Copertina
Autore Santiago Gamboa
Titolo Preghiere notturne
Edizioneedizioni eo, Roma, 2013, Dal mondo Colombia , pag. 314, cop.fle., dim. 13,4x21x2,4 cm , Isbn 978-88-6632-248-1
OriginalePlegarias nocturnas
TraduttoreRaul Schenardi
LettoreAngela Razzini, 2013
Classe narrativa colombiana
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Pagina 15

CAPITOLO PRIMO



Tutte le città hanno un odore ben definito, ma quello di Bangkok è coperto da una fitta cappa di smog che lo occulta e lo rende impercettibile per la maggior parte del giorno. Quando alla fine riaffiora, a notte inoltrata — quando la città è tranquilla, quando qualcosa in lei si acquieta —, è una sostanza palpabile che aleggia nell'aria, corre per le vie sinuose e penetra nei vicoli più reconditi. Forse proviene dai canali d'acqua stagnante, dove è normale vedere gente che cucina o lava i panni, oppure dai banchi di pesce sotto sale della China Town, dalle padelle con sateh e fritture fumanti di Patpong e Silom Street, o anche dagli animali vivi chiusi nelle gabbie di vimini nel grande mercato di Chatuchak; ma può semplicemente provenire dalle esalazioni del Chao Phraya, íl braccio d'acqua marrone che attraversa la città e la invade come una lenta malattia.

Oggi piove a catinelle. Le acque del fiume si agitano tumultuosamente, tanto da ingoiarsi i sampan o le canoe che si arrischiassero a navigare. Questo è ciò che vedo dalla finestra della mia stanza al quattordicesimo piano dell'albergo Oriental, grattacielo Shangri La, un nome che significa "paradiso" ma che a me suggerisce qualcos'altro: forse "solitudine", o semplicemente "stare ad aspettare". È già l'imbrunire e bevo un gin con il viso incollato al vetro mentre contemplo il paesaggio deformato dalla pioggia: il Chao Phraya, le luci di Bangkok, i grattacieli azzurrini, i nuvoloni illuminati dai lampi e la metropoli selvaggia.

All'accensione, il condizionatore espelle dalla grata un odore intenso, un misto di umidità e ossido. Che ora è? Quasi le otto. Fra poco scenderò a cenare e poi mi berrò qualche altro gin. Nonostante l'età (quarantacinque anni appena compiuti), credo ancora nell'azzardo, nel lancio dei dadi che presuppone l'uscire di notte per farsi un cicchetto in una città straniera, un'avventura che ci coglie sempre più impacciati con il passare del tempo, ed è per questo che con gli anni alcuni preferiscono tenere la bottiglia vicino al divano e alla tv. Non è il mio caso. Io preferisco gironzolare per la città, mi rifiuto di dormire senza averci provato.

Però che sto facendo qui, a parte spargere queste elucubrazioni nell'aria viziata? Aspetto, aspetto, aspetto. O meglio: ricordo. Do appuntamenti alla memoria.

Sono venuto a Bangkok con l'intenzione di ricordare. Per rivedere quello che ho vissuto anni or sono in questa città, benché sotto una luce diversa. A volte il tempo è un problema di luce. Con gli anni certe forme acquistano brillantezza o, al contrario, si coprono di una strana opacità. Sono le stesse, ma sembrano più vive, e a volte, solo a volte, possiamo comprenderle. Non so. Può darsi che sia soltanto un desiderio, o semplici parole, ma è proprio questo che cerco: parole. Ricostruire una storia per raccontarla.

Qualcosa — naturalmente non so cosa, forse un impulso, un élan creativo, o solo una vecchia malinconia, non saprei dire di preciso — mi ha suggerito che dovevo mettere per iscritto tutte le circostanze che mi portarono a Bangkok per la prima volta, e le loro conseguenze. Una vecchia storia intrappolata in una città, che si apre verso altre storie. In quegli anni (l'epoca che voglio ricordare) tutto era diverso e io ero un'altra persona. Né migliore né peggiore, solo differente e un po' più giovane.

Vediamo. Da dove cominciare?

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CAPITOLO SECONDO



Comincerò dalla cosa peggiore, signor console. La cosa peggiore di tutte è stata la mia infanzia. Anche se a questo punto, se devo essere sincero, non so più quale sia la cosa peggiore.

