Copertina
Autore Giampiero Frasca
Titolo C'era una volta il western
SottotitoloImmagini di una nazione
EdizioneUTET Universita, Milano, 2007 , pag. 248, dvd, cop.fle., dim. larxaltxspe cm , Isbn 978-88-6008-113-1
LettoreGiovanna Bacci, 2007
Classe cinema
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Indice


VII Prefazione Fissando il sottopancia e stringendo le briglie


  3 CAPITOLO 1 — L'eroe

 18 1.1 L'eroe epico
 35 1.2 L'eroe tragico
 42 1.3 L'eroe separato
 59 1.4 Appendice in forma di nota: figure della conciliazione

 65 CAPITOLO 2 — Agenti del disordine

 67 2.1 L'impetuoso contrasto della Natura: l'indiano
 73 2.2 Primitivismo, opposizione e tentativi di assimilazione
 82 2.3 Wilderness, assenza e accenni di minaccia
 94 2.4 Breve storia di un punto di vista orbato
102 2.5 Il vizio e la corruzione nel contesto urbano: il villain
110 2.6 Dell'abiezione
124 2.7 Il fuorilegge giustificato: l'«outlaw hero»

134 CAPITOLO 3 — Rappresentazione delle armi da fuoco

142 3.1 I tre livelli: tematico, narrativo, simbolico
    3.1.1 La sicurezza della legalità,
          ovvero l'arroganza del potere, p. 142
    3.1.2 L'oggetto che ritorna:
          la presenza che motiva l'intreccio, p. 149
    3.1.3 L'immediatezza dell'evocazione,
          ossia il filtro del concetto, p. 155

160 CAPITOLO 4 – Liturgia del duello

165 4.1 Geometrie
179 4.2 Il modello tripartito
194 4.3 Inserti, fuoricampo, ritardi e variazioni
200 4.4 Tre casi paradigmatici
    4.4.1 «Vera Cruz»: la struttura binaria e
          il ribaltamento dell'equilibrio, p. 200
    4.4.2 «Quattro tocchi di campana»:
          il dubbio dell'evidenza, p. 202
    4.4.3 «Pronti a morire»:
          l'esibizione del campionario, p. 204

206 CAPITOLO 5 — Rappresentazione della morte

213 5.1 La morte celata
228 5.2 La morte frazionata
234 5.3 Epifania della fine

242 CAPITOLO 6 — Profili del tempo

247 6.1 In principio fu la linearità
251 6.2 A spasso nel tempo
263 6.3 Figure della contrazione
266 6.4 Dilatare fino all'inerzia

273 CAPITOLO 7 — Note sul paesaggio

282 7.1 Il contemplativo solcato dal drammatico:
        il lirismo e l'epica
290 7.2 Lo squarcio dell'epica e la ridiscussione dello spazio
296 7.3 Allegorie dello spazio
    7.3.1 Asprezza metaforica, p. 297
    7.3.2 Proporzioni, p. 299
    7.3.3 Confini, limiti e orchestrazione geometrica, p. 302
    7.3.4 Dialettica degli estremi, p. 305

309 Bibliografia

323 Indice analitico



 

 

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Pagina 3

CAPITOLO 1
L'eroe



Io lo guardavo affascinato. Nessuno degli altri uomini che conoscevo teneva in tanta considerazione il proprio aspetto e il proprio abbigliamento. In quei pochi momenti, quell'aria di signorilità che avevo subito rilevato nello sconosciuto, era diventata ancora più evidente. Era qualche cosa di magnifico che emanava dalla sua stessa persona. Tutto ciò che gli apparteneva dava l'impressione di essere stato sottoposto a un uso prolungato e a dure fatiche, ma denotava uno stile, una distinzione, una «classe».

