Copertina
Autore Lorraine Fouchet
Titolo Il battello del mattino
EdizioneGarzanti, Milano, 2006, Narratori moderni , pag. 324, cop.fle., dim. 135x205x28 mm , Isbn 978-88-11-59760-5
OriginaleLe bateau du matin
EdizioneLaffont, Paris, 2004
TraduttoreDoriana Comerlati
LettoreElisabetta Cavalli, 2006
Classe narrativa francese
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Pagina 9

1.



Settembre 2004

A tutti è capitato di sognare di vivere su un'isola. Anche lei, come gli altri, ne aveva avuto voglia, ma si credeva condannata alle nebbie della capitale.

Se un anno prima le avessero raccontato ciò che doveva succedere in quelle due settimane, non ci avrebbe creduto. Ci sono dei limiti.

Se le avessero descritto i protagonisti di quell'avventura, che sbarcavano tutti sull'isola provenienti dai luoghi più diversi, be', avrebbe riso di gusto.

Se le avessero parlato del cuore all'incontrario, se le avessero detto che il caso non esiste, si sarebbe stretta nelle spalle.

Eppure...

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Pagina 10

2.



Giovedì 21 agosto 2003, primo giorno

Troppo lontano dall'oceano, l'ombra della Tour de Montparnasse si allungava sul piazzale del quartiere più bretone di Parigi. L'umore di Eva avrebbe potuto essere classificato 1 della scala Beaufort: bava di vento, mare calmo e increspato senza schiuma, vele calate, rientrare a remi. Baguette in mano, Eva si fermò davanti alla porta del giornalaio per lasciar uscire una ragazza dai capelli verdi e uno spilungone con la testa rasata. Di colpo quest'ultimo afferrò la ragazza per le spalle, bloccandola, e prese a gridare:

«Fermatela! È una ladra, ha rubato!»

Eva rimase di stucco a guardarli. I clienti si voltarono per vedere cosa succedeva. Il proprietario aggrottò le sopracciglia e si protese da dietro la cassa.

«Perquisitela!» rincarò lo spilungone con voce ancora più forte.

Il padrone si avvicinò nervoso. La ragazza dai capelli verdi non si dibatteva nemmeno. Eva ebbe l'impulso di aiutarla, dovevano avere pressappoco la stessa età.

«È una ladra!» perseverò implacabile la testa rasata. «Perquisitela, insomma!»

Fece girare su sé stessa la ragazza, che si ritrovò faccia a faccia con lui.

«Ha rubato», ripeté con una dolcezza nuova. «Mi ha rubato il cuore!»

Le sorrise con incredibile tenerezza, poi si rivolse agli astanti.

«Avete visto quel vecchio film, Mogambo, con Ava Gardner e Clark Gable? Mogambo significa "passione" in swahili. La vita con lei è mogambo...»

Si chinò per baciarla appassionatamente. La gente, tranquillizzata, distolse lo sguardo, mentre il proprietario si stringeva nelle spalle e riprendeva il suo posto dietro la cassa. Eva seguì con gli occhi i due giovani che si allontanavano tenendosi stretti. Invidiava dal profondo dell'animo quella ragazza, amata da qualcuno capace di inscenare una cosa del genere.

Comperò qualche giornale, una scatola di tic-tac e riemerse nella via assolata. Dieci giorni prima l'afa aveva decimato gli anziani e le persone più fragili, le pompe funebri avevano lavorato senza tregua, il numero dei morti riportato dai giornali era spaventoso, la capitale era nella morsa del caldo... e in riva all'oceano Atlantico si stava invece così bene...

Eva attraversò la piazza con il suo passo danzante, pensando alla piccola isola del Morbihan da cui era partita il giorno prima con il battello del mattino, piena di malinconia, per tornare a Parigi come ogni fine estate. Quando il battello era passato tra i fanali d'accesso al porto di Groix, si era sentita stringere il cuore. Nel cielo, fra l'isola e il continente, galleggiava una fascia di nuvole orizzontali sfilacciate, come solo sull'isola ne aveva viste. Lei e Alexis non sarebbero tornati lì prima di Natale.

