Copertina
Autore Umberto Galimberti
Titolo Il segreto della domanda
SottotitoloIntorno alle cose umane e divine
EdizioneApogeo, Milano, 2008, Pratiche filosofiche , pag. 212, cop.fle., dim. 13,5x21x1,5 cm , Isbn 978-88-503-2717-1
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe sociologia , politica , filosofia , etica , religione
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Indice

Introduzione                                                  1

1.   La ricerca del sacro                                     7

  1. La follia del sacro                                      8
  2. La notte indifferenziata del sacro                      11
  3. Sacralità e bellezza                                    14
  4. Sacralità e mistica                                     17
  5. Dio e il problema del male                              20
  6. Il senso del dolore                                     23
  7. Gesù profeta ebreo o messia universale?                 26
  8. La morte di Dio                                         29

2.   La fede e la ragione                                    33

  9. La fede come rimedio all'insensatezza                   34
 10. L'incompatibilità tra fede e ragione                    37
 11. La fede e i miracoli                                    40
 12. Le metafore teologiche e le figure dell'immaginario     43
 13. Le metafore teologiche sottese alla scienza,
     all'utopia e alla rivoluzione                           46
 14. L'insignificanza del conflitto fra scienza e fede       49
 15. L'uso della ragione come compito etico                  52

3.   La lacerazione dell'etica tra fede cristiana
     e cultura laica                                         55

 16. La morale non discende da Dio                           56
 17. Integralismo e relativismo                              59
 18. L'origine cristiana dell'individualismo                 62
 19. La chiesa, la destra e i tributi da pagare              65
 20. L'aborto e il diritto alla vita                         68
 21. L'eutanasia e il diritto alla buona morte               71
 22. L'impotenza dell'etica nell'età della tecnica           74
 23. L'etica dell'efficienza e il collasso
     della responsabilità                                    77
 24. L'impotenza dell'individuo e il nichilismo passivo      80

4.   Il tramonto della politica nell'età della tecnica       83

 25. La politica non è più il luogo della decisione          84
 26. L'arretratezza strutturale della politica italiana      87
 27. Il tramonto della democrazia                            90
 28. Il nesso strutturale tra mafia e democrazia             93
 29. Il disprezzo dell'elettore                              96
 30. Il primato della retorica sulla politica                99
 31. La subordinazione della politica
     alla rappresentazione televisiva                       102

5.   L'economia e la riduzione del pensiero a calcolo       105

 32. Chi governa l'economia globalizzata?                   106
 33. La rivoluzione impossibile                             109
 34. Il nichilismo sotteso alla cultura del consumo         112
 35. L'inflazione secondo Kant                              115
 36. La ragione calcolante                                  118
 37. Il pensiero infelice                                   121

6.   Il mondo del lavoro nell'età della tecnica
     e dell'economia globalizzata                           125

 38. L'affannosa ricerca del posto di lavoro                126
 39. L'inganno sotteso alle offerte di lavoro               129
 40. L'efficienza della macchina come misura dell'uomo      132
 41. Una rivoluzione possibile: dal lavoro
     come produzione al lavoro come servizio                135

7.   Il profilo basso della scuola tra scarsa istruzione
     e carenze educative                                    139

 42. Il disorientamento degli insegnanti                    140
 43. Gli studenti senza prove e senza giudizi               143
 44. La facilitazione dei percorsi scolastici               146
 45. Il disagio scolastico                                  149
 46. La clinicizzazione del disagio scolastico              152
 47. Il conflitto tra scuola e famiglia                     155
 48. L'analfabetismo dilagante                              158
 49. Gli inconvenienti dell'informatizzazione della scuola  161
 50. Metodi di insegnamento: ritornare a Socrate            164

8.   La crisi della famiglia nella società complessa        167

 51. Origine e senso della famiglia                         168
 52. L'ambivalenza dell'amore materno                       171
 53. La procreazione tra natura e tecnica                   174
 54. Maternità obbligata paternità negata                   177
 55. I figli delle coppie omosessuali                       180
 56. La libertà sessuale della donna                        183
 57. Fedeltà e tradimento                                   186
 58. Tradimento e individuazione                            189
 59. Il fantasma del padre                                  192
 60. Lezioni di addio                                       195

Indice delle opere citate                                   199
Indice degli autori                                         205
Il senso di una collana                                     207

 

 

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Pagina 29

8.
La morte di Dio



[...]