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Oltre ai libri, a me e Juana piaceva il cinema. I film ci facevano sognare. Dopo andavamo a fumare uno spinello al parco, vicino al mio canale di scolo e ai miei disegni. Oppure salivamo sul tetto di casa e li commentavamo, li rivivevamo facendoli entrare nella nostra vita comune e segreta.

Il più importante, ovviamente, era il cinema d'autore: Wong Kar-wai, Fellini, Scorsese, Tarantino, George Cukor, Cassavetes, Kurosawa, Mike Nichols, Tarkovskij. Ma a volte, per assurdo, a dare maggior impulso ai nostri giochi erano i film più commerciali, quelli hollywoodiani. Per esempio, immaginavamo che io ero Edward Norton e lei Helen Hunt, o a scelta personaggi di altri film. A lei piaceva Sabrina, il remake di un film di Billy Wilder con Harrison Ford, e a me Tom Hanks in La guerra di Charlie Wilson, nel quale Juana voleva fare il personaggio di Julia Roberts, a condizione di poterne cambiare alcuni tratti: non doveva essere una milionaria di destra, bensì un'attivista, leader di una ONG. Le dicevo: Juana, se la cambi butti via la storia, scegli un altro personaggio, ma lei insisteva: dobbiamo cambiare il cattivo perché i film siano migliori, e io ribattevo: perché sei così radicale? Non possono essere tutti buoni, perché ci siano i buoni devono esserci anche i cattivi, e lei: quanto sei sciocco, io non sono obbligata a essere cattiva, se non voglio.

Fra i nostri idoli c'era Wong Kar-wai.

Nei suoi film trovavamo il senso di abbandono e quel tremendo bisogno di affetto, così nostro, che ci faceva sognare altri mondi: Asia! Hong Kong! Sapevamo che quelle città esistevano sulle carte geografiche, ma con Wong Kar-wai avevamo l'impressione che lì vivesse gente come noi: solitari in città spettrali, persone fragili nei viali e nei caffè, con l'imperiosa necessità di inventarsi ragioni per andare avanti e la sensazione di avere perso ancor prima di cominciare, perché c'è un terribile sbaglio fin dall'inizio, insomma, tutto quello che si vede in In the mood for love, Hong Kong Express, 2046 e anche in Un bacio romantico — My blueberry nights; li vedevamo in una cineteca e gli altri li noleggiavamo o li scaricavamo da Internet, una cosa straordinaria, un riconoscersi e un piacere in quel riconoscersi che ci lasciava basiti. Ma Wong Kar-wai non era l'unico, adoravamo anche il cinema di Cassavetes, La sera della prima, Ombre, L'assassinio di un allibratore cinese, dove i personaggi sono ancora più disperati, e nel vedere quei film comprendevamo che solo nel mondo dell'arte le nostre vite potevano trasformarsi in qualcosa di bello. Una contraddizione enorme, signor console, ma è così: quel grande senso di malessere avrebbe potuto far nascere qualcosa di duraturo, lo abbiamo capito da giovanissimi e per questo credevamo che le nostre vite, in fondo, avessero qualche valore, a condizione che restassimo insieme.

Vedendo i film di Cassavetes sentivamo che altre persone, negli anni Settanta, avevano vissuto esperienze simili, e siccome erano newyorkesi frequentavano sale di teatro e bar assolutamente deserti, come quelli dei quadri di Hopper, dove si beve whisky senza ghiaccio né soda, a tarda notte, e si incontrano attori e drammaturghi depressi, alcolizzati, e così, un film dopo l'altro, ci siamo addentrati a poco a poco in quel mondo, e anche nei film su New York di Martin Scorsese, da Mean Streets — Domenica in chiesa, lunedì all'inferno a Casinò, con quei personaggi un po' disadattati e fragili che hanno una gran voglia di fuggire, incerti per essere stati feriti molto presto sul ring, convinti di uscirne quasi mutilati, nascondendo lividi o cicatrici che ci fanno vergognare e ci rendono miserabili, come scrisse Sartre. La vita ci appariva così, e più tardi, leggendo A porte chiuse, capii perfettamente la sua concezione, come se un pezzo mancante e agognato si fosse unito alle mie cellule, una comprensione veemente delle idee, la certezza di aver toccato una verità, e per questo una delle sue frasi mi è ronzata in testa per anni: "L'inferno sono gli altri". Non si può arrivare a una simile concisione senza aver sentito e vissuto ciò che io sentivo in quegli anni, signor console, glielo assicuro.