Virò verso l'avenue du Maine, lasciando la torre a tribordo, accarezzò di sfuggita il muso del leone di metallo che ornava il portone di casa, poi salì i quattro piani di scale - non c'era ascensore - e approdò nel grande appartamento inondato di sole.

«Non si vive di solo pane», disse posando sul tavolo di cucina la baguette e i giornali,.

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Pagina 60

9.



Nestor Dumont, professore di filosofia da poco in pensione, aveva parcheggiato la sua 2 cv Citroën nella rue du Château. Guidava ancora nonostante i suoi ottant'anni, con infinita prudenza perché sapeva che al primo incidente gli avrebbero ritirato la patente. Gli dicevano spesso che con la sua barba bianca, il pancione e gli occhi ridenti assomigliava al Babbo Natale della coca-cola, e faceva apposta a indossare sempre qualcosa di rosso. Insegnante nelle scuole statali, dopo aver raggiunto il limite d'età previsto dalla legge aveva continuato a esercitare la sua professione fino al giugno precedente in un istituto privato. Al momento del congedo i colleghi gli avevano regalato una fotocamera digitale, un tantino bizzarra come idea dato che Nestor, scapolo impenitente che non partiva mai per viaggi di vacanze, non aveva né una famiglia da fotografare né amici ai quali infliggere la visione delle sue opere, e che per di più non sapeva nemmeno accendere un computer. Ma era ben deciso a servirsene e a mostrarsene degno. S'impara a qualsiasi età e, se era riuscito a cavarsela con Platone e Socrate, una scatoletta di metallo piena di chip elettronici non l'avrebbe avuta vinta su di lui.

«Si fa ciò che si può anche se si può fare poco!» aveva l'abitudine di dire ai suoi allievi.

Per quella sera aveva scritto nella sua agenda «fare i primi tentativi con l'Ixus 400 Digital». Aveva scelto il soggetto d'ispirazione per il suo esordio: al centro della place de Catalogne, la fontana di Shamaï Haber, immenso disco di granito inclinato lungo il quale colava l'acqua quando pioveva. Una perfetta spirale, l'opera lo ispirava esteticamente e filosoficamente, centro del mondo simbolico e del suo mondo privato.

Adorava quel quartiere di Montparnasse dov'era nato. Erano stati gli studenti dell'epoca di Luigi XIV a dargli quel nome, associando la collina artificiale formata da materiale di demolizione, perfetta per le avventure amorose, al monte sacro ad Apollo.

Nestor amava ricordare ai suoi allievi che il monte Parnaso, sulle cui pendici si estendeva Delfi, era la dimora di Apollo. Secondo la leggenda, grazie a Deucalione e a Pirra, ne sarebbe discesa una nuova razza per ripopolare la Grecia dopo il diluvio inviato da Zeus. Gli studenti non si lasciavano impressionare granché dai suoi racconti e gli controbattevano che a Montparnasse c'erano delle belle sale cinematografiche, ristoranti a buon prezzo, borghesi pieni di soldi e barboni senza il becco di un quattrino, e che se era quella la nuova razza c'era poco da stare allegri.

Anche Nestor sentiva di far parte della razza dei superstiti. Era sopravvissuto alla canicola delle ultime settimane bevendo quattro bottiglie d'acqua minerale al giorno, mettendosi sotto la doccia ogni ora per qualche minuto, spruzzandosi acqua sui capelli e sulla barba, appendendo tende umide alle finestre del suo bilocale e praticamente vivendo a torso nudo davanti al ventilatore.

Senza nessuno che si prendeva cura di lui, avrebbe potuto morire come le altre quattordicimila persone vittime di quell'ondata di caldo opprimente. Un Babbo Natale di meno. Nessuno avrebbe badato alla sua assenza, salvo la FNAC alla fine del primo anno di garanzia della macchina fotografica, l'associazione degli ex combattenti del '39-'45 al banchetto annuale e il club 2 cv Citroën alla data del rinnovo della sua adesione.