Jack Schaefer, Il cavaliere della valle solitaria


Fin dal momento in cui i primi cineasti decisero di superare la semplice illustrazione dei fatti alla Lumière per dedicarsi a uno sviluppo narrativo più o meno complesso, sulla scorta della tradizione romanzesca, si rese fatalmente evidente che per far progredire le storie era necessario servirsi di un motore fisico, di un veicolo che si addossasse all'interno del racconto la responsabilità delle azioni, delle combinazioni e degli eventuali mutamenti di stato. Il personaggio compare e inaugura una serie di concatenazioni il cui risultato è la drammatizzazione delle passioni, l'evolversi delle situazioni, l'incedere verso una fine logica e appassionante. Un individuo si cala in un ambiente, assiste a degli accadimenti e opera attivamente per mutare di segno delle azioni, le quali, nella loro cadenza, fungono da tessuto strutturale del discorso condotto dall'istanza narrante. Se il personaggio origina la storia grazie ai suoi atti, questi, a loo volta, nascono da un determinato conflitto che trae linfa vitale da un'ipotesi di dramma che il personaggio vive e che la storia illustra. Senza dilungarsi oltremodo, la storia illustrata dal western è la vicenda attraverso cui si intende mostrare nei suoi caratteri archetipici la nascita della Nazione, la sua fondazione leggendaria attraverso l'inesorabile spostamento verso Ovest, l'ottimizzazione degli spazi sterminati e la razionalizzazione dei luoghi impervi, l'avanzamento di una civiltà che ha sradicato darwinianamente il meno adatto e ha imposto dovunque, come diretto risultato di quel destino manifesto di cui parlava John O'Sullivan, direttore della «Democratic Review», le sue istituzioni democratiche e libertarie, previo repulisti generalizzato di tutta una sottocultura di bari, sfaccendati, ubriaconi, fuorilegge ed elementi indesiderati che minavano alle fondamenta i principi di ordine e legalità da plasmare e conseguentemente tutelare per riconoscersi in un unico immenso nucleo pubblico. Banalizzando il discorso e prosciugandolo da qualunque mitologia soverchiante per amor di una stringatezza necessaria in questa sede, la storia della Frontiera americana, al netto di tutti i singoli conflitti, delle problematiche affrontate e superate, dell'ideologia che da Thomas Jefferson (tramite la spedizione di Meriwether Lewis e William Clark nei territori del Nord-ovest) e Andrew Jackson fino a giungere a Frederick Jackson Turner (con il suo intervento che alla Columbian Exposition di Chicago nel 1893 sanciva di fatto la fine dell'espansione per sopraggiunti limiti continentali) ha lastricato il percorso di pionieri e avventurieri, è fondamentalmente riassumibile in questo doppio movimento di conquista e progressiva costituzione. Il western, come genere cinematografico, non è altro che il superamento spettacolare, condotto per immagini, di un discorso volto alla società di massa già dalle dime novels di autori come Zane Gray, Thomas Dixon, Clarence Mulford, Andy Adams, Eugene Manlove Rhodes, Emerson Hough, Alfred Henry Lewis e Owen Wister (i quali sintetizzavano per il grande pubblico i temi presenti nelle precedenti opere avventurose firmate da James Fenimore Cooper, Mark Twain, Bret Harte e Stephen Crane), atte a magnificare un'epopea di conquista fatta di luoghi selvaggi, creature demoniache, natura indomabile, pericoli mitologici, in cui un uomo solitario, incarnazione moderna e secolarizzata di un semidio olimpico, dalle risorse quasi ultraterrene ma dalle prerogative nobilmente umane, affronta gli eventi, corregge gli avvenimenti, ammansisce le selvatiche manifestazioni della Natura, regola e cristallizza i precetti di giustizia e moralità. Così André Bazin nella nobilitante prefazione al celebre volume di Rieupeyrout: «il western è epico per la condizione umana dei suoi eroi, per la leggendaria gamma delle loro gesta. [...] Il cowboy è un cavaliere. Al carattere dell'eroe corrisponde uno stile di rappresentazione in cui la trasposizione epica manifesta [...] la sua predilezione per i vasti orizzonti, le vedute d'insieme che ricordano sempre la proporzione fra l'Uomo e la Natura». Concetto ribadito più volte, alcune delle quali anche estremizzato, come nel caso di Bernard Dort, il quale, riferendosi a una tesi simile espressa da Jean Gili, giunge addirittura a contestare nostalgicamente l'esistenza del genere in mancanza del necessario epos: «Si parla spesso, a proposito del western, di epica ed epopea. Esso costituirebbe un equivalente moderno dei romanzi cavallereschi, delle chansons de geste. Il suo eroe, "il folgorante cowboy del XX secolo", sarebbe la replica esatta del "prode cavaliere del XIII secolo". [...] Il genere western non esiste se non in funzione dell'epopea: non cessa di riferirsi ad essa e tuttavia se ne distacca sempre di più. Forse il suo fascino viene proprio di qui: la nostalgia che risveglia in noi quella forma scomparsa la cui assenza percorre la letteratura contemporanea, il romanzo prima maniera». Cavaliere come depositario dei valori cortesi del Medioevo, come diretta emanazione di un mondo da osservare con atteggiamento romantico e malinconico, con la piena consapevolezza dell'impossibilità di un ritorno di un'epoca sì violenta, minacciosa e selvaggia, ma che proprio da queste caratteristiche svantaggiose traeva il nutrimento vitale per una identificazione totale e leggendaria con l'individuo che tali problemi ha volto a vantaggio di una collettività rispecchiata nei valori e nella ricchezza pragmatica risultante. In una sorta di trascendentalismo sui generis, sull'esempio delle parole di Ralph Waldo Emerson, il cui concetto di Oversoul (Superanima, l'infinito spirito divino che tutto pervade e vivifica) applicato alla filosofia della Storia si incarnava in uomini particolarmente rappresentativi (Thomas Carlyle, storico e filosofo vicino alle posizioni dell'idealismo tedesco, che Emerson conobbe durante un suo lungo viaggio in Europa, parla esplicitamente di eroi), i quali agiscono in modo deciso coerentemente con gli interessi e i bisogni dell'umanità, della società di cui fanno parte e che beneficiano con la loro opera, l'eroe western dà corpo a una figura che foggia demiurgicamente il mondo selvaggio che la Natura ha messo a disposizione della Nazione affinché si realizzasse il destino (manifesto, ovviamente) di conquista secondo gli ideali di libertà, uguaglianza, giustizia e democrazia. «Il carattere epico del western si coglie nella "grande forma" di un'azione che plasma l'ambiente e le sue forze, attraverso personaggi che sono l'espressione di un'anima collettiva, e che incarnano il mito della comunità originaria. [...] L'eroe è l'emanazione delle forze di questa comunità: la guida nella costruzione del suo "mondo", la salda e la protegge dalle pulsioni disgregatrici che sorgono al suo interno». Nella costruzione dei grandi schemi simbolici della Nazione, l'idealizzazione di una figura dedita all'azione energica e moralizzante non può che rientrare nel preciso ambito di una riconoscibile mitologia, nata con l'intenzione di dotarsi di un empireo classico a misura di società americana e dei valori che essa esprime: «La frontiera è, infatti, l'unico tessuto mitologico disponibile per questa giovane nazione. Dèi e semidèi, passioni e ideali, la fatalità degli eventi, la tristezza e la gloria della morte, la lotta di bene e male — tutti questi temi della mitologia western costituiscono un ideale terreno per un legame e una rielaborazione del mondo olimpico, una fresca relazione simbiotica di pensiero ellenico e dinamismo yankee. Il cowboy sul dorso del cavallo è assimilabile al favoloso centauro, guardiano di una leggenda recentemente acquisita; la donna — la cui presenza è biologicamente cercata nelle città di frontiera — diventa una sorta di Minerva, dispensante saggezza, spesso principi morali, affettuoso conforto e necessario incoraggiamento; le imprese dello sceriffo federale Wyatt Earp sono impressionantemente vicine a quelle di Ercole, mentre la lotta con gli indiani e i malvagi di William Frederick Cody (Buffalo Bill) e Wild Bill Hickok è spesso riconosciuta come la versione moderna di quella degli eroi classici. Il massacro del VII cavalleggeri a Little Big Horn conduce allo stesso seme della fatalità di Edipo, e il grido "Ricordatevi di Alamo!" ci rimanda alle Termopili». Senza mezze misure, in un momento in cui si stava stagliando all'orizzonte una fase differente che avrebbe messo in discussione tutto il genere e i suoi stessi valori, Charles Ford, nella prima metà degli anni Sessanta, sosteneva che «In un film western conta solo l'eroe. Θ lui che sopporta tutto il peso dell'opera, è su lui che dev'essere puntata tutta la pubblicità [...]. L'eroe esige tutta l'attenzione, i compagni sono soltanto comparse», circoscrivendo maggiormente la figura del protagonista, ma sottolineando indirettamente l'importanza dell'attore che fornisce il volto all'eroe. La mitologia western si lega alla leggenda di Hollywood, la storia del paese è indissolubile dall'immagine riprodotta sullo schermo, il personaggio del Western è sormontato dal divo che lo interpreta, il quale, a sua volta, fornisce alla personalità romanzesca della figura che incarna peculiarità proprie, perché, come sostiene nuovamente Bernard Dort, «è Gary Cooper che noi andiamo a vedere in La conquista del West o Mezzogiorno di fuoco, non Billy Hickok o lo sceriffo Kane».

