Autore Chiara Frugoni
Titolo Uomini e animali del Medioevo
SottotitoloStorie fantastiche e feroci
Edizioneil Mulino, Bologna, 2018 , pag. 388, ill., cop.rig.sov., dim. 18x25x2,5 cm , Isbn 978-88-15-27968-2
LettoreAngela Razzini, 2018
Classe storia dell'arte , storia medievale , scienze naturali , natura , fantasy












 

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Indice


Breve introduzione (se possibile, da non saltare)               7


I.    Primo, dare il nome (Genesi 1 e 2)                       13

    - L'autorità della Bibbia: unicorni, draghi e basilischi.
    - Il doppio racconto della Creazione.
    - Gli animali al servizio dell'uomo.
    - Il problema del peccato originale.
    - Adamo parla, gli animali ascoltano.
    - Dalla parte degli animali: in che lingua parlavano?
    - Dalla parte di Adamo: parlare, ma come?
    - La durata della felicità.
    - Un palchetto immaginario: i libri dedicati agli animali.
    - Le straordinarie abitudini del leone.


II.   Adamo: da nudo a vestito, ma sempre compito e sapiente   53

    - Creatore e uomo creato.
    - Adamo e la scienza infusa.
    - Il tappeto della Creazione di Girona.
    - Un inno alla bellezza del creato.
    - L'Adamo assai garbato di San Gimignano.
    - Il dotto Adamo, ben vestito e calzato.


III.  Animali immaginati e temuti                             103

    - Testimonianze «vere» di animali fantastici.
    - Il racconto di un colto asceta.
    - I grifoni e Alessandro Magno.
    - Temibile e docile: l'unicorno.
    - Animale purificatore.
    - Animale in cerca di purezza.
    - Il desiderio velato.
    - Le due porte della memoria.
    - L'enigma della dama con l'unicorno.
    - Pantera, tigre, leone: inoffensivi, con i dovuti modi.


IV.   Viaggiare sulle carte                                   169

    - Un altrove abitato da creature mostruose.
    - Leggere la Mappa mundi di Ebstorf.
    - Un'enciclopedia figurata.
    - Informazioni preziose per i viandanti.
    - Belve e serpenti.
    - Viaggiare in Asia: incontri pericolosi.
    - Dall'Asia all'Africa, ancora rischi.
    - Il messaggio di Cristo.
    - La Mappa mundi di Hereford.
    - Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto:
      una carta geografica sui generis.


V;    Animali veri e pericolosi                               283

    - Lupi, dalla foresta alla città.
    - Qualche aiuto per vincere la paura.
    - Vari modi per domare l'orso.
    - Cinghiali e maiali assassini.
    - Processi agli animali: colpevoli o innocenti?
    - San Francesco e gli animali.

Note                                                          335

Indice dei nomi                                               381


 

 

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Pagina 7

Breve introduzione (se possibile, da non saltare)


Uno sguardo ai proverbi oggi più frequenti riguardanti gli animali mostra quanto da loro siamo distanti: i modi di dire sovente esprimono disprezzo, mentre di molti ignoriamo il significato. Cominciamo dagli animali di una casa in campagna: polli, oche, cani, gatti, asini e cavalli. Rabbrividire per il freddo o la paura ci fa «venire la pelle d'oca» o ci fa «accapponare la pelle», ma quanti di noi hanno spennato una gallina o un'oca? Le oche non godono di buona fama, sono ritenute distratte e un po' stupide, da qui «andare in oca» o «prendere una papera», scambiando parole e sillabe come il bipede che starnazza.

Non va meglio ai cani, inutile «raddrizzare le gambe ai cani» così come «menare il can per l'aia» (una volta la battitura del grano era fatta sull'aia calpestata dagli zoccoli dei cavalli o degli asini che trascinavano una tavola pesante). Dai cani poi è meglio guardarsi: «Non svegliare il can che dorme» perché potrebbe essere pericoloso stuzzicarlo, ci guarderebbe «in cagnesco», con ostilità. «Lavarsi come un gatto» è lavarsi in modo assai approssimativo, «Lavare la testa all'asino» è tempo perso, e non c'è alcun merito ad «avere la bellezza dell'asino», a essere belli in gioventù, tanto più che questo proverbio deriva dal francese dove «âge», età, è stato storpiato in «âne», asino. Dal repertorio favolistico derivano: «Fare come l'asino di Buridano» (incerto fino alla morte su quale di due identici covoni mangiare) o «Fare come la volpe e l'uva», che non riuscendo a raggiungerla perché troppo in alto, finse fosse ancora acerba.

Se il nostro sguardo si sposta ad un corso d'acqua anche qui i modi di dire hanno un significato negativo: se «Camminiamo come un gambero» non facciamo progressi perché andiamo all'indietro e se «Prendiamo un granchio» (che ha abboccato invece di un pesce, ingannando il pescatore) abbiamo preso un abbaglio. Non parliamo dei rospi, sempre spiacevolissimi sia che si ingoino o che si sputino. I pesci, morti, esprimono la più completa indifferenza («Fare il pesce in barile») e il loro sguardo sempre più appannato a mano a mano che perdono freschezza spiega il detto «Fare l'occhio da pesce morto», o «l'occhio di triglia», inespressivo e languido.

Degli animali che terrorizzavano gli uomini nel Medioevo è rimasto soltanto lo scaramantico: «in bocca al lupo», completato dall'immancabile «crepi», e il «vendere la pelle dell'orso» prima di averlo ucciso, fare cioè conto su qualcosa di cui ancora non si dispone - in effetti era molto difficile cacciare l'orso vittoriosamente.

Nel Medioevo invece gli uomini avevano una relazione molto intensa con gli animali da cui dipendevano quasi totalmente per il nutrimento e per l'aiuto, animali che erano presenti nelle case, nelle stalle, nei recinti, ma anche nelle strade cittadine, oltre che, come minaccia, nelle estese e fitte foreste.

