Copertina
Autore Antonio Gambino
Titolo L'imperialismo dei diritti umani
SottotitoloCaos o giustizia nella società globale
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2001, Primo piano , pag. 196, dim. 135x210x12 mm , Isbn 978-88-359-5121-6
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe politica , scienze sociali , diritto
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Indice


VII  Prefazione

XI   Premessa

XII  Ringraziamenti


     L'imperialismo dei diritti umani

  3  I.   La lunga marcia dei diritti umani

 25  II.  Il fondamento e l'universalità dei
          diritti umani

 47  III. L'attuazione dei diritti umani:
          lo sviluppo del diritto di ingerenza

 77  IV.  Qualche annotazione a margine

 96  V.   L'imperialismo dei diritti umani

141  VI.  La falsa e la vera concezione dei
          diritti umani

160  Conclusione

167  Note

185  Bibliografia

191  Indice analitico

 

 

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Pagina XI

Premessa


Il vecchio detto latino propter vitam, vivendo perdere causam è probabilmente il piú adatto a mettere in luce il dilemma davanti a cui si trova oggi il dibattito sui diritti umani. Infatti, anche se di questi diritti - che, secondo la definizione comunemente accettata, spettano in egual misura ad ogni uomo, senza distinzione di nazionalità e cultura, e che appunto per questo motivo meritano di essere chiamati "universali" - tutti seguitano a parlare, la loro collocazione sulla scena mondiale appare oggi incerta e confusa. Come dimostra la piú semplice delle osservazioni: e cioè che proprio nel loro nome sono state compiute, nella primavera del 1999, una serie di azioni militari, il cui risultato - definito "collaterale", anche se non si sa bene per chi - è stato di privare del piú elementare di tali diritti, quello alla conservazione della vita, non meno di cinquecento civili (nel senso di non soldati), senza che a loro potesse essere imputato, in maniera diretta o indiretta, alcun crimine.

Di fronte ad un simile stato di cose, le posizioni che si possono assumere sono quindi due. La prima - piú facile, e sicuramente piú diffusa - è di far finta di nulla, di andare avanti come se niente fosse accaduto, anzi di programmare, sia pure sulla base di nozioni e criteri tutt'altro che chiari, nuove iniziative e nuove organizzazioni. La seconda è - per usare le parole di Amleto, nel piú famoso dei suoi sette monologhi - di imporci una "pausa". Per valutare sia come si è giunti alla situazione attuale, sia se, alla concezione oggi prevalente, non se ne possa contrapporre un'altra: meno perentoria, ma forse anche meno ambigua e meno pericolosa.

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Pagina 10

Nella sostanza, quindi, risulta evidente che diritti umani e politica estera seguitano a presentarsi come due criteri opposti e incompatibili. Là dove l'orientamento è quello del rispetto dei diritti umani, con il loro contenuto universale, la classica impostazione della politica estera - attraverso la quale i singoli Stati, ispirati unicamente alle loro "ragioni" contrapposte, cercano di assicurarsi particolari vantaggi - non avrebbe piú modo di svilupparsi. Mentre là dove la politica estera seguita ad esistere (e almeno fino a quando - e tale momento non appare vicino - le esigenze umanitarie universali non avranno acquistato nell'opinione pubblica di ciascun paese un peso tale da sovrastare i suoi piú tradizionale "interessi": di sicurezza, di ricchezza, di prestigio, ecc.), i diritti umani appaiono destinati a svolgere una funzione di inganno e di pura facciata. Oppure - nella migliore delle ipotesi - ad assumere l'aspetto di un bene "usa e getta": da rispettare quando le circostanze sono favorevoli, e quindi il suo costo è zero, ma da ignorare quando l'interesse nazionale, presentandosi anche solo come marginalmente in pericolo, consiglia e impone una condotta diversa.