Intorno a Dio c'è poco da dire. Fede e mancanza di fede sono adesioni dell'anima che vengono prima di tutti i ragionamenti e resistono a tutti i ragionamenti. Qualcosa possiamo invece dire intorno alla morte di Dio annunciata da Nietzsche, secondo il quale Dio è morto perché oggi gli uomini vivono e si comportano prescindendo dalla sua esistenza, costruendo un mondo che si lascia comprendere anche senza ricorrere all'idea di Dio.

Non è stato sempre così. Nel medioevo, per esempio, dove la letteratura parlava di inferno, purgatorio e paradiso, dove l'arte era arte sacra, dove persino la donna era donna-angelo, nulla di quella cultura poteva essere compreso se si prescindeva dall'idea di Dio. Quindi Dio esisteva e faceva mondo. Oggi il nostro mondo può benissimo essere compreso senza ricorrere all'idea di Dio, mentre difficilmente sarebbe leggibile senza l'idea di "mercato" o l'idea di "tecnica". Oggi quindi Dio è morto. Intorno al suo nome non accade un mondo, perché il mondo che viviamo non ha bisogno dell'idea di Dio per essere compreso. Altri sono i suoi referenti.

Per questo dico che al di là dell'apparente risveglio religioso, fatto più di effetti mediatici (come si è visto in occasione della morte di Giovanni Paolo II o l'elezione di Benedetto XVI) e di speculazioni politiche (vedi l'appoggio dei movimenti religiosi e ultraconservatori all'elezione di Bush o le continue genuflessioni dei politici italiani davanti al papa), le religioni si stanno avviando inesorabilmente verso la loro estinzione, non per l'inarrestabile processo di secolarizzazione che caratterizza la nostra cultura, e neppure perché con le conquiste della scienza e della tecnica l'uomo può ottenere da sé quel che un tempo implorava da Dio, ma perché l'età della tecnica ha modificato la nostra psiche, abituandola a un tempo contratto che è l'intervallo che intercorre tra i mezzi e i fini.

Un mezzo è un mezzo se adeguato al fine che vuol raggiungere, perché se è inadeguato, non è più un mezzo. Allo stesso modo un fine è un fine, e non un sogno, se i mezzi per conseguirlo sono disponibili oggi e non chissà quando. Questo tempo contratto tra il recente passato e l'immediato futuro, che è il tempo proprio dell'età della tecnica, sopprime, dentro di noi, il tempo escatologico che prevede che, alla fine (del mondo), si realizzi quello che all'inizio era stato annunciato. E siccome la religione si fonda sul tempo escatologico, se questo non ha più riscontro e risonanza nella nostra psiche, la religione muore, perché non più sostenuta da quella dimensione temporale (l'escatologia) di cui si alimenta. Resta il problema del "senso della vita" a cui le religioni offrivano risposte. Perciò l'umanità vaga senza orizzonte, ma senza neppure più la disponibilità di affidarsi a quelle che già Eschilo chiamava "cieche speranze".

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Pagina 34

9.
La fede come rimedio all'insensatezza



[...]

A proposito del rapporto tra fede e ragione è bene mettere in chiaro che la ragione "sa" cosa dice mentre la fede "crede" in quel che dice. E siccome non "credo" che due più due faccia quattro perché lo "so", tra fede e ragione non c'è parentela, né subordinazione gerarchica, come pretendono gli uomini di fede che collocano il loro credere al di sopra del loro sapere. Infatti non posso "credere" in ciò che "so", e non posso "sapere" se è vero ciò in cui "credo". In realtà l'area della fede si riduce man mano che avanza il sapere. Una volta, come ci ricorda Ippocrate, l'epilessia si chiamava "male sacro"; oggi a nessun medico e a nessun paziente verrebbe in mente di attribuire a Dio o agli dèi l'origine di questa malattia.