Gli uomini, tutti cristiani, non potevano fare a meno di confrontarsi con l'inizio della Bibbia, quando Adamo per ordine divino diede un nome agli animali stabilendone ruolo e destino affinché gli fossero d'appoggio nel lavoro e sottomessi. Quali animali, anzitutto? Quale era la lingua di Adamo per farsi intendere? E quale scegliere dei due racconti diametralmente opposti del Genesi sulla creazione dell'uomo e della donna? Ci fu un peccato originale?

La Sacra Scrittura parla disinvoltamente di unicorni e di altri animali fantastici come realmente viventi e i santi Padri del deserto, i viaggiatori e i predicatori davano per certa l'esistenza di grifoni e draghi, di ibridi quali i Fauni, i Cinocefali e i Centauri (come considerarli? appartenenti al genere umano e meritevoli di battesimo e di conversione?).

Qualche rara volta si ammettono alcuni comportamenti pressoché umani in animali veri ma lontanissimi, come gli elefanti. L'ignoto compositore della Mappa mundi di Ebstorf, di cui tanto si parla in questo libro, sostiene che questi pachidermi hanno una mente che s'accosta assai a quella degli uomini, posseggono una memoria, osservano il corso degli astri, muovono in gruppo verso i fiumi nelle notti di luna piena, quindi, dopo essersi bagnati nel fiume, salutano il sole nascente con i gesti di cui sono capaci per poi tornare nella foresta.

Miniature, sculture, arazzi e mosaici rimandavano come specchi fedeli le fattezze di animali reali, o immaginari - ma solo per noi -, animali ai quali la Chiesa, accogliendoli all'interno dell'edificio sacro o fra le pagine di libri di preghiera e di testi religiosi, assicurava, in una società del tutto coesa quanto a religione, assoluta credibilità.

Un santo molto deciso come san Bernardo intorno al 1125 protestò però assai vivacemente di fronte al proliferare degli animali rappresentati nei chiostri, in polemica contro i monaci cluniacensi e le loro fastose chiese ed abbazie: a suo dire raffigurazioni che distraevano da quella che avrebbe dovuto essere la severa vita monastica. Tuttavia la precisione e la meticolosità della descrizione testimoniano la fascinazione esercitata dalle immagini anche su chi vi si oppone:

Cosa c'entrano nei chiostri davanti ai religiosi dediti alle sante letture, quei mostri grotteschi, quelle straordinarie bellezze difformi e quelle belle difformità? Che cosa significano qui le scimmie impure, i leoni feroci, i bizzarri centauri, quegli uomini per metà? Cosa significano le tigri maculate, gli armati che combattono, i cacciatori che soffiano nei loro corni? Qui si vedono, una volta, parecchi corpi sotto una sola testa, e poi varie teste sotto un solo corpo. Qui si scorge un quadrupede con la coda di serpente, là un pesce colla testa d'un quadrupede. Qui una bestia è metà cavallo e metà capra, là un animale cornuto si porta dietro il corpo d'un cavallo. La diversità di queste forme appare così variegata e così stupefacente ovunque, che si preferisce leggere nel gran libro dei marmi piuttosto che nei codici e passare la giornata a guardare questo e quello piuttosto che meditare la legge di Dio. Signore mio! Se non si arrossisce di queste assurdità, che almeno ci si vergogni di quel che sono costate!.


Nella vita quotidiana gli uomini del Medioevo, dotati solo di lance e spiedi, di qualche coltello o di qualche spada, erano dominati da ben altro sentimento: la paura. La mitezza degli animali collaborativi e sottomessi, tutti vegetariani, apparteneva al paradiso perduto. Come affrontare anche solo un cinghiale, per non parlare dei lupi che assalivano in branco, o dei feroci orsi, ma anche dei maiali girovaghi che divoravano neonati in culla, lasciati momentaneamente incustoditi, o che aggredivano perfino i sovrani? Per non parlare delle belve esotiche che si sarebbero incontrate senza meno nel caso si fosse intrapeso un viaggio. Come tenere a bada il costante terrore di fronte ai predatori, l'ansia di divenirne preda?

Nei tanti testi che si occupavano di animali, di cui sono minutamente descritte abitudini e reazioni, prodigiose fantasie diventavano un valido espediente per cavarsela, rendendo innocue anche le belve più temibili. E per fortuna esistevano i santi a cui chiedere aiuto, come attestavano i tanti miracoli. Grazie ai santi ci si poteva anche compiacere, provare finalmente un senso di rivalsa nei confronti degli animali carnivori, perché spessissimo i santi trasformavano lupi e orsi in sottomessi servitori.

Provavano affetto per gli animali gli uomini del Medioevo, erano sensibili ai loro bisogni e alle loro sofferenze? La risposta è generalmente negativa. Con una vistosa eccezione, san Francesco, che con il suo atteggiamento, innovativo e originale, resta un riferimento per chi voglia comprendere esigenze ed emozioni di chi non può parlare.

C.F.

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Pagina 46

Le straordinarie abitudini del leone

Gregorio Magno scrive, come abbiamo ricordato, che Cristo «per il vigore della sua forza è risorto come il leone», e aggiunge «Si dice anche che il leone dorma con gli occhi aperti, perché il nostro Redentore perfino nella morte, a cui la sua natura umana ha avuto il potere di assoggettarlo, ha vegliato, rimanendo immortale a causa della sua natura divina», ma il grande papa non spiega da chi abbia attinto tali notizie. Si può precisare che tenne presente un qualche Fisiologo di un manoscritto non pervenutoci ma con un testo simile a quello del Physiologus Latinus: versio Y, che segue molto da vicino l'originale greco. Tale testo latino, che risale al IV-V secolo, dedica al leone il primo capitolo, iniziando con il leoncello di Giuda. Si ricorda che il leone dorme con gli occhi aperti, mentre il puntuale commento recita: «Infatti il mio Signore si è addormentato corporalmente sulla croce, ma la sua natura divina rimane sempre sveglia» («Etenim corporaliter dominus meus obdormivit in cruce, deitas eius semper vigilar».) Il capitolo si conclude con il racconto del leoncello generato morto ma che torna in vita dopo tre giorni ad opera del genitore il quale alita sul figlio, figura di Cristo risorto dopo tre giorni per volere del Padre. Un racconto molto simile è in Isidoro di Siviglia, ma senza alcuna moralizzazione. Per istituire l'associazione con la Passione di Cristo il Physiologus aveva variato un dettaglio: il leoncino non dorme, come dirà Isidoro, ma è morto.