Il tetto della casa era uno dei posti dove ci sentivamo liberi. Vedere gli aerei attraversare il cielo ci metteva in fibrillazione perché sapevamo che un giorno anche noi ce ne saremmo andati. Cosa succedeva lassù, dentro quelle lucine in movimento? Cosa si stavano domandando i viaggiatori? Dove erano diretti? Allora ci inventavamo le storie dei passeggeri: uno andava a studiare molto lontano e si era appena asciugato le lacrime perché la fidanzata, all'ultimo minuto, gli aveva detto che nonostante il focoso addio non pensava di aspettarlo; un povero ragazzo stava pensando, come nella poesia di Neruda, quanto sono minacciosi i nomi dei mesi, e d'un tratto Juana mi interrompeva: senti, Manuel, pensi molto al sesso? Lo hai già fatto? E io: ma dài, Juana, come faccio a perdere la verginità se non ho amiche, e lei: bene, ti troverò una bella ragazza che ti metterà in carreggiata, e se ti piacciono i ragazzi lo stesso, eh? Questo mi piace di più, un fratello gay, potremmo condividere i nostri fidanzati! Allora rispondevo: non mi pare, almeno per adesso, ma se noto qualche cambiamento ti avviso.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO



Alla fine di quell'anno ottenni il diploma e mi iscrissi a filosofia alla Nacíonal. Mamma si prese la testa fra le mani e scoppiò in lacrime. Papà, imbufalito, sbottò: «Ah, dio santo, prima la bambina si mette con i guerriglieri e adesso questo coglione vuol diventare un intellettuale! Che disgrazia! Cosa abbiamo fatto di male per avere dei figli così? Signore, perché metti alla prova la nostra pazienza?».

Quando eravamo per strada e papà vedeva dei mendicanti sotto un ponte, diceva: guarda, Manuel, un congresso di filosofi, è questo che vuoi dalla vita? Morirai di fame! Per convincerlo a smettere di seccarmi gli feci vedere in un sito Internet che il filosofo Fernando Savater aveva ricevuto venticinquemila euro per tenere una conferenza. Papà lo guardò con diffidenza e disse: non è possibile, sarà un errore o una montatura, Manuel, una tua montatura, tu con Internet riesci a fare e a disfare... Chi è questo Savater?

L'università! Finalmente mi lasciavo alle spalle quell'orribile liceo. Allontanarmi e condividere il mio tempo con persone simili a me mi diede un po' di tregua. Anche se non erano tutte rose e fiori. Un errore dei giovani consiste nel credere che le persone a cui interessano le nostre stesse cose siano per forza affini a noi. Ma la natura fa il suo lavoro e lo spirito soffia dove vuole, c'è gente invidiosa e cattiveria anche in ambienti che crederemmo governati dalla chiarezza e dalla bellezza. Comunque all'università inaugurai un periodo tranquillo, di letture intense, e per la prima volta sentii che stavo trovando un po' di armonia.

Passò il primo semestre, passò il secondo.

Oltre ad apprezzare i miei corsi, amavo gironzolare nella facoltà di arte e introdurmi a volte in qualche laboratorio per vedere cosa facevano. Pure lì, in mezzo all'odore di trementina e acquaragia, in quegli spazi dominati dalla sensualità dei colori e dei volumi, percepivo una grande quiete, anche se non mi pentii mai della mia scelta. Cominciavo a conoscere il mondo. A volte, quando uscivo tardi dalle lezioni o mi fermavo ad ascoltare una conferenza nell'anfiteatro del dipartimento, dipingevo di nascosto sui muri della facoltà: lettere, isole, tempeste e cieli.

Fu un periodo di lunghi silenzi, signor console. La routine della mia vita era piacevole e ripeterla quotidianamente, senza scosse, comportava un autentico sollievo. Assistere alle lezioni, leggere in biblioteca, sugli autobus del TransMilenio, nei prati dell'università, a casa, andare a conferenze e seminari, fare scarabocchi sui quaderni e prendere appunti. La vita in famiglia era sempre la stessa, ma adesso potevo starne lontano anch'io. Via via che mi abituavo al mondo esterno, papà e mamma mi sembravano di un'altra epoca, una vecchia foto color seppia.

Passò un altro semestre, e un altro ancora.

