Copertina
Autore Deborah Gambetta
Titolo È tutto a posto
EdizioneAmbiente, Milano, 2011, Verdenero 21 , pag. 218, cop.fle., dim. 13,4x18,4x1,5 cm , Isbn 978-88-96238-70-7
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa italiana , animali domestici , medicina
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Pagina 11

«Maltrattamento animali non significa niente» ha detto Stefano al suo avvocato stamattina. Stava leggendo l'ennesimo articolo sul giornale che parlava del processo e di nuovo si è imbattuto in quelle parole: maltrattamento animali. In realtà, credeva di averlo solo pensato, una cosa dentro la sua testa come spesso gli succede ultimamente e invece l'ha detto ad alta voce: «Maltrattamento animali non significa niente».

«Cosa fai, sei nella merda fino al collo e tu ti attacchi alle parole?» gli ha detto allora il suo avvocato.

E Stefano: «Le parole non significano niente».

Poi ha alzato gli occhi e l'ha guardato. Anche il suo avvocato lo stava guardando. In faccia quell'espressione tra l'incredulo e il confuso che ha messo su da quando l'hanno arrestato e che prima non aveva. Ora lo guarda solo così, lui, come se non ci fosse altro modo, come se per lui fosse diventato davvero impossibile combinare l'immagine di quello che era una volta — ma una volta quando? — con l'immagine di quello che è diventato adesso, dopo l'omicidio. Ma Stefano lo capisce. Perché anche lui fa fatica a combinarle queste due immagini. C'è davvero un prima e un dopo, dentro la sua vita, uno spartiacque preciso. Ma la spaccatura, questo sfregio che a volte accade dentro la vita delle persone e dopo mai più si può tornare indietro non è avvenuto il giorno dell'omicidio, no, è accaduto prima, molto prima.

Il suo avvocato si chiama Aldo, Aldo Venturini. Lui e Stefano si conoscono da trent'anni, fin dai tempi del liceo. Stefano l'ha sempre chiamato Vento però, e anche adesso, ogni tanto, gli capita di chiamarlo ancora così.

Il soprannome Vento glielo aveva dato lui perché una volta, a quindici anni, era volato con il motorino dritto dentro un campo di orzo saltando un fosso in prossimità di una curva. Stefano stava dietro e si era visto tutta la scena: lui faceva la curva e il suo amico invece dritto filato dentro il campo. Andava proprio come il vento, quel giorno, un volo di cinque sei metri bello stagliato in alto sulla linea di confine tra le spighe e il cielo e allora ecco che, Venturini – Vento, quel soprannome lì gli era rimasto da allora. Ma adesso, quando gli viene di chiamarlo ancora così, vede l'arco delle sopracciglia del suo amico contrarsi, i lineamenti del volto indurirsi e allora si dice che forse no, quel soprannome lì che gli aveva dato lui da ragazzini e che gli era rimasto appiccicato addosso per quasi trent'anni, forse è davvero il caso che non lo usi più, ché forse così amici non lo sono poi più così tanto.


«Le parole non significano niente» gli ha detto quindi. E Vento lo guardava. Erano nel parlatorio, lui seduto al tavolo con il giornale aperto davanti e l'altro già quasi sulla porta. Era vestito tutto elegante, Vento, in completo grigio scuro, cravatta a righine blu e l'orlo dei pantaloni che gli cadeva preciso sulla scarpa. Un abito da almeno millecinquecento euro forse, se non di più. Lo vedi dai dettagli, dalla compattezza della stoffa, dalla perfezione delle cuciture, dal modo in cui gli scivola morbido attorno alle forme del corpo. Anche lui prima andava vestito così. Con quella ricercatezza, quell'attenzione. I soldi sono fatti per essere spesi, e per riempire un vuoto, e più soldi hai più quel vuoto puoi provare a riempirlo. Ma che importa ora? Il pensiero che ha dentro la testa, adesso, è di ben altra natura, prende il sopravvento, non lo può più fermare.