Nel manoscritto già ricordato dell'830 di un Physiologus Latinus tradotto dal greco che per alcuni capitoli riproduce la versio Y, importante per essere il più antico Physiologus illustrato, testo e figure sono unite in un'unica pagina; la prima miniatura mostra il faticosissimo sonno del leone con gli occhi aperti (fig. 17), la seconda (fig. 18), il risoluto richiamo a ritornare in vita rivolto dall'imperioso padre al cucciolo ancora intorpidito; al portento assiste la madre piena di meraviglia.

Anche Giotto, negli affreschi della Cappella Scrovegni a Padova dipinse la storia del leoncino - anzi qui i leoncini sono diventati tre - in una delle piccole scene chiuse entro quadrilobi (cioè entro quattro cornici semicircolari), inseriti ciascuno nelle fasce decorative verticali che hanno il compito di scandire le varie scene della vita di Cristo (fig. 19). L'episodio dei leoncini non poteva essere collocato meglio; infatti è posto fra il Compianto su Cristo morto e il Sepolcro vuoto perché Cristo è resuscitato (con annessa l'apparizione di Cristo alla Maddalena, figg. 20-21).

Nessuno dubitava delle informazioni date da Physiologi e Bestiari. Il cronista fiorentino Giovanni Villani fu molto sconcertato dal fatto che nel 1331 a Firenze, il 25 luglio, festa di san Giacomo, fossero nati due leoncini

del leone e leonessa del Comune, che stavano in istìa [gabbia] incontro a San Pietro Scheraggio; e vivettono, e fecionsi grandi poi; e nacquono vivi e non morti, come dicono gli autori ne' libri della natura delle bestie e noi ne rendiamo testimonianza, che con più altri cittadini gli vidi nascere, e incontanente andare a poppare la leonessa; e fu tenuta grande maraviglia che di qua dal mare nascessono leoni che vivessono, e non si ricorda a' nostri tempi.

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Pagina 87

Il dotto Adamo, ben vestito e calzato


Fino ad ora avevamo sempre incontrato Adamo nella frescura del paradiso terrestre, perfettamente a suo agio nella sua innocente nudità mentre, obbedendo all'ordine divino, imponeva il suo dominio assegnando un nome agli animali. Distinguendoli egli dimostra di conoscerli, di essere dotato di sapienza, un tratto che nelle miniature si traduce in una nuova iconografia.

Bruno d'Asti o di Segni (morto nel 1123) nella sua Expositio in Genesim si rivolge direttamente al progenitore e gli chiede: «Dimmi, Adamo, in che scuole tu hai imparato tutto questo? Chi ti ha insegnato perché tu sapessi imporre alle cose dei nomi così appropriati? Tu, non sei stato affatto creato cieco o stupido come afferma il delirio di qualcuno e non è nemmeno il peccato che ti ha aperto gli occhi; tu sei stato creato perfetto e sapiente ma con la tua superbia hai apportato un grave detrimento alla tua perfezione e alla nostra. Ed è giusto che gli animali prendano il loro nome da quello a cui sono destinati ad obbedire e servire». Per sottolineare il dono della conoscenza in varie miniature Adamo non appare più nudo e nemmeno coperto da una povera e informe tunica di pelle; è invece completamente vestito in un abbigliamento che non esita a copiare quello divino. In altre miniature apparirà invece abbigliato come un uomo dotto e sapiente.

Ad esempio mettiamo a confronto, nel Bestiario conservato ad Aberdeen del 1200 circa, tre miniature, le due raffiguranti Dio che crea gli animali (uccelli e pesci; animali terrestri) e quella di Adamo che impone loro il nome.

Nella prima (fig. 50) Dio, con nimbo crucifero ma senza barba, indossa una tunica blu cangiante e un mantello rosso; con un ampio gesto sembra evocare magicamente la comparsa di grandi uccelli, probabilmente marini e di altri non facilmente identificabili ad eccezione di uno splendido pavone, nonché di tanti pesci - fra cui anguille - che si affollano nel mare sul cui bordo una cicogna sta ingoiando un serpente. Le dita di Dio sono piegate nel gesto della parola. Il testo scritto accanto è il brano di Genesi 1,20-23 che illustra il quinto giorno della creazione.

Nella vicina miniatura di f.2v (fig. 51) il cui testo comprende il solo versetto di Genesi 1,24 relativo alla creazione degli animali di terra, lo schema è analogo.

Dio compie lo stesso gesto della miniatura precedente, però ha cambiato l'abito, forse per sottolineare che si tratta di un altro giorno, il sesto. Indossa una tunica rossa e un mantello blu adorni di piccoli motivi come se fossero fiori. Gli animali sono sistemati in scomparti. Dall'alto in basso, il primo è occupato da un grosso elefante, il secondo fa posto a un gatto, a uno scoiattolo intento a mangiare forse una nocciola o una ghianda e a una lepre. Nella parte inferiore della miniatura, danneggiata, si riconoscono un toro e un leone; più in basso ancora, da sinistra a destra una capra, un cervo e un bovino.

La miniatura di f.5r (fig. 52), non ha alcun testo esplicativo ma completa la sequenza della creazione e offre il necessario collegamento alle storie del Bestiario. Adamo, nonostante che l'episodio del nome imposto agli animali avvenga prima della trasgressione, quando i progenitori erano tranquillamente nudi, indossa il medesimo abito del Creatore anche se i colori sono invertiti, tunica blu e mantello rosso, ma ha mantenuto l'ornamento a «fiorellini». Egli è il ritratto del dotto che ammaestra, spiegando a ciascun rappresentante della fauna i relativi destini, condizioni di vita e ruoli.

Adamo siede su un alto trono - proprio come Dio nel mosaico di Venezia - e quasi si confonderebbe con il Creatore di cui copia non solo tunica e manto ma anche il gesto, se non si distinguesse per due particolari. È privo di aureola e ben calzato: il suo corpo umano ha bisogno di protezione ed è sensibile al freddo; non così Dio, che per sottolineare la sua natura spirituale è sempre a piedi nudi.

