Copertina
Autore Gabriele Frasca
Titolo L'oscuro scrutare di Philip K. Dick
EdizioneMeltemi, Roma, 2007, Melusine , pag. 264, cop.fle., dim. 12x19x2,3 cm , Isbn 978-88-8353-538-3
LettoreGiorgia Pezzali, 2007
Classe critica letteraria , fantascienza , paesi: USA
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice

  9 Capitolo primo
    Su un fondo nero

 73 Capitolo secondo
    La notte delle superfici

147 Capitolo terzo
    Un oscuro scrutare

199 Capitolo quarto
    Restare nel buio

251 Opere di Philip K. Dick analizzate

253 Bibliografia


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Capitolo primo

Su un fondo nero


Peggio non poteva cominciare la giornata, quel venerdì mattina. Tanto valeva, pur di distrarsi, dare una bella rassettata al negozio. Il signor Childan posò la tazza di tè solubile appena presa dal distributore automatico, controllò nuovamente la posta e, contrariato, cominciò a spazzare il pavimento. Erano giorni e giorni che attendeva con crescente impazienza l'invio dagli Stati delle Montagne Rocciose di un bando di reclutamento della Guerra Civile, un pezzo d'antiquariato di straordinaria importanza, certo, e di difficile reperibilità, ma che avrebbe contribuito ad accrescere fra i suoi facoltosi clienti la fama goduta dall' American Artistic Handcrafts Inc., la piccola ma efficiente intrapresa di cui era proprietario. In quell'ultimo residuo di economia locale, non assistita insomma dalle Isole Patrie, il signor Childan sapeva di non avere eguali; ma forse si era fidato un po' troppo dei suoi corrispondenti. Aveva persino accettato un anticipo, ed era stato così improvvido da promettere l'arrivo di quella rarità, da ricercare come se non bastasse al di là del confine, nel giro di pochi giorni. E, invece, era già trascorsa una settimana dalla data di consegna che aveva millantato, e di quel bando nemmeno l'ombra. Il cliente, non gli era difficile immaginarlo, sarebbe andato su tutte le furie. Come se già non fosse complicato, per quelli della sua specie, avere a che fare con tutti quegli uomini d'affari, compiti quanto superbi, che associavano contraddittoriamente la passione per i vecchi oggetti americani al sottile disprezzo per coloro che li avevano prodotti. E difatti la telefonata del signor Tagomi non si era fatta attendere né questi gli aveva risparmiato, sia pure nei limiti delle buone maniere, la gelida esternazione del proprio disappunto. Come si era sentito piccolo e insignificante durante quel colloquio. Farfugliare così alla cornetta, solo perché dall'altra parte c'era un pezzo grosso! E dire che aveva quasi quarant'anni, e ne aveva viste di cose durante la guerra.

Fu, dunque, con un certo sollievo che, agganciato il ricevitore, il signor Childan s'accorse della presenza nel suo negozio di una giovane coppia di possibili acquirenti, marito e moglie presumibilmente. Gli apparvero, mentre li guardava aggirarsi con sincero interesse fra i suoi articoli, bellissimi nei loro vestiti eleganti, magari per quella loro carnagione così speciale, e ancor di più per quel taglio degli occhi che ingentiliva loro lo sguardo, e che era il segno più appariscente della superiorità della razza cui appartenevano, quella dei vincitori. Ben altro tipo umano dal vecchio signor Tagomi, che aveva vissuto tutte le fasi del conflitto e non poteva che essere ancora prevenuto nei confronti degli sconfitti. Nulla a che vedere, poi, con quei militari con le facce da bifolchi che scorrazzavano nei quartieri malfamati di San Francisco in cerca di puttane. E che naturalezza nel loro comportamento, nobile e tollerante! Sebbene il signor Childan fosse soltanto uno yank, poteva difatti notare come nei modi cortesi con cui gli si rivolgevano facessero del tutto per cancellare lo scarto sociale che li divideva, in virtù di quella umanità che era propria della giovane élite colta e raffinata, quella che aveva conosciuto poco o nulla della guerra, e che in città risiedeva nell'esclusivo quartiere della City of the Winding Mists. Anzi, nei loro atteggiamenti vi era qualcosa di assimilabile al rispetto, che il signor Childan non tardò a comprendere tributato piuttosto alla sua merce, a quella straordinaria collezione di oggetti prebellici che non aveva eguali lungo tutta la costa degli Stati Americani del Pacifico. Così si sentì d'improvviso gratificato e rilassato, e per un attimo dimenticò anche il signor Tagomi, finendo col concentrare la sua attenzione sulla giovane donna, sul fascino dei suoi occhi allungati, sui suoi ordinati capelli neri, su quel morbido vestito di seta colorata, sulle unghie laccate d'un tenue colore. Come si sarebbe potuto facilmente innamorare di una donna così! E quanto tragica sarebbe allora divenuta la sua vita. Come se non lo fosse già abbastanza!