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Pagina 42

L'universalismo consensuale e i suoi limiti

Fissato tale quadro generale, si può tuttavia subito aggiungere che anche chi non è facilmente portato all'ottimismo non può fare a meno di notare che, almeno ad un livello intellettuale elevato, un accordo abbastanza vasto sembra essersi da alcuni anni formato intorno ad una impostazione di questo tipo. Scrittori e pensatori molti diversi tra loro per provenienza culturale ed orientamento pratico hanno infatti sottolineato che, se è vero che i diritti umani hanno come punto di riferimento «una teoria morale della natura umana» (la quale, per il suo carattere "ideale", è fatalmente soggetta a interpretazioni discordanti), un risultato positivo, nella formulazione di criteri di riferimento universali, si può ottenere solo attraverso un confronto, ed un progressivo avvicinamento, dei rispettivi punti di partenza.

Per cui, se una femminista europea come Sabelle Gunning afferma: «Non ci sono degli "universali" che stanno lí, in attesa che li scopriamo, ma è solo attraverso il dialogo che valori condivisi possono diventare universali ed essere salvaguardati: essenziale [quindi] è un tono di rispetto per le diversità culturali, [perché] i popoli e le culture, nel momento in cui cominciano ad interagire, cambiano e imparano gli uni dagli altri», un'opiníone sostanzialmente convergente troviamo espressa da un intellettuale africano e islamico, come Abdullahi An Na'im, quando indica «un dialogo cross-culturale» come il mezzo attraverso cui dar vita ad un «processo di fissazione di principi» comuni, e aggiunge che una volta che una simile «buona volontà [abbia preso] forma, allora anche persone come me avranno la possibilità di essere critici della propria tradizione, nella consapevolezza che altri saranno critici della loro». Mentre perfino un dirigente politico asiatico fortemente impegnato nella difesa dei "valori" della propria cultura, come Bilhari Kausikan, pur non rinunciando a sottolineare che «la Dichiarazione universale [dei diritti dell'uomo] è stata scritta da esseri mortali, [e] non è una delle tavole di Mosè portata giú dalla montagna», ammette che «tutte le regole internazionali devono evolversi attraverso un continuo dibattito tra diversi punti di vista, se si vuole che il consenso venga mantenuto».

Infine, non troppo diverse, anche se sicuramente molto piú elaborate, sono le conclusioni a cui giunge un filosofo tedesco come Jürgen Habermas, quando scrive:

«Indipendentemente dal loro sfondo culturale, tutti i partecipanti sanno benissimo - sul piano intuitivo - che non potrà mai nascere nessun consenso fondato sulla convinzione finché tra i partecipanti alla comunicazione non sussistano relazioni di simmetria, vale a dire che attengano al riconoscimento reciproco, alla scambievole assunzione-di-prospettiva, alla disponibilità comune a considerare le proprie tradizioni anche con gli occhi di un estraneo, nonché ad imparare gli uni dagli altri, e cosí via. Su questo fondamento diventa possibile criticare non soltanto versioni selettive, interpretazioni tendenziose e applicazioni parziali dei diritti umani, ma anche quelle loro strumentalizzazioni vergognose che - dando copertura universalistica ad interessi particolari - hanno finito per fare credere che l'intero senso dei diritti umani fosse riconducibile al loro abuso».

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Pagina 53

Bosnia

A questo panorama, la crisi della Bosnia, e piu in generale della ex Jugoslavia (che in parte precede, in parte si sovrappone e sopravvive a quella somala), non aggiunge nulla di significativo. A dispetto del fatto che, nel suo corso, i diritti umani vengano ripetutamente evocati, e che essa sia accompagnata e seguita da una serie di strascichi giudiziari, diretti ad accertare ed eventualmente punire le loro violazioni (sotto forma di "crimini di guerra"), non è certamente in loro nome - vale a dire esercitando un diritto di ingerenza umanitaria - che le potenze occidentali decidono di intervenirvi. Piuttosto è per perseguire i loro disegni nazionali: che in alcuni casi - la ricerca di un minimo di stabilizzazione regionale - hanno un carattere convergente, ma in altri divergono in modo fin troppo evidente.