Gli animali in vari riquadri sono sistemati secondo la disposizione di Isidoro di Siviglia, Etymologiae, l. XII, I, 1-8. Nel primo in alto sono entrati i felini: leone, pantera e leopardo - potrebbe trattarsi anche di una famiglia di leoni -: temibili, ma lontani. Al di sotto si dispongono i grandi quadrupedi: una coppia di cervi e di cavalli; i primi non sono allevati dall'uomo che però se ne giova cacciandoli con l'indispensabile aiuto dei cavalli, utili anche come bestie da tiro. Il terzo scomparto contiene animali esclusivamente domestici, anch'essi allevati per alimento e per aiuto: una mucca, una capra e una pecora, e un bue, impiegato anche come bestia da tiro e da soma. Sotto il trono di Adamo, una capra volge il capo verso un cane e ancora più in basso da sinistra a destra sfilano un coniglio, due gatti, una pecora, un altro cane e una coppia di maiali. Sono stati cioè raggruppati gli animali che vivono in recinti vicino alla casa dell'uomo o addirittura al suo interno.

Secondo l'impaginatore l'ordine gerarchico va dagli animali esotici a quelli selvatici, fino a quelli allevati e quasi di casa, come gatti e cani. Gli animali si mostrano per lo più in coppia perché hanno ottemperato all'ordine divino di crescere e moltiplicarsi; così facendo potranno costituire presto mandrie e greggi e sostenere veramente l'uomo in un'ottica totalmente antropocentrica.

In un secondo codice forse opera del medesimo artista, un Bestiario dell'inizio del XIII secolo, è ripetuta la sequenza della creazione degli animali da parte di Dio (6r uccelli e animali acquatici, 6v animali terrestri) e di Adamo che impone il nome agli animali (9r).

Anche in questo codice assistiamo al cambio d'abito di Dio, tunica rossa e mantello blu quando crea pesci e uccelli, tunica blu e mantello rosso quando crea gli animali terrestri (fig. 53). L'artista, rispetto al manoscritto di Aberdeen, impiega toni più sobri e pacati: niente «fiorellini» attraenti, nessun entusiasmo nel gesto divino che dal nulla suscita i quadrupedi ma la tranquillità di un misurato eloquio. Gli animali si dispongono in scomparti in file ordinate e tutti di profilo si volgono fidenti a chi ha dato loro la vita, anche lo scoiattolo che non abbandona però la sua nocciola.

Lo stesso discorso quanto a ordine e contegno si può ripetere per la scena di Adamo e gli animali; in trono, il progenitore veste tunica blu e mantello rosso senza ulteriori ornamenti, ed è calzato (fig. 54).

Il suo gesto è però totalmente diverso rispetto alla corrispondente miniatura del codice di Aberdeen. Stringe infatti nella sinistra un lungo cartiglio - elemento che di solito è proprio degli apostoli o dei patriarchi dell'Antico Testamento che trasmettono la parola di Dio - in cui si legge: «Hic dat nomina bestiis Adam». Nella mano destra l'indice è sollevato verso l'alto: è il gesto d'autorità, tipico di chi insegnai. Nicola da Lira, 1270-1349, francescano, celebre per la sua esposizione della Bibbia scrisse: «Dio formò il primo uomo perfetto, non solamente per quanto riguarda il suo corpo, in modo che potesse subito generare, ma anche per quanto riguarda l'anima e il suo spirito di conoscenza, per potere subito insegnare». La scelta degli animali vuole sottolineare da parte di Adamo la sua superiorità assoluta in cielo e in terra: nei primi due riquadri si accalcano vari uccelli insieme ad animali esotici e della foresta: leoni, una lepre, un cervo e un levriero, il cane nobile da caccia, un dromedario. Un cavallo si affaccia appena dalla cornice e prepara l'apparizione di animali più domestici: un grande bovino, un montone, due capre e un maiale. Tutti questi animali sono di profilo e cercano per quanto è possibile di volgersi ad Adamo. Il miniatore però pensava che due animali fossero irrecuperabili: lo scoiattolo intento a sgranocchiare e il gatto che stringe già fra le zampe un topo non guardano Adamo e si volgono il dorso, tutti presi a compiacere la gola. Lo scoiattolo insensibile ai messaggi divini, divoratore insaziabile, gettando un ponte di secoli, trova un compagno nello scoiattolo Scrat, personaggio dei cartoni animati della saga L'era glaciale, imperterrito e maniacale adoratore della sua ghianda, a sua volta insensibile al passaggio della storia e delle ere intorno a lui.

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Pagina 115

Nella cultura ecclesiastica l'avventura assume connotato negativo anche per la frequente connessione di Alessandro con le profezie bibliche che lo riguardano, cosicché le sue gesta vengono recepite su uno sfondo religioso, condizionato per l'appunto dai commenti biblici, convinti di scorgere in Alessandro il precursore dell'Anticristo e di Satana.

Nella Puglia normanna del XII secolo è concentrata la stragrande maggioranza delle rappresentazioni in Italia di Alessandro sui grifoni (mosaici della cattedrale di Otranto, di Trani, di Taranto - mosaico distrutto del 1160 -, capitello della cattedrale di Bitonto). Il grande re esaltato dai bizantini, ma sconfitto nella sua impresa celeste, è qui simbolo delle vittorie dei normanni sui bizantini.

Alessandro volle anche conoscere le profondità del mare e per questo si fece calare in una botte di vetro ancorata con catene ad una barca, come si può vedere in una splendida miniatura (fig. 63). Secondo alcune varianti del Romanzo, l'infedele moglie Rossana lasciò cadere la catena, senza riuscire nell'intento di uccidere il marito. Alessandro aveva portato con sé un gatto perché si credeva che con il suo respiro purificasse l'aria, un gallo perché avvertisse dell'arrivo dell'alba - nonostante, mi permetto di notare, il buio profondo - e un cane, che gli facesse compagnia e anche come necessaria vittima nel caso di qualche incidente. Il sangue del povero cane sparso all'interno della botte di vetro avrebbe costretto il mare a espellere il cadavere, perché, come dice anche l'Apocalisse (20,13), «il mare restituì i morti che erano in esso»; quindi la botte di vetro sarebbe stata gettata sulla spiaggia.