Non era certo questo il tipo di pensieri che il signor Childan amava accarezzare, e se anche finiva col farlo lo faceva soltanto perché il tutto, come solitamente avviene, si convertisse in angoscia. Fu dunque per liberarsene che chiese deferentemente al giovane per quanto tempo avessero intenzione, lui e la sua signora, di trattenersi in città. Trattenersi? Il giovane l'aveva guardato con un'espressione di bonaria accondiscendenza. Non era un uomo d'affari con un impegno a termine, gli aveva spiegato, lui e la sua signora risiedevano a San Francisco. Era un funzionario della Commissione d'Indagine per la Pianificazione del Livello di Vita delle Aree Sinistrate.

Già, la Commissione. I giapponesi, non lo si poteva negare, si stavano molto impegnando per la ricostruzione degli Stati Americani del Pacifico. E molto, anche molto di più, terribilmente molto di più, si davano da fare gli uomini del Reich, lì, a Est, negli Stati Uniti. Certo, il livello di fanatismo da quelle parti era alto, si sapeva com'erano fatti i nazisti, ma le innovazioni tecnologiche e le capacità imprenditoriali dei tedeschi erano decisamente superiori. Altra razza, non c'era che dire. I giapponesi da parte loro pianificavano un po' troppo l'economia, ne andava del buon funzionamento del loro sistema sociale a caste, e finivano così col deprimere la libera concorrenza pur di assicurare un rispettabile tenore di vita, persino agli sconfitti. Comunque, da una parte come dall'altra, la presenza delle truppe di occupazione garantiva un livello accettabile di esistenza e un'economia decisamente più vivace di quella del periodo prebellico. Che ristrettezze allora, dopo quella terribile crisi! C'era nato, il signor Childan, in quella nazione allo stremo. Dodici milioni di disoccupati! E quel presidente Roosevelt, poi, con quell'idea di un'economia assistita dallo Stato! Roba da rossi! Sa solo Iddio dove avrebbe condotto l'America, magari sulla scorta di quel bolscevico di Keynes , che aveva portato un simile scompiglio anche in Europa. Non era stato nemmeno eletto, Roosevelt, e si era fatto attribuire pieni poteri in materia finanziaria. Nessun presidente, a memoria sua, aveva osato tanto. Risultato? Aveva incrementato le tasse, e i disoccupati nel giro di un anno erano diventati diciassette milioni! E come se non bastasse, invece di aiutare la gente onesta, aveva favorito i negri e tutti quegli straccioni d'immigrati, e aveva convinto i sindacati a schierarsi coi democratici. Fortuna che l'avevano fatto fuori subito. Chissà che cos'altro avrebbe combinato, se fosse sopravvissuto all'attentato del 1934. Magari avrebbe finito con l'instaurare la dittatura del proletariato! Bella roba. E quell'altro cialtrone di John Garner, il vicepresidente! Poi, quando le cose si erano rimesse finalmente nel verso giusto, dopo l'elezione del presidente Bricker, e l'economia pareva proprio sul punto di decollare, era scoppiata la guerra. E la catastrofe, pensò il signor Childan. Acqua passata, non valeva neanche la pena pensarci. Se non altro, si rincuorò, poteva ritenersi fortunato di vivere nei Pacific States of America, anche se magari all'est, coi nazisti, avrebbe potuto mettere maggiormente a frutto il suo spirito imprenditoriale. Comunque, sempre meglio che trovarsi negli Stati delle Montagne Rocciose, dove la presunta libertà veniva pagata al prezzo di un'economia misera, a malapena rurale. Il signor Childan tornò a guardare la giovane coppia di giapponesi e per un attimo gli s'infisse nel cranio un assurdo desiderio, il più assurdo desiderio che mai potesse avere uno yank: quello di essere uno di loro. Che vita allora, che vita meravigliosa avrebbe potuto condurre! Se soltanto non ci fosse stata quella maledetta guerra!


