Copertina
Autore Francesco Fusco
CoautoreSergio Luciano
Titolo La febbre del Toro
SottotitoloIl male oscuro della finanza mondiale
EdizioneTullio Pironti, Napoli, 2008 , pag. 210, cop.fle., dim. 14,2x21,1x0,7 cm , Isbn 978-88-7937-419-4
LettorePiergiorgio Siena, 2009
Classe economia finanziaria
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Indice


Introduzione                      5

Capitolo I
Le fate ignoranti                15

Capitolo II
L'uovo del serpente              39

Capitolo III
Dai Chicago Boys agli Zippies    63

Capitolo IV
Bonanza globale                  81

Capitolo V
Dall'analisi ai tarocchi        109

Capitolo VI
L'Italietta apre il salotto     117

Capitolo VII
A bordo del Britannia...        133

Capitolo VIII
Il salame dell'Opa              143

Capitolo IX
La debole Consob                165

Capitolo X
Scippatori e rentier            173

Capitolo XI
Le regole del gioco             195



 

 

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Pagina 5

INTRODUZIONE



            Sarebbe tanto più facile procurarsi di che vivere,
            se non lo impedisse proprio la ricerca di quel denaro,
            che nelle intenzioni di chi lo ha inventato
            avrebbe dovuto servire invece ad agevolare in quello scopo.

                                             THOMAS MORE, Utopia (1516)



Tutti insieme, avidamente, ciecamente, come travolti da un delirio, da una febbre. Tutti insieme verso la ricchezza che può darci la felicità. E talvolta, se la si sa usare, anche il potere. Che spesso vale anche più del possesso di grandi fortune.

È un cammino, anzi una corsa, intrapresa da un numero sempre crescente di persone, sia individualmente, sia come parti di collettività, o come istituzioni. Una corsa sempre più sfrenata, con effetti spesso devastanti, che ha contribuito a mutare gli assetti tradizionali del vivere civile, producendo profonde trasformazioni delle società, sia di quelle più "evolute", sia di quelle che fino a poco tempo fa per ragioni diverse erano ritenute marginali e per le quali vale ancora, ma ormai ingiustamente, la sigla PVS, ovvero Paesi in via di sviluppo.

Secondo la ricerca fatta annualmente da Capgemini per Merrill Lynch, nel mondo esistono 8.7 milioni di HNWI (High Net Worth Individuate), cioè di individui che posseggono globalmente - escluso il valore della loro abitazione - oltre 33.000 miliardi di dollari, circa 3,5 milioni di euro a testa, e di questi oltre 198.000 sarebbero in Italia. Almeno, si può aggiungere. Rispetto al 2004, nel mondo il numero di questi HNWI è cresciuto del 6,5%.

Ma più marcata è stata la crescita degli ultra-HNWI, ossia gli individui con patrimoni finanziari di oltre 30 milioni di dollari, che è stata pari al 10,2 per cento, arrivando così a registrare un totale di 85.400 unità. In generale, la ricchezza individuale nel 2005 è cresciuta a livello mondiale dell'8,5 per cento rispetto al 2004 secondo l'ultimo «World Wealth Report». E la crescita maggiore è avvenuta in quei PVS, una volta Paesi in Via di Sviluppo, che molti ormai individuano come BRIC, acronimo che nasce dalle iniziali dei loro nomi, cioè Brasile, Russia, India e Cina.

Vi è chi avanza l'ipotesi che ormai il mondo occidentale viva nel secolo post-postindustriale, conseguenza ultima (per ora!) di una globalizzazione del cui arrivo non ci siamo resi neppure conto, un fenomeno che, come ha detto in un suo libro il giornalista americano Thomas L. Friedman, ha reso "piatto" il mondo in cui viviamo.

Questa corsa all'oro ne costituisce una delle caratteristiche fondamentali. Un fiume scorre veloce verso la foce, a prescindere dalle nostre considerazioni, indipendentemente da ciò che si può affermare. È un fatto. Ma il suo corso - poiché in questo caso ci occupiamo di una situazione che coinvolge esseri pensanti - può essere influenzato, se adottiamo la tesi del finanziere George Soros sulla divergenza fra la realtà e la sua interpretazione, dal pensiero di chi vi partecipa.

