Copertina
Autore Michela Fusaschi
Titolo Corporalmente corretto
SottotitoloNote di antropologia
EdizioneMeltemi, Roma, 2008, Melusine 71 , pag. 120, cop.fle., dim. 12x19x1,1 cm , Isbn 978-88-8353-615-1
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe antropologia
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


  7 Introduzione
    Tre corpi e un passaporto

 19 Capitolo primo
    Il corpo e le sue tecniche

 29 Capitolo secondo
    Il corpo pensa sempre

 42 Capitolo terzo
    Un proliferare di corpi

 51 Capitolo quarto
    Corporalmente corretti

 63 Capitolo quinto
    Mettere a norma

 78 Capitolo sesto
    Esperire il margine

 93 Capitolo settimo
    Lo spazio dei "fuori luogo"

103 Conclusioni
    Corporalmente corretto, scorretto o ricorretto?

110 Bibliografia


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Introduzione

Tre corpi e un passaporto


La posta in gioco della guerra in corso sono le forme-di-vita, cioè, per l'Impero, la selezione, la gestione e l'attenuazione di queste. L'egemonia dello Spettacolo sullo stato di esplicitazione pubblico dei desideri, il monopolio biopolitico di tutti i saperi-poteri medici, il contenimento di ogni devianza a opera di un esercito sempre più numeroso di psichiatri, istruttori e altri "facilitatori" benevoli, la schedatura estetico-poliziesca di ognuno in base alle sue determinazioni biologiche, la sorveglianza sempre più imperativa, più ravvicinata dei comportamenti, la proscrizione plebiscitaria della "violenza", tutto questo rientra del progetto antropologico, o piuttosto antropotecnico dell'Impero. Si tratta di profilare dei cittadini.

Tiqqun, Elementi per una teoria della Jeune-Fille.


Probabilmente sul corpo è già stato detto tutto, forse troppo, al punto che i corpi viventi e reali, quelli che si incontrano tutti i giorni come risultato delle esperienze di ciascuno, nelle analisi hanno lasciato il posto a corpi ideali, nomadi, ibridi, deterritorializzati, delocalizzati, tecnologici, iper e sur-tecnologici, cyborg, post umani ecc... Malgrado questo moltiplicarsi di lavori, dovuto anche a un certo successo editoriale, a ben guardare fra le righe, non sempre si è prestata la dovuta attenzione

ai diversi modi in cui mondi sociali specifici investono, modellano e ostentano i corpi umani, così come alle pratiche di incorporazione attraverso le quali le strutture sociali sono concretamente interiorizzate dagli agenti che ne prendono parte (Wacquant 2003, p. 181).

D'altro canto, mai come oggi, nelle società del consumo il corpo viene lavorato, accessoriato, celebrato e, apparentemente, liberato da tutte quelle interdizioni morali che impedivano, fino a pochi decenni fa, di disporne per sé. Simmetricamente a tanta liberazione, questo diritto di disporre del proprio corpo, sempre di più, è oggetto di un discorso politico, un "controllo regolatore" di foucaultiana memoria ( Foucault 1975) che, nei fatti, ne determina o meno usi e indirizzi, in relazione alle varie fasi della vita e della morte, dal concepimento alla procreazione fino all'eutanasia.

Quello che si cercherà di proporre attraverso le pagine che seguono è un tentativo di comporre, come in un film, alcuni fotogrammi di un'antropologia del corpo contemporaneo, consapevole della necessità della faticosa "salita" sul terreno e della "ridestinazione sociale" della disciplina antropologica. L'obiettivo è individuare possibili traiettorie di analisi, spunti di riflessione, qualche risposta, ma soprattutto lasciare molte domande aperte. Per cercare di mantenere la barra diritta in un mare talvolta periglioso, dopo aver ripercorso le principali tappe teoriche della costruzione dello sguardo socio-antropologico sul corpo (dalle tecniche all'incorporazione), si tenterà un attraversamento della contemporaneità, recuperando all'analisi tre fotogrammi, che il lettore potrà montare in una sua personale sequenza.