Quando il lettore medio americano, cui in prima battuta sono sempre state affidate le sorti di uno dei generi più frequentati della letteratura di consumo postbellica, la science fiction, incrociò l'inquietante incipit qui compendiato, il 1962 andava declinando, e con esso il sogno kennedyano così com'era stato tracciato nel discorso sullo stato dell'Unione del 29 gennaio 1961, quando il giovane presidente appena eletto aveva identificato nella lotta alla tirannide, alla miseria, alla malattia e alla guerra la coazione alla frontiera di un popolo di coloni. Nei primi due anni, a quella data, del suo mandato, Kennedy aveva certo fatto in tempo a richiamarsi al mito ancora non scalfito del presidente Roosevelt, se mai per tentare di guidare l'America fuori dalla recessione, con un piano che prevedeva grandi opere pubbliche e l'aumento del salario minimo e del sussidio di disoccupazione, ma che al contempo contemplava, se non a zittire, quanto meno a trasformare in mugugno gli strepiti degli agguerriti alfieri del neoliberalismo, il primo grande taglio alle tasse del dopoguerra (che sarebbe stato però votato dal Congresso solo dopo la sua morte) e un incremento del 50% delle spese militari. La ricetta durante la sua presidenza sarebbe stata quella solita, e Kennedy l'avrebbe applicata fino alla morte: un vertiginoso giro d'affari per l'industria bellica e una pioggia di gratificazioni per le gerarchie militari, in cambio di un po' di stato sociale e del rispetto dei diritti civili. Ma anche su quest'ultima questione (che sarebbe invece divenuta il vessillo della presidenza Johnson), Kennedy avrebbe proceduto con estrema cautela, se non fosse stato in qualche modo stanato dall'assalto del settembre del '63 del Ku Klux Klan alla chiesa battista di Birmingham, in Alabama, e soprattutto dalla copertura mediale che per la prima volta la televisione assicurò a un tale evento (Levine, Papasotiriou 2005). Come era accaduto per Roosevelt, allora, la libertà di manovra sulle grandi questioni interne non poté che essere pagata al prezzo di una mobilitazione generale contro un pericolo esterno. Il cattolico Kennedy proveniva da una famiglia di riconosciuta fede anticomunista, cui non era stato difficile sottrarsi al "fattore KC2" (Korea, communism, corruption) che aveva messo fuori gioco i democratici dopo Truman; anzi, i Kennedy avevano apertamente supportato il senatore McCarthy durante la crociata contro il pericolo rosso, e insediato per qualche mese un loro rampollo, il giovane Robert, nella commissione stessa. Il nemico, insomma, fortunatamente c'era, e il giovane presidente ricorse a un anticomunismo viscerale che avrebbe inorridito un conservatore ben più cauto come Eisenhower. "Nella lunga storia del mondo", aveva dichiarato Kennedy ergendosi a paladino dell'Occidente (e dire che si era pure vantato di appartenere finalmente al nuovo secolo), "solo a poche generazioni è stato concesso il ruolo di difendere la libertà nella sua ora di estremo pericolo" (Reeves 1993).

La crisi di Cuba dell'ottobre del '62, come secondo apice (dopo la crisi di Berlino del '58) della prima guerra fredda, aveva certo contribuito a surriscaldare non poco la presunta pace susseguita al conflitto mondiale, né certo l'erezione del muro di Berlino (e la strana gaffe del presidente, che aveva candidamente dichiarato che quella città sarebbe stata, in caso di una del resto impensabile aggressione sovietica, la Stalingrado, testuale, del mondo libero), o le scaramucce a colpi di teatro atomico (con esplosioni negli atolli, nell'atmosfera e nel sottosuolo) e di lanci in orbita (con Yuri Gagarin e Alan Shepard mandati, a distanza di una quindicina di giorni l'uno dall'altro, a volteggiare per un quarto d'ora come pupazzi nello spazio), parevano promettere nulla di buono. Le cose, si sa, si sarebbero poi aggiustate con meno difficoltà del previsto: i sovietici avrebbero ritirato nel giro di pochi giorni i loro missili da Cuba (e gli americani, senza nemmeno dichiararlo, avrebbero fatto lo stesso con quelli da poco installati in Turchia), e tutto fra i blocchi sarebbe tornato come prima, magari con l'attivazione a effetto di una nuova linea telefonica, quella rossa fra Washington e Mosca, di cui avrebbe fatto buon uso, due anni dopo, solo Peter Sellers in Doctor Strangelove. L'America, da quella grande paura, si sarebbe risvegliata con qualche posto di lavoro in più, le fanfare anticomuniste dei discorsi del suo presidente, la malcelata insoddisfazione dei campioni della scuola di Chicago per il solito eccesso di Stato (il 1962 fu del resto lo stesso anno in cui Milton Friedman, futuro consigliere economico di Nixon e Reagan, e dunque premio Nobel, pubblicò il manifesto del liberismo selvaggio: Capitalism and Freedom) e l'impegno che diveniva massiccio in Vietnam. La solita storia, si dirà, e l'eterna contraddizione del liberalismo americano: un presidente non può che limitare al minimo le ingerenze negli affari interni, soprattutto in questioni economiche, dove più invisibile è la sua mano, anzi meno mette mano, e meglio è. Il mondo dell'economia, è noto, deve rifuggire la luce a giorno della pianificazione, e deve riservare le sue sorprese al buio; e un presidente che non voglia destare avversione sarà un'ombra fra le ombre. Un'ombra che dovrà comunque acquistare da qualche parte la necessaria consistenza, e dunque visibilità, per farsi rieleggere, in specie se nella prima occasione non gli arrise una limpida vittoria (Kennedy, ad esempio, come spesso accade per il primo mandato, si era imposto sul vicepresidente di Eisenhower, Richard Nixon, con uno scarto di un solo punto percentuale, e vi fu anche qualche sospetto di broglio). A volte basta una robusta campagna contro un nemico, immaginario o meno, tanto per consolidare una bugia che sappia divenire collante sociale, ma è naturalmente la politica estera l'agone del gioco democratico americano. È o non è il capo supremo delle forze armate, il presidente degli Stati Uniti d'America? È o non è, soltanto richiamando alle armi, il presidente di tutti gli americani, magari anche di quelli che non vedono l'ora (com'era accaduto durante la lunga presidenza Roosevelt) di farlo fuori? Il Vietnam per Kennedy era un'occasione imperdibile. Né difatti la perse (come del resto non l'avrebbe persa un presidente ben più vigoroso come Lyndon Johnson). Le occasioni, si sa, non si perdono, le guerre invece sì. Del resto, al momento, chi li ricordava più, e chi li avrebbe mai più ricordati nella sistematica cancellazione di quella guerra (Cumings 1992), i circa quarantamila soldati americani morti in Corea?