È quindi proprio con la fine della missione in Somalia che il breve momento di grazia della nozione di ingerenza umanitaria giunge alla sua fine. Nata, come si è detto, per una sorta di germinazione spontanea nel clima di novità, e di grande aspettative, provocato dalla fine della guerra fredda, e cementata - anche se impropriamente - dagli eventi successivi alla spedizione militare nel Golfo, essa aveva vissuto la sua fase migliore nel periodo in cui si era diffusa la convinzione che, in un mondo ormai unipolare, sarebbe stato sufficiente, per ottenere il rispetto di certi principi, che le grandi potenze occidentali si mostrassero unite nella decisione di usare, nelle situazioni di crisi, la enorme loro forza. Già nella prima occasione in cui tale impostazione era stata messa alla prova, i fatti si erano però incaricati di dimostrare che la realtà, nella sua caotica ed imprevedibile conformazione, rifiutava di adeguarsi a tale schema: e che, di conseguenza, se il diritto di ingerenza voleva sopravvivere avrebbe potuto farlo solo trovando un modo di attuazione diverso da quello della pressione psicologica, o anche della semplice minaccia.

Quella a cui subito dopo si assiste è quindi una eclissi di tale concetto: tanto profonda che neppure posto di fronte ad eventi umanamente dirompenti, quali i grandi massacri africani della metà degli anni '90 (nel solo Ruanda i morti saranno almeno un milione), il mondo occidentale ritiene opportuno farvi ricorso per programmare una qualche forma di intervento. Perché il tema del diritto di ingerenza torni a porsi al centro del dibattito internazionale bisognerà quindi attendere alcuni anni. Precisamente fino ai mesi finali del 1998: quando, in modo sempre piú minaccioso, comincerà a profilarsi all'orizzonte la crisi tra i serbi e gli albanesi del Kosovo.

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Pagina 72

L'uomo da "fine" a "mezzo"

Chiusa qui questa digressione, e confermato che, oggi come in passato, ogni Stato ha il diritto di ricorrere alla forza per difendersí contro un eventuale attacco (e anche che, senza un simile comportamento, la scena internazionale non diventerebbe piú pacifica e ordinata ma sicuramente piú violenta e disordinata), è subito necessario aggiungere che tutto quanto appena detto non ha nulla a che fare con la domanda sul "se" che ci siamo prima posti: vale a dire sulla assoluta libertà nella scelta degli strumenti attraverso cui dare attuazione ad un diritto coercitivo di ingerenza. Il rifiuto di un simile orientamento (anche nelle circostanze migliori: vale a dire nel caso che esista un codice consensuale dei diritti umani ed una autorità sovranazionale sicuramente imparziale in grado di applicarlo) deriva infatti, come si è accennato, dalla presenza di una incompatibilità, fondamentale ed insanabile, tra la motivazione e i mezzi che verrebbero usati. Dal fatto, cioè, che un'azione che si dichiara ispirata alla volontà di eliminare una violazione dei diritti umani subita da alcuni individui non può in nessun caso realizzarsi producendo, contemporaneamente, una violazione degli stessi diritti in altri soggetti.

Nulla, assolutamente nulla, può sanare una simile contraddizione di fondo. A tale scopo, infatti, non può servire il fatto che le persone che vengono private del primo dei loro diritti (quello alla vita: ma considerazioni simili si possono fare per il diritto alla salute o ad un minimo di risorse vitali, violato dalle sanzioni economiche) sono cittadini di un paese il cui governo si è macchiato di gravi crimini: e questo non soltanto perché, in generale, il ricorso al concetto di "colpa corettiva" - e quindi di punizione indiscriminata - è qualcosa che ripugna alla moderna cultura occidentale, ma anche, e in modo piú specifico, perché essendo i diritti umani quelli che, per definizione, competono a tutti gli uomini "in quanto tali", cioè al di fuori della loro collocazione in uno Stato, e anche al di là delle loro eventuali colpe (Jack Donnelly dice che essi spettano «perfino al piú crudele torturatore»), appare contraddittorio ripetere fino alla noia tale concetto, per poi dimenticarsene quando si tratta di far morire centinaia di uomini e donne sotto le bombe o di affamarne alcuni milioni con le varie fonne di embargo".