«Le parole non significano niente» gli ha detto allora. Certe parole, almeno. Comunque di sicuro quelle che più di tutte dovrebbero dare la definizione esatta di una cosa. «Pensaci» gli ha detto. «Le parole che più dovrebbero fare paura, quelle che più di tutte dovrebbero evocare torti, sopraffazioni, abusi e violenze ti rendi conto che invece di paura non ne fanno per niente. Anche le parole torto, sopraffazione e abuso non fanno affatto paura se ci pensi bene. Dicono tutto e niente, e sempre la sensazione che dentro manchi comunque qualcosa. Perché se ti dico maltrattamento a te cos'è la prima cosa che ti viene in mente? Le botte? I calci? I pugni? Le bastonate? È inutile che fai finta di non ascoltarmi, che ti giri dall'altra parte e sbuffi, tanto lo sai benissimo anche tu che quando uno dice maltrattamento la prima cosa che viene in mente è proprio la violenza agita, quella diretta. Sì, certo, prendere a calci qualcuno, picchiarlo, è maltrattamento, ovvio. Ma lo è anche rinchiuderlo in una gabbia, lo è anche segregarlo in un buco e poi farlo morire di fame, di sete, di caldo, di freddo o di malattia. Lo è privarlo della libertà, ecco. Perché io posso prendere una persona, chiuderla in una stanza e non torcergli nemmeno un capello. La lascio semplicemente lì, magari al buio, in una stanzetta piccola piccola dove a malapena ci si può muovere. E poi aspetto. Non faccio altro. Aspetto e basta. Che muoia. Di fame, di sete, di caldo, di freddo, di malattia. O che impazzisca, chissà. Non le faccio nient'altro, lo giuro, non la tocco. Non le parlo neanche se vuoi. Ecco, non lo diresti anche tu che quella persona la sto comunque maltrattando?»


Sì, lo so. È che succede sempre così, con le parole. Dovrebbero dire l'esatto e invece si lasciano sempre indietro un pezzetto di verità.


Lui. Il suo avvocato. Vento. Il suo amico da trent'anni. Lui che adesso lo guarda come se non lo riconoscesse più e che quando l'hanno arrestato gli ha detto io il culo sarà fatica che riesca a salvartelo.

Ma io non voglio che mi salvi il culo, gli aveva risposto Stefano. Non m'importa niente del mio culo. Almeno questa storia è finita. Quello che voglio è solo che la gente si renda conto, che sappia. Almeno questa storia è finita? Che la gente si renda conto? Aveva detto Vento – quasi urlato a dire la verità – ma ti rendi conto tu, di cosa stai dicendo? Poi si era passato una mano sul volto, aveva sospirato, e si era ricomposto. Si era seduto di fronte a lui e gli aveva parlato, serio.

Stefano, ascoltami, ti parlo da amico. Le accuse a tuo carico, anzi a vostro carico, sono molto gravi. Maltrattamento, frode in commercio, truffa, associazione a delinquere. E omicidio, almeno per te. E con tutta probabilità sarai anche radiato dall'albo. Di come ti ci sei infilato dentro a questa storia e le motivazioni che ti avrebbero – e sottolineo avrebbero – portato a uscirne, quella tua sorta di conversione sulla via di Damasco, di tutto questo non gliene fregherà niente a nessuno. Ci sono i fatti, e c'è la legge. E in base ai fatti, e alla legge, tu sei a tutti gli effetti un criminale. Ti sei rovinato, Stefano, ecco cos'hai fatto. Te, la tua carriera, la tua vita e hai trascinato in questa rovina anche la tua famiglia. Ma non ci hai pensato a tua moglie? Con tutto quello che già avevate dovuto sopportare...


Con tutto quello che già avevano dovuto sopportare. Ma che ne sapeva, lui, Vento? Che ne sapevano tutti, tutti gli altri, anche se erano amici, di quello che lui aveva dovuto davvero sopportare? Il dolore è un fatto personale e non conosce misura, caro Vento, quindi ora piantala, falla finita. Bla bla bla, avrebbe voluto rispondergli. Bla bla bla. Come succedeva prima, prima di tutto, una vita così indietro nel tempo che forse non era nemmeno mai esistita, prima, che quando non si trovavano d'accordo su qualche argomento per troncare il discorso uno dei due sollevava le mani e faceva bla bla bla, come i bambini. Ma sarebbe stata un'inutile provocazione, una cosa senza senso. Una cosa idiota.


«Vento, te forse non hai capito. Fare fuori quel bastardo è stata l'unica cosa giusta che ho fatto nella mia vita.»