Avrebbe potuto benissimo non uscirne vivo. Ed ecco quindi che il tempo che gli restava era tutto regalato, un supplemento del rancio, come si diceva nell'esercito, un extra ottenuto per buona condotta. Di conseguenza aveva stilato un elenco di tutti i progetti che voleva portare a termine prima di morire e si dava da fare per realizzarne uno al giorno.

Da quando gli avevano raccontato la storia di un superstite del Titanic che era annegato nella propria vasca da bagno si limitava a fare la doccia. Amava la vita con tutti i pori della pelle, essere vecchio non era che un dettaglio, ne voleva ancora e ancora, si sentiva pienamente felice di esistere.

Inforcò gli occhiali e consultò il manuale d'uso: «Installazione della scheda Compact Flash, regolazione di data e ora, scelta della lingua, monitor del display LC realizzato grazie a una tecnologia di altissima precisione, oltre il 99,99% dei pixel corrispondono alla specifica richiesta...»

«Sul serio?» mormorò Nestor, chiedendosi che cosa fosse mai un pixel...

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Pagina 128

27.



Giovedì 28 agosto, ottavo giorno

La scuola di disegno si trovava nel cuore del XIII arrondissement, quartiere parigino con una forte presenza di cinesi. Zaka fece scorrere lo sguardo tutt'intorno e, maldestramente, cominciò a salire i gradini che portavano all'ingresso della scuola. Fra stampelle e raccoglitore, l'impresa non era delle più facili. Le si avvicinò un ragazzo della sua età, piercing al sopracciglio sinistro e capelli bruni ritti in testa con il gel. Vestito di una salopette azzurra e di una maglietta gialla, teneva sotto il braccio una grande cartella verde da disegni.

«Carine le stampelle rosa! Hai bisogno di aiuto?»

Riconoscente, Zaka gli tese il raccoglitore.

«Sei qui per l'esame?» s'informò lui con tono spavaldo. «Vincerò io, ma ci sarà posto per due.»

Zaka si lasciò sfuggire una risatina. Da quando era uscita dall'ospedale aveva mangiato solo due barrette di Mars, era energetico e poco costoso, ma come conseguenza il suo ventre era tutto un gorgoglio. Aveva avuto molta paura di trovare suo fratello appostato davanti alla scuola.

«Cosa disegni?» domandò.

«Tutto, ma non assomiglia a niente», rispose il ragazzo, togliendo prontamente l'elastico alla cartella ed estraendone dei grandi fogli di carta traboccanti di colori e di forme. In effetti quei disegni non rappresentavano niente di concreto, ma il mondo era piombato in quelle immagini con tutta la sua violenza e la sua forza. Zaka vi vedeva montagne in tempesta, cieli drammatici, oceani in piena furia, l'esatta trasposizione di quello che provava lei in quel momento.

«È un gatto che si lecca i baffi», le spiegò cortesemente il ragazzo. «Sono Jules.»

«Zaka», si presentò lei indicando il raccoglitore.

Jules l'aprì. Sulla prima pagina, un guardiano osservava il mare dall'alto del faro; sulla seconda, un pescatore manovrava la sua barca all'ora del tramonto; sulla terza, una barca a vela ondeggiava sotto i colpi del vento.

«È un gatto che guarda un pesce in un acquario», lo informò Zaka.

Jules scosse il capo. Un ragazzo asiatico li raggiunse, un gran sorriso stampato sulla faccia, i capelli dritti tagliati a carré che si agitavano a ogni passo. Portava un giubbotto con una scritta: «Da Vu, cucina cinese, piatti da asporto».

«Zaka, ti presento Tan», disse Jules. «Ci conosciamo dai tempi della scuola materna.»

Tan s'inchinò. Dalla borsa a tracolla, su cui si leggeva: «Da Cheng, zuppa cinese a tutte le ore», tirò fuori alcune squisite calligrafie a china.

«Che ci posso fare?» disse. «Sono nato in avenue d'Italie e non sono mai andato più in là di Chinagora, ma questa roba piace ai prof, hanno una passione per l'arte etnica...»