A volte Juana veniva a prendermi a lezione e ce ne andavamo a bere un bicchiere di vino rosso nella caffetteria o a mangiare qualcosa a Chapinero. Mi sembra ancora di vederla sul marciapiede, le mani infilate in tasca, tremante per le raffiche del vento gelido che scende dalla montagna o mentre cerca di evitare i gas di scarico degli autobus. Mangiavamo qualsiasi cosa, un involtino primavera, pollo fritto o pizza, e parlavamo dei miei corsi, delle nostre letture, di cinema e a volte anche di politica, ma mentre parlavo o l'ascoltavo avevo una strana sensazione, una specie di nostalgia preventiva, come se in quelle chiacchierate già presentissi quello che sarebbe successo poco tempo dopo: la sua scomparsa, il modo in cui, all'improvviso e senza che fosse accaduto nulla d'insolito, smise di stare con noi, senza una parola, peggio che se fosse morta, signor console, perché in quel caso si è presenti, si assiste al deperimento e si percepisce l'avanzata della morte, i suoi progressi, e arriva persino un momento in cui si desidera che venga a liberarci.

Juana scomparve senza che niente lo lasciasse presagire, anche se poi, ricordando quei pomeriggi all'università, ebbi l'impressione che già allora soffiasse un vento d'angoscia, l'urgenza di qualcosa sul punto di cadere, perché le cose tristi e tragiche si annunciano, credo, non è possibile che arrivino di punto in bianco, che accadano per caso, non le pare? Almeno è così che ricordo i fatti adesso, che me li rappresento, anche se viene da chiedersi: che cosa avrei potuto temere in quegli anni? Sapevo poco della vita di Juana. Le sue continue assenze, il presentarsi all'alba e i pianti incomprensibili erano un mistero. Le persone che scompaiono o muoiono vengono ricordate così, tutto ciò che viene prima pare avvolto da uno splendore simbolico, da un'aura che a posteriori sembra il presagio di una tragedia.

Ho notato che ci sono due modi di morire.

Il primo è una malattia devastante che ci sprofonda in una lenta agonia. È un modo triste, ma conviene a parenti e amici che hanno così il tempo per abituarsi all'idea, anche se è un'idea negativa perché porta con sé dolore, decadimento fisico e perdita della dignità. Il secondo modo è l'esatto contrario: uno sparo alla nuca, un ictus o un incidente d'auto. I parenti soffrono, però uno muore tranquillo. Se ne va di colpo. È il modo migliore.

Ma ce n'è un terzo, almeno nel nostro paese, che è crudele per tutti: la sparizione. Per tutti? La vittima soffre immaginando l'angoscia dei suoi cari. I parenti soffrono perché si aggrappano a qualsiasi speranza, e quando la perdono soffrono ancora di più immaginando la terribile solitudine di quella morte: qualcuno inginocchiato in un campo, all'alba, che trema di paura e se la fa addosso, due o tre spari e il corpo inerte che cade in una fossa, il terriccio che lo copre, la vegetazione che ci cresce sopra e lo nasconde, la prolungata sofferenza di chi indaga per anni per trovare quel luogo, tetro e mostruoso, cercando di capire le ragioni – sempre inspiegabili – dell'accaduto e degli assassini, la riesumazione delle ossa che ci si stringe al petto per baciarle, per tentare di alleviarne la solitudine, per inondarle di lacrime.

Quando Juana scomparve, provai tutti quei sentimenti: dolore, odio, tristezza, pena, rancore e senso di colpa.

Non avevamo nemmeno una data, quando era accaduto? Non lo sapemmo mai, non ce ne rendemmo neanche conto. Lei se ne andava per i suoi viaggi lasciando vaghi riferimenti e la famiglia si era abituata. Io mi ero abituato. Juana mi chiedeva di capirla: stava lavorando al nostro progetto di fuga e non dovevo fare domande, ma fidarmi ciecamente. Perciò non ho mai saputo in quale momento accadde.

Semplicemente, un giorno mi accorsi che non c'era più.