Se è questo dunque il clima in cui apparve The Man in the High Castle (L'uomo nell'alto castello), non è difficile capire perché questo strano romanzo imperniato su un passato possibile conquistò così rapidamente lettori e critici. Per Philip K. Dick , che aveva imparato per tempo a corteggiare la vena paranoica americana (a partire per lo meno da Eye in the Sky, che è del 1957), fu l'occasione per imporsi non solo come il maggiore scrittore di fantascienza di quel blocco (dall'altra parte sarebbe più o meno nelle stesse date emersa la malinconica dismissione dell'industria pesante, e dei suoi sogni da piano quinquennale, metodicamente messa in scena da Stanislaw Lem) ma soprattutto come il più inquietante reporter dei mondi che si alternano, in un défilé di fondali che si sovrappongono e si stratificano. Se il sociale si consolida con una bugia di gruppo, parrebbe aver pensato per tempo Dick (ben prima insomma della famosa conferenza di Metz del 1977, dove non a caso dichiarò di aver avuto esperienza reale del mondo alternativo descritto in The Man in the High Castle), allora è vero: ci sono altri mondi presenti peggiori di questo, o quanto meno, una sfoglia dopo l'altra, le strutture sociali del nostro mondo sono un po' tutte conformate a cipolla, o magari come il cervello si tengono insieme in un intreccio metastabile di micropoteri. Ogni superficie ne nasconde un'altra, e un'altra ancora... e sotto, dopo l'ultima impensabile superficie, non c'è niente, o niente di meno del presente. Non emerge insomma da questo gioco di superfici una struttura nascosta ma via via riconoscibile come le M&M Enterprises di Catch-22 di Joseph Heller, romanzo che, apparso giusto l'anno precedente l'uscita di The Man in the High Castle, per la prima volta aveva legato la storia di quella guerra, della seconda mondiale, a una complessiva teoria del complotto, denunciando una sorta di tradimento costante ai danni dell'uomo comune. Non esiste alcun doppiofondo presente nella superficie del mondo; è il passato piuttosto, parrebbe ripetere Dick, l'anello debole del tempo, quello che può d'improvviso cedere, e cambiare, mutando all'istante il presente. Certo, l'adolescente Dick (classe 1928) era vissuto immerso nella propaganda bellica, e nella stessa phony war del fronte interno che aveva magari suscitato il sospetto, che sarebbe poi diventato un allarme latamente francofortese (basti pensare agli straordinariamente acuti aforismi scritti da Adorno in presa diretta durante la guerra, e confluiti poi in Minima moralia con il titolo beffardo di Fuori tiro), alla base del romanzo di Joseph Heller. Ma nel pieno della sua giovinezza, passibile com'era di una chiamata alle armi, e proprio mentre pubblicava i suoi primi racconti di fantascienza (dopo l'iniziale Ruug, fra il '52 e il '53 apparvero ben 34 racconti di Dick) in una stagione che assisteva, e magari non a caso, a una rigogliosa quanto inattesa fioritura di testate dedicate al genere (Ashley 1976), Dick una guerra l'aveva vista per davvero profilarsi all'orizzonte: era durata tre anni (dal '50 al '53), aveva fatto tanti morti, aveva addirittura sfiorato l'olocausto nucleare (se avessero lasciato fare a Douglas McArthur), era finita, ed era letteralmente scomparsa, persino dal suo presente. La storia, insomma, prima che la storiografia la fissi buttandola giù per sempre dalla sua onda, parrebbe avere come lo spazio hilbertiano un numero sbalorditivo di dimensioni, e il passato, se è lecito estendere il paradosso EPR (Einstein, Podolsky, Rosen) della fisica quantistica (che è per l'appunto un paradosso dell'osservazione), è come se fosse entangled col presente. Un'acquisizione dunque, dal rapido svanimento di quella guerra (a fronte del compito epico e addirittura fondativo assegnato a quella che l'aveva preceduta), poteva essere tratta: non c'è nulla di meno immutabile del passato.