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CAPITOLO 2
Agenti del disordine



«Nella morale della necessità, della sopravvivenza, non c'è posto per il sentimentalismo. I bolscevichi non sono sentimentali, i fascisti non sono sentimentali, e gli americani che crearono questo paese non lo erano. Tutt'altro. Vuoi una prova? Mentre facevo delle ricerche per il nostro film mi sono imposto di leggere i diari e i giornali dei primi mercanti e coloni. Mi ha colpito moltissimo un'annotazione, due frasette scritte il 30 settembre 1869: "Stamattina raccolto le patate. Sparato a un indiano". Tutto lì. Non era accompagnata da un tormentato esame di coscienza: perché chi la scrisse sapeva che il nemico non si sarebbe mai permesso una cosa del genere, se avesse ammazzato lui. Possiamo dire che l'indiano era un bolscevico in perizoma: o lo uccidi o ti uccide lui. Sapevano tutti e due che un compromesso era impossibile». «Forse non toccava all'indiano cercare un compromesso. Ci hai mai pensato?»

Guy Vanderhaeghe, La storia di Shorty


Il western, una volta definito, come abbiamo visto, i criteri di restituzione narrativa dei concetti di esplorazione, conquista e costruzione, si trasforma nel regno della reintegrazione dell'ordine minacciato, luogo d'elezione in cui gli opposti, minacciosamente entrati in conflitto, si dispongono verso la definitiva inalterabilità dell'ordine costituito e dei conseguenti statici modelli di riferimento cu cui la società, superata la fase storica di transizione, deve basare tutto il suo corredo di valori democratici e libertari. L'eventualità di crisi entra in relazione con il racconto western lungo una sorta di argomentazione elementare, la quale, tuttavia, riassume con la sua sola presenza tutta la conflittualità presente all'interno del genere: come si vedrà in seguito, è impossibile pensare a un racconto western senza la presenza delle armi da fuoco; l'arma da fuoco è usata dai personaggi di tale racconto, e in particolare è il mezzo attraverso cui si dipanano tutte le interazioni tra figure arroccate su fronti contenutistici e allegorici contrapposti. L'arma da fuoco è quindi il mezzo in virtù del quale l'eroe afferma se stesso in rapporto ai suoi oppositori, a coloro che minacciano la faticosa opera di costruzione di una nuova nazione fondata su alti ideali di legalità, civiltà, rettitudine, progresso, democrazia e libertà. Chi si oppone all'affermazione di tali valori contrasta direttamente l'espressione di onestà e correttezza che l'eroe incarna e si colloca su un versante antitetico di malvagità e immoralità, ingiustizia e corruzione che deve essere necessariamente abbattuto se la leggenda fondativa della Nazione vuole giungere al suo punto più alto, archetipo dei modelli di riferimento da tramandare alla società. Chi si oppone all'instaurazione della legalità propria dell'edificazione di un nuovo ordine possibile è un emissario del disordine, un esponente dell'immoralità e del vizio, delle forze primigenie della Natura, ma è anche l'ostacolo la cui presenza è assolutamente indispensabile alla formazione di qualunque racconto. Come insegna qualsiasi ipotesi narrativa che basi la sua stessa ragione d'essere sull'azione e sulla marcata variazione strutturale tra un equilibrio minacciato da ristabilire nelle sue coordinate fondamentali e la sua susseguente ricostituzione, senza la figura del malvagio non può esistere dinamica di racconto, né lo scontro culturale fondamentale per l'affermazione ideologica della parte positiva sull'altra, da escludere e da eliminare necessariamente per assicurare la giustizia e una inattaccabile legalità alla collettività. I valori della società, seppur aggrediti con perfidia e maliziosa perversità, non cedono: la vittoria del Bene serve all'attestazione definitiva del valore dell'eroe e alla conseguente dimostrazione di una legge solidissima all'interno di una Nazione che ha mitologicamente azzerato le istanze di disgregazione proprie del periodo della sua costituzione. Gli agenti del disordine possono palesarsi attraverso due tipologie ben distinte, entrambe accomunate, tuttavia, dall'ostilità e dalla minaccia che apportano al principio di ordine della collettività. Queste due tipologie possiedono caratteristiche definite e peculiari, relative a due fasi differenti della mitologia del West, quella della conquista dei territori selvaggi e inospitali sottratti all'incuria degli elementi e alla presunta improduttività dei nativi, e quella invece successiva dell'instaurazione della legge e dell'ordine all'interno di una comunità ancora preda dell'arbitrio e della legge del più violento. Da una parte il disordine che si origina dalla wilderness e dal bisogno di razionalizzare ed educare una cultura spontanea e primitiva, dall'altra lo scompiglio essenzialmente urbano fondato su un'altrettanto necessaria educazione alla legalità e ai principi basilari del diritto: dalla sconfitta di entrambi si genera il frutto più maturo di una Nazione che attraverso varie fasi ha visto l'instaurazione progressiva di una civiltà matura e autoconsapevole non solo del suo intrinseco valore, ma anche delle difficoltà incontrate durante il suo percorso storico per affermare se stessa, forte dell'immagine proposta e dell'esempio fornito contro tutti gli impedimenti e gli inconvenienti contingenti.