"Crescita" e "ricchezza" sono le parole d'ordine, a tutti i livelli. Appartenere a quella che una volta per tutte Eugenio Scalfari battezzò «Razza Padrona», nelle sue mille incarnazioni - dal nobile «Gran Lombardo» di Vittorini ai «furbetti del quartierino» di Stefano Ricucci - a quella razza che pone il denaro come primo obiettivo da raggiungere, per trasformarlo successivamente in appartenenza e in un sistema di potere è la molla che muove un numero crescente di individui.

Ricordate quando "parlava" l'Avvocato? Gianni Agnelli sentenziava, ed erano in pochi coloro che azzardavano contraddirlo. Molti, anche se non erano d'accordo con lui, mettevano addirittura l'orologio sul polsino della camicia, o la cravatta fuori dal cardigan sotto il doppio petto dai grandi revers a lancia, oltre che citarlo a sproposito.

Richard Conniff, un giornalista etologo, nella sua divertente Storia naturale dei ricchi, fornisce una ironica descrizione del potere che deriva dal denaro osservando, giustamente: «A nessuno importa se un manager di medio livello aggrotta la fronte e cammina avanti e indietro nel tentativo di affermare il proprio status, ma se quel manager è Bill Gates...». Sottolineando così come il tanto denaro - nel caso di Gates nato da una grande storia di successo - possa conferire a chi lo possiede un'influenza sociale molto più profonda di quella derivante dal puro potere d'acquisto che la ricchezza conferisce, trasformandolo ipso facto in opinion leader.

Naturalmente non tutti i ricchi hanno il background del geniale creatore di Microsoft perché - già! - non sempre i ricchi sono geniali. Anzi. Spesso tali grandi disponibilità di mezzi - come vedremo più avanti - non vengono fuori da invenzioni, da realizzazioni, da quella "creazione di valore sociale" che è l'impresa. La febbre dell'oro dei nostri tempi è quasi sempre soltanto "febbre del Toro", una febbre tutta finanziaria, che si alimenta di guadagni speculativi e ne alimenta a sua volta il perpetuarsi, è una derivata del suo derivato, tanto per usare a proposito una parola chiave del momento.

Di questa febbre finanziaria si colgono i sintomi nei fatti e nei simboli. E gli idoli, cioè i "campioni" vincenti di questa febbre, sono coloro che più sfoggiano i relativi simboli: per farsi ammirare ed imitare, il che è tutt'uno col successo materiale conseguito. Come dice appunto Conniff, applicando le sue conoscenze di etologo, «i ricchi possono andare in giro carichi di simboli e di segnali, ma in fin dei conti tutto si riduce al significato del rossissimo sedere delle scimmie: "prestami attenzione"».

Ma sappiamo veramente dove stiamo andando, inseguendo il sedere rosso delle nostre scimmie in gessato grigio? Oppure dobbiamo dare ascolto alla predizione fatta nel 1992 dal pensatore americano di origine giapponese Francis Fukuyama ne la fine della storia e l'ultimo uomo quando afferma «se oggi siamo arrivati ad un punto in cui non si vede in che modo il futuro potrebbe costituire un miglioramento essenziale rispetto al nostro ordinamento attuale, allora dobbiamo anche prendere in considerazione la possibiltà che la stessa Storia sia giunta alla fine"?

[...]

Una sorta di droga culturale si è ormai impadronita del mondo occidentale, e sta propagandosi anche in quei Paesi dell'Oriente lontano, dove da tempo era approdata in Giappone succedendo all'epopea industriale del Sol Levante, e adesso sta contagiando - altro che la Sard - anche contrade fino a pochi anni addietro insospettabilmente immuni, come India e Cina.

Sembra che non ci si accorga che qualcosa di molto importante è avvenuto. Un continuo, rapido, inarrestabile divenire sta mutando non solo i rapporti tra le varie economie spostando altrove, dove i costi sono minori, le produzioni a minor valore aggiunto, ma anche e progressivamente la padronanza di quelle tecnologie che costituivano un elemento di primato del mondo occidentale. Tecnologie che si muovono verso Oriente, complice una sempre maggiore sete di sapere, alimentata da una sorta di rivendicazione di un ruolo precedente, anche se antico di millenni e da millenni come congelato, nonché da masse enormi di cittadini che da soli assommano alla metà degli abitanti del pianeta.