Non sono pochi, pertanto, lo si sarà capito (ed è motivo di meraviglia se si considera il successo che immediatamente arrise all'opera), gli elementi perturbanti (e proprio nel senso freudiano di non-più-domestici) in opera in The Man in The High Castle, e dunque virtualmente oscuri per il lettore di genere dell'epoca, avvezzo se mai a scivolare su dati inverificabili ed eventi mirabili, dove tutto è altro (un altro tempo, altre forme di vita, altri pianeti), o al più allegoria. Ed è questa una prima acquisizione: The Man in the High Castle non è un'allegoria, è solo l'emersione di una diversa superficie, o sfoglia, o pellicola di mondo. Non un piano alternativo, ma una superficie dall'altro lato della superficie, il verso di un foglio o di una moneta, un fondo nero che, come ogni lettore esperisce, attende di essere scrutato per dettare i suoi colori. Il metodo di Dick è, a questa altezza, se si vuole genealogico, e dunque a suo modo assimilabile a quello che metterà in auge da lì a qualche anno Michel Foucault: nulla è dato come universale, e tutto viene messo alla prova del suo nome, e dei suoi discorsi (Foucault 2004). Gli elementi perturbanti, un tempo domestici e ora alieni e micidiali, sono vecchi nomi che tornano a significare i loro etimi, sostanziando sia le scelte narrative (si tratta di una science fiction che si sottrae alla rassicurante lontananza del futuro per ripiegare, ma alterandolo, e alternandolo, più o meno negli stessi anni di stesura del romanzo) sia il cardine ideologico su cui ruota l'intero meccanismo, sorretto dal palese rovesciamento della megafonia democratica e di giustizia sociale su cui aveva fondato il proprio successo politico il presidente Kennedy, e dalla consonanza, alquanto inquietante a dire il vero, con le critiche che i settori più agguerriti dell'anarcoliberalismo avevano sin da subito mosso all'amministrazione Roosevelt e all'odiato New Deal. Non era stato, del resto, lo stesso Henry Calvert Simons, il padre della scuola di Chicago, a lanciare la sua crociata contro Roosevelt proprio nel fatidico (per il mondo alternativo descritto da Dick) 1934, con la pubblicazione di A Positive Program for Laissez-Faire? Non si adombrava già in quell'opera un agghiacciante parallelismo, nel nome di un capitalismo lasciato libero di schizzare in ogni dove, fra le scelte economiche del presidente Roosevelt e quelle di tutti gli Stati totalitari, nazismo in testa? E i rappresentanti più in vista dell'ordoliberalismo tedesco, a partire da Friedrich von Hayek (che insegnò non a caso dal 1952 anche a Chicago) e Wilhelm Röpke, non avevano dichiarato, fra il '43 e il '44, che il New Deal, o in Inghilterra il piano Beveridge, come ogni altra forma di interventismo economico e di applicazione della dottrina Keynes, altro non erano che l'anticamera del piano Göring e del nazismo? La storia di questo romanzo, conseguentemente, è ambientata negli stessi anni di stesura (strano che il seguito progettato da Dick nel 1974 retrodati il tutto al 1956, magari per un errore di calcolo, o per influsso dei fatti di Ungheria, e della dottrina Eisenhower), ma con la sostanziale differenza che l'Asse ha vinto la guerra. Il vento gelido della Storia, di quella che non è stata, di quella cioè che, come ogni procedimento narrativo, s'affida al condizionale, ha stravolto in queste pagine gli oggetti che ci sono noti, ricomponendoli però in un ordine nel quale, in tutta franchezza, il lettore non tarda a riassestarsi, riconoscendo con relativa facilità gli elementi rimessi in gioco, al punto di ritrovare in questa prospettiva sul mondo un luogo d'osservazione e di partecipazione addirittura immediato. L'angoscia, diciamo pure l'angoscia sociale, sulla quale ha edificato la cultura postbellica, quella cioè sopravvissuta alla morte comminata secondo ritmi industriali (ma solo a patto di tenersi su una sola superficie, dove non sono più visibili gli strati da cui virtualmente ogni altra superficie può essere tratta); bene, quest'angoscia occorre che s'impari a condividere con le pagine di questo libro, se si vuole durare la fatica di portarne a termine la lettura. D'altra parte, se tanti lettori si sono mostrati in grado di condividere tale angoscia, di fare cioè di questo romanzo non un libro da iniziati ma un breviario della science fiction, vorrà dire che qualcosa del mostruoso immaginario messo in opera avrà toccato le corde di una paura oscuramente coltivata, o di un sospetto che, ogni volta ricacciato, e sempre riproposto, grava sulla società occidentale sortita dalla guerra. Una superficie, si diceva, resta sull'altra, finché non s'increspa, magari piegandosi fino a farne intravedere ancora di superfici, tutte possibili, tutte pronte a sostituire quella in vista, tutte alternabili semplicemente perché fatte della stessa sostanza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 29