L'esame durò l'intera mattinata. Prima una prova di teoria con tre temi a scelta: La montagna Sainte-Victoire di Cézanne, il soffitto dell'Opéra di Chagall, L'orchestra di Nicolas de Staël. Poi una prova pratica consistente nel disegnare, sempre a scelta, un vecchio, un cavallo o la pioggia.

Ne uscirono distrutti.

«Io ho commentato il de Staël», annunciò Jules.

«E che disegno hai fatto?» s'informò Zaka.

«Non lavoro su ordinazione. Faranno funzionare la loro immaginazione, ci tengono talmente che assomigli a qualcosa!»

Zaka aveva scelto Chagall e raffigurato un porto sotto la pioggia. Guardando il suo disegno si sentiva il grido dei gabbiani, lo scricchiolio delle sartie, il ticchettio della pioggia sui ponti delle imbarcazioni. Tan aveva analizzato il dipinto di Cézanne e trascritto calligraficamente la parola «vecchio».

«Andiamo a mangiare una zuppa di polpette», propose Jules. «Zaka, ti accompagno con la mia carrozza.»

«Hai un'automobile?» fece lei, stupita.

«Un'Autobianchi decrepita con il motore truccato che era di mia madre. Ti faccio notare che ho diciotto anni e sei mesi! Sono parcheggiato proprio di fronte...»

Pur tentata, Zaka fece segno di no. Viste le sue finanze, aveva interesse a limitarsi ai Mars. Tan, più intuitivo di Jules, indovinò le ragioni del rifiuto.

«Siamo ospiti di mio padre», disse indicando il giubbotto e lo scooter per le consegne. A mezzogiorno pranzo da lui, la sera da zio Cheng. Si fanno concorrenza, e io mangio gratis, mica male, no?»

Riconoscente, Zaka accettò. Jules e Tan l'aiutarono a scendere i gradini della scuola.

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Pagina 189

35.



Sabato 30 agosto, decimo giorno

Dalle cinque del mattino Kamel Djemad era appostato davanti al pensionato delle studentesse. Seguiva Zaka come un'ombra da quarantott'ore, imprecando perché quel figlio di papà con il ridicolo piercing al sopracciglio le stava incollato addosso come una sanguisuga e le faceva da autista ogni volta che metteva il naso fuori. Quel giorno Zaka avrebbe compiuto diciotto anni, era tempo di agire anche in presenza di eventuali testimoni. Avrebbe preferito che le cose si svolgessero in sordina, ma non gli restava altra scelta, aveva già intascato e speso i soldi di Karim Hamoud.

Aveva fame, era in ipoglicemia, ma non poteva lasciare la postazione. La porta si aprì, un ragazzo uscì con fare furtivo e corse via rasentando i muri. Strano, perché il pensionato era rigorosamente off limits per i maschi. Lo stesso Kamel si era visto mandar via la sera prima, quando aveva tentato di entrare per vedere sua sorella: la direttrice lo aveva cacciato con l'aria inorridita di una che avesse visto entrare di forza un uomo completamente nudo e farneticante. Kamel rifletté. Quei giovani occidentali non avevano alcuna morale. Sotto quell'aspetto non nutriva dubbi riguardo sua sorella: Zaka era pura e onesta; d'altronde il suo nome significava «purezza» in arabo. Una volta sposata, avrebbe messo giudizio, ne era sicuro. Le sue compagne di liceo le avevano messo strane idee in testa.

Un'auto della polizia sbucò nella strada e Kamel si allontanò. Non voleva suscitare la diffidenza dei poliziotti, andando a spasso a quell'ora. Giunto alla sua altezza, il veicolo rallentò e il poliziotto seduto a destra squadrò Kamel con occhio sospettoso. Lui fece finta di niente: se lo guardava, l'avrebbero considerata una provocazione; se accelerava, gli sarebbero stati addosso. Si sforzò di camminare con un ritmo costante, come un povero arabo umile e modesto che va al lavoro.