Si è scelto di presentare tre immagini, tre "tipologie" riferibili ad altrettante costruzioni sociali della corporeità; corpi reali ed esistenti di attori sociali, persone, con le quali si interagisce nel quotidiano e attraverso le quali si potranno sperimentare percorsi di lettura che potranno aiutare a cogliere alcuni significati del nostro presente.

I tre fotogrammi in questione, che qui di seguito sono introdotti in una formulazione sintetica, a un primo approccio mostrano un certo grado di eterogeneità, rivelando al loro interno immagini che rinviano a modalità di modifica e trattamento del corpo anche molto diverse tra toro. Al fine di ritrovare un ordine di senso all'interpretazione, si è rintracciato nell'espressione corporalmente corretto, un minimo comune denominatore antropologico che può consentire di cominciare a muoversi fra le pieghe di un tessuto corporeo che insieme si realizza nella contemporaneità e nel testo. Con il termine corporalmente corretto si vogliono definire tanto i processi di modifica e trasformazione, ovvero il modo di trattare il corpo in generale come conseguenza di una scelta del soggetto su e per se stesso (ciò che l'individuo può e/o vuole fare sul e con il suo corpo), quanto la modifica e la trasformazione, vale a dire il trattamento del medesimo in riferimento alle connessioni che intercorrono fra questo e altri corpi, in uno spazio-tempo delimitato da codici e norme, da posizioni di legittimità e autorità, biopolitica e biolegittimità, ovvero tutto ciò che è consentito/non consentito nelle interazioni degli individui con lo Stato rispetto alla gestione della corporeità.


Fotogramma 1: la norma

Giovani e belli, magri e muscolosi, tonici e scattanti: che si tratti dell'uso di creme piuttosto che di macchinari (a casa o nei centri benessere, ad esempio), di tecniche di massaggio quanto piuttosto di chirurgia estetica, sempre di più e per un numero di individui in costante aumento, i corpi sembrano divenuti i luoghi privilegiati di realizzazione dell'idea del "prendersi cura" di sé, un viatico verso l'appagamento di sé e con se stessi, quanto per gli altri.

Su questo terreno nulla a quanto pare è imposto ma, al contrario, tutto diventa possibile per il "benessere", perché, come recita una nota marca "io valgo". Così oggi il corpo appare come unico ancoramento possibile, sogno di liberazione e libertà, "luogo" dove progettare e investire su e per sé. È l'espressione di una volontà, la spinta di un desiderio, la ricerca di un'identità "rifatta", che si vuole giovane e perché no, anche in salute: un corpo che viene rinnovato nelle e dalle sue trasformazioni, magari di pari passo con l'innovazione tecnologica. In questi termini si tratta di un'immagine neo-positivista come affermazione di un feticismo della tecnica su di un corpo in costante divenire e che sarebbe in grado di raggiungere una perfezione, oramai divenuta possibile, verso un'identità rassicurante o, perlomeno, rassicurata. L'illusione dell'accessibilità (puoi se lo vuoi) si sostituisce a un imperativo del dovere di bellezza (devi farlo) modificando il tema stesso della "bellezza per tutti", che da dono della natura è divenuto progressivamente un meccanismo alla portata di tutti e tutte, perché fondato su una comprensione e su una conquista, non più un miraggio, che si reputa davvero raggiungibile (Remaury 2000, pp. 59 sgg.).

