Fortini è certo insospettabile di simpatie «papiste» ma comunque è un anticlericale sempre pronto a interrogarsi sulla sostanza etica della religiosità. Gli abbiamo posto alcune domande.

Fortini, che ne pensa delle recenti polemiche sul ruolo della Chiesa?

Certi discorsi mi ricordano la famosa novella dello stento, «che dura tanto tempo e non finisce mai». Nel conflitto con la Chiesa oggi i laici hanno la peggio per la latitanza dello Stato, si sa. Ma io so anche che i comunisti e socialisti di trenta-quarant'anni fa, ai quali cercavo di spiegare che gli uomini sono pure bambini, malati, vecchi e così via, mi accusavano di decadentismo. E adesso, siccome i sondaggi dicono che in tanti ce l'hanno con Wojtyla, la sinistra si affanna a recuperare terreno, cioè un bel po' di voti. Dopo aver svenduto ciò che restava dell'orgoglio dello Stato laico vorrebbero che ci spaventassimo del Papa e non dei generali del Pentagono, i quali invece vanno benissimo agli odierni eredi di Garibaldi.

Allora l'invadenza politica della Chiesa sarebbe un'illusione ottica, un pretesto?

La Chiesa ha in sé la tentazione dell'integralismo. Il neotemporalismo esiste eccome, ma non può essere combattuto in nome di una cultura ridotta alle sue radici illuministiche, privata del pensiero «tragico» di Hegel, Marx, Nietzsche, Freud, che ha descritto la scomparsa della borghesia ad opera del capitalismo multinazionale. Il comunismo è un suo sviluppo essenziale, non il cane morto di cui parlano il presidente della Repubblica e quello della Confindustria. Tanto meno è un incidente di percorso della storia. Del resto solo una grande miseria culturale può far percepire che l'unanime maledizione contro il comunismo proveniente oggi dall'Est sia maggiore di quella che, da Waterloo a Sedan, risuonò nella pubblicistica francese contro la Rivoluzione. Ma detto questo, perché dovrei preoccuparmi di uno Stato che non c'è, che anzi attenta a una Costituzione che tutela i miei diritti?

Sembra incredibile che lei non abbia niente da dire sull'«interventismo» sociale e mediatico di Giovanni Paolo II...

Io provengo da una condivisione della parola cristiana, e so bene che il millenarismo imperiale di questo pontefice regnante è lontano sia dalla via profetica e testimoniale che vorrei fosse la «nostra», o del «Signore», sia dal tradizionale nesso tra etica e politica caro alla teologia gesuita. Eppure una parte rilevante degli enunciati papali va contro i miei nemici, specie in materia di guerra e di lavoro. Certo sono enunciati che vanno riferiti a una ideologia pratica, di pura marca vaticana, che difende poteri altrettanto nemici, ma questo non può impedirmi di riconoscerli.

E cosa direbbe oggi a quei laici preoccupati della prevalenza della città di Dio sulla città dell'uomo?

Carducci ha scritto che dalla stretta di mano tra Pietro e Cesare stilla sempre sangue umano. Proprio per questo non possiamo far finta che gli ultimi cento anni non siano esistiti... Quanto all'onorevole Martelli, non pretendo che rinunci alle sue cariche per evitare, con qualche studio in più, di chiamare «religione» il taoismo (lo ha fatto sul «Corriere della Sera»). Ma per leggere l'Alighieri un po' di tempo dovrebbe trovarlo, e posso assicurarle che dalla «sacca di socialismo» in cui mi trovo sento che Dante discute animatamente con Ernst Bloch e don Milani.

Ma chi sono i veri laici, gli avversari del clericalismo vecchio e nuovo?

Gli stessi cristiani. Non necessariamente «di sinistra» o «cattocomunisti». Contro i preti faccendieri e finanzieri avanzano come anticorpi sulla riva opposta di un medesimo fiume, verso un'unica foce insieme con i non credenti, tra i quali mi conto.

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Pagina 697

151.

Composita solvantur [Claudio Altarocca, «Tuttolibri», supplemento di «La Stampa», 5 marzo 1994]


Milano. Professor Franco Fortini, esce da Einaudi un suo nuovo libro di poesie. Lo presenti lei.

Composita solvantur, dice il titolo: tutto si dissolva e si ricomponga in un nuovo ordine. Un precetto alchemico. Il nucleo del libro è in una frase di sant'Agostino: «Non ne possiamo più». Ho la sensazione di essere a un estremo del tempo. «Tutto è ormai un urlo solo», dico in un verso. Una situazione planetaria, non solo italiana o europea. Ma non era giusto che il libretto fosse soltanto negativo, e allora ho lanciato un messaggio. Come uno che sta crepando e dice: «Ricordatevi di questo».

«Proteggete le nostre verità»: questo verso è il messaggio?

Viene da Eros e civiltà. Marcuse dice che la morte può diventare meno assurda se chi muore sa che sono protette le cose che ha avuto più care.

Le sue verità più care quali sono?

Un rapporto fra gli uomini in una prospettiva che dovrei chiamare comunista. Siccome oggi viviamo una grottesca liquidazione del passato, riaffermo ciò che conta. C'è un Piave. Io sono su questo Piave, pur sapendo che nessun Redentore, nessuna Rivoluzione cambierà l'intero mondo.

Le citazioni, le immagini bibliche nel libro...

Non ho avuto un'educazione di tipo ebraico. Cambiai a Firenze il mio cognome Lattes in Fortini per ragioni pratiche. Era il nome di mia mamma, Fortini del Giglio. Era ebreo mio padre, che soltanto tre o quattro volte mi accompagnò in sinagoga. A diciotto anni ho conosciuto chi mi ha convertito: lo storico Giorgio Spini, valdese, che aveva un anno più di me. La mia formazione protestante nasce da lui: mi ha dato fortissimo il senso della storia, la necessità della concreta incarnazione, e ho letto i testi cristiani, insieme con Karl Barth e Kierkegaard.

Aveva la fede?

Credo di sì.

L'ha persa?

L'ho trasformata. L'altra sera in TV quel tale parlava con quell'altro personaggio - non voglio nemmeno nominarli (Giovanni Minoli e Silvio Berlusconi, N.d.R.) - e ha avuto la spudorataggine di chiedere: «Lei crede in Dio?». Io avrei oscillato. Avrei risposto o menandogli un pugno in faccia o dicendogli con Ernst Bloch: «Grazie a Dio, sono ateo». Chi fa domande così lo si piglia a calci lasciando lo stivale nel fondo, come dice il Pulci. E quando mi si parla di elemento religioso nel mio lavoro, in parte l'accetto come qualcosa che viene malgrado me; ma in parte lo rifiuto, perché non amo le mescolanze cattolico-comuniste. Non si sommano le pere e le pesche.

Come definisce questo suo libretto?

Un libro di addio. C'è l'elemento sarcastico e c'è l'elemento tragico: il rapporto con la realtà nel momento in cui ti dice addio.

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