L'auto di pattuglia scomparve all'angolo della strada. Kamel tornò sui suoi passi. Era ancora a una decina di metri dall'ingresso quando la detestabile Autobianchi si profilò all'orizzonte. Il figlio di papà parcheggiò in doppia fila, uscì dalla vettura ed entrò tranquillamente nel pensionato. Perché aveva una bella faccia, a lui non dicevano niente. Dopo dieci minuti ricomparve con Zaka e le sue stampelle rosa, portando una borsa di plastica. La direttrice teneva aperta la porta per aiutarli, strinse la mano a Zaka, restò a guardare fino a quando la ragazza fu ben installata nella vettura e quindi si eclissò.

Zaka traslocava all'alba nella massima discrezione... per andare a stare da quel bamboccio? Kamel si morse il labbro inferiore. Sua sorella gli sfuggiva. Ma la sua famiglia aveva bisogno dei soldi di Karim.

Si fece avanti, si piantò davanti all'auto. Stupito, il ragazzino con il piercing, seduto al volante, abbassò il vetro.

«Sì?» fece.

«Non immischiarti», minacciò Kamel.

Zaka si raggomitolò sul sedile, terrorizzata. Dalla descrizione della direttrice aveva capito che era suo fratello l'uomo che si era presentato il giorno prima e aveva ingenuamente creduto di sfuggirgli andandosene la mattina presto.

Kamel aprì la portiera e strappò Jules dal sedile. Il ragazzo scalciò, sbraitò e si dibatté: il coraggio non gli mancava. Kamel lo bloccò con una presa di karate che gli imprigionava il collo e le braccia.

«Ti calmi e chiudi il becco, ok?»

L'altro continuò a urlare e a contorcersi per districarsi dalla stretta. Richiamata dal rumore, la direttrice uscì, vide la scena e rientrò in tutta fretta, per ricomparire qualche istante dopo con il cellulare in mano.

«La avverto, ho chiamato la polizia!»

«E che problema c'è?» disse Kamel lasciando andare Jules. «Sono il fratello maggiore di Zaka. Dirò ai poliziotti che lei ha aiutato una minorenne a scappare di casa. Gli piacerà un sacco.»

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Pagina 253

La scogliera s'innalzava a strapiombo sul mare, tutto intorno si estendeva la landa, gli uccelli giocavano con il vento. Quella parte dell'isola, inclusa nella riserva naturale protetta, era abitata da colonie di uccelli marini nidificatori: gabbiani reali nordici, mugnaiacci, zafferani, procellarie, fulmari, cormorani cappelluti, gabbiani tridattili e grandi corvi. La marea scendeva, avrebbe raggiunto il livello più basso all'inizio del pomeriggio.

«È impressionante vederla dal vivo», mormorò Zaka. Aveva imparato a scuola che il fenomeno delle maree era dovuto all'influenza della Luna, e in misura minore del Sole, sulla Terra. Un coefficiente compreso fra 20 e 120 ne esprimeva l'ampiezza. Il mare saliva e poi scendeva nell'arco di dodici ore e venticinque minuti circa, due fasi di circa sei ore ciascuna. Nei pochi minuti in cui restava immobile, si parlava di "stanca della marea".

Le rocce, come ritagliate con il cutter, sovrastavano l'oceano dai riflessi violetti. Una giovane donna camminava lungo la falesia. Zaka l'additò speranzosa a Gildas, ma lui fece segno di no, non era Eva Foresta. Pazienza, pensò Zaka. Per fortuna, si disse Gildas.

Poi l'accompagnò al dolmen di Men Kamm, risalente al IV millennio a.C., vicino al Men Yann, dolmen a galleria coperta, di forma allungata, adibito nel III millennio a sepoltura collettiva. Secondo le leggende locali, l'Ankou, l'operaio della morte, usciva la notte da Men Kamm alla guida di un carretto pieno di sassi per ghermire le sue vittime e portarle nel suo regno, una regione desertica spazzata da un vento glaciale.