Dall'altra parte, quelli che una volta erano i grandi Paesi "produttori" - di manufatti, ma anche delle idee dietro di essi - hanno rinunciato al ruolo che avevano svolto per secoli e si sono dati al culto delle bottom line, le "ultime righe" del conto economico, quelle che segnano profitti o (non sia mai!) perdite, da presentare ogni trimestre ai loro azionisti. Creare valore per gli azionisti, ovvero: simularlo, creando in realtà puro valore nominale. Distribuire dividendi per alcuni, per altri evitare di investire in ricerca e sviluppo - troppo faticoso - e stimolare invece il muggito del "Toro", un muggito che nasce da se stesso, che non ha bisogno di alcuna "muleta" per sorgere, di nessuna vera crescita economica sottostante per esplodere.

Un allucinogeno, sì. Che continua a imperversare, malgrado i vari pesanti segnali di pericolo ricevuti, quasi che la promessa di questo paradiso artificiale avesse il potere di obliterare dalla coscienza la presenza del pericolo. Eppure la storia delle "catastrofi" degli ultimi quindici anni - per non andare troppo indietro nel tempo - avrebbe dovuto fornire insegnamenti indimenticabili per le ferite profonde che sono riuscite a infliggere.

Ma l'avidità crescente le fa dimenticare. Per dirla con Max Weber, il sociologo tedesco esperto di politica economica, autore nel 1904 dell' Etica protestante e lo spinto del capitalismo, «il denaro, promettendo più o meno vagamente per il futuro, ci ruba per certo il presente». E tanto più il passato.

È come se una "bolla mentale" si fosse impossessata del capitalismo mondiale. Già: non si può più parlare di un capitalismo occidentale, contrapposto a un comunismo orientale. La globalizzazione dei desideri è compiuta: arricchirsi. E passi. Ma è l'arricchirsi con i puri giochi finanziari, ciò che sta scuotendo le fondamenta del sistema.

Secondo Giorgio Lunghini, uno dei pochi economisti dichiaratamente marxisti, il capitalismo mondiale ha dimenticato una semplice lezione: che l'innovazione finanziaria, in sé e per sé, non porta ricchezza aggiuntiva. Quando va bene, conduce ad una "somma zero". Quando va male, fa perdere tanto a tutti: o quasi tutti. In tutte le grandi, celeberrime "prove generali" di crisi finanziaria che si sono susseguite nei secoli dell'era moderna, dalla crisi dei tulipani olandesi al crack della Compagnia del Mississippi di John Law, la "bolla" finanziaria racchiudeva in sé la promessa e l'illusione di una grande ricchezza futura. Ma quando la paura che l'illusione fosse appunto tale divenne realtà, la promessa svanì lasciando il posto al nulla.

Tra le ricchezze inesistenti dei tulipani e le sterminate praterie americane che avrebbero dovuto arricchire i nobili francesi di John Law da una parte e i derivati finanziari di oggi dall'altra, ci sono assai più analogie che differenze. Ma l'intero sistema dei valori delle multinazionali finanziarie (le "big seven" del credito del mondo) e industriali è ormai costruito su queste analogie, misurato in base ad esse, orientato secondo i criteri che esse dettano. Ogni anno, in tutto il mondo, milioni di società fissano budget con obiettivi sempre più aggressivi per chi produce e soprattutto per chi vende, senza quasi mai soffermarsi a riflettere se questa crescita indefinita abbia un senso, o una possibilità concreta di affermarsi, o debba soltanto manifestarsi numericamente, al di là dei valori industriali "sottostanti" che la sostengono.

L'ideologia della crescita a qualunque costo alimenta distorsioni di ogni tipo: truffe vere e proprie, che raramente vengono sventate se non quando hanno già compiuto danni irreparabili. Ma anche e soprattutto continue deformazioni logiche e deontologiche nel comportamento quotidiano degli operatori - soprattutto finanziari - sui mercati: commissioni altissime, ad esempio, vengono elargite a chi colloca prodotti finanziari rischiosissimi come se fossero affidabili; simpatie complici vengono favorite tra gli analisti finanziari, i veri apprendisti stregoni di questa deformazione culturale globale, e i manager della crescita a due cifre, i loro beniamini, che si riflettono nelle loro research come in uno specchio, guardando soltanto a se stessi.

La valutazione del merito, la cosiddetta e tanto ventilata "creazione di valore" da parte di chi gestisce è ormai commisurata più alla performance borsistica dei titoli che a quella economica delle società, o meglio guarda a questa solo in funzione di quella. E la nuova mitologia dei "capi azienda", che conduce alle aberranti esagerazioni su stock-options e liquidazioni sontuose anche a favore di poderosi distruttori di ricchezza, anziché indurre a perplessità e riflessioni autocritiche, alimenta se stessa.