Eppure, nonostante l'avanzamento del sapere sottragga a Dio numerose attribuzioni, la fede non si esaurisce perché, con gli scenari che dipinge, consente a ciascuno di sperare in un senso che garantisca la nostra vita, la quale spesso ha l'impressione di naufragare in un mare di insensatezza. Per questo la fede si trova sempre coniugata con la speranza. E questo nesso va indagato.

Esso rivela che gli uomini faticano ad accettare la casualità della loro esistenza perché, nascendo, crescendo e innamorandosi di sé, non sopportano di congedarsi da quell'oggetto d'amore che ciascuno, man mano che passa la vita, diventa per se stesso.

Ma la domanda a questo punto è: il fatto che io non accetti che la mia sorte sia simile a quella delle piante o degli animali è sufficiente per affermare l'esistenza di scenari ultraterreni? E questa affermazione non ha come suo effetto pratico quello di tollerare e sopportare in silenzio tutti i dolori e le ingiustizie di questa terra, non essendo questa altro che un esilio, una "valle di lacrime" da cui un giorno saremo liberati?

Ciascuno, ovviamente, è libero di credere in ciò che vuole, ma è bene anche che rifletta se il nocciolo della sua fede non sia altro che il rifiuto dell'insensatezza dell'esistenza. Da parte mia ho sempre avuto il sospetto che la domanda circa il senso della vita uno se la pone sempre e solamente quando si trova in presenza del dolore, della malattia, della morte, di cui il dolore è un'anticipazione e un'avvisaglia, mai in presenza della felicità, sul cui senso nessuno si è mai posto domande.

È dunque a partire dalla non accettazione del dolore e della morte che fede e speranza traggono il loro alimento, e, in questo scenario, Dio e l'aldilà compaiono come rimedio a quest'angoscia. Tutto il resto, tra cui se la vita sia il prodotto di un atto creativo o di un processo evolutivo, sono problemi che vengono dopo, ma molto dopo, a sostegno o a smentita di quel Dio da sempre invocato come rimedio all'angoscia, generata dalla fatica di reperire nella nostra vita un senso che sia soddisfacente e rassicurante.

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Pagina 37

10.
L'incompatibilità tra fede e ragione



[...]

A me non piace la definizione di "ateo" perché ad affibbiarmela sono coloro che credono in Dio e guardano il mondo esclusivamente dal loro punto di vista, dividendolo in quanti credono o non credono. In questa etichettatura c'è tutta la prepotenza del loro schema mentale, che fa della loro fede la discriminante tra gli uomini.

Prima della nascita della ragione, che è cosa recente essendo nata 2500 anni fa con la filosofia (la quale, per distinguersi dalla teologia ha sempre ragionato "come se Dio non fosse"), la religione era un tentativo di reperire dei nessi causali per difendersi dall'imprevedibile e dall'ignoto che ha sempre terrorizzato l'uomo e generato angoscia. Una condizione, spiegano Heidegger e Freud, che, non attutita o ridotta, avrebbe paralizzato l'umanità e impedito la sua evoluzione.

Attribuendo a Dio o agli dèi quanto vi era nel mondo di enigmatico e inspiegabile, le religioni hanno offertoun abbozzo di principio di causalità, che riduce l'angoscia perché consente di visualizzare l'imprevedibile come l'effetto di una causa divina che si poteva controllare o con le preghiere o con i sacrifici.

Con l'avvento della filosofia e poi della scienza lo spazio della religione, come si può constatare in Occidente, si è ridotto, non solo perché col sapere l'uomo può ottenere da sé quel che un tempo era costretto a implorare a un dio, ma perché la mentalità tecnico-scientifica, che conosce solo il tempo progettuale, ha scardinato nella psiche dell'uomo che vive nell'età della tecnica la dimensione del tempo escatologico che alimenta ogni vissuto religioso.

Chiamo "escatologico" quel tempo in cui alla fine (éschaton) si realizza ciò che all'inizio era stato annunciato, per cui il tempo non è più un "ciclo" dove si succedono le stagioni in un'eterna ripetizione, ma diventa "storia", ossia tempo fornito di "senso". Ne consegue che la ricerca di senso appartiene solo a coloro che concepiscono il tempo iscritto in un disegno, che per la religione è un disegno di salvezza.