Da allora è iniziato un susseguirsi di pensieri, di immagini intollerabili e di parole urtanti. La mia prima reazione fu quella di prendere lo zaino di bombolette spray e dipingere Juana su tutti i muri della città: i suoi occhi, il palmo della mano che sosteneva il mento, l'espressione sorridente, la sua sagoma che mi veniva incontro, e una domanda: dove sei? Per me era inconcepibile che il mondo continuasse a girare senza di lei, che spuntasse il sole e sbocciassero germogli dai tronchi degli alberi e succedessero catastrofi in luoghi remoti, com'era possibile che la ruota non si fermasse? Un giorno, nella Treinta, passai di fianco a uno dei miei graffiti e vidi che qualcuno, un graffitista anonimo, aveva scritto accanto al mio disegno: "Perché non riappari? Non vedi come soffre?". In qualche modo la città mi rispondeva.

L'hanno ammazzata, pensai, sarà finita in una delle tante fosse comuni di questo paese pieno di cimiteri, il nostro bel territorio nazionale, e il suo cadavere sarà già putrefatto, le sue ossa cominceranno a sgretolarsi senza che nessuno le accarezzi, senza che abbia potuto baciarle.

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CAPITOLO SESTO



Sono stata una bambina felice, console, ma in un mondo triste, opaco. Un mondo in bianco e nero. E perché? Me lo domando ancora adesso. C'era ben poco in quella felicità, a guardarla da dentro: paesaggi nuvolosi, persone grigie che odiavano la loro vita e sognavano qualcosa di diverso, gente che non riusciva a somigliare a niente di ciò che credeva bello, esseri triviali coscienti della propria trivialità, prigionieri di qualcosa che non aveva fine né poteva averla. Finché ho creduto che il mondo fosse uguale per tutti sono stata una piccola regina. Poi ho constatato che non era così e ho provato rabbia. Una rabbia che non mi è ancora passata, e comunque non è di questo che voglio parlarle.

Come nelle favole per bambini o nei romanzi russi, comincerò dall'inizio. Anche se l'inizio è noioso. Ero la cocca di casa finché, a quattro anni, mi annunciarono che avrei avuto un fratello. Mi sentii tradita e questo scatenò l'odio, la sensazione di abbandono e persino di essere orfana, e quando il bambino nacque desiderai che morisse. Era un intruso, un clandestino. Nel vederlo gattonare nel mio spazio, notando con orrore come si muoveva sulle mie cose, mi vennero molte idee: spingerlo giù per le scale, aprire la porta perché si perdesse per strada. Però mi resi conto che nonostante la novità continuavo a essere la cocca di casa, e questo gli salvò la vita. Il mio posto non era in pericolo e per esserne sicura li obbligai a scegliere. Li misi alla prova. Papà preferiva sempre me. Allora mi tranquillizzai. Il mio piccolo mondo continuò a funzionare più o meno come prima, e passarono gli anni. Io continuavo a ignorarlo. Non vuoi bene al tuo fratellino? mi domandavano, e io: sì, certo, è il re del mio paese e io sono la regina, e tutti ridevano e dicevano che eravamo tanto carini, ma non si accorgevano del mio disprezzo. Per i suoi pannolini, il suo talco e i suoi lugubri pianti. Lo detestavo e mi dicevo: dio l'ha mandato per mettermi alla prova, perché a quell'epoca credevo in dio, sa? Pensavo: è qui solo per vedere cosa faccio, ma poi dio lo toglierà di mezzo. Dovrò stare molto attenta. Così ho sempre creduto, e aspettavo, aspettavo, ma dio non mi dava mai soddisfazione.

Papà mi idolatrava.

Non l'ho mai amato come lui amava me. Era un pover'uomo a cui avevano torto il collo e spezzato le ali. Cosa potevo fare? Decisi di starmene buona e di aspettare. Le mie compagne di scuola erano più fortunate, le loro famiglie erano ricche e importanti e nelle loro vite non c'era quel sapore rancido, quell'atmosfera di desolazione che si viveva in casa mia. Cosa feci? Restai tranquilla. In agguato.

Un giorno mio fratello si ammalò e credetti che dio mi avesse ascoltato. Lo portarono in ospedale e pensai: addio a tutto questo, tornerà il mondo senza di lui e sarà migliore. Sui volti dei miei lessi che era grave, ma notai (e in qualche modo capii) che per loro non sarebbe stata una gran perdita. Avevano me, perché volere di più?