Una febbre, insomma. Il sintomo di una malattia grave. Che non potrà non far sentire i suoi effetti debilitanti sull'organismo dell'economia mondiale.

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CAPITOLO VI
L'ITALIETTA APRE IL SALOTTO



                    L'importanza dei soldi deriva essenzialmente
                    dall'essere un legame tra il presente e il futuro.

                                                   JOHN MAYNARD KEYNES



«L'Italia è un esempio da manuale della degenerazione del capitalismo in un sistema di élite, fatto dalle élite, e per le élite». Lo scrivevano nel 2004 due eminenti economisti, Luigi Zingales e Raghuram G. Rajan - professori alla Graduate School of Business della Chicago University - quando già la tempesta della globalizzazione aveva travolto anche il nostro Paese, nel loro saggio Salvare il capitalismo dai capitalisti. Ma già sessantanni prima Ernesto Rossi, con due titoli come I padroni del vapore e Capitalismo inquinato aveva denunciato i vizi costituzionali di un sistema imperniato, quasi in stile feudale, sull'appartenenza più che sulla competenza. Appartenenza, appunto, ad un'elite coesa e solidale tanto da meritarsi l'etichetta di "potere forte". E da essere identificata con un luogo-simbolo: Mediobanca, l'istituto di credito industriale fondato nel 1946 dal mitico capo della Banca commerciale italiana Raffaele Mattioli e fin da allora gestita da Enrico Cuccia a palazzo Visconti-Ajmi, in via Filodrammatici, a Milano.

Su Mediobanca e su Cuccia è stata scritta una biblioteca di letteratura economica ma forse la sintesi più vera e insieme caustica sull'istituto e il suo creatore è quella che lo stesso, arguto banchiere siciliano, dava di se stesso: «Ho fatto le nozze con i fichi secchi». I fichi secchi, ovvero le carenze strutturali di un capitalismo ipertrofico per le radici rurali del Paese che "miracolosamente" lo aveva visto esplodere in vent'anni, nei decenni Cinquanta e Sessanta. Ovvero, ancora, la pervasiva presenza di un Paese statalista, connotato fin dal dopoguerra dalla presenza del più forte partito comunista filosovietico dell'occidente americanizzato, appunto l'Italia. Una presenza statalista che peraltro era impressa nel dna della stessa Mediobanca, tanto che Cuccia, rispondendo in Parlamento ad un'interrogazione del senatore comunista Napoleone Colajanni, aveva potuto coniare per se stesso un'altra, ancor più famosa definizione: «Sono - per così dire - un centauro: metà uomo e metà cavallo. Scelga lei qual è il pubblico e qual è il privato». E molti anni dopo Colajanni avrebbe sintetizzato così il suo giudizio su Cuccia e sulla sua epopea: «È riuscito a salvare le famiglie e la banca, ma ha smarrito molto spesso le aziende». Capire Cuccia, il suo ruolo nell'evoluzione del capitalismo italiano nel dopoguerra e capire com'è stato colmato il vuoto lasciato dall'uscita di scena del mitico banchiere e dal declino della "sua" Mediobanca è la premessa per capire anche come l'Italia ha vissuto la globalizzazione dei mercati.