Da questo punto di vista si tratta di una vera e propria messa a norma perché la corporeità viene "adattata" o meglio conformata dagli attori sociali secondo modelli socialmente ammessi. In questa direzione tornano attuali le parole di Pierre Bourdieu in un breve saggio sulla percezione sociale del corpo, scritto quasi tre decenni fa:

Per comprendere gli investimenti (nel doppio senso) dei quali il corpo è l'oggetto (basti pensare alle strategie per trasformare il corpo in termini di costi di tempo, di energia e di denaro per avvicinarlo alla conformazione ritenuta legittima, trucco o abbigliamento, dietetica o chirurgia estetica, a renderlo quindi presentabile o rappresentabile) occorre ricordare qualche proposizione che si è fatta dimenticare con la forza dell'evidenza. Il corpo in quanto forma percettibile "che produce, come si dice, un'impressione" (quella che il linguaggio ordinario chiama il fisico o dove entrano allo stesso tempo la conformazione propriamente fisica del corpo e la maniera di portarlo che vi si esprime) è, di tutte le manifestazioni della "persona" quella che si lascia il meno o il meno facilmente modificare, provvisoriamente e soprattutto definitivamente, e allo stesso tempo quella che è ritenuta socialmente più adatta significativamente, perché oltre ad ogni intenzione che significa, l'"essere profondo", la "natura" della "persona" (1977, p. 51, corsivo nostro).


Fotogramma 2: il margine

Come l'altra faccia della stessa medaglia, ecco nel quotidiano e sempre di più liberamente sulla Rete, il mondo delle bodsmods, cioè delle modificazioni o alterazioni del corpo, dei centri tatoo, dei piercings, dei tatuaggi e delle scarificazioni, delle manipolazioni varie, anche estreme (hard), quando giungono sino alle mutilazioni e alle amputazioni volontarie, quelle che nel gergo "tecnico" si definiscono nullifications.

Anche questi sono corpi contemporanei, alcuni si conformano ai nuovi modelli socialmente accettati, e rientreranno nell'analisi di quella che, poco sopra, si è definita nei termini di norma (saranno ricompresi in questa categoria, ad esempio, alcune tipologie piercing divenute accessori comuni: ombelico e narice, ma anche alcuni tatuaggi). Altre modifiche e trattamenti, giustappunto quelli estremi, saranno, invece, approfonditi nell'analisi della tipologia che si chiamerà l' esperienza del margine, in quanto fanno riferimento a corpi di individui che vorrebbero ribellarsi alla società medesima, ostentando, talvolta provocatoriamente la modifica o, spesso, mantenendola segreta, come nei casi delle amputazioni volontarie o di alcune pratiche che coinvolgono gli organi genitali. Riguardo a questi processi di "lavorazione" del corpo la collettività non condanna pienamente le pratiche (anche perché, spesso, non si conoscono pienamente), ma certo le giudica negativamente, talvolta ai limiti della patologia, dal momento che, per i più, queste sono ritenute non solo inutili, ma soprattutto pericolose e dannose per coloro che le mettono in essere e anche per la società medesima.

Ad ogni modo, in questa categoria ci si imbatte con un'idea di corporeità che talora resiste anche all'analisi perché si tratta di una gestione del corpo che considera quest'ultimo come una proprietà assoluta, totalmente disponibile per il suo possessore: "questo è il mio corpo" e "ci faccio quello che voglio". Questi attori sociali attraverso la modificazione anche estrema, cercano paradossalmente un'appartenenza libera dalle altre appartenenze, pensate come omologanti; costoro mettono in scena forme di resistenza o ribellione alle norme sociali che letteralmente prendono corpo per mezzo di una de-ri-costruzione dello stesso, proponendo, un'identità "pubblica" e più spesso, un repertorio "privato" di identità.


Fotogramma 3: i "fuori luogo"

Forse quello che più appare, ed è nei fatti, il più distante dai primi due: è il corpo dei migranti o quelli che, solo, per le società di accoglienza sono "gli immigrati" e questo perché, come ricorda Abdelmalek Sayad (2006a, pp. 137-138)

non esiste immigrazione in un luogo senza che non si abbia avuto un'emigrazione a partire da un altro luogo; non esiste una presenza da qualche parte qui che non sia pagata da un'assenza altrove.