Un sabato mi proposero di andare a fargli visita e accettai, va bene, farò un piccolo sacrificio, ma guardai in alto e dissi: dio, so a che gioco stai giocando, andrò a trovarlo, ma poi te lo porti via, d'accordo? Entrando nella sua stanza lo guardai negli occhi e accadde una cosa molto strana. Era la prima volta che lo guardavo così, e quello che vidi mi cambiò la vita. Come posso spiegarle? Capii che dio non esisteva e che nessuno lo aveva mandato per mettermi alla prova, era solo una personcina terribilmente sola e fragile che sembrava dire: ecco l'altra metà della tua anima. Questo gli lessi negli occhi, e c'era di più, una specie di percorso, o un mondo; a quel tempo non avevo ancora letto Rimbaud, ma più tardi capii: "All'aurora, armati di un'ardente pazienza, entreremo in città splendide". Ecco le parole di quel cammino che, pensavo, dovevamo fare io e lui, da soli, perché in fin dei conti nei suoi occhi silenziosi c'era una voce, la voce di un fantasma che sembrava sussurrare: anche tu sei qui, in noi c'è lo stesso soffio, la mia anima e la tua sono unite, non strapparle, allora allungai la mano e lo toccai, comprendendo profondamente chi era, e subito, per la prima e unica volta nella mia vita, provai l'amore, un cataclisma che per poco non mi seppellì, una tempesta che mi tolse il respiro, qualcosa di così grande che da quell'istante mi riempì la vita e dopo non riuscii più ad amare nessun altro, neanche oggi, solo mio figlio, che si chiama anche lui Manuel perché entrambi sono fatti della stessa materia: la carne, le ossa, il sangue e lo sguardo di quell'amore.

Non fu necessario parlare. Non ci dicemmo niente, eravamo così piccoli! Ma comprendemmo di essere uniti: ci eravamo riconosciuti. Perciò mi impegnai a proteggerlo. Era il mio fratellino. Lo protessi finché potei dalla malvagità di quella città, e da quella età tanto crudele che è l'infanzia. Cercai di proteggerlo anche dalla famiglia. Non so se ci sono riuscita. E poi, mentre cresceva, ho percepito la sua intelligenza fuori dal comune. Le sue opinioni sulla vita e sul mondo, e più tardi sull'arte, erano straordinarie. Tutto in Manuel era geniale, enigmatico e sovrumano. Dentro di lui si sviluppava qualcosa di bello e io ero lì per prendermene cura, come una brace accesa che bisogna cullare tra le mani perché si converta in fuoco. Questo ci diede forza. A volte il coraggio nasce da due vigliaccherie. È stato il nostro caso.

A quindici anni cominciai a sentire che dovevo trovare il modo per scappare. Un giorno vedemmo il film Papillon, con Steve McQueen e Dustin Hoffman, e ci dicemmo che dovevamo fare così anche noi, uscire dall'isola prigione approfittando delle maree, fuggire a ogni costo, o quello o la morte, lasciare la nostra triste casa, il quartiere piccolo-borghese con il suo arrivismo e l'odiata, squallida città. La nostra isola prigione. Dovevamo tuffarci quando l'onda fosse stata grossa, come in Papillon.

Grazie a un amico che viveva nell'isolato, fin da piccolo Manuel cominciò a leggere libri. Poi, con mia grande sorpresa, si mise a dipingere graffiti. Immagini bellissime, isole, mari e tempeste. Aveva dentro un mondo affascinante che io volevo conoscere, toccare. Perciò dovevo racimolare i soldi per comprargli bombolette spray, libri e dvd, insomma, perché avesse tutto quello di cui ha bisogno un'anima nobile, così mi cercai dei lavoretti a scuola. Facevo i compiti per i compagni ricchi, scrivevo i loro temi firmandoli con il loro nome e suggerivo durante gli esami. Mi pagavano e io me ne andavo tutta contenta a cercare le cose più belle per lui; mentre le mie compagne di classe guardavano le vetrine dei negozi di abbigliamento e chiedevano i prezzi, io mi aggiravo fra i libri toccandone i dorsi, seguendo l'ordine alfabetico, scoprendo io stessa l'immenso piacere di comprarli, l'odore degli scaffali, quel silenzio carico di sapienza che c'è in mezzo ai libri e alle persone che li acquistano, un'atmosfera pregnante, e così tornavo a casa con due, a volte tre volumi nuovi, consapevole di dare a Manuel un po' della vita che non aveva, e che quello era lo spazio nel quale entrambi, in futuro, saremmo stati felici.