2.1 L'impetuoso contrasto della Natura: l'indiano

Nell'immaginario collettivo, soprattutto di quello sviluppatosi con il cinema classico, il genere western è stato associato spesso, se non quasi completamente, al conflitto esistente tra la civiltà portata dai bianchi, coloni, plotoni dell'esercito o semplici cowboy, e la minaccia costante, selvaggia e proditoria, provocata da coloro che tradizionalmente si sono sempre opposti all'avanzare del progresso, quelli che fin dai tempi di Colombo, quasi nel tentativo di definire tramite parametri conosciuti un'esistenza difficile da determinare, sono stati chiamati indiani. La conflittualità tra «cowboy e indiani» è stata spesso confusa con l'essenza stessa del genere: l'improvviso attacco della diligenza durante il suo placido tragitto desertico, l'imboscata notturna al cavaliere solitario accampato vicino all'illusorio tepore del suo crepitante falò, la freccia che materializzandosi dal nulla fende l'aria con un sibilo per colpire un ignaro e malcapitato personaggio sono situazioni che fanno parte del catalogo del genere e che, in virtù della loro presenza costante, hanno forgiato il modello dotandolo di peculiarità entrate con vigore nella codificazione del racconto e, conseguentemente, nelle possibilità di attesa e ricezione dello spettatore. Immaginario collettivo stabilmente alimentato da un archetipo che, culturalmente, è alla base narrativa del genere: come ricorda il sempre citato Leslie Fiedler nel suo celebre studio – ormai liso per l'incessante assunzione operata nel corso degli anni – sulla presenza dell'elemento indiano all'interno della cultura bianca, «L'archetipo della storia western è, dunque, un racconto che tratta dell'incontro in ambiente selvaggio di un Wasp sradicato dal suo mondo con un essere a lui radicalmente estraneo, un indiano – un incontro che conduce o a una trasformazione del Wasp (a volte per adozione, a volte per pura e semplice emulazione, mai per un vero e proprio incrocio di razze) in un essere che non è né bianco né indiano, oppure all'annichilazione dell'indiano (a volte per castrazione-conversione, o attraverso il confinamento in un ghetto, a volte semplicemente per mezzo dell'assassinio). In entrambi i casi, le tensioni create dall'incrocio si risolvono con l'eliminazione di uno dei due partner mitologici: nel primo caso mediante un processo rituale e simbolico, nel secondo con la forza».