Vi è, dunque, nell'intera opera di Philip K. Dick, prima ancora di giungere alle derive teologiche testimoniate anche dalle pagine critiche citate, una continua dialettica fra il world of change, diciamo pure il mondo apparente (pervaso di tutti i suoi supposti cambiamenti), dichiaratamente inautentico, e un permanent landscape, un paesaggio latente (un fondo nero da mettere a giorno) che, ricercato nei suoi luoghi intrusivi, può prima trasparire e poi addirittura essere interamente disvelato. L'allestire mondi possibili è dunque per Philip K. Dick un'operazione dichiaratamente isotopa dell'alternarsi nel reale, per fallacia e dismisura dei sensi o per manipolazione sociale, di paesaggi veri e verosimili. Ma, per andare a ritroso, se nell'ultima produzione dickiana (a partire dalla riscrittura del 1975 di A Scanner Darkly fino alla cosiddetta trilogia di Valis, tutta conseguente la formidabile esperienza, o bouffée psicotica, del febbraio-marzo del 1974) tale world of change è l'intero mondo fenomenico, così come esso si offre ai nostri sensi ingannati da un cattivo demiurgo e dai suoi micidiali rappresentanti sulla Terra, e nella precedente fase (quella che trae origine da un lato da The Simulacra, e dall'altro da The Three Stigmata of Palmer Eldritch, apparsi fra il '64 e il '65) le imitazioni spurie delle creazioni della scimmia di Dio, alla base del mondo apparente, sono dichiaratamente in relazione con additivi percettivi (droghe e media elettrici, eliminati i quali riapparirebbe, ma in realtà non appare mai perché è solo una casella vuota, il permanent landscape del mondo reale), più ambigua di sicuro si mostra la relazione dialettica fra questi due mondi nell'opera che si sta analizzando. Per semplificare le cose si potrà dire che la scimmia di Dio, insomma il principio mistificante, che interpola le sue false creazioni nel latente mondo dell'autentico, agisce nell'ultima fase della produzione dickiana direttamente sul mondo fenomenico (vale a dire sui percetti), in quella precedente nella ricezione soggettiva, per quanto socialmente coatta (vale a dire sui percipienti), mentre in The Man in the High Castle (e in Time Out of Joint, ma persino in The Penultimate Truth del 1964) sulla superficie della struttura sociale, un nome di quella che Slavoj Zizek definirebbe una bugia condivisa come legame di gruppo incomparabilmente più efficace della verità (Zizek 1997). Le società descritte in questi romanzi, dunque, risultano chiaramente delle interpolazioni, come metastasi sociali attecchite sul tessuto dell'autentico (perché, occorrerà ripeterlo, l'autentico è un dato, o un presupposto, prefenomenico, e in quanto tale raggiungibile solo come residuo, né più né meno del falso, del processo che crea la verità). In esse si scontrano, socialmente manipolate, le due forze propulsive legate alla lettura mitica (e dunque intima, soggettiva, di ciascuno di noi) del mondo: quella della creazione data una volta per tutte, e dunque principio d'ordine cui semplicemente uniformarsi, e quella portatrice di innovazione, e come tale legata all'atto della creazione nel suo compiersi (e dunque alla permanenza del disordine per cui fortunatamente opera la scimmia). In Time Out of Joint il mondo spurio, il world of change, è collocato paradossalmente negli stessi anni di stesura del romanzo (i tardi anni Cinquanta della fine dell'amministrazione Eisenhower), e il permanent landscape sbalza il tempo nel classico futuro della science fiction (la fine degli anni Novanta), di modo che il mondo due (la guerra del futuro) soppianti il mondo uno (che l'autore arreda, come in un romanzo realista, con elementi del mondo zero). La fantascienza, per Dick, a questa altezza, è la macchina di verità che dichiara falso quel mondo falso che è il mondo reale. In The Man in the High Castle, al contrario, al di sotto del mondo uno (dove l'Asse ha vinto la guerra) traspare direttamente (briga, fibrilla, corrode, e puntualmente schizza via a infilarsi in un'altra piega) il permanent landcape del mondo zero. È lo stesso reale, questa volta, a riflettersi falso nel mondo falso, magari ogni volta riformulando quella che Michel Serres (Serres 1968) considerava non a caso la questione barocca per eccellenza: c'è un centro?

Naturalmente, se il mondo zero e il mondo uno sono immagini speculari, un centro dal quale bipartire il vero dal falso non può esserci. Ecco perché in The Man in the High Castle si assiste piuttosto a una serie di scambi, continui e in qualche modo imbarazzanti, fra il mondo estraneo, cui è affidato il compito di portare un'altra coscienza (e un'altra Storia), e la cultura che gli ha dato vita, fino alla nascita di una vera e propria immagine interiorizzata (Lotman 1985), dove le forze poste in essere nel sociale narrato si bilanciano perfettamente con quelle in opera nel tempo e nel luogo in cui tale romanzo fu scritto.

Nel loro alternarsi, mondo uno e mondo zero si dichiarano allora sottostare l'uno all'altro (recto e verso della stessa superficie, ma collegati dalle facce in ombra che potrebbero tradire, come faranno, a loro volta un'ulteriore sfoglia), incarnando un'idea di contraffazione sociale in qualche modo ai tempi ancora inedita (fatta eccezione per il già citato Catch-22 di Joseph Heller), se si considera che la grande psicosi collettiva del complotto (quella che ripeterà per decenni, prima di zittire, che il sociale delle culture liberiste occidentali nasconde un paesaggio permanente autoritario e fascista), prodottasi nell'immaginario americano con la commissione McCarthy prima e poi con l'assassinio di Kennedy, si sviluppa essenzialmente durante la presidenza Nixon e il conseguente incremento a tutto campo delle attività investigative (e non solo) della CIA. Ci si trova di fronte, dunque, già in questa, come in tutte le altre fasi della dialettica dickiana fra world of change e permanent landscape, al manifestarsi, per dirla sempre con Lotman , di un' emozione culturale particolarmente duratura nei luoghi centrali (cinema, letteratura di consumo, fumetto ecc.) della cultura postbellica, e sulla cui natura si avrà modo di ritornare. Per il momento sarà utile figurarci questa dialettica come il fronteggiamento di due immagini enantiomorfe, dove mondo zero e mondo uno si rispecchiano senza negarsi e senza combaciare, presupponendosi e non riconoscendosi in una sorta di terzo incluso indeterminato. Piuttosto che con una vera e propria logica dialettica, allora, capace di mettere in gioco in termini contraddittori l'elemento dell'omogeneo atto a consentire la loro risoluzione in un'unità, si ha a che fare con una logica della strategia in grado di stabilire le connessioni possibili fra due termini disparati che restano tali (Foucault 2004). Non si tratta, lo si sarà capito, in The Man in the High Castle, di omogeneizzare la contraddizione fra i due mondi; lo scopo di Dick è quello di connettere la loro eterogeneità.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 147