Per i bretoni, tutte le parrocchie dell'Armorica avevano una porta che si apriva sul territorio di questo scheletro drappeggiato in un sudario e brandente una falce con il filo della lama girato verso l'esterno, e l'ultimo morto dell'anno diventava l'Ankou dell'anno successivo. Per i musulmani come Zaka, il paradiso si situava al disopra di sette cieli e il credente vi avrebbe trovato tutto ciò che desiderava. Per Gildas, ateo convinto, quando morivi il muscolo cardiaco smetteva di contrarsi e rilassarsi al ritmo delle sistole e delle diastole, i neuroni cessavano di trasmettere informazioni, marcivi nella tomba e la tua storia continuava soltanto nella memoria dei viventi o nel corpo di un altro in caso di trapianto di organo.

Una volta, a Groix, c'erano tre categorie di sepoltura in base alle possibilità economiche, si suonava la campana a seconda del sesso del defunto, si velavano gli specchi di casa, si appendevano sciarpe di crespo sugli alberi, si tiravano fuori dai cassetti i fazzoletti bordati di nero. La morte di un bambino era meno grave di quella di un adulto giovane che poteva pescare e sostentare la famiglia. Le donne che perdevano i mariti in mare portavano per due anni la cuffia doppia del lutto, poi la cuffia rotonda del dopo lutto.

Zaka gettò indietro la testa, respirò il vento e catturò l'oceano nelle sue pupille. Barche a vela e iole solcavano le onde, sport tranquillo di un'epoca in cui il mare non era più sinonimo di naufragi e lacrime, ma di piacere e tempo libero. Zaka ispirò a fondo, sbadigliò, si rilassò. Ignorava cosa le avrebbe portato il futuro, ma il presente la riempiva di gioia.

«Grazie per questa passeggiata», mormorò.

Abbassò gli occhi sulla cartina, reperì la fontana delle aspiranti alle nozze. In tempi lontani le giovani isolane vi gettavano una moneta: se cadeva verticalmente non si sarebbero sposate entro l'anno, se cadeva zigzagando la fortuna era dalla loro parte. La fontana della Magdeleine, nel prato del presbiterio, guariva i malesseri intestinali; la fontana di Kerampoule era una fonte di eterna giovinezza che curava anche la tigna. Quella di Kerlivio fungeva da oracolo: se si era stati derubati bastava portarsi dietro una boccetta di quell'acqua e incrociare il ladro perché quello si contorcesse di dolore e venisse smascherato; se si volevano notizie di un viaggiatore, non si faceva altro che attingervi in determinati giorni e l'indomani l'acqua indicava se l'assente era in buona salute o morto.

«Dove andiamo adesso?» domandò Gildas.

Zaka sorrise. «A toccare l'oceano.»

Sulla cartina l'isola sembrava grande, ma in realtà tutto era molto vicino. Gildas comprò delle brioche al cioccolato per calmare la fame e procurarsi un sacchetto di plastica, poi guidò fino alla spiaggia delle Sables Rouges. Arrivato davanti all'insenatura, avvolse il gesso di Zaka nella borsa di plastica, lei si tolse l'altra scarpa e avanzò sulle stampelle. L'acqua si era ritirata molto in là, abbandonando alghe e conchiglie sulla battigia. Le stampelle e il piede nudo di Zaka lasciarono tre impronte regolari sulla sabbia costellata di granati. Qualche bagnante nuotava poco lontano, qualcuno faceva del wind-surf all'uscita della baia, uccelli marini sfioravano le onde. Zaka raggiunse l'acqua, fece ancora un passo, posò la gamba ingessata sul bracciolo della stampella.

A coronamento del festival, si stava svolgendo in quel momento il Défi Grek, una corsa intorno all'isola su magnifici yacht classici con le vecchie attrezzature provenienti dal Museo marittimo della Rochelle. Zaka guardò a bocca aperta tutte quelle regine dei mari scivolare maestosamente nel vento.

L'acqua era tiepida, lei vi s'inoltrò un poco, la sabbia rossa cedette sotto le sue dita, la superficie s'increspò attorno alle stampelle. L'oceano era così azzurro e così immenso da confondersi con il cielo.

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