Il confronto tra estranei nella traduzione operata dalla narrazione cinematografica western non è rapporto tra due culture, ma tra una Cultura, quella bianca, e una Natura incarnata nel retaggio storico di cui l'indiano è diretta emanazione. Sul piano del confronto, la Natura rappresentata dall'indiano, per lo meno nella fase più antagonistica e immediata del genere – prima cioè che alle soglie degli anni Cinquanta alcune pellicole, pur fra molte contraddizioni, iniziassero a far riflettere sulla dignità del nativo, presentato non più soltanto come semplice ostacolo da abbattere per giustificare la sostanza avventurosa del racconto – non rappresenta un riconoscimento del suo status atavico di elemento originario, di comunità primigenia allo stato di natura dotata delle tradizionali caratteristiche di spontaneo candore. Il selvaggio western, ribaltando Rousseau, non vive assecondando le leggi naturali, ricercando autenticamente un invidiabile equilibrio fatto di principi onesti, impulsi sani, azioni armoniche in concerto con l'armonia stessa del creato; al contrario, in quanto presenza contrapposta alla razionalità di uno sviluppo portatore di progresso, ricchezza, democrazia e libertà, oltre che di civiltà intesa con i presupposti occidentali del termine, il selvaggio non è da considerarsi buono, ma effettiva entità demoniaca pronta a minacciare, con la sua azione mirata al disordine e alla distruzione, la stessa evoluzione del continente. Dal punto di vista narrativo, l'indiano è l'antagonista della prima fase storica del Paese, quella dell'esplorazione, della colonizzazione e del successivo insediamento nei territori della Frontiera: nello stadio storico-evolutivo fondamentale della Nazione, l'ostacolo allo sviluppo non è permesso, e l'indiano diventa l'immagine della minaccia costante, della violenza irrazionale, del pericolo nascosto, della morte possibile, della perfidia primitiva e dell'irrazionalità istintiva. L'asse dei valori è radicalmente antitetico e la forza selvaggia del pellerossa accresce e mitizza ulteriormente l'azione coraggiosa dell'eroe, il quale, ancor prima di gestire ed eventualmente reintegrare l'ordine nella fase storica urbana, pone una sorta di pietra d'angolo alla Conquista con la lotta alle forze della Natura che intendono rendere vano il suo sforzo di colonizzazione e successiva Fondazione. Il western ha attraversato fasi differenti e spesso vicendevolmente contrastanti in relazione alla rappresentazione degli indiani, ma nella raffigurazione simbolica e archetipica della collettività, essi si sono sempre contraddistinti come la sagoma da abbattere per garantire il progresso e lo sviluppo, in qualità di immagine di un mondo primitivo fatto di impulsi bestiali da ammansire per rivolgere successivamente l'impegno alla costruzione della Nazione.

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CAPITOLO 3
Rappresentazione delle armi da fuoco



Newt prese la pistola e la estrasse dalla fondina. Aveva un vago odore d'olio... il capitano doveva averla lubrificata quel giorno. Naturalmente non era la prima volta che Newt si trovava una pistola tra le mani. Il signor Gus gli aveva insegnato a sparare e anzi s'era complimentato per la sua abilità. Ma tenere in mano una pistola e possederne una erano due cose molto diverse. Fece girare il tamburo della Colt e ascoltò i ticchettii. Il calcio era di legno, la canna fredda e bluastra, la fondina conservava ancora un lieve odore di sapone da sella. Newt rimise la pistola nella fondina, affibbiò la cintura e sentì il peso solido dell'arma contro il fianco. Quando tornò nei recinti per prendere il suo cavallo, ebbe la sensazione d'essere adulto e completo, per la prima volta nella sua vita.