Alessandro vide alberi, animali a quattro zampe pascolare sui fondali, uomini e donne che mangiavano pesci, sirene, battaglie fra uomini con corazza e scudo e la coda di pesce.

Tuttavia la discesa in mare non suscitò la stessa attenzione della scalata al cielo. L'impresa poteva incantare come una favola, ma non suggeriva alcuna riflessione sul rapporto dell'uomo con Dio e non conteneva alcun messaggio politico. I commentatori catalogarono la discesa in mare come un altro esempio di orgoglio, ma ritennero che le profondità marine fossero teologicamente meno provocatorie delle altezze celesti.

Il grifone compare anche, evocato soltanto dalla fantasia dell'artista, in un disegno che illustra il secondo sogno del re Nabucodonosor (Daniele 4,7-30) in una Bibbia della seconda metà dell'XI secolo (fig. 64). Il sovrano racconta di avere visto un grande albero colmo di frutti dove fra i rami trovavano riparo bestie ed uccelli; all'improvviso il tronco veniva abbattuto mettendo in fuga tutti gli animali. Il significato, svelato dal profeta Daniele, riguardava il sovrano, simboleggiato dall'albero, che sarebbe stato cacciato e addirittura costretto a vivere come un animale e a «mangiare erba come i buoi» ma che poi, riconoscendo l'Altissimo come Dio, avrebbe recuperato prosperità e senno. Il disegno illustra l'intero sogno; gli animali sono in connessione coll'albero frondoso, non così il temibile grifone che trascinato dalla fama della sua ferocia se ne distacca (seguito da una bestia piena di aculei e da un orso), avvicinandosi pericolosamente al re che dal letto alza la mano spaventato.

Un raro esempio di grifone e della sua compagna si mostra in una miniatura del 1175 circa che illustra l'arca di Noè (fig. 65): una sorta di casa con il tetto aguzzo dove in ordinatissimi riquadri sono incasellati gli animali rigorosamente in coppia. Noè, oltre al grifone e alla grifonessa, non aveva esitato ad imbarcare draghi di varie fogge, anche con testa umana, nonché una coppia di Pigmei. Poiché il manoscritto è un commento all'Apocalisse, avevano trovato posto nel fondo dell'arca anche due draghi a sette teste che ricordano da vicino il drago a sette teste sconfitto dall'arcangelo Michele (Apocalisse 12,7-9).

Poiché gli artisti cercavano di non dimenticare nessun animale da salvare dal diluvio universale ecco che in una miniatura del 1260-1270 vediamo salire sulla passerella stesa sulle acque già minacciose, insieme ai cavalli, ai leoni e agli elefanti, anche una rarissima coppia di giraffe (fig. 66).

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Temibile e docile: l'unicorno


Un altro animale ferocissimo e imprendibile era l'unicorno, che abbiamo brevemente già incontrato in una tarsia marmorea del duomo di Pisa e fra gli animali radunati davanti ad Adamo. La sua storia è raccontata per primo da Ctesia, un medico greco vissuto nel V secolo a.C.: lo descrive come un asino selvaggio bianco ma con la testa rossa, con un corno di cinquanta centimetri sulla testa, rapido e combattivo, impossibile da catturare e difficilissimo da uccidere.

In questa accezione lo vediamo in una miniatura che rappresenta un episodio del Romanzo di Barlaam e Iosafat, reso famoso dalla Leggenda aurea di Iacopo da Varazze del 1260 circa (fig. 67).

Nel Romanzo si narra di un uomo in fuga da un unicorno che lo vuole divorare; evita a stento un abisso dove l'attende un enorme drago pronto ad inghiottirlo. Per salvarsi si arrampica su un albero la cui radice è erosa costantemente da due ratti, uno bianco e uno nero. Avendo scorto un po' di miele sulla chioma, per il piacere che prova nel gustarlo, dimentica però tutti i pericoli. L'albero rappresenta la vita di ognuno che si raccorcia per il passare delle ore del giorno (il ratto bianco) e della notte (il ratto nero); il drago è la gola dell'inferno, il miele, i piaceri ingannatori di questo mondo e l'unicorno, la morte, che insegue l'uomo senza tregua per ghermirlo.

Il miniatore ha seguito fedelmente il racconto, ha soltanto preferito sostituire il favo con frutti arancioni assai attraenti, mele, probabilmente. L'unicorno sembra un capretto, come del resto viene descritto nei Fisiologi e nei Bestiari, mentre nella sembianza di un cavallo bianco dall'ampia criniera ondulata si mostra per un'innovazione iconografica degli artisti, indipendente dai testi, anche se del capretto furono mantenuti in genere gli zoccoli biforcuti e spesso una corta barbetta sotto il mento.

Un unicorno con abbondante criniera appare insieme al leone in atteggiamento assai aggressivo in una pagina di un Salterio (una raccolta di salmi) dove sono mescolati elementi realistici ed allegorici. In alto si leggono i versetti del salmo 21,18-19: «[I miei crocifissori] mi hanno guardato e squadrato con aria sprezzante; si sono divisi fra loro le mie vesti e si sono giocati a sorte la mia tunica», versetto che Matteo cita nel Vangelo, 27,35 descrivendo la morte di Cristo in croce (fig. 68).

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Pagina 169

Un altrove abitato da creature mostruose


Dove vivevano i tanti animali pericolosi e minacciosi che abbiamo via via incontrato, citati da tanti autorevoli testi? Si incaricavano di mostrarlo le mappae mundi in pergamena in grandi carte geografiche esposte nelle chiese o nei monasteri, oppure in formato ridotto nelle pagine dei codici (o perfino distese in mosaici pavimentali). Permettevano viaggi immaginari; lo spazio rappresentato era riempito da disegni fittissimi di dettagli tratti dal repertorio geografico, storico, religioso e della mitologia pagana; edifici, città, animali e piante erano accompagnati da didascalie. Belve reali e animali immaginari, feroci anch'essi, vivevano soprattutto in Asia e in Africa, luoghi lontanissimi.