La tecnica non abita il tempo escatologico, ma quello "progettuale", dove qualcosa appare come un mezzo se c'è in vista uno scopo. E uno scopo è tale, e non è un sogno, se a disposizione ci sono i mezzi per realizzarlo. Ciò determina nella psiche umana una contrazione del tempo tra il recente passato (dove sono reperibili i mezzi) e l'immediato futuro (dove sono in vista gli scopi).

Questa contrazione del tempo, che tutti noi viviamo nell'età della tecnica, non lascia più spazio alla dimensione escatologica in cui è la radice di ogni dimensione religiosa. E siccome la psiche non è immutabile, ma, come ci ricordano Freud e Jung, è "storica" e subisce l'influsso del tempo, nell'età della tecnica la nostra psiche rischia di non disporre più di dimensioni simboliche capaci di ospitare e di abitare dimensioni trascendenti. In questo senso dico che la tecnica corrode anche il trono di Dio. Quanto poi a una ragione senza fede, mi pare che ciò rientri nello statuto della ragione, che, come ci ricorda Kant, è un'isola piccolissima nell'oceano dell'irrazionale. Viste le sue dimensioni, mi conceda di essere tra quelli che si impegnano nella sua difesa.

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Pagina 102

31.
La subordinazione della politica
alla rappresentazione televisiva



[...]

Il pericolo che io vedo non è tanto che la televisione faccia programmi inguardabili, quanto nel fatto che tutti guardano la televisione. E siccome non c'è mondo al di là della sua descrizione, la televisione non è un "mezzo" che rende pubblici dei fatti, ma la pubblicità che concede diventa il "fine" per cui i fatti accadono. L'informazione cessa di essere un "resoconto" per tradursi in una vera e propria "costruzione" dei fatti, e questo non nel senso che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li proponessero, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se i mezzi di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo si comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo.

Non più un mondo di fatti e poi d'informazione, ma un mondo di fatti per l'informazione. Solo il silenzio restituirebbe al mondo la sua genuinità. Ma questo non è più possibile. E così, quello che andava profilandosi sul registro innocente dell'informazione diventa il luogo eminente della costruzione del vero e del falso, non perché mezzi di comunicazione mentono, ma perché nulla viene fatto se non per essere comunicato. Il mondo si risolve nella sua narrazione.

Gli effetti di questo risolvimento sono facilmente intuibili se appena volgiamo l'attenzione a quel gioco dei consensi che siamo soliti chiamare democrazia. Se infatti la realtà del mondo non è più discernibile dal racconto del mondo, il consenso non avviene più sulle cose, ma sulla descrizione delle cose, che ha preso il posto della loro realtà. Nella democrazia tutti possono dire la loro, cioè fare la loro descrizione del mondo. Ed è in questo senso che un tempo i partiti rappresentavano le diverse opinioni della gente, i sindacati rappresentavano i lavoratori, le associazioni industriali gli imprenditori; ora è la televisione a rappresentare tutte queste rappresentazioni; ed è in questa rappresentazione di secondo grado che si descrive il mondo e si costruisce il consenso.

Un consenso che non arriva alle cose, ma si arresta alla loro rappresentazione, in quel gioco di specchi dove il sondaggio dell'opinione pubblica è il sondaggio dell'efficienza persuasiva dei media, che prima creano l'opinione pubblica e poi sondano la loro creazione. A questo punto il "mezzo", il "medium", non è tanto la televisione, ma l'opinione pubblica ridotta a specchio di rifrazione del discorso televisivo in cui si celebra la descrizione del mondo.

In ciò nulla di nuovo. Anche la vita degli antichi o quella dei medioevali era lo specchio di rifrazione in cui si celebrava il discorso mitico o il discorso religioso; la novità è che nelle società antiche, dove si disponeva solo di piazze e di pulpiti, non era possibile raggiungere l'intero sociale, per cui restavano spazi per idee e discorsi differenti, da cui prendeva avvio la novità storica. Oggi questo spazio è praticamente abolito, e la novità storica, se vorrà esprimersi, dovrà prodursi in forme che al momento non si lasciano intravedere.