Lasci che le racconti alcuni particolari intimi, console, e mi scusi. Quando avevo sedici anni, una compagna di scuola sul bus mi disse: l'ho persa. Era un lunedì. Sabato sera era stata con il suo fidanzato a una festa e poi in un motel. Queste cose sono importanti per una ragazzina. Almeno per me. Un esercito di formiche mi corse su per le vene e le domandai: cos'hai sentito? E lei: credevo di morire, devo essere svenuta. E io, curiosa: ma ti ha fatto male? Un pochino all'inizio, rispose, però è così bello che si sopporta. Da quel momento per me divenne un'ossessione, ma non avevo un fidanzato, né volevo averlo. Alle feste ballavo con i ragazzi e li abbracciavo, ma non li prendevo sul serio. Poi finalmente conobbi un tipo. Frequentava una scuola straniera ed era ricco. Quando mi chiese il numero di telefono gli dissi: chiamami, ti conviene. A metà settimana chiamò e a dire il vero non ne avevo nessuna voglia, era abbastanza idiota, ma il sabato, quando venne a prendermi a casa per andare a mangiare un gelato, gli dissi: senti, ti propongo io qualcosa, andiamo in un motel e mi svergini, ok? Il tipo rimase sbalordito, comunque rispose: subito! Accelerò e salimmo su per la via che porta alla Calera, e lì, in una camera con jacuzzi, impianto stereo e vista su Bogotà, la persi, niente di spettacolare, anzi, scarsa intensità, ma almeno era cosa fatta, e il lunedì lo raccontai alla mia compagna di scuola: fatto, l'ho persa anch'io, e cominciammo a fare confronti: era grosso così? E che odore aveva? E in quanto tempo è venuto? E ha messo il preservativo? Cose del genere.

A metà settimana il tipo chiamò per invitarmi a una festa, ma io risposi: niente feste, non sono mica la tua ragazza, se vuoi scopare scopiamo, ma non propormi stronzate, e lui, che era attraente ma anche un gran coglione, ribatté: bene, Juana, non perdi tempo, eh? Facciamo quello che vuoi tu, e così ebbi un amante, e siccome non gli facevo caso il tipo si prese la cotta del secolo – in questo gli uomini sono tutti uguali – così mi chiamava per dirmi: ehi, Juanita, voglio vederti, posso venire a casa tua? E io: neanche per sogno, chiamami sabato, e non allargarti, non fare l'allupato, e il sabato chiamava e gli dicevo: no, vado al cinema con mio fratello, e lui: cosa vai a vedere? E io: no, furbastro, è uno di quei film che a te non piacciono, e lui: ehi, Juana, al contrario, mi affascinano Fellini e Pasolini e tutti quei cognomi italiani, davvero, e io ribattevo: no, grazie mille, chiamami sabato prossimo, allora il tipo provava a indagare con le mie amiche, ma nessuna sapeva dove vivevo, e lui telefonava come un ossesso, mandava sms o messaggi via Facebook pieni di cazzate, finché mi fece perdere la pazienza quando disse che moriva d'amore per me, che aveva bisogno di vedermi, che non riusciva a smettere di piangere, allora gli mandai un messaggio di questo tenore: bene, questa frociata è finita, ciao, ti bannerò e ti cancellerò dalla mia pagina Facebook e da tutto, capito? Quindi è meglio che non insisti, grazie; chiaramente il tipo era a pezzi e tramite gli amici continuava a mandarmi messaggi e regali, io gli restituii tutto e lo misi negli spam, finché si presentò a scuola in lacrime e s'inginocchiò, a quel punto gli dissi: va bene, alzati, sei ridicolo, parleremo sabato, e il tipo se ne andò, poi chiamò quel sabato e io gli dissi: vieni a prendermi al Pomona e andiamo in un motel, ma a condizione che non parli e non dici le solite cazzate, e così fu, scopammo e il tipo rimase zitto, e in quel modo mi andava bene perciò continuai a vederlo, comunque un giorno gli dissi: guarda, è meglio se ti cerchi un'altra ragazza, se vuoi continuiamo a scopare finché non l'hai trovata, ma ti avverto che questa storia non durerà ancora molto, mi iscrivo all'università, studierò sociologia e non intendo più frequentare fighetti e nemmeno voglio saperne di gente come te, capito? Ti rispetto, non voglio fare la stronza e per questo te lo dico fin da adesso, così non mi diventi isterico come l'altra volta, ok?

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