I corpi di questa istantanea sono quelli "vissuti" da persone che mettono in pericolo la propria vita, attraversando il mare su imbarcazioni di fortuna; sono quelli dei rifugiati che tentano il tutto per tutto per mettere al sicuro il proprio corpo e con esso la propria dignità. Corpi e storie di persone che, ai più, restano o si vogliono anonimi, che vivono e si muovono fra altri corpi; uomini e donne alla ricerca di un'occupazione per i quali il concetto di benessere e il prendersi cura di sé, traduce semplicemente la speranza di non ammalarsi per poter lavorare, la possibilità di una qualche rassicurazione se a quel corpo succede qualcosa, magari in un cantiere o in un campo di pomodori. Il corpo dell'immigrato è quello sul quale l'emigrante ha proiettato le sue illusioni, ma che probabilmente neppure esiste per la società di "accoglienza". Così per il senso comune, quell'"involucro" talvolta appartiene a qualcuno che non ha tanta cultura (segni tradizionali come scarificazioni o il modo di vestire, sono percepiti come elementi primordiali, quindi primitivi e da temere); talaltra appartiene a qualcuno che di cultura ne ha radicata addirittura troppa (gli stessi segni vengono letti come elementi di distinzione tradizionale, accomunati a un vago ricordo del "buon selvaggio" dal quale, viceversa, non c'è proprio nulla da temere).

Nella realtà, è il corpo del quale si annulla tutto, a partire dalla storia pregressa, un corpo di pura carne, che non sente e non soffre. Ma quel corpo diventa per l'immigrato uno strumento, il solo strumento, un mero utensile di e da lavoro in termini biologici: esso diviene assolutamente estraneo come corpo sociale ma spesso viene esteticamente definito (ib.). Eppure su quel corpo il disagio si in-scrive, un disagio che forse proprio e solo il corpo può narrare sfidando un incontro molto spesso malinteso, se non addirittura mancato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 29

Capitolo secondo

Il corpo pensa sempre


Ora, io so bene, e non farò nulla per nasconderlo, che in realtà sono andato scoprendo solo poco a poco, anche sul terreno della ricerca, i principi che orientano la mia pratica.

Pierre Bourdieu, Per una teoria della pratica


Negli stessi anni nei quali Marcel Mauss elaborava il concetto di tecniche del corpo, fra il 1928 e il 1936, Margaret Mead e Gregory Bateson a Bali, con un approccio antropologico-visuale molto innovativo, non facendosi tentare dall'impressionismo letterario né tanto meno dallo schematismo analitico, conducevano una ricerca sulle relazioni, non sempre semplici, che intercorrono tra i diversi comportamenti codificati in seno a un medesimo universo culturale. Esaminando minuziosamente i circa venticinquemila fotogrammi derivanti da chilometri di pellicole, i due antropologi americani venivano a dimostrare che quello che comunemente veniva definito come cultura, faceva riferimento a un complesso processo di incorporazione, ovvero di incarnazione sotto la forma di attività motrici considerate in quel contesto piuttosto "banali" come la danza. Questo lavoro si configura come uno dei primi contributi allo studio di una grammatica dell' habitus; grammatica del processo incorporativo che viene appresa nella società balinese in maniera silenziosa e secondo schemi di base precisi: le attitudini corporali dei balinesi venivano direttamente "lavorate" sui corpi o apprese per imitazione, di gesti e di posture, da parte dei bambini più piccoli rispetto a quelli più grandi (Bateson, Mead 1942).

In anni più recenti, sviluppando maggiormente questo lavoro nell'ambito dei processi di apprendimento e degli usi sociali del corpo, Luc Boltanski e più in particolare Pierre Bourdieu, hanno tematizzato e teorizzato la definizione di questo campo di studi attraverso l'articolazione e sistematizzazione generale del concetto di incorporazione proprio nei termini di habitus.