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Pagina 106

32.
Chi governa l'economia globalizzata?



[...]

Se non disturba, al suo elenco qualche numeretto lo aggiungo anch'io. Il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud) riferisce che il 18 per cento della popolazione mondiale, più o meno 805 milioni di persone, dispone dell'83 per cento del reddito mondiale, mentre l'82 per cento della popolazione mondiale, più o meno 5 miliardi di persone, si spartisce il restante 17 per cento.

Quanto all'uso, all'abuso e alla distruzione delle risorse della terra, i Paesi più ricchi consumano il 70 per cento di energia, il 75 per cento del metallo e l'85 per cento del legno. "L'estrema povertà", riferisce il rapporto Pnud, "potrebbe essere sradicata con una spesa di 80 miliardi di dollari l'anno, cioè meno del patrimonio netto accumulato dalle sette persone più ricche del mondo." E, in effetti, le 10 persone più facoltose del mondo possiedono patrimoni per 133 miliardi di dollari, che equivalgono a una volta e mezzo il reddito nazionale dei 48 Paesi meno fortunati.

Che non tutto, in questo bollettino di disfatta del capitalismo storico a qualche secolo dai suoi inizi, sia addebitabile ai maledetti comunisti e alla loro funzione di freno delle magnifiche sorti progressiste, lo dice anche qualche cifra che riguarda il cortile di casa degli Usa, dove, come è noto, non ci sono comunisti. Ebbene, riferisce il Pnud, negli Stati Uniti l'1 per cento della popolazione possiede il 40 per cento della ricchezza, il 20 per cento un altro 40 per cento, e il 79 per cento il restante 20 per cento. Secondo i dati del Ministero del Lavoro dal 1979 al 1983 il solito quinto più povero ha perso il 17 per cento del reddito che aveva, mentre il quinto più ricco l'ha aumentato del 18 per cento.

È evidente che in una condizione del genere la democrazia non può andare oltre le scelte degli esecutori tecnicamente più capaci nell'applicare i comandi del capitale finanziario che si muove a livello transnazionale, per cui Marx, quando diceva che i governi erano comitati d'affari della grande borghesia, aveva torto, ma solo per difetto. Quello che allora era un cattivo costume, oggi è un sistema, anzi, è il sistema. Per cui se nel mondo antico i debitori insolventi finivano schiavi, nel mondo del capitalismo globale interi Stati vengono costretti a lavorare per conto delle grandi finanziarie e delle grandi imprese.

Dopo aver vinto la guerra dei settant'anni contro il comunismo, il capitalismo comincia così a mostrare il suo vero volto, che non è proprio quello del progresso che aveva scritto sulle sue bandiere. Infatti, se questi dati e queste considerazioni hanno un loro senso e una loro plausibilità, non sembra remoto lo spettro di un'ingloriosa soluzione finale dell'esperimento umano, sia per quanti non hanno di che vivere, sia per i ben pasciuti a cui non si riconosce altra dignità se non quella di funzionari a diversi livelli del capitale.

I cataclismi umani che il Novecento ha metabolizzato nelle guerre mondiali fra le potenze, e nelle guerre coloniali contro le potenze, all'inizio del Nuovo millennio ancora ribollono nelle falde sommerse di una terra regolata dai soli criteri dell'accumulazione infinita e della competizione sfrenata, il cui limite è solo artificio e tregua di guerra, nella più totale assenza di rispetto per uomini e natura.

Essendo il capitalismo diventato globale, e avendo occupato tutti i luoghi della terra, a contrastarlo, secondo Romano Madera, non resta che "utopia", ossia quel "non-luogo" dove si sono rifugiati o sono stati confinati, spinti sia da destra sia da sinistra, personaggi, progetti, idee, proposte, finite nell'unico posto al mondo che accetta tutti i detriti della storia.