Il boom del capitalismo italiano tra gli anni Cinquanta e Ottanta si esprime dunque in un angusto ambito, da una parte lo Stato ubiquitario e interventista e dall'altra poche famiglie di magnati, tutte coordinate da Cuccia nel "salotto" di via Filodrammatici. È indispensabile ricordarsene quando accelerando di trent'anni ci si ritrovi appunto negli Anni Ottanta, a ricostruire il primo, vero "big bang" della finanza italiana, che trasformò questo capitalismo tutto e soltanto elitario in un sistema a due facce: sopra, a comandare e lucrare, i pochi padroni di Mediobanca e "il padrone dei padroni" (definizione di Giancarlo Galli) Enrico Cuccia; sotto, a portare acqua al mulino della Borsa con i fondi comuni ma anche con sempre più frequenti, e spericolati, investimenti diretti, il "parco buoi" dei piccoli risparmiatori. L'Italietta del capitalismo artificiale del Dopoguerra apriva in questo modo un po' falso il suo salotto. Senza riuscire a guarirlo dei suoi mali ma aggiungendo ad essi quelli nuovi, d'importazione, della grande finanza internazionale. Dietro il big-bang degli anni Ottanta ci sono insomma tre decenni durante i quali, prendendo a prestito le parole di Zingales, «le aziende affermate anziché affrontare la concorrenza cercavano di combatterla. Restando intrappolate in una rete di cartelli difensivi e crediti basati sulle conoscenze, rendendo l'intero sistema ottuso, inflessibile, e soprattutto soggetto a shock economici sfavorevoli». Questa era l'Italietta capitalistica che Enrico Cuccia aveva saputo accudire e salvare, ingessandola, tutelando le grandi famiglie proprietarie delle grandi aziende, visto che questo era il solo modo di salvare il salvabile: conservare quanto più possibile di quanto rimaneva dopo la scomparsa dalla scena imprenditoriale - complice la nazionalizzazione soprattutto dell'energia elettrica - delle prime generazioni dei vari Donegani, Volpi, Cini, Marinotti, Gaggia, Pirelli, Orlando, Pesenti, Borletti, Crespi, Parodi Delfino, Marzotto e lo scompaginamento, la trasformazione, o la vendita di aziende che avevano il nome di Edison, Sade, Giga, Centrale, Sme, Gim, Bastogi, Montecatini, Snia, BPD, Italcementi. L'attenzione di Cuccia si era insomma soprattutto rivolta alle famiglie detentrici dei pacchetti azionari delle imprese maggiori, pacchetti azionari che - come soleva dire - valevano non tanto per il numero dei titoli posseduti quanto per il loro "peso". Tra queste, la famiglia Agnelli, dove - dal '67 in avanti - aveva acquisito formalmente il ruolo guida il nipote del Senatore Giovanni, cioè l'Avvocato, Gianni Agnelli.

Per meglio consolidare il sistema, il "suo" sistema, Cuccia aveva voluto nell'azionariato della sua banca, dapprima in funzione di mero supporto e poi, a metà degli anni Ottanta, in funzione di controllo, le stesse famiglie capitalistiche che della banca si servivano, creando un incrocio tra clienti e azionisti che si risolveva nell'assicurare a lui il massimo potere e la massima autonomia sugli azionisti stessi, che in quella posizione sarebbero stati felicemente definiti, molti anni dopo, da Sergio Siglienti (un "cucciano" dissidente) «debitori di riferimento», proprio in quanto assistiti dalla stessa banca nel cui azionariato e nel cui consiglio sedevano. Per costoro dava vita a consorzi emettendo obbligazioni, anche a tassi di favore da far sottoscrivere alle banche sue stesse azioniste.

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CAPITOLO X
SCIPPATORI E RENTIER



                    Ogni volta, quando un mio film ha successo, mi chiedo:
                    come ho fatto a fregarli ancora?

                                                               WOODY ALLEN



I casi Enron e WorldCom

Arrivavano tutti e tre alla Grand Central Station, due dal vicino Connecticut, uno da Long Island. Vestiti di impeccabili abiti scuri, camicie button-down, cravatte regimental. L'immancabile valigeria di cuoio colma di documenti nella destra. Si fermavano per alcuni minuti nel ristorante del Grand Hyatt a consumare una ottima colazione, poi montavano sulla limousine che li attendeva all'ingresso per condurli all'edificio dove al sessantesimo piano della Corporation avrebbero lasciato da parte le facezie che si erano scambiati mentre consumavano "uova benedectine" e bacon annaffiate da succo d'arancia e caffè lasciando i discorsi seri alla loro sala riservata.

In azienda la chiamavano "il covo", per quelle riunioni fatte soltanto per pochi alti dirigenti. Il Ceo, il Cfo e il Coo, in altre parole l'amministratore delegato, il direttore finanziario e il direttore operativo. Isolata, con un'unica porta d'accesso che era impossibile aprire dall'esterno senza che venisse abilitata con un codice, o dall'interno mediante un meccanismo comandato dal posto del Cfo. Posto che stava al vertice del tavolo ovale in palissandro biondo circondato da poltroncine in pelle Connolly facilmente spostabili scorrendo su sfere che ne costituivano l'estremità del sostegno. Per il resto la stanza era completamente disadorna, neppure un quadro alle pareti, e la luce - visto che le doppie tende oscuravano le finestre - era diffusa da un semplicissimo lampadario al centro del soffitto. Un oggetto della Artemide, frutto del design italiano.