Questo concetto infatti viene associato, quasi esclusivamente, al pensiero e alla pratica socio-antropologica dello studioso francese che riprende la nozione dalla filosofia, ambito nel quale peraltro lui stesso si era formato, per trasferirlo nel campo empirico e fornirgli quindi un'articolazione teorica di grande rilievo.

L' habitus per Bourdieu si fonda su quella che può chiamarsi la memoria incorporata, intesa come risultato dell'interiorizzazione delle condizioni oggettive di socializzazione dell'attore sociale; fa parte di un insieme più ampio di termini che si iscrivono nella tradizione "disposizionalista" di spiegazione dei comportamenti sociali come appunto le disposizioni, le inclinazioni e le propensioni e, per certi versi, anche le abitudini.

Bourdieu reintroduce questa nozione in uno dei suoi primi scritti di antropologia economica, frutto della ricerca condotta sul terreno nella sua regione natale, il Bearn, nel Sud-Ovest della Francia per poi tematizzarne la definizione all'inizio degli anni Settanta, riprendendone la discussione più recentemente in numerosi scritti, con l'obiettivo di mostrare l'esistenza di una connessione tra la cultura del gruppo al quale si appartiene e l'uso che l'individuo fa del proprio corpo.

Gli habitus costituiscono un "sistema di disposizioni durabili e trasferibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come "strutture strutturanti" vale a dire l'insieme di tutte quelle disposizioni che vengono acquisite, letteralmente incorporate dagli individui e attraverso le quali gli stessi organizzano il proprio mondo.

Per Bourdieu "parlare di habitus significa stabilire che l'individuale, il personale, il soggettivo è sociale, collettivo" (1992, p. 93), l' habitus si configura, infatti, come "una soggettività socializzata" (ib.). In questo senso gli attori sociali sono resi in grado di organizzare lo spazio collettivo attraverso una lenta pedagogia non esplicita e sorda di tutte quelle tecniche che si acquisiscono e allo stesso tempo si iscrivono nel corpo dando forma alle sensazioni (hexis corporale). Gli habitus permettono agli attori sociali di conoscere attraverso il corpo e funzionano proprio come quei

principi generatori e organizzatori di pratiche e di rappresentazioni che possono essere oggettivamente adattate al loro scopo senza supporre la visione cosciente dei fini e la padronanza specifica delle operazioni necessarie per raggiungerle (1980, p. 88).

Nei termini di strutture strutturate, in relazione a un contesto sociale, e allo stesso tempo strutture strutturanti, sulla base dell'azione degli individui, gli habitus, intesi come sistemi di disposizioni, ovvero di potenzialità, operano proprio come principi "latenti", che guidano le scelte soggettive di ciascuno; tuttavia a loro volta questi non sono scelti, perché per gli individui non si manifestano esplicitamente come principi strategici delle scelte medesime. Il modo di sedersi, ad esempio, è diverso a seconda del genere e, allo stesso tempo, esprime "delle profonde differenze culturali e rituali, che a loro volta vengono implicitamente incorporate attraverso la socializzazione" (Turner, Wainwright 2002, p. 332). Questo sistema di potenzialità che è l' habitus va pensato, infatti, come una sorta di molla pronta per scattare che, a seconda degli stimoli e dell'ambito sociale, scatta dando vita a pratiche diverse, se non addirittura opposte (Bourdieu 1992, p. 100).

In questo senso ogni persona ha un suo percorso di vita, pertanto non esistendo due storie individuali identiche, altresì non esistono due habitus identici (1980), non solo l'incorporazione delle esperienze sotto forma di habitus non si definisce e si costruisce una volta per tutte, anzi, essa consente al soggetto di muoversi e di interpretare il mondo sociale circostante, lungo tutto il corso della vita. Un ruolo fondamentale per la strutturazione degli habitus viene giocato dalla famiglia (socializzazione primaria) e dalla scuola (socializzazione secondaria).

| << |  <  |