Nel Medioevo, pur essendo stato ormai acquisito il concetto del globo sferico, la cartografia continuò a rappresentare la Terra piatta, circondata dall'anello dell'oceano e secondo la tipica schematizzazione a T, la metà superiore del disco terrestre occupata dall'Asia, la metà inferiore divisa fra l'Europa a sinistra e l'Africa a destra, seguendo la descrizione di Isidoro di Siviglia. I due bracci e l'asta verticale della T erano costituiti dal mar Mediterraneo.

Una rappresentazione di questo tipo si vede ad esempio in una miniatura degli inizi del XIII secolo che mostra un medievale Ottaviano Augusto in trono, l'imperatore che promosse vari censimenti nelle terre conquistate dai Romani, fra i quali uno anche al tempo della nascita di Cristo. Tutt'intorno si legge: «Fu promulgato dall'imperatore Augusto un editto che ordinava di rappresentare il mondo intero» (fig. 102).

Più spesso nelle mappae mundi vere e proprie la schematizzazione è «beatina», cioè risente del modello della carta geografica presente in molti manoscritti del Commento all'Apocalisse del Beato di Liebana, carta dove ai tre continenti (Asia, Europa ed Africa), divisi dalla T del mar Mediterraneo, è aggiunto, del tutto convenzionalmente di lato, un «quarto continente» a sé stante, il territorio antipodale, irraggiungibile in quanto posto al di là del torrido anello invalicabile dell'equatore. In una carta del 1086 annessa per l'appunto al Commento all'Apocalisse del Beato di Liébana conservata a Burgo de Osma (fig. 103), un solitario Sciapodo (l'unico ed enorme piede sollevato in alto lo ripara dall'ardore del sole) occupa la parte della Terra «per noi sconosciuta e inabitabile per il torrido sole». Le testine con un rettangolino al di sotto indicano le tombe dove sono seppelliti gli apostoli che nei tre continenti conosciuti diffusero la parola di Dio.

Degli Sciapodi discorreva Plinio: «[Ctesia parla] anche di una razza di uomini, chiamati Monocòli, che hanno una sola gamba e sono di un'agilità straordinaria nel saltare; essi sono chiamati anche Sciapodi, poiché quando la calura è più forte, giacendo a terra supini, si proteggono dal sole all'ombra del piede». Il miniatore del Commento all'Apocalisse ha ritenuto che lo Sciapodo fosse un buon testimone per illustrare la Terra antipodale dove gli uomini penzolavano con la testa in giù, perché Isidoro parla sì degli Antipodi, ma in modo scettico: «All'esistenza dei cosiddetti Antipodi, così chiamati in quanto si pensa che vivano sulla parte della Terra opposta a quella che noi calchiamo - quasi che, posti al di sotto della Terra stessa, lasciassero orme opposte alle nostre - non si deve dare credito alcuno, perché né la compattezza della Terra né la natura della sua parte centrale permettono di ritenere possibile una cosa simile, non confermata oltretutto, dall'esistenza di dato storico alcuno; si tratta solo di ipotesi poetiche nate da pseudoragionamenti».

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Leggere la Mappa mundi di Ebstorf


La gigantesca mappa mundi composta da trenta pelli di capra cucite insieme, ritrovata nel 1830 nell'ex monastero benedettino di Ebstorf, oggi canonicato protestante femminile della Bassa Sassonia, era la più grande mappa mundi giunta fino a noi (3,57 metri di diametro, fig. 123); di un'altra ancora più grande, affrescata, di sei metri di diametro, nella chiesa francese di Saint-Sylvain a Chalivoy-Milon, in Alvernia, del XII secolo, distrutta nel 1885, rimangono soltanto due distinte descrizioni che permettono di ricostruire un legame con la mappa di Ebstorf e con quella che esamineremo più avanti di Hereford.

La mappa di Ebstorf aveva attraversato i secoli ma venne distrutta nei bombardamenti del 1943. Fu però fotografata nel 1888 dopo il suo restauro a Berlino; anche queste foto non sopravvissero; per fortuna prima della loro distruzione vennero riprodotte nel 1891 a metà della grandezza originaria in un atlante in collotipia. Cinque anni più tardi Konrad Miller pubblicò la mappa mundi in litografia, sia in bianco e nero che a colori, basandosi su una copia disegnata a mano. Si susseguirono ancora numerose edizioni di ricostruzione della mappa fino al lavoro di Hartmut Kugler del 2007 che finalmente pubblicò tutti i testi in latino scritti dentro e intorno alla mappa, un minuzioso commento e un atlante completo della mappa stessa. Il riassunto di tante traversie vuole spiegare perché anche in rete siano riprodotte versioni così differenti della medesima mappa.

La critica non è giunta ad una opinione concorde sul suo autore e sulla data della composizione, dividendosi in due blocchi: autore sarebbe l'inglese Gervasio di Tilbury (1150-1220) trasferitosi ad Ebstorf fra il 1223 e il 1234 oppure, e questa è l'opinione più recente, un anonimo che la confezionò intorno al 1300.




Un'enciclopedia figurata


I bordi al di fuori della mappa sono riempiti da testi tratti quasi esclusivamente da Isidoro di Siviglia, che provvedono a dare le informazioni impossibili da collocare all'interno, dato l'affollarsi delle immagini; infatti qui le scritte sono assai brevi e anche quelle più particolareggiate non oltrepassano le poche righe.

Ci imbattiamo in episodi biblici, accompagnati dalla relativa rappresentazione, come ad esempio l'arca di Noè, la torre di Babele, le popolazioni di Gog e Magog citate nell'Apocalisse, Adamo ed Eva tentati dal serpente o soltanto evocati per nome accanto ad un segno simbolico di luogo, come ad esempio Ninive, la città che stava per essere distrutta dall'ira divina. Ma ci sono anche il tragico destino di Sodoma e Gomorra e dei suoi abitanti, o ancora Mambre, dove apparvero tre angeli ad Abramo presso una grande quercia, le tombe dei tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, i miracoli di Mosè davanti al Faraone. Questi eventi della storia sacra sono mescolati alle storie di dèi e semidei pagani come Bacco ed Ercole, alle imprese degli Argonauti, compresa la conquista del vello d'oro, alla storia di Andromeda incatenata e salvata da Perseo. La carta non manca di offrire notizie anche amabilmente curiose; c'è in Scizia una fontana che ha la proprietà di fare mutare sesso: l'uomo che vi entra esce donna.