Larry McMurtry, Un volo di colombe


Partiamo da un elementare paradosso: senza la rappresentazione delle armi da fuoco, avrebbe senso pensare all'esistenza di un genere western? O piuttosto sarebbe più giusto pensare all'allestimento di storie a carattere agreste, ambientate in scenari naturali dalla grande suggestione paesaggistica, magari con un appropriato sottointreccio romance, e dalla tensione provocata unicamente dalla avventurosa, ma placida, concezione esplorativa di un territorio (una sorta di quκte), condotta tramite uno stretto contatto dall'interesse etnografico con le tribù dei nativi americani? Vista così, la vicenda narrata si ridurrebbe a un uomo che si sforza di trovare una dimensione soddisfacente all'interno dello spazio cui è stato destinato aprioristicamente. Come si sa, il western, pur non essendo alieno ad alcuni dei motivi citati, non è soltanto questo. Il western è fondazione di una nazione, ma tale costituzione non è perlustrazione delle zone ancora da conquistare, bensì conflitto, scontro, contesa. Darwinianamente, Only the Strong Survive. Allo stesso modo, una volta sottratto un territorio all'incuria degli elementi e alla supposta inadeguatezza dei nativi, la parcellizzazione attraverso l'edificazione delle città dispone alla difesa di un ordine assente e in via di progressiva definizione che, come abbiamo visto precedentemente, deve essere imposto e difeso a qualsiasi costo, pena la corruzione e il caos come basi morali della società. In un genere idealista, ma molto pragmatico, anche ben al di là della realtà storica, come fare per garantire che questo disegno si realizzi senza presentare minacce di fallimento, evitando anche il benché minimo dubbio sulle coordinate che deve assumere il criterio di giustizia e legalità? Fedele all'assunto che un colpo d'arma da fuoco ben indirizzato è senza dubbio più perentorio e comprensibile di una qualsiasi certosina opera diplomatica e che in un mondo inospitale e selvaggio la società si forma soprattutto operando una decisa scrematura dei soggetti che in essa prosperano, il western presenta come unica dialettica possibile quella che mette di fronte due aspetti antitetici della morale che si contrappongono armati. La sintesi di tali aspetti, in un'ottica puramente ideale nella quale si respinge l'eventualità negativa e la minaccia per la stabilità di cui essa è portatrice, è la vittoria del più forte, del più veloce, del più eticamente ineccepibile, e l'oggetto per realizzare tale momento più alto è indubbiamente quello che al contempo punisce e spettacolarizza lo scontro, rendendo evidenti le dinamiche del conflitto e immediati gli esiti. La pistola (o il fucile: ciò che conta è la funzione, non la tipologia dell'arma) è ciò che sostanzia e caratterizza il Western, ancora di più del celebre cappello a tese larghe, degli stivali, dei paesaggi sterminati o dei cavalli al galoppo: pur facendo parte di una precisa e riconoscibile iconografia di riferimento del genere, così come altri degli elementi citati, l'arma da fuoco, infatti, non si colloca semplicemente su un piano di pura denotazione caratteristica e convenzionalizzata (allo stesso modo della stella dello sceriffo, ad esempio, che è simbolo della legge e immagine della rettitudine), ma diventa mezzo di autentica espressione per i personaggi, criterio di soluzione delle dispute, e quindi, come si è detto, in una narrazione basata sul conflitto, modalità programmatica di scioglimento dell'intreccio, oltre che allegoria della natura dei soggetti, per una sorta di diretta emanazione della loro stessa anima. Indubbiamente l'arma da fuoco è corredo necessario per ogni personaggio del western e concorre alla codicizzazione degli elementi visivi e iconici che rendono perfettamente riconoscibile non solo il personaggio, ma l'intero genere d'appartenenza. L'uomo del western non è veramente tale se non ostenta la sua arma, basterebbe pensare all'affettata eleganza ingenuamente disarmata con cui si palesa nell'Ovest selvaggio il James McKay (Gregory Peck) de Il grande paese (The Big Country, William Wyler, 1958), uomo della costa atlantica deriso non appena sceso dalla diligenza che lo ha condotto dalla sua fidanzata, all'interno di un luogo che lo accoglie immediatamente come estraneo. Concetto ribadito, nonostante l'intento ironico del racconto, da Carolina Crabb al fratello Jack/Dustin Hoffman («Un uomo non è un uomo senza la pistola!») mentre lo investe del cinturone insegnandogli i proverbiali «occhi di falco» con cui prendere di mira l'avversario in Piccolo grande uomo (Little Big Man, Arthur Penn, 1970). Emblema di spiccata virilità e disinvolto pragmatismo, se non addirittura, nei suoi rovesciamenti morali, di autentica protervia, l'arma da fuoco, come accennato in precedenza, si trasforma spesso in codificato mezzo di espressione per i personaggi, i quali, attraverso la definita trasparenza di un colpo ben finalizzato, manifestano non solo la loro spiccata abilità oppure la relativa collocazione etica nel panorama del racconto, ma anche la piena possibilità che lo sparo sostituisca la limpida chiarezza di un dialogo, proponendo una risposta laconica impossibile da equivocare. In Decisione al tramonto (Decision at Sundown, Budd Boetticher, 1957), all'affermazione del dottor Storrow, «Ho l'impressione che non siate impazienti di andare al matrimonio di Kimbrough, voi due...», la risposta muta di Bart Allison (Randolph Scott), dopo un veloce piano di reazione, è tutta nel dettaglio del cordino della fondina che egli lega saldamente alla sua gamba per prepararsi allo scontro con lo spregevole villain che ritiene responsabile della morte della moglie. In Cowboy (Delmer Daves, 1958), attraverso toni sicuramente meno drammatici, è tramite reiterati colpi di pistola verso il muro che Tom Reese (Glenn Ford) cerca di sbarazzarsi degli scarafaggi presenti nella stanza del lussuoso albergo di cui ha preso possesso con i suoi mandriani: i colpi improvvisi e sonori fanno da punteggiatura alla richiesta che il novellino Frank Harris (Jack Lemmon), portiere d'albergo, sta avanzando a Reese circa la possibilità di unirsi agli uomini di questo per recarsi in Messico e raggiungere la sua innamorata Maria. Gli spari di Reese, che pur involontariamente spaventano l'ingenuo Frank, sono una risposta indiretta e una specie di preannuncio di ciò a cui il povero portiere si troverà di fronte una volta intrapresa l'avventura sui polverosi sentieri del bestiame che conducono fino al confine del continente: la pistola di Reese, infatti, è sempre posta all'interno dell'inquadratura in funzione di indicativo filtro tra la macchina da presa e il povero Frank Harris, da intendere come uomo della civiltà che entra in contrasto con la brutalità di un mondo differente di cui vuole far parte (il secondo colpo sparato è mostrato addirittura con un dettaglio della pistola che, posto davanti all'obiettivo della cinepresa, taglia la sagoma del sempre più stupito Frank, ripreso in Mezza Figura).

L'arma è elemento caratterizzante dell'iconografia del personaggio, suo privilegiato mezzo di espressione, ma è anche, in un'ottica più concreta, elemento risoluto per cautelarsi di fronte alle minacce che un universo selvaggio, in perpetua formazione e oggetto di progressiva conquista, inevitabilmente porta all'incolumità dei personaggi. Θ questa la filosofia espressa costantemente ne La magnifica preda (River of No Return, Otto Preminger, 1954) da Matt Calder (Robert Mitchum) nei confronti del figlio Mark: l'arma, in questo caso il fucile, è la cosa più importante di una quotidianità pericolosa e selvaggia, perché il suo possesso significa salvezza dagli indiani (ma non solo), mentre l'inopinata mancanza espone al pericolo e porge il fianco all'eventualità di un attacco da parte di qualunque forza destabilizzatrice (infatti è proprio a causa della sottrazione del fucile da parte del gambler Henry Weston che padre e figlio sono costretti a fuggire all'arrivo degli indiani). In scenari nei quali l'equazione proposta è fin troppo chiara - personaggio disarmato equivale a uomo morto - l'arma si distingue come il mezzo adatto a lottare per la vita: in un livellamento delle probabilità di cui ognuno dispone, sarà l'abilità personale del singolo pistolero a fare la differenza e a sancire in terra chi continuerà a vivere da chi, invece, sarà destinato a trasformarsi in polvere del deserto. Diversamente dalle pellicole jidaigeki, con le quali alcuni studiosi ravvisano possibili e concrete analogie, al di là dei remake western di alcuni dei capolavori di Kurosawa, la pistola dell'eroe del West non rappresenta l'essenza del personaggio come per il samurai, per il quale, seguendo i principi del bushidτ, la spada — l'affascinante katana — è propaggine inseparabile della sua figura, una sorta di connubio metonimico dell'anima: per certi versi all'opposto, l'arma nel western, pur manifestandosi come inseparabile, esclude ogni principio mistico e spirituale per insediarsi nel territorio pragmatico e materialistico della salvezza del proprio corpo di fronte alle minacce esterne. Alla sottomissione si sostituisce l'affermazione dell'individualismo, alla dedizione per le regole prescritte si oppone il rispetto della legge sociale, alla spirituale indivisibilità dell'anima dal corpo si contrappone la convenienza pratica di tale indissolubilità. La connotazione dell'oggetto pistola non è mai un segno di precisa e aprioristica attribuzione, ma è sempre mediato dall'assiologia di valori cui si lega per mezzo del personaggio: come ricorda Shane (Alan Ladd) alla signora Starrett (Jean Arthur) ne Il cavaliere della valle solitaria (Shane, George Stevens, 1953), «La pistola è un arnese né peggiore, né migliore di tutti gli altri. L'ascia, la zappa, la vanga: che ne esca del bene o del male, dipende da chi la usa, rammentatelo...».