Da questo non luogo non possono nascere, oggi, organizzazioni di contrasto, strategie di riscatto o rivoluzioni liberatorie, ma solo una chiamata che viene dal futuro, dalle sorti future della terra e dell'uomo, simile alla chiamata che un giorno mosse Abramo a lasciare la sua casa, la sua terra, il suo popolo, per diventare il padre di una popolazione utopica, all'epoca senza luogo, come senza luogo è già il nostro abitare sulla terra. Infatti l'unica civiltà che si va diffondendo, a scapito di tutte le altre possibili espressioni tradizionali e non, è la civiltà del profitto, che oggi appare come l'unico generatore simbolico dell'ordine che deve regnare sulla terra e della partizione dei ruoli che gli uomini, sia quelli affamati sia quelli sazi, devono rigorosamente assumere per avere diritto di cittadinanza.

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Pagina 158

48.
L'analfabetismo dilagante



[...]

Negli ultimi trent'anni siamo stati traghettati in una fase dove le cose che sappiamo, dalle più elementari alle più complesse, non le dobbiamo necessariamente al fatto di averle "lette" da qualche parte, ma semplicemente di averle "viste" in televisione, al cinema, sullo schermo di un computer, oppure "sentite" dalla viva voce di qualcuno, dalla radio o da un amplificatore inserito nelle nostre orecchie e collegato a un walkman. A questo punto sorgono spontanee le domande: come la trasformazione della strumentazione tecnica modifica il nostro modo di pensare? E ancora: quali forme di sapere stiamo perdendo per effetto di questo cambiamento?

Con l'avvento della scrittura il vedere acquistò un primato rispetto all'udire, ma non lasciò senza cambiamenti la stessa vista che, da visione delle immagini del mondo, dovette imparare a tradurre in significato una sequenza lineare di simboli visivi. Se leggo la parola "cane" la forma grafica della parola e quella fonica non hanno niente a che fare con il cane, e allora la visione dei codici alfabetici comporta un esercizio della mente che la visione per immagini non richiede. Ciò ha comportato un passaggio, ben descritto da Raffaele Simone ne La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, da un'intelligenza "simultanea" a una forma più evoluta che è quella "sequenziale".

L'intelligenza simultanea è caratterizzata dalla capacità di trattare nello stesso tempo più informazioni, senza però essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine. È l'intelligenza che usiamo, per esempio, quando guardiamo un quadro, dove è impossibile dire cosa vada guardato prima e cosa dopo. L'intelligenza sequenziale, che usiamo per leggere, necessita invece di una successione rigorosa e rigida che articola e analizza i codici grafici disposti in linea. Sull'intelligenza sequenziale poggia quasi tutto il patrimonio di conoscenze dell'uomo occidentale. Ma questo tipo di intelligenza, che fino a qualche anno fa sembrava un progresso acquisito e definitivo, oggi sembra entrare in crisi per opera di un ritorno dell'intelligenza simultanea, più consona all'immagine che all'alfabeto.

Non a caso si assiste in tutto il mondo a un arresto dell'alfabetizzazione, che da diversi anni non si schioda da quel 47% di analfabeti, per cui sembra si rovesci quel processo, che sembrava irreversibile, che aveva portato l'uomo dall'intelligenza simultanea a quella sequenziale. Radio, telefono e televisione hanno riportato al primato dell'udito rispetto alla vista, e ricondotto la vista, dalla decodificazione dei segni grafici, alla semplice percezione delle immagini che sugli schermi si susseguono, con una conseguente modificazione dell'intelligenza, la quale, da una forma evoluta, regredisce a una forma più elementare.

Naturalmente "guardare" è più facile che "leggere", e quindi, cari lettori, apprestiamoci a essere sempre più rari e, in questo mondo mediatico, anche un po' strani. L' homo sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di essere soppiantato dall' homo videns, che non è portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini, con conseguente impoverimento del capire, dovuto, come scrive Giovanni Sartori in Homo videns. Televisione e postpensiero, all'incremento del consumo di televisione. E, come è noto, una moltitudine che "non capisce" è il bene più prezioso di cui può disporre chi ha interesse a manipolare le folle.

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