Monumenti famosi come il labirinto di Cnosso, il colosso di Rodi, le colonne di Ercole e il faro di Alessandria si insinuano fra le rappresentazioni di città antiche e medievali, fra chiese e monasteri (di cui sono ricordati i fondatori e i successori). I viaggi e le imprese di Alessandro Magno hanno uno spazio importante, tutti contenuti nel Romanzo che lo riguarda. Il Macedone incontra e combatte i grifoni, le Amazzoni, i Cinocefali, i Panozi e gli Ippopodi con i piedi di cavallo, gli Ittiofagi che si cibano solo di pesce; chiude dentro una invalicabile muraglia la popolazione antropofaga di Gog e Magog, scende con una specie di barca con finestre di vetro fabbricata dai bravissimi artigiani dell'isola di Mioporen nelle profondità del mare, vince il sovrano persiano Dario e il re indiano Poro, onora il primo con una tomba adeguata al suo rango, e interroga gli alberi del sole e della luna vicino al Paradiso terrestre che gli profetizzano la prossima morte.

Un ruolo molto particolare è svolto dalle tante bestie, in massima parte pericolose, reali o immaginate, delle quali sono ricordati strabilianti abitudini e comportamenti.

Sacre Scritture, mitologia, informazioni relative alla fauna tramandata dai Bestiari e dagli autori antichi, e poi ancora notizie geografiche e della storia degli avvenimenti umani: tutto è fuso insieme nella tavola sinottica del sapere medievale che mescola anche epoche diverse: Adamo ed Eva sono tentati dal serpente mentre la colomba arriva all'arca di Noè solidamente incastrata sul monte Ararat (sezioni 23-24 della fig. 123a) e Cristo al centro della carta sta risorgendo a Gerusalemme (sezione 32, figg. 120-121).

La scansione cronologica è frantumata in momenti compresenti e visivamente simultanei, come se i luoghi fossero stati per sortilegio immobilizzati, ognuno nel proprio tempo. Le carte medievali del mondo costituivano una specie di storia universale migliorata, per la compresenza di immagini e scrittura. Paolino Minorita (1270 circa-1344) in un passo all'inizio della sua Chronologia Magna, accompagnata da una carta geografica, spiega la necessità di una mappa doppia per la compresenza di scrittura e immagine, e non si pensi che possa bastare l'una senza l'altra: l'immagine senza scrittura mostra genericamente province e regni alla rinfusa, ma d'altra parte la scrittura non basterebbe, senza l'aggiunta dell'immagine, a stabilire i confini delle province nelle varie direzioni con tanta precisione che si possono vedere come se fossero davanti agli occhi.




Informazioni preziose per i viandanti


Pur essendo straordinariamente articolata, la mappa mundi di Ebstorf rispetta sostanzialmente lo schema beatino, con il semicerchio superiore dedicato all'Asia, quello inferiore occupato a sinistra dall'Europa e a destra dall'Africa, alla quale è aggiunta una sorta di quarto continente dove è collocata la sfilata delle popolazioni mostruose e irraggiungibili. Al di fuori del cerchio dell'oceano si legge un lungo testo, un prologo, che deve suggerire a chi la osserva come guardarla e comprenderla. Poiché è stato trascritto piuttosto recentemente mi pare utile approfittarne e darne un dettagliato riassunto.

Cominciamo dunque a leggere, partendo da sinistra in alto, proprio come un osservatore medievale.

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E ancora: mentre Asia ed Africa ospitano numerosissimi animali, spesso fantastici e per lo più feroci, l'Europa è priva di fauna, se si eccettuano quattro animali in tutto: nell'Europa settentrionale dove abitano gli Svevi sono raffigurati l'alce e il bisonte (Elles e Urus, sezioni 36-37, fig. 162). Inoltre sono presenti due leoni, ma simbolici: il grande leone di bronzo, fuso nel 1166, voluto da Enrico il Leone a Brunswick (sezione 50, fig. 163), giunto fino a noi, e il disegno di leone che sembra cavalcare sulle mura e sulle torri di Roma, per ricordare la forma originaria della città (fig. 160).

Assenti infine in Europa popolazioni feroci o mostruose. Sono soltanto menzionati (ma non raffigurati!) i Turchi della stirpe di Gog e Magog, sistemati però sulla «Taracontum insula» dell'oceano a sinistra per chi guarda (sezione 36).

Queste differenze fra continenti sono davvero vistose, come si può constatare in uno schematico riassunto visivo (in nero sono gli animali, in rosso le popolazioni temibili e/o mostruose, in blu il Mediterraneo a T, fig. 164).

Perché si sentì la necessità di diversificare í due continenti rispetto all'Europa e di mettere tanto in evidenza in Asia e in Africa bestie feroci e popolazioni pericolose? Io credo che la ragione sia stata di poter giustificare, data la presenza di tanti intrinseci ostacoli, la mancanza di diffusione della religione cristiana nei due continenti e il sostanziale insuccesso dell'opera missionaria di apostoli, evangelisti e santi Padri.

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Ancora sfumature e precisazioni diverse presenta la carta di Hereford in Inghilterra, questa volta di un autore che dichiara il suo nome, Riccardo di Haldingham. È strettamente imparentata alle due precedenti delle quali fa tesoro per concezione e resa visiva. Viene datata all'incirca al 1283, misura 1,58 per 1,33 metri ed è per fortuna conservata (fig. 169).