Neppure un bloc notes sul tavolo, per evitare che nulla di quanto veniva detto o stabilito in quella stanza potesse lasciare la minima traccia. La stessa giustificazione per l'assenza di qualsiasi altro tipo di arredo, dai quadri alle pareti, a interfono, o pc, o telefono. Anzi la stanza al momento della sua destinazione era stata completamente insonorizzata e schermata, per cui anche i cellulari non avevano campo. Così nessuno dall'esterno avrebbe potuto intercettare quanto veniva detto in quell'ambiente.

Ed era qui che si decidevano le scorribande in borsa o le violazioni delle leggi fiscali o della corporate governance imposte dalla Sec, l'organismo di controllo della Borsa, che da Wall Street sorvegliava la correttezza delle aziende quotate.

Periodicamente a quella stanza avevano accesso alcuni consulenti e i capi della società di revisione con i quali concordare - naturalmente a fronte di importanti contropartite - cosa scrivere nella certificazione annuale del bilancio o nelle relazioni trimestrali da offrire al mercato e agli analisti finanziari, oltre che alle banche che foraggiavano l'attività della compagnia.

Non erano pochi i manager della corporation che si chiedevano cosa accadesse in quella stanza. Ma senza una risposta plausibile. Solo che lì, fra quelle quattro mura, i tre top manager decidevano i destini dell'azienda e anche del loro futuro. Naturalmente ciascuno singolarmente ne vedeva gli effetti, a seconda delle disposizioni che riceveva da uno dei tre boss, ma era difficile collegarli gli uni agli altri, perché talvolta agli occhi degli operativi o non avevano alcun nesso, o addirittura sembrava che andassero in direzioni contrastanti. E i bonus, o le stock-options, servivano a tacitare il loro confabulare, oltre che le loro coscienze.

L'azienda comunque come una brava mucca continuava a stillare latte, che serviva per pagare il mutuo sulla nuova casa, fare qualche speculazione in borsa, alimentare il fondo pensione, acquistare un'auto nuova per la moglie, mandare i figli in una delle migliori high schools o università, e per i più giovani parcheggiare la nuova Porsche Carrera dinanzi alla discoteca alla moda nelle scorribande notturne, in quelle che chiamavano "fishing hours", le ore della pesca, il poco tempo che potevano dedicare al divertimento dopo quattordici ore o più passate prima in ufficio e poi a casa a fare analisi o completare rapporti.

Fino a quando improvvisamente non scoppiava la bomba. E allora erano dolori per tutti, anche per i meno ottimisti. Perché aver fatto parte di una Company andata a gambe all'aria, di chiunque fosse stata la responsabilità, marchiava tutti a fuoco con un segno difficilissimo da cancellare. E soprattutto d'un colpo annullava benefici acquisiti o altri sperati, e talvolta perfino le aspettative di una buona pensione. E la visione del mondo cambiava d'improvviso. Non solo per essi, ma anche per chi aveva investito i propri averi nelle azioni di quell'azienda.

Come quello che è accaduto per esempio dapprima a Enron, poi a WorldCom, e per conseguenza alla Arthur Andersen, la grande società di consulenza e revisione scomparsa in seguito a queste vicende dal mercato.

Enron Corporation era una società con base a Houston, Texas. Prima del fallimento nel dicembre 2001, contava 21.000 dipendenti ed era una delle maggiori società americane nei settori dell'elettricità, gas naturale e comunicazioni. Fatturava secondo i dirigenti 101 miliardi di dollari nel 2000, e la rivista «Fortune» l'aveva definita «La società più innovativa d'America» per sei anni consecutivi. Ma la vera fama arrivò nel dicembre del 2001, quando scoppiò appunto la bomba, con la rivelazione che i suoi bilanci venivano compilati principalmente con frodi contabili compiute a livello istituzionale, sistematici e ben pianificati. Le sue filiali europee chiesero il fallimento nel novembre 2001, trovando protezione il 2 dicembre sotto il famoso articolo, o chapter 11, una disposizione che fornisce alle società americane un riparo dalle esigenze dei creditori. La Enron esiste ancora, è uscita dal fallimento nel novembre 2004 dopo uno dei processi più complessi nella storia giudiziaria degli Stati Uniti.

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