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Mi sono riletto le cose che ti ho scritto e non assomigliano per niente alle cose che volevo dirti. Non sono bravo a scrivere, il tempo stringe il cerchio attorno a me e questa fretta che mi sento addosso mi fa scappare i pensieri e le parole da tutte le parti. La sera del 17 marzo 1990. Io non lo so se quella sera per me, ragazzo di buona famiglia e studente di Veterinaria con il massimo dei voti, è stata una specie di gioco oppure no, quello che so però è che dopo niente è più stato lo stesso. Stefano, a partire da quella notte e per tutto il resto della mia vita io ho fatto solo questo: ho liberato bestie. Ho girato mezzo mondo tra l'Europa e l'America, sono stato diversi anni negli Stati Uniti, sono andato e venuto dall'Italia così tante volte che ho perso il conto. Mi sono mantenuto facendo decine di lavori precari, dal postino al cameriere fino al magazziniere e il muratore e non mi sono mai sposato né ho fatto figli. Per vent'anni, al di là di campagne e picchetti, tutto quello che ho fatto è stato entrare di nascosto di notte nei laboratori vivisettori, negli stabulari, negli allevamenti con la faccia nascosta dentro un passamontagna come un ladro. Ogni azione dell'ALF, in qualsiasi angolo del pianeta, è documentata, ci sono comunicati e materiale video che puoi trovare su internet, è tutto lì, sotto gli occhi della gente, basta avere solo il coraggio di tenerli aperti, gli occhi. Poi di nuovo qualcosa è cambiato. Quello che facevo ancora non mi pareva abbastanza e così nel 1996, mentre vivevo negli Stati Uniti, mi sono fatto assumere come tecnico di supporto alla Huntingdon Life Sciences del New Jersey. Là dentro ci ho lavorato per otto mesi, otto mesi lunghi come una vita all'inferno, filmando e registrando tutto per quanto mi fosse possibile. Otto mesi in cui ogni sera tornavo a casa, mi buttavo sul letto e speravo di precipitare in un sonno così profondo da non svegliarmi mai più. Non esagero se ti dico che avevo gli incubi e che quegli incubi continuano ancora a perseguitarmi. La Huntingdon Life Sciences, se non lo sai, te lo dico io cos'è: è il più grande laboratorio privato di sperimentazione animale nel mondo. È specializzata nel settore dei test pre-clinici – i test eseguiti sugli animali – e a loro si rivolgono le più grandi aziende per testare i propri prodotti, dai farmaci ai pesticidi, passando per i prodotti chimici industriali fino a quelli alimentari. Oggi la HLS ha quattro sedi, due in Inghilterra, una in Giappone e quella appunto del New Jersey. Ogni anno conduce test su 75.000 animali. Là dove ho lavorato io c'erano tra i 6.000 e i 10.000 animali, tra cui scimmie, cani beagles, maiali, ratti, topi, conigli, porcellini d'India e a volte anche furetti, polli e gatti. Il mio lavoro come tecnico di supporto prevedeva mansioni di stabularista. Mi prendevo cura di cani, ratti, topi, e scimmie – o almeno tenevo le loro gabbie pulite. Se mi fossi veramente preso cura di loro non avrei visto così tante sofferenze e morti inutili. Non continuerei a vedere le loro facce nei miei sogni. Oltre a pulire le gabbie, immobilizzavo gli animali durante la somministrazione di sostanze tossiche di ogni genere. Strofinavo via il sangue dal pavimento dopo che dipendenti incapaci e scarsamente preparati avevano effettuato inutili interventi chirurgici. Quando le sostanze chimiche venivano iniettate negli animali – nei loro nasi, bocche, pelle, vene, stomaci e polmoni – io registravo gli effetti e mi preoccupavo della loro sofferenza mentre altri alzavano le spalle e se ne andavano. Ho imparato quanto i prodotti per la pulizia della casa, i medicinali di poco conto che si ottengono senza ricetta medica e che sono già disponibili a dozzine, i prodotti agricoli e le 'cure miracolose' fanno soffrire e morire gli animali. Un giorno, quando ho chiesto a un collaboratore quale fosse il senso degli esperimenti, mi è stato risposto: "Solo perché una medicina ha un effetto su un cane non vuol dire che avrà lo stesso effetto su un essere umano": Mi è anche stato detto: "Lo scopo degli esperimenti non è proteggere gli esseri umani, ma quello di ottenere che il committente (la ditta che paga gli esperimenti) porti altro lavoro al laboratorio. Il modo di garantire che il committente ci affidi nuovamente del lavoro è ottenere che il suo prodotto venga immesso sul mercato". Ogni giorno che lavoravo, tenevo in braccio beagles rannicchiati e sentivo il loro naso umido sul mio collo. Li vedevo lottare per cercare di far uscire le zampe fuori dalla gabbia di acciaio di 90 per 90 centimetri nella quale erano chiusi a chiave. Ho visto i miei colleghi picchiarli, urlargli contro, farli oscillare per aria tenendoli per la collottola quando dovevano spostarli. Venivo continuamente rimproverato perché li prendevo con cura e li tenevo stretti quando li portavo dalla piccola gabbia dove passavano le giornate alla gabbia di ricreazione (una gabbia più grande dove i cani dovevano essere messi per dieci minuti diverse volte alla settimana, ma questo avveniva di rado). Quando vedo un beagle che corre su un prato non posso non pensare a quelli a cui ho voluto più bene. Vedo i loro musi tristi quando chiudo gli occhi. Mi domando come sarebbero Patatina, Joey, il Maggiore ed Ellie se potessero correre nell'erba ed essere abbracciati e