Un disegno della fine del XVIII secolo ci fa vedere che la carta era un tempo posta sull'altare della cattedrale, incorniciata come un enorme trittico; nelle due ali erano dipinti l'arcangelo Gabriele e Maria Annunciata. Le immagini che incorniciano l' orbis terrarum esplicitano visivamente quello che nelle due mappe precedenti era appena accennato. In alto è rappresentato il Giudizio universale, dai morti risorti al paradiso degli eletti, all'inferno dei dannati. In basso si vede invece, a sinistra, Augusto in versione medievale che affida l'ordine e la lettera con tanto di sigillo ai tre precettati esploratori, Nicodosio, Teodoco e Policlito, ciascuno dei quali si occuperà di un continente. A destra, seguito da un aiutante con un levriere, un cavaliere è in marcia, unito alla misteriosa scritta «pase avant»: se è il motto dell'autore, vorrà suggerire l'esplorazione di Riccardo non solo e non tanto fisica, ma spirituale (fig. 170).

Rispetto alla tradizione cartografica precedente, la novità è data dall'introduzione di fitti dialoghi in latino e in franco-normanno. Davanti al Figlio venuto a giudicare, la Madonna si inginocchia e mostrando il seno invoca pietà: «Ecco, caro figlio il petto in cui vi incarnaste e le mammelle a cui latte di vergine chiedeste; abbiate misericordia, così come voi stesso diceste, di tutti coloro che mi sono stati devoti quando mi avete fatto salvatrice» (fig. 171).

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Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto: una carta geografica sui generis


La mappa mundi nelle chiese non si mostra solo come pala d'altare o affrescata o appesa ad un muro. Il suo disegno può dilatarsi sull'intero pavimento in un discorso che subito fin dal suo ingresso s'impone al fedele.

Purtroppo nessun pavimento medievale è giunto a noi con un programma integro, ma possiamo immaginarlo seguendo ad esempio la descrizione della camera da letto della contessa Adele di Blois in un poema a lei dedicato di Baudri de Bourgueil, vescovo e poeta, morto nel 1130: il soffitto imitava la volta celeste con le costellazioni e lo zodiaco, il pavimento invece la terra, con l'abituale tripartizione dei continenti; intorno alle pareti episodi di storia sacra, le opere della creazione, Adamo ed Eva, la cacciata dal Paradiso terrestre, Caino ed Abele, il diluvio universale, su su fino a Salomone; poi brani mitologici e l'assedio di Troia, episodi di storia romana; infine, intorno al letto, il racconto della battaglia di Hastings. Ma torniamo al pavimento raccontato «quasi fosse un'altra mappa»: il programma rispettava gli elementi tipici delle carte geografiche medievali, perfino le brevi didascalie per interpretare correttamente le immagini. Era illustrata la storia universale dove tutte le conoscenze si incrociavano, sacre e profane, segnate dalla presenza divina, ma dove non mancavano anche i mostri sulla terra e nel mare. Baudri de Bourgueil aveva immaginato che una grande lastra di vetro proteggesse la fragile pittura sul pavimento. Nella realtà la salvaguardia è realizzata dalle tessere del mosaico. Proprio di un grande mosaico, conservato in massima parte, voglio ora parlare perché vedremo che fra le sue fonti ci sono proprio le carte geografiche.

Il vasto mosaico della cattedrale di Otranto occupa, salvo interruzioni dovute a guasti d'epoche diverse, dal Quattrocento al Seicento in particolare, tutto il pavimento della navata centrale (fig. 182) e un terzo delle due laterali.

Nella navata centrale il grande albero, un fico - l'«arbor mala» che nelle miniature può essere scelto per illustrare la genealogia dei Vizi capitali -, dall'ingresso della chiesa protende rami e frutti fino all'altare maggiore. Divide simmetricamente la navata, costringendo subito a percorrere secondo delle direttive precise l'immenso tappeto di pietra brulicante di mille figure. Innumerevoli personaggi contrassegnati da scritte emergono a stento dal viluppo di rami, di foglie, di frutti, di motivi ornamentali e di animali grandi e piccoli, adoperati per lo più come sapienti riempitivi, posizionati per dritto e per traverso, che si offrono contemporaneamente alla vista. Quattro iscrizioni scaglionate fra l'ingresso e l'altare maggiore ci dicono il nome del committente, l'arcivescovo idruntino Gionata (che si compiace per la riuscita dell'opera, il cui valore è andato ben al di là dei mezzi profusi), e il nome del suo programmatore, l'arciprete Pantaleone, le date d'inizio e di fine dei lavori, 1163-1165, al tempo del re normanno Guglielmo il Malo, felicemente regnante.

Il grande albero-guida è sorretto da due elefanti che si volgono il dorso, ma un tempo doveva essercene almeno un altro, cancellato dal restauro del 1872. Un elefantino rizzato sulle zampe posteriori ha trovato posto fra le zampe dell'elefante di sinistra (fig. 183).

Il gruppo è la trasposizione visiva di un episodio tratto dal Physiologus Latinus: versio Y: vi si racconta che gli elefanti, non avendo le articolazioni del ginocchio, se vogliono riposare, devono appoggiarsi ad un albero. Gli indiani, che lo sanno, per catturare l'elefante segano l'albero che trascina con sé nella sua caduta la bestia, incapace di rialzarsi, per quanti sforzi faccia. Neanche i compagni che accorrono ai barriti possono aiutarlo. Ci riuscirà invece solo un piccolo elefante, che messa la proboscide sotto il corpo del pachiderma caduto lo farà risollevare. L'elefantino rappresenta Cristo fattosi volontariamente piccolo pur essendo più grande di tutti, venuto a redimere l'intera umanità. La coppia di elefanti rappresenta Adamo ed Eva; come questi si unirono dopo che Eva, avendo gustato il frutto proibito, aveva persuaso il compagno a fare altrettanto, così i due elefanti, al momento dell'accoppiamento, vanno ad oriente, vicino al paradiso terrestre, dove per poter generare la femmina deve cibarsi dell'albero della mandragora; poi ne dà al maschio e così lo seduce.

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Pagina 262

Dalla base dell'albero due grandi rami si allargano per tutta l'ampiezza della navata, e, risalendo poi ai due lati, delimitano all'incirca un ampio quadrato (fig. 186).

[...]

Al di sopra del leone quadricorpore è rappresentata la costruzione della torre di Babele (fig.189), [...]

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