Capitolo terzo

Un oscuro scrutare


Una volta un tizio stette tutto il giorno a frugarsi in testa cercando pidocchi. Certo che l'aveva consultato un medico, con quello che costava, quando il prurito era diventato insopportabile. Il dottore gli aveva guardato fra i capelli, s'era infilato pure i guanti, ma poi non aveva voluto sentire ragioni: pidocchi, lui, non ne aveva. Magari sarebbe stato il caso di farsi un'analisi del sangue. Ma, evidentemente, tanto per cambiare, non aveva capito niente, dal momento che nel giro di pochi giorni avevano preso a scorrazzargli su tutto il corpo, e lo tormentavano. Alla fine i pidocchi erano diventati talmente tanti che se l'era ritrovati persino in bocca, e per quanto avesse cercato di fare attenzione, gli era capitato di ingoiarne. Così gli avevano infestato anche i polmoni. Oltre che l'intera casa. Le frequenti docce di acqua bollente non servivano ad alleviargli gl'indicibili tormenti che per poco tempo. Ma le sofferenze che gli davano le morsicature degl'insetti erano niente in confronto alle pene che provava per Max, il suo cane. Era stato un vero coglione a non liberarsene per tempo, se mai affidandolo a un amico. Oramai era troppo tardi, i parassiti avevano interamente ricoperto quel povero animale. Lo guardava e gli si stringeva il cuore nel vederlo soffrire senza nemmeno un guaito, dal momento che sia le frequenti docce sia le varie bombolette d'insetticida sortivano su Max e su di lui lo stesso effetto, vale a dire nessuno. Essendosi documentato sull'argomento con l'ausilio di qualche buona enciclopedia, Jerry Fabin, il tizio, un fatto perso che quando ancora gli capitava di restare lucido lavorava come meccanico, aveva progressivamente scoperto che non si trattava di pidocchi, no, ma di afidi, anzi per l'esattezza di una specie mutata di afidi che aveva preso ad attaccare l'uomo. "Ma che cazzo è un afide?", gli aveva chiesto un giorno l'amico suo, Charles Freck, mentre lo stava aiutando a catturarne uno bello grosso da mostrare al medico. "Una cosa che alla fine ti uccide", gli aveva risposto. Studiandone il ciclo evolutivo, gli era stato infine chiaro che gli afidi al primo stadio utilizzavano gli esseri umani per propagarsi ovunque. Certo i poveri parassitati, che Jerry preferiva chiamare i "portatori", non erano consapevoli di esserlo, perché le larve degli afidi sulle prime sono senza mandibole, e pertanto all'inizio non pizzicano nemmeno. Uno, insomma, ce li ha addosso, e non li sente. Così finisce che te ne vai a spasso, ignaro, frequenti i soliti amici, vedi gente, ti fai qualche sballo in compagnia, e porti il contagio dappertutto. Anche nel suo caso doveva essere capitato così, e Jerry aveva un paio di sospetti su chi l'avesse infettato. Figli di puttana, pensava. Ma poi si rendeva conto che non erano responsabili, perché quella roba era nell'aria, e quelli che gli avevano attaccato i pidocchi erano stati soltanto i primi a ritrovarseli addosso.

Comunque ci aveva pensato e ripensato, aveva passato in rassegna un bel po' di persone, e alla fine s'era convinto che se proprio qualcuno lo aveva infettato, doveva essere proprio quella pollastrella che pure si sarebbe scopato volentieri, quando ancora gli tirava. Non puoi proprio fidarti più di nessuno, di questi tempi. Ci stiamo fottendo l'uno con l'altro, e nemmeno ce ne rendiamo conto. E così, a volte, se ne restava rinchiuso in casa, seduto in un angolo del soggiorno, a guardare entrare e uscire tutti i suoi amici, e tanti altri tizi che nemmeno conosceva, interamente ricoperti di larve di afidi. Dentro di sé, allora, sentiva allargarsi una specie di ghigno, perché sapeva che quegli individui, che avevano preso ad andare e venire senza un apparente motivo in casa sua, erano usati dai pidocchi, servivano i loro scopi, e ne erano ignari. "Che cazzo hai da sogghignare, Jerry?", gli domandavano quelli. E lui si limitava a sorridere.