A ciò si deve aggiungere che, ad ottenere una sanatoria di tale comportamento, non può contribuire neppure la teoria del "male minore". Questo tipo di calcolo, infatti, può trovare applicazione quando si tratta di scegliere tra due situazioni di fatto che si presentano come piú o meno negative o vantaggiose. Ma non può in alcun modo essere proposto nel momento in cui in gioco sono dei diritti, anzi piú precisamente quei diritti che, non a caso, vengono definiti "inalienabili": perché in questo caso la loro violazione si scontrerebbe, in modo frontale, con il criterio di Kant, secondo cui l'uomo deve essere sempre trattato come "fine" e mai come "mezzo". Infatti, come nota giustamente Ollero Tassara, «la pratica dei diritti umani [...] non è compatibile con atteggiamenti pratici in cui il fine giustifica i mezzi, perché in essi l'uomo concreto diventa un "mezzo" al servizio di un uomo astratto eretto a "fine". Calpestare la dignità dell'uomo appellandosi alla sua stessa natura è una contraddizione inumana».

[...]

E la controprova della forza di tale divieto si ha nel fatto che, in altre situazioni, anche di grave ed immediata emergenza, questa dispensa a cancellare il valore della vita non viene mai concessa: per cui l'autista di un'ambulanza che, dopo una calamità naturale, trasporta all'ospedale un gruppo di persone in fin di vita non è autorizzato a travolgere i passanti, cosí come il poliziotto che insegue un pericoloso assassino non può, per arrestarlo, sparare su chi gli sta vicino: anzi, tanto l'uno quanto l'altro, nel caso che cosí si comportino, non possono sfuggire ad un processo e ad una condanna. E allora, per quale motivo, questi stessi elementari criteri di garantismo - che rispettiamo sul piano interno, perché fanno parte integrante della nostra civiltà - vengono messi immediatamente da parte quando si tratta di (alcune) situazioni internazionali? Si può davvero credere che tutto questo è solo il frutto di improvvise ventate di disattenzione e di oblio, e non invece l'espressione di qualcosa di meno evidente ma di sicuramente molto preoccupante?

Per il momento, lasciamo in sospeso queste domande. E concludiamo sul problema del diritto di ingerenza.

Se un fine che riteniamo giusto rivela di non poter essere raggiunto altro che attraverso azioni che sono ingiuste, anzi assolutamente inammissibili (perché in esse l'uomo viene declassato a semplice "mezzo", sia pure "per il bene" di altri uomini), allora è chiaro che è il nostro progetto - nel caso che sia davvero ispirato dal rispetto dei diritti umani, e non da altre valutazioni, di carattere utilitario - a dover essere rivisto. Tale obbligo deriva innanzi tutto da una valutazione di carattere etico: vale a dire dalla constatazione che i mezzi reagiscono inevitabilmente sui fini, contaminandoli; ma anche da un motivo pratico. È infatti difficile immaginare che il messaggio che un "bombardamento umanitario" lascia nella memoria collettiva (innanzi tutto di coloro che lo subiscono, ma non solo nella loro) possa essere quello della forza dei diritti umani e della loro universalità. E non piuttosto quello della loro debolezza, della loro incertezza, infine della loro soggezione ai calcoli della politica.

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Pagina 96

V. L'imperialismo dei diritti umani


Le conclusioni che si possono trarre da quanto esaminato nel capitolo precedente sono due. E cioè: 1) che l'idea di una imposizione con la forza (enforcement) dei diritti umani - vale a dire di un insieme di criteri che, nel momento attuale, ha ancora il carattere di una diffusa aspirazione ideale, privo però di una precisa strutturazione giuridica - si presenta come un progetto altamente discutibile, esposto, ad ogni suo passo, a gravi pericoli di fraintendimento e di abuso; 2) che, in questo quadro, la tesi che un simile compito possa essere affidato in gestione temporanea (sulla base di un indefinito criterio di "supplenza") ad un paese - o gruppo di paesi - è del tutto inaccettabile: se non altro perché non si vede in che modo - cioè senza cadere in una clamorosa contraddizione - una visione interamente fondata sulla autonomia di tutti gli uomini, in quanto titolari di identici diritti, possa poi porre il destino di questi stessi individui (anche nel suo aspetto piú decisivo e concreto: la vita o la morte) nelle mani di un potere esterno, la cui legittimazione deriva solo da un atto di "auto-investitura".

Tuttavia, è proprio una simile impostazione che, in un clima di diffusa rinuncia ad ogni serio esame critico (o, se si preferisce, di quasi totale prevalenza di un "pensiero unico"), ha cominciato negli ultimi tempi a prevalere. Un fenomeno a cui, semplificando, si possono attribuire due cause: la nascita di un mondo unipolare, contrassegnato dalla presenza di una sola superpotenza, e la vocazione da parte di questo soggetto politico - gli Stati Uniti - ad assumersi tale ruolo "imperiale".