amati invece che essere immobilizzati e torturati. Quando vedo un beagle rotolarsi sulla schiena nell'erba, l'immagine che non riesce a uscirmi dalla mente è quella di un beagle femmina nella sala necroscopica che gettava all'indietro la testa e gridava mentre un coltello le incideva la gola. Ho visto ratti che non riuscivano più a usare le zampe posteriori perché la sostanza sperimentale che gli veniva iniettata rendeva il sangue talmente denso da non riuscire più a raggiungere le estremità e loro rimanevano lì paralizzati a trascinarsi sul ventre. Li ho visti urinare sangue e poi morire perché i loro reni erano completamente distrutti. Ho visto cani cui venivano fratturate le ossa delle zampe al solo scopo di poter testare un prodotto sperimentale che avrebbe dovuto accelerare la guarigione delle fratture. Ho visto cani trattati con l'Eritropoietina tremare e contorcersi per la durata di venti minuti – venti minuti, Stefano – convulsioni così violente da farli sbattere con tutto il corpo contro le sbarre della gabbia. Ho visto ratti cui dovevano essergli praticati tatuaggi sulla coda che nel momento in cui l'ago gli toccava la carne prendevano a dimenarsi e a graffiare impazziti le pareti del vaso di vetro dentro il quale erano rinchiusi. Ho visto scimmie sdraiate agonizzanti dentro le gabbie, incapaci di respirare, con gli occhi sbarrati, vuoti e senza luce dopo iniezioni di Bo-Tox. Ho visto cani e scimmie ormai resi folli dalla solitudine, dal dolore e dalle torture girare forsennatamente in tondo dentro le gabbie e mangiarsi la propria merda. Li ho visti graffiarsi e strapparsi la pelle e la carne a morsi, auto mutilarsi come quei malati di mente che una volta venivano rinchiusi nei nostri manicomi. Ho visto una cagna in preda a conati di vomito così violenti che il dolore la faceva letteralmente ululare. L'ho vista cercare di sollevarsi sulle zampe, sporgersi in avanti e poi cadere riversa a terra, stroncata dallo sforzo. Ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginare, pensavo ossessivamente in quei mesi e quella battuta del monologo finale dell'androide di Blade Runner mi viene in mente ancora adesso mentre scrivo, perché anche se è solo la battuta di un film contiene un nucleo di verità e di dolore così assoluto che è impossibile rimanerne indifferenti. Là dentro era l'inferno, Stefano, era l'ultimo girone di condannati al supplizio eterno. Era, è, un inferno di grida, di sangue, di dolore, di pazzia e di morte. Là dentro e anche in tutti gli altri posti uguali a questo, che sono centinaia e migliaia nel mondo. Perché questa è la vivisezione, Stefano, non farti ingannare, non farti ingannare mai, non dare credito a quanti dicono che la vivisezione serve. Io ho visto cos'è davvero e le urla, quelle grida di quelle centinaia di ratti, di cani, di scimmie, di maiali, quelle grida più ancora degli sguardi svuotati dalla follia, ecco, sono proprio quelle grida che di notte ancora mi tengono sveglio. Durante quegli otto mesi, ma anche dopo per un sacco di tempo, ogni volta che mi ritrovavo con le lacrime agli occhi per la rabbia, il dolore e la paura, per l'orrore che vedevo e contro il quale non potevo fare nulla, pensavo che non era quello il mio mestiere, che non poteva essere quello, io ero un veterinario, cazzo, e lo sarei stato se non avessi interrotto gli studi. Pensavo che se un tempo lo ero stato, veterinario, se un tempo era stata quella la strada che avevo scelto era perché avrei voluto almeno in parte rimediare al dolore – forse dolori minimi, una zampa rotta, un tumore, gli esiti di un morso, di un avvelenamento – rimediare al dolore di queste bestie, perché io credevo, ho sempre creduto, che le bestie, gli animali, un senso e una dignità e un diritto alla vita e al benessere ce lo devono avere se camminano sulla terra. Durante e dopo l'esperienza dentro quel laboratorio vivisettorio è questo che pensavo, io mollo tutto, vaffanculo, mi riscrivo all'università, faccio un passo indietro, richiudo gli occhi dopo averli aperti, mi tappo le orecchie, cancello tutto, sperando e pregando che quelle grida prima o poi la smettano. Cancellare i nasi umidi dei beagles che mi si sfregavano contro il collo quando li prendevo in braccio, gli occhi dementi delle scimmie e le loro mani minuscole, piccole e tenere come quelle dei neonati, strette attorno alle sbarre delle gabbie, cancellare il terrore cieco dei maiali urlanti quando venivano sollevati dentro le imbracature per i prelievi di sangue, i lividi sui loro corpi, i graffi, cancellare le ferite aperte dentro la carne, la paralisi dei topi e i loro occhi resi ciechi, occhi che vedevi gonfiarsi come bubboni e poi marcire e seccarsi e poi letteralmente cadere a terra per tutta quella merda che gli veniva iniettata dentro. Cancellare i corpi devastati dei cani dopo che gli venivano impiantate sotto pelle piccole spugne che simulavano tumori, cancellare tutto, via, vaffanculo, chiudo gli occhi e mi tappo le orecchie, perché io questo orrore non lo voglio più vedere. Ma lo sapevo che non era più possibile. Perché una volta che hai guardato l'orrore, l'orrore ti rimane dentro per sempre e non basta mai una vita per mandarlo via. Quindi, liberare gli animali, restava solo questo, provare a liberarne quanti più possibile, in qualsiasi situazione e in qualsiasi parte del mondo, fino alla fine.