"Once a guy stood alt day shaking bugs from his hair": con questo rimartellante tetrametro giambico (perché ogni storiografo espressionista sa di avere a che fare con la materia incandescente, e a fior di labbra, dell' epos), Philip K. Dick cominciava, sollevando il sipario su una tragedia già consumata, e dunque su una metamorfosi che, come quella di Kafka, è esattamente all'opposto di un'allegoria (Deleuze, Guattari 1975), quello che può essere considerato, all'interno di un'opera complessiva che lui stesso si era convinto nel corso del tempo a ritenere una sorta di "meta-romanzo in tanti tomi", il suo lavoro narrativo più dichiaratamente autobiografico. "Io stesso non sono uno dei personaggi di questo romanzo", esplicitava nella saturnina quanto straziante nota conclusiva, "io sono il romanzo" ("I am the novel").

Apparso solo nel 1977, ma scritto in buona sostanza nel '73, e poi rivisto nel '75 (e dunque dopo i fatti "miracolosi" del febbraio-marzo del '74), A Scanner Darkly (Un oscuro scrutare) si situa dunque in qualche modo a cavallo fra quella che potrebbe definirsi la "trilogia nixoniana" (Flow My Tears, the Policeman Said, lo stesso A Scanner Darkly, e la prima e più politica redazione di Valis, il romanzo apparso solo postumo con il titolo di Radio Free Albemuth) e l'ultima fase della produzione dickiana, quella dichiaratamente gnostica (che darà vita per l'appunto alla cosiddetta "trilogia di Valis", ma che si squadernerà soprattutto nel ponderoso memoriale paranoico dell' Exegesis). In tutte queste opere, e con diversi gradi di consapevolezza, la compromissione fra vero e falso, che sostanziava le superfici di mondo variamente meticciate nelle narrazioni del decennio precedente dal reticolo mediale e dai punti di fuga lisergici, viene estesa infine al corpo poroso del reale: è la stessa scena fenomenica nella quale siamo immersi, ripete in questo periodo in più occasioni Dick (nella fiction come nelle sempre più frequentate pagine teoriche o speculative), a essere in buona sostanza una simulazione, l'operato di una divinità inferiore e malevola che interpola false creazioni nel paesaggio permanente, e latente, al quale ancora dovrebbe ricondurci l'autentico ma lontanissimo Dio (sia esso un satellite artificiale di una razza aliena con tanto di emissioni radiofoniche, un'entità inconoscibile che sonnecchia frammentata nel presunto reale in attesa di essere ricomposta o la somma piuttosto di tutti coloro che dovranno risvegliarsi in lui). Nel pieno della sua stagione più disperata, alla fine dell'ennesimo matrimonio, nel mentre l'America di Nixon pareva sul punto di trasformarsi in uno stato di polizia, e la sua stessa casa, sicuramente sorvegliata (come tante altre case di tizi strambi e comunistoidi), diveniva una specie di comune piena di sballati paranoici e litigiosi, Dick scopriva insomma che il mondo zero dal quale nei due decenni precedenti si era spinto a perlustrare altri mondi in parallelo non era altro a sua volta che un mondo contraffatto, un mondo uno, sfuggito magari alle pagine di un pessimo romanzo. E gli parve allora magari di capire, a dare per buone alcune delle più arrovellate pagine di quel poco che si conosce della sua Exegesis, che alla fin fine per lui scrivere (e magari anche "farsi" per scrivere) era stato solo un modo per forare, come l'allampanato don Chisciotte di Orson Welles, quella tela per l'appunto sovrailluminata, acché trasparissero qua e là i raggi di buio dell'inconoscibile reale puro. A lui, e ad altri come lui, Dick se ne andò convincendo quanto più vedeva quelli che gli stavano intorno invecchiare spappolandosi il cervello, e se mai morire a uno a uno, era stato affidato un compito, quello di lottare contro la tirannide, innanzi tutto, ma non per un'impensabile rivoluzione che sostituisse una superficie con un'altra superficie, ma per un fine addirittura più radicale: sbugiardare il mondo. A lui, invece, solo a lui, in quanto "artigiano cosmico" (Deleuze, Guattari 1980), era stata in qualche modo conferita la missione, e la pena, di estrarre dalla miniera della realtà (come del resto tanti artisti del suo secolo si erano riproposti di fare) "un minerale reale duro come il diamante" (Badiou 2005), e riportare alla luce, attraverso una più articolata coscienza di sé, nel delirio di razze e continenti, le "strane memorie di morte" di ogni autentica storiografia espressionista. "Nel marzo del 1974", avrebbe affermato a Metz volendo mettere a giorno sia gli scambi di binari su cui slittano i mondi in qualche modo compossibili, sia il filo di rame che aveva fatto scorrere il senso del suo lavoro addirittura per un quarto di secolo, "ho cominciato a ricordare, e non a livello inconscio, quel tetro mondo-prigione dominato dalla polizia. Nel momento in cui me ne sono ricordato non ho avuto bisogno di scriverne, perché l'avevo già fatto, lo facevo da sempre. (...) Di romanzo in romanzo, di racconto in racconto, per oltre venticinque anni ho a più riprese descritto un particolare e terribile paesaggio alieno. Nel marzo del 1974 ho capito perché, nei miei scritti, ho fatto continuamente ritorno alla consapevolezza, alla rivelazione di quel mondo particolare. Ne avevo ben donde. I miei racconti e romanzi erano, senza che io me ne rendessi conto, autobiografici".

| << |  <  |