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CAPITOLO 5
Rappresentazione della morte



Quantunque il Fiume Rosso non fosse più in piena, anche al guado l'acqua fangosa arrivava ai mozzi delle ruote: volgendo la testa, Dunson v'immerse una mano, se la portò alle labbra per assaggiare la terra portata dalla corrente. Poi, quando il carro fu immobile sull'altra riva e Garth comparve alla ribalta, egli disse: «Portami fuori, Mathew».

Senza discutere, Garth obbedì, usando ogni cautela. Quando Mathew posò i piedi al suolo, Thomas serrò i denti per reprimere un gemito: «Ce la faccio. Mettimi giù.» Poi, con un supremo sforzo della ferrea volontà che lo aveva sostenuto fino a quel momento, riuscì a stare in piedi, guardò la pianura illuminata dalla luna, a meridione, e sollevò un braccio: «Questo è il Texas, Mathew», disse lentamente. «Sono tornato a casa».

«Sei tornato a casa», confermò Garth.

Con la calma di chi giace a sognare piacevolmente, Thomas Dunson scivolò sul terreno, distese le grosse braccia, posò il viso sulla terra tanto amata, e, nel morire, sorrise.

Borden Chase, Fiume Rosso


Una freccia che giunge improvvisamente dal nulla e colpisce un passeggero di una diligenza, una pallottola che centra il meno veloce dei due pistoleri a duello, un impiegato di banca trafitto durante una rapina, un cavallo sollecitato al movimento sulla cui groppa c'è un uomo legato e appeso per il collo, un soldato accerchiato caduto sul campo di battaglia, un indiano strepitante che stramazza al suolo mentre assedia coloni barricati, rottami di un carro fumante, avvoltoi che volano concentricamente in lontananza, il cocuzzolo di una collina ingombro di croci: sono immagini e situazioni che del western fanno parte almeno quanto le pistole, i duelli, i cappelli e i cavalli. La morte abita il western ancora di più di quanto non caratterizzi la stessa esistenza al di fuori della fiction: se nella vita, semplificando di molto e non tenendo conto di considerazioni conseguenti quali credenze religiose, elaborazione del lutto, rimozioni, speranze e allontanamenti, essa è un fatto contingente sul quale l'individuo comune riflette episodicamente – se non vuole rischiare di sprofondare nella patologia paranoide – pur accettandola come dato di fatto ultimo di un percorso terreno, nel western si pone come immanenza all'interno della storia narrata, come presenza costante e certezza con la quale bisogna sempre fare i conti. Prima di tutto per evitarla. In un universo rappresentato tradizionalmente – al di là della realtà storica – come denso di minacce originate quasi per costituzione dalla stessa selvaticità del luogo e delle situazioni che in esso si generano, la morte è eventualità effettiva, continuamente rincorsa per ingigantire la dimensione eroica dei personaggi, sfiorata ripetutamente per sprezzo del pericolo, testimoniata direttamente in virtù della proliferazione delle opportunità, personalmente inflitta per restituire ordine e dignità alla società in formazione contro la corruzione e l'illegalità imperanti. La morte nel western, se proposta come decisiva all'interno degli scontri illustrati nel corso della storia, è livellatrice di conflitti e disparità. Quando giunge al termine del racconto è catartica, perché offre l'unico appagamento possibile per passioni stimolate brutalmente nei loro istinti belluini e vendicativi. E quando, invece, giunge a un punto di svolta dell'intreccio, tratteggiando un decisivo plot point, è toccante, sospensiva e attendista, perché induce alla rabbia repressa e all'identificazione sdegnata con il personaggio che dovrà premurarsi di riportare la situazione agli equilibri auspicati, anche se l'assenza di chi è stato ucciso non può essere ovviamente recuperata. Data come condizione inevitabile, la morte nel western può essere solo procrastinata nel tempo, ma la sua comparsa è un'evidenza pronta a palesarsi e a sottolineare un momento di crisi che deve necessariamente essere risolto. In alcuni casi tale momento di crisi motiva tutta la narrazione, se è vero come è vero che uno dei motivi fondamentali del genere è la vendetta. Riferendosi ai generi in cui l'eventualità della morte opera scarti narrativi decisivi, se nel melodramma si muore essenzialmente in funzione della reazione degli altri personaggi con i quali lo spettatore empatizza fino ad arrivare alla piena adesione emotiva, se nell'horror – nel quale, spesso, il tema si presenta già nelle caratterizzazioni ambientali – è ostentazione, raccapriccio e soglia indistinta – Dracula, Frankenstein, zombies, mummie e fantasmi –, e se nel noir sancisce la cesura netta tra la vacua speranza dell'individuo – quasi sempre il protagonista – e la drammatica riaffermazione dei valori della società metropolitana, nel western è occorrenza che permuta e bilancia la presenza umana e i valori che ad essa si legano inscindibilmente. Infatti, la morte nel western (perlomeno nel periodo classico), se si eccettuano i caduti di massa – soldati su cui