Ci chiamano esaltati, ci chiamano terroristi, molti vogliono vederci in galera e diversi esponenti dei vari movimenti di liberazione animale ci stanno, in galera, lo stesso Barry Horne fu poi condannato a vent'anni e morì in cella per le conseguenze dell'ennesimo sciopero della fame... Terroristi... Seminatori di terrore... Come è facile giocare con le parole...

Abbandono per qualche ora. Torno dopo. Devo dormire un po', sono molto stanco, faccio sempre più fatica.

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La stanza non era una stanza grande. Un tempo era stata un'appendice, poco più di un salottino, della sala cucina dove prima avevano pranzato, con in alto sul soffitto le stesse travi a vista e per terra lo stesso pavimento in cotto. Oltre al letto, al posto dell'armadio, c'era un'enorme libreria alta fino al soffitto che prendeva tutta la parete e, accanto, un vecchio cassettone in ciliegio interamente seppellito sotto una pila di riviste. La foto era lì sullo scrittoio, accanto al monitor del computer, cacciata un po' indietro contro il muro che non se ne accorse subito. Sentì il cuore fargli letteralmente un balzo nel petto quando la vide. Era lui, Vittorio. Non più il ragazzino di vent'anni ma un uomo di forse trentacinque, trentasei anni, con tutto il tempo che era passato su quel volto e tutta la vita che li separava.