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Pagina 101

Quello a cui, da tempo e in modo ormai rapidamente crescente, assistiamo ricorda da vicino, insomma, quanto, sui libri di storia, abbiamo letto a proposito della Cina: che per alcuni millenni si presentò come l'"Impero di mezzo", proprio perché con la sua "massa" - che non era solo di carattere fisico ma anche culturale - costituiva il punto obbligato di gravitazione per tutto il mondo circostante. Nel caso dell'America, questo fenomeno tende ad acquistare confini ancora piú vasti. Diventata l'incarnazione della modernità (o meglio della postmodernità), cioè di quello stile di vita che ha nel consumismo e nel culto del semplice "accadere" (lo happening) il proprio credo (ed il proprio super-io), essa ha il modo di esercitare, su spazi sempre piú grandi, il proprio soft power, il proprio potere morbido. Che, per il fatto di essere tale, vale a dire di operare per attrazione invece che per imposizione, non è, però, meno concreto e produttivo. Tanto piú se si tiene presente che la sua diffusione è favorita dall'esistenza di un monopolio di fatto nel campo dell'informazione.

Grazie ai suoi satelliti che osservano e registrano tutto ciò che avviene in ogni parte del globo, ai suoi computer sempre all'avanguardia come velocità e sofisticazione, e all'insieme di forze organizzative e produttive che si addensano in questi settori, l'America attuale ha infatti una capacità di «raccogliere, elaborare, sfruttare e diffondere informazioni» assolutamente imparagonabile a quella di tutti gli altri Stati. I quali, quindi, finiscono per dipendere da lei in ogni campo: anche il piú essenziale come quello della sicurezza. Per cui non c'è nulla di paradossale nella tesi che, cosí come la prevalenza in campo nucleare è stata la chiave dell'egemonia americana durante il periodo della guerra fredda, un'egemonia ancora piú vasta si presenta oggi come la conseguenza inevitabile del suo attuale dominio nel campo dell'informazione.

Anche perché - ed è fin troppo ovvio - informare significa anche disinformare. L'America, che, attraverso il sistema di ascolto globale "Echelon", ha la capacità - e rivendica il diritto - di conoscere tutto, non solo, infatti, fornisce in modo "selettivo" ciò che essa sa agli altri paesi, compresi i propri alleati, ma, grazie a tale sua posizione dominante, ha la possibilità di influenzare le loro percezioni attraverso la diffusione di dati abilmente manipolati. Come, in maniera chiarissirna, si è visto nel corso dei due interventi armati degli anni '90: quando l'opinione pubblica europea fu, prima, indotta a credere che l'Irak fosse improvvisamente diventata la quarta potenza militare del mondo, e pochi anni piú tardi fu spinta a stabilire l'equazione emotiva immediata secondo cui i serbi erano sostanzialmente eguali ai nazisti.

Infine è impossibile trascurare un aspetto che, molto opportunamente, mette in luce Serge Latouche: e cioè che uno degli "aiuti" che, piú spesso l'Occidente (e quindi in primo luogo l'America) si dimostra pronto ad offrire ai paesi meno sviluppati è quello di fornire loro gratuitamente, via satellite, una serie di notiziari: che, anche se non espressamente propagandistici, non sono certamente privi di un preciso impatto "formativo" su coloro che li ascoltano.

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Pagina 151

La vera concezione dei diritti umani

Se i diritti umani non sono la concezione totalitaria e punitiva che si è finora esaminata - la quale, anche quando non viene strumentalizzata, ed asservita a fini di potere, produce inevitabilmente conseguenze inaccettabili - che cosa sono, e che cosa dovrebbero essere?