non converge l'identificazione dello spettatore, indiani abbattuti come ostacoli inerti sulla strada della conquista, vittime di scorrerie e sgherri di contorno poco abili con la pistola –, per i quali la resa sul campo è una delle opzioni possibili nell'ambito della loro esistenza narrativa destinata alla scomparsa, è il prodotto di un preciso scambio che prevede, all'interno delle dinamiche del racconto, la tragica cessazione dell'esistenza di un personaggio in stretta relazione con la susseguente azione che condurrà la figura dell'eroe a colmare il vuoto originato da tale scomparsa. Il vuoto, tuttavia, non si colma con la drammatica elaborazione del lutto come nel mélo, né con il ricacciare al di là della trascendente soglia attraversata i mostri dell'indistinto come nell'horror, e nemmeno con la fatale accettazione di un legale ordine sovrastante come nel noir, bensì con l'eliminazione fisica di chi si è macchiato della colpa, secondo i principi di una fondativa legge del taglione che intende fornire l'esempio morale cui attenersi nella difficile creazione di un'identità conforme alla legge della Nazione. Oltre le questioni etiche ed estremizzando da un punto di vista narrativo: la morte nel western è necessaria in ogni storia raccontata per ribadire la riaffermazione dei valori minacciati attraverso l'abiezione dei personaggi corrotti e malvagi. Questo è possibile soltanto in un universo basato su rigidissimi valori morali e rispondente come nessun altro al principio dell'onore: la morte violenta è ammessa perché giustifica la vendetta e le possibilità narrative che da essa scaturiscono per riassestare a ripetizione una precisa assiologia di valori che non accetta le lacerazioni al suo interno. Nell'ambito di una liturgia (narrativa e sociale) che mira all'ordine definito dei suoi fattori, la vendetta non è la semplice conseguenza di un'azione criminosa e spregevole, ma l'autentica causa che conferma ulteriormente i principi etici che presiedono al genere e di cui la morte tragica è soltanto il pretesto per una loro ostentata manifestazione. Per questo motivo l'omicidio che precede la vendetta è sempre vile e sordido nelle sue modalità: esso può riguardare persone inermi (per fare due tra i molteplici esempi possibili, la famiglia di Josey Wales uccisa dalla violenta e incendiaria razzia operata dagli irregolari yankee guidati da Terrill ne Il texano dagli occhi di ghiaccio (The Outlaw Josey Wales, Clint Eastwood, 1976), oppure la madre di Jesse James uccisa da una bomba incendiaria in Jess il bandito (Jesse James, Henry King, 1939), scagliata contro l'abitazione di famiglia dal losco Barshee/Brian Donlevy che intende convincere i James a vendere la proprietà alle ferrovie), personaggi disarmati (i vari Tunstall dello schermo, che dell'educazione al pacifismo hanno sempre fatto una bandiera etica per altrettanti Billy the Kid, uccisi proditoriamente dai prepotenti allevatori della zona) o seviziati selvaggiamente (la futura sposa di Vern Haskell/Arthur Kennedy aggredita e uccisa Fuoricampo in Rancho Notorious dal malvivente Kinch, il cui tentativo di stupro si deduce a posteriori dai segni della colluttazione sulle unghie della ragazza e dagli sfregi sul volto dell'assassino). Non può esistere giustificazione contro l'abominio della malvagità, il quale, a sua volta, produce il disordine dell'illegalità: la reazione, in perfetto accordo con l'identificazione dello spettatore che sposa l'azione vendicatrice dell'eroe, è sempre legittimata da una profonda immoralità da cancellare dal consorzio civile, anche, come abbiamo visto negli esempi precedenti, se l'eroe è un outlaw romantico e incompreso, schiavo dei tempi amari, delle istituzioni opprimenti e sclerotiche, di congiunture storiche inconsuete che non offrono una precisa identità di riferimento. Eppure, in uno dei primi sussulti atti a preannunciare il crepuscolarismo che sopraggiungerà solo qualche anno dopo, può anche capitare che l'eroe, convinto (e lo spettatore con lui) della legittimità della sua azione, compia la sua personale ricerca di vendetta prima di scoprire, poco prima di colpire la sua quarta vittima, che la sua ostinata azione si è rivolta contro le persone sbagliate, le quali, per ironia della sorte, durante la loro fuga dalla prigione di Rio Arriba, hanno anche ucciso il vero colpevole dell'omicidio della moglie, privandolo, da un lato, della pacificante soddisfazione di vedere colmato il suo personale vuoto, e portandolo, dall'altro, su una strada in cui la violenza non è più giustificata, ma cercata quasi con gratuito sadismo, gusto sardonico di trasformarsi in fatale angelo della morte. Ι ciò che succede al Jim Douglass di Bravados (The Bravados, Henry King, 1958), convinto di essere sulle tracce dei quattro spietati assassini che gli hanno ucciso la moglie abusandone, e per questo motivo spietato cacciatore degli uomini fuggiti di prigione alla vigilia dell'impiccagione.

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