Tenendo la foto in mano si avvicinò alla libreria. Erano tutti libri e riviste per lo più a tema animalista, titoli e autori che non aveva mai sentito: Tom Reagan, Stefano Cagno, Jeremy Rifkin, Isaac Bashevis Singer ma anche filosofi c'erano, alcuni se li ricordava dal liceo, come Pitagora, Plutarco, Montaigne, Rousseau, Voltaire, Schopenhauer, e altri che non sapeva nemmeno chi fossero, come Peter Singer, Jeremy Bentham, Martinetti. Tutta gente che in qualche modo aveva scritto in difesa degli animali. Kafka, Tolstoj, il premio nobel Albert Schweitzer e perfino l'autore di Alice nel paese delle meraviglie, Lewis Carroll, che nel 1875 — avrebbe saputo poi – aveva scritto un articolo contro la vivisezione per il Fortnightly Review di Londra, o Hans Ruesch, quello del Paese dalle lunghe ombre, libro da cui negli anni Sessanta ci avevano tratto anche un film con Anthony Quinn. Imperatrice Nuda si chiamava, invece, questo. Uno dei libri che aveva scritto Ruesch sulla vivisezione, forse uno dei più feroci e devastanti e impietosi mai scritti. E poi cd, c'erano, centinaia di cd perfettamente allineati e divisi per categoria, luogo e data. Venivano un po' da tutto il mondo, ed erano filmati di operazioni di liberazione oppure inchieste di qualche attivista sui macelli, sul trasporto animali, sugli allevamenti degli animali da pelliccia, sul traffico delle scimmie destinate ai laboratori vivisettori, sull'uccisione delle foche, delle balene, sulla condizione degli animali da circo, sugli allevamenti intensivi. Stefano allungò una mano verso la pila di cd e ne sfilò uno. Treblinka, c'era scritto sulla costola della custodia. Treblinka. E non se la sarebbe mai più dimenticata quella definizione, il nome di un campo di sterminio nazista usato per indicare la realtà degli allevamenti. Più avanti, dentro un romanzo di J. M. Coetzee, La vita degli animali – autore che non sapeva nemmeno chi fosse prima di Vittorio – ci aveva trovato lo stesso paragone, la stessa tesi. L'autore la faceva sostenere alla sua protagonista, Elisabeth Costello, famosa scrittrice che durante un ciclo di conferenze che avrebbero dovuto in teoria trattare di letteratura sceglie invece di parlare in difesa degli animali. Lei che non ha paura di andare controcorrente, lei che dice sempre le cose che ha dentro la testa e che sostanzialmente se ne frega di quello che pensa la gente, lei, prendendo tutti in contropiede e scioccando l'uditorio, a un certo punto sostiene proprio questo paragone con i campi di sterminio, ripulendo le parole, scarnificandole, e usandole come si dovrebbero sempre usare le parole, per quello che sono e nominano. Ma tirare in ballo qualcosa di così abnorme come l'Olocausto, servirsi di parole come sterminio, che hanno dentro qualcosa di sacro, forse non si fa, e allora ecco che a quella conferenza c'è più di qualcuno che si incazza, che si alza in piedi e se ne va disgustato.

Ma ora, di tutte queste cose, lui ancora non sapeva niente. Ora, si sentiva solo vagamente stordito, ritto in piedi su una fune sospesa sul vuoto, incapace ancora di credere di essere così vicino a Vittorio.

Cosa avrebbe dovuto fare, adesso? Si sedette alla scrivania e per un po' rimase così, a far scivolare lo sguardo sulle cose, avanti e indietro, poi, con un gesto istintivo, aprì il cassetto. Era capiente e profondo. Dentro c'era di tutto, penne, matite, un rotolo di spago, alcuni cavetti usb, un vecchio cellulare con il display rotto, una calcolatrice, una serie di scatoline trasparenti piene di graffette e puntine, un portachiavi con un pupazzetto a forma di porcellino, un tagliacarte, una macchina fotografica digitale, un taccuino nero. Aprì ancora di più il cassetto e in fondo vide una scatola di metallo. La tirò fuori e la posò sul ripiano della scrivania. L'aprì. Era piena di cartoline e lettere. Le tirò fuori tutte e le passò in rassegna. Nomi di gente straniera, svedesi, inglesi, spagnoli, le buste da posta aerea sottili come veline con i bordi incorniciati dai sementi rossi e blu. Le sue, quelle che lui gli aveva scritto, le riconobbe subito. Erano legate insieme con dello spago. La carta si era ingiallita e i bordi delle buste erano consumate. Provò la tentazione di aprirle e rileggerle ma invece rimise tutto dentro la scatola e la ripose di nuovo in fondo al cassetto. Tirò fuori il taccuino e lo sfogliò. Era un'agenda in realtà, e dentro c'era scritto poco o niente. Conti, numeri di telefono, appuntamenti di lavoro di quando stava in Italia. Fece scorrere le pagine rapidamente avanti e indietro ma non trovò niente. Non sapeva cosa stava cercando – perché stava cercando qualcosa, era evidente – ma visto la quantità di libri e materiale che c'era dentro quella stanza gli sembrava praticamente impossibile che Vittorio non avesse mai scritto niente di suo, nemmeno una riga, che da qualche parte non ci fosse un suo diario o qualcosa del genere, o anche solo un quaderno di appunti. Si alzò dalla sedia e si avvicinò al vecchio comò in ciliegio. Aprì i tre cassetti uno dopo l'altro ma dentro c'erano solo lenzuola e asciugamani.