I diritti umani come criterio "meta-giuridico"

La risposta a questa domanda fondamentale è stata accennata piú volte, nel corso delle pagine precedenti. E cioè che essi sono il criterio - ideale e "meta-giuridico" - che nasce spontaneo nella coscienza collettiva, nel momento in cui noi tutti ci rendiamo conto di essere gli ospiti di un pianeta infinitamente limitato, nel doppio senso di questo termine: e cioè che esso è solo una minima particella dell'universo a cui appartiene, e che, a causa delle sue successive trasformazioni, è ormai immediatamente comunicabile in tutti le sue parti ed in tutti i suoi aspetti. In un simile sfondo, gli uomini infatti, se non vogliono scivolare rapidamente verso un razzismo militante, vale a dire avviarsi a combattersi senza fine, per dividersi in "superiori" ed "inferiori" (i primi, pochi, in posizione di totale dominio, e gli altri, sempre piú numerosi, costretti a soffrire e servire), non possono fare altro che cercare di trovare nuove regole che li uniscano e li accomunino.

In altre parole, mentre fino ad alcuni decenni fa ognuno poteva "sapere" che vi erano altri suoi simili che, in quel momento, morivano di fame, o erano torturati, violentati e sopraffatti, senza che tale dato gli ponesse un immediato problema etico, oggi non è piú cosí. Questo non significa, ovviamente, che tutti siamo diventati immediatamente "compassionevoli": perché è anzi evidente che tutta una parte dell'umanità postmodema - quella che ha negato ogni concetto di dovere, e ha fatto del consumismo il proprio unico criterio di comportamento - tende sempre piú, di fronte agli spettacoli orribili che si spalancano davanti ai suoi occhi, a "indurire il proprio cuore", e a diventare insensibile nei confronti delle sofferenze e delle ingiustizie che la circondano, quando non addirittura a adottare impostazioni mentali apertamente razziste. Ma vuol dire che, per chi non sceglie questo orientamento, l'idea di un "mondo uno", al cui interno i diversi possano riconoscersi come eguali, e gli eguali possano mantenere il diritto di essere diversi, si manifesta in modo sempre piú urgente. E l'espressione di questo bisogno è rappresentata proprio dalla visione di un insieme di diritti umani universali: che, includendo tutti gli uomini, li mettano sullo stesso piano.

Scambiare questa grande visione ideale di una nuova forma di convivenza planetaria per un "lista" di norme giuridiche già promulgate, e realizzabili anche con la forza, è un gravissimo errore. E non soltanto per i motivi in precedenza esaminati: per la mancanza di un codice generalmente accettato e di una autorità realmente imparziale, e perché ogni azione punitiva diretta a difendere o restaurare alcuni diritti umani ignorati provoca inevitabilmente la violazione di altri diritti dello stesso tipo: fino a quello essenziale, della conservazione della vita. Ma per una ragione ancora piú profonda: e cioè che la visione dei diritti umani ha come criterio ispiratore e come fine quello di unire gli uomini e le donne del nostro pianeta, e non di seguitare a contrapporli e a dividerli.

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Pagina 158

In una bellissima pagina della parte conclusiva della Scienza Nuova, Giambattista Vico, dopo averci posto sotto gli occhi lo spettacolo di una umanità che ha a lungo «marcito» nell'«ultimo civil malore» dell'anarchia e dell'autodistruzione, sostiene che il «rimedio» in grado di salvare «popoli di siffatta riflessiva malizia» è di far sí che essi «cosí storditi e stupidi, non sentano piú agi, dilicatezza, piacere e fasto, ma solamente le necessarie utilità della vita; e nel poco numero degli uomini affin rimasti, e nella copia della cose necessarie alle vita, divengano naturalmente comportevoli».

Ed è appunto di qui che noi - anche se la nostra situazione non ha raggiunto un eguale livello di degrado - possiamo forse trarre una indicazione anche attuale. La "comportevolezza", infatti, non è né saccente come la tolleranza (che nasconde sempre, in chi la pratica, una pretesa di superiorità), né indiscriminata come la "accettazione": che sembra imporre a tutti di accogliere acriticamente atteggiamenti e costumi che, psicologicamente ed eticamente, sentono di non potere approvare. Piuttosto è il frutto della consapevolezza che ognuno di noi, per vivere, e non distruggere i suoi simili o esserne distrutto, deve cercare di smussare i propri angoli, per adattarli e renderli "compatibili" con quelli degli altri. Perché, per quanto diversi, siamo, e dobbiamo riconoscere di essere, tutti eguali.

 

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Riferimenti


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