Si avvicinò di nuovo alla libreria. Era profonda almeno quaranta centimetri ma tutti i libri, le riviste e i cd erano posizionati in avanti, in linea con il bordo dei ripiani. Sfilò due libri a caso e lo spazio dietro, come immaginava, era vuoto. Forse posizionare i libri in quella maniera poteva essere solo un vezzo, o forse no. Tolse ancora un paio di libri e infilò una mano. Niente. Si spostò all'inizio della libreria e ripeté l'operazione per ogni ripiano, spostando libri in gruppi di quattro cinque e tastando con la mano lo scaffale. Adesso era seduto per terra, all'altezza dei ripiani più bassi e cominciava a pensare che quella che gli era venuta in mente era un'idea stupida quando la sua mano toccò qualcosa. Erano impilati di piatto, piccoli e con la copertina ruvida. Li sfilò uno dopo l'altro. Erano tre taccuini.

Si sedette sul letto e li aprì uno dopo l'altro. Anche questa volta fece scorrere le pagine velocemente. Pagine scritte e pagine bianche, a intervalli irregolari, come se ogni volta quei taccuini fossero stati aperti a caso, o scritti dopo lunghi periodi di tempo. Alcune pagine erano datate e altre no ma da quello che poteva capire il contenuto dei tre taccuini era comunque sequenziale e copriva un arco di tempo di almeno dieci anni. Eccoli gli appunti che cercava. Niente di sistematico, nemmeno un diario forse, ma stralci di pensieri, citazioni di libri, annotazioni ora veloci ora più estese di tutto quello che al suo amico era passato per la testa e che avevano a che fare comunque con l'argomento animali.

Prese il primo taccuino, l'aprì a una pagina a caso fra le prime e cominciò a leggere. L'anno era il 2007.

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Pagina 146

[...] Se non parlo con te, mamma, è per proteggere me stesso. Ma la storia di Bianchetto te la voglio raccontare ugualmente.


CNR di Pisa. Viene dal CNR di Pisa. (E poi a volte penso che a questa vita non mi ci abituerò mai. Che non ci si può abituare al dolore.)

Stavano ammassati dentro contenitori trasparenti, così tanti dentro ogni singola scatola che li vedevi letteralmente schiacciati contro le pareti. Non potevano muoversi, e così se ne stavano immersi dentro le loro feci, incapaci anche solo di raggiungere le bocchette per il cibo o l'abbeveratoio. Io quella notte filmavo con una telecamera. Con me c'erano altre due persone e io vedevo i loro movimenti all'angolo del mio occhio, due figure scure rapide e leggere come ninja. Sentivo i loro respiri. E il battito regolare del mio cuore. I corpi bianchi dei topi seguivano la forma del contenitore, gli spigoli, il pelo e la carne pressata, appiattita contro il coperchio trasparente. Mi chiedevo (certe cose non smetto mai di chiedermele) come facessero a respirare. Ho zoomato sopra le targhette applicate ai box. Accanto ai numeri identificativi dei topi, al luogo di provenienza e la destinazione di ricerca, c'erano segnate anche la data di nascita e il sesso. È una cosa ovvia eppure mi sembrava (e continua a sembrarmi) assurda, una cosa grottesca, una specie di beffa. Perché scrivere una data di nascita, dire se sei maschio o femmina, significa in qualche modo dare un'identità, un corpo, a chi ti sta davanti. E invece quei topi non erano niente. Nemmeno animali, forse. Erano solo oggetti, cose, una funzione. Si muovevano, respiravano, sentivano paura e dolore, erano caldi e avevano un minuscolo cuore che batteva eppure non erano vivi. Poi ho visto gli altri. Dentro sei cellette. Uno per celletta. Ratti bianchi. Dentro quelle cellette trasparenti con il fondo a listelli come le pareti del trasportino di un gatto, c'erano sei topi bianchi appesi per la coda a un gancio con del nastro adesivo. Il gancio in alto, la coda tesa del topo e il topo in verticale, a testa in giù, con le zampe di dietro sollevate e il muso che a malapena sfiorava il fondo della gabbia. Il primo della fila, a un certo punto, mi era parso che si fosse mosso. Intanto mi chiedevo quale tipo di esperimento salvavita prevedeva di appendere un animale per la coda, fosse anche solo un topo, e lasciarlo lì per chissà quanto tempo. Lungo la parete, c'erano altre gabbie contenitore. Minuscoli esseri rosa adagiati sul fondo, dieci dodici per contenitore. Minuscoli esseri rosa senza pelo. Cuccioli di topo appena nati. In altri box, altri topi. Topi femmina, così era segnato sulle targhette. Allora ho pensato: Istituto di Neuroscienze. Esperimenti sul dolore e sulle alterazioni comportamentali legati alla sfera emozionale. I cuccioli di topo erano stati separati alla nascita dalle loro madri. Studi sul dolore e sul comportamento. Cosa succede a un topo se gli procuro dolore attraverso stimoli nocicettivi termici, chimici e meccanici? Come muta, in questi piccoli esseri strappati alle cure della loro madre, la loro sfera emozionale o il loro futuro comportamento sociale? Questo pensavo mentre filmavo e mentre gli altri due continuavano a svuotare gabbie, per poi infilare i topi in contenitori di cartone che a loro volta infilavano dentro grandi borse di tela. I topi emettevano deboli squittii. Da qualche parte ho letto che i topi non solo sono animali notturni, ma hanno anche un udito molto sviluppato che gli permette di udire frequenze fino ai 100 kHz e forse di più, ben oltre comunque la soglia degli ultrasuoni. Ed è a queste frequenze per noi inudibili che loro comunicano a breve distanza. Sulla lunga distanza emettendo squittii e sulla breve attraverso questi suoni che noi non potremmo mai avvertire se non con l'ausilio di apparecchi sensibili. Questi topi ammassati e schiacciati dentro quelle minuscole gabbie cosa si stanno comunicando in questo momento? Mi sono chiesto. E i topi appesi per la coda? E i cuccioli senza pelo ammassati gli uni contro gli altri? E le loro madri? Sussurrano tra loro oppure stanno gridando? Naso contro naso qual è la natura dei loro messaggi? Cosa si stanno raccontando? Cosa si raccontano gli animali in gabbia? Questa luce abbagliante su di loro, questi serragli scomodi, questi odori velenosi che in natura non esistono, queste mani che giorno dopo giorno li manipolano e li inchiodano a un destino assurdo, queste voci sopra la testa, queste superfici fredde e piane, troppo lisce per potercisi adagiare davvero o per aggrapparcisi quando la paura arriva, questa mancanza di aria, di buio e fresco della notte, quest'assenza di verde sotto le zampe, odore di erba e di terriccio dove scavare una tana e finalmente accoccolarsi e proteggersi dal freddo e dai nemici, è di questo che parlano? Quale dolore, senso di impotenza, terrore cieco è nascosto dentro questi suoni invisibili? Perché ci deve essere per forza un'immagine dentro il loro piccolo cervello, incisa profonda dentro il loro DNA di bestie, ci deve essere per forza una memoria di paradiso che continua a corrergli nelle vene, una memoria fatta di albe e di tramonti, di terra infilata sotto le unghie e di erba sotto le zampe, ricordi ancestrali di scorribande e di cibo masticato che odora di buono, ci deve essere per forza dentro il loro sangue, qualcosa che ora sta urlando.

Il topo bianco appeso per la coda all'inizio della fila di cellette era vero che si era mosso, non me lo ero immaginato. Un piccolo sommovimento delle zampe anteriori, un minuscolo luccichio nel fondo vitreo degli occhi. Un movimento che in natura non esiste, una fibrillazione estrema, una ridicola ribellione al dolore. Allora me lo sono immaginato, questo squittio invisibile, me lo sono immaginato ed era un frastuono spaventoso, un urlo ininterrotto che correva tra le gabbie, un'onda aggrovigliata di versi che si sollevava in alto, rimbalzava contro il vetro delle gabbie, aggirava ostacoli, si incanalava in ogni anfratto, tornava indietro a rimbalzare e poi riempiva di nuovo tutto lo spazio attorno a loro. Un boato assordante di orrore silenzioso che nessuno poteva udire. Allora ho guardato di nuovo il topo bianco appeso per la coda all'inizio della fila. Ho allungato una mano verso il gancio della celletta e con la punta delle dita coperte dal guanto nero ho fatto scattare il dispositivo.

Mamma, questo topo è Bianchetto.

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