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| << | < | > | >> |Indice9 Bathygraphica 15 La visione 37 Il disegno 157 Il luogo 203 Gli occhi 285 Le tenebre 337 Bibliografia 357 Indice dei nomi _______________________________ |
| << | < | > | >> |Pagina 9BathygraphicaPer l'autore la prefazione è l'ultima occasione di riprendere un discorso che all'inizio, e almeno per un po', ha assecondato docilmente le sue intenzioni, e però poi ha cominciato ad esprimerne di proprie, imponendo deviazioni e complicazioni impreviste, magari spostando di poco o anche di tanto la stessa conclusione e quindi la traccia e il senso dell'intero tragitto. Chi scrive, alla fine - l'inizio per chi legge -, deve ripetersi nel modo più semplice possibile quelle domande che hanno accompagnato le determinazioni iniziali e le loro successive modificazioni, esponendosi ancora una volta al rischio di svelare la loro improprietà e impertinenza. Una attestazione di potestà limitata come questa vale forse per ogni materia, ma per l'argomento affrontato qui probabilmente anche di più. Le domande, dunque: perché preoccuparsi dell'abisso e specialmente della sua versione liquida? Più precisamente, perché occuparsi dell'immagine e di quell'immagine particolare che è il disegno dell'abisso, intendendo per disegno quel genere di immagine che è stata fatta concretamente da qualcuno, e che poi è guardata come fatta da qualcuno? Pensando Bathygraphica dopo Palæontograhica - e magari prima di qualche altra indagine altrettanto parziale ed eccentrica - sembra che quel che accomuna questi diversi discorsi sia una riflessione sul disegno di qualcosa di essenzialmente profondo, e, specularmente, sulla essenziale e speciale profondità del disegno. Riguardo all'urgenza dell'argomento, o alla sua attualità, c'è da chiedersi che cosa ne sia oggi dell'abisso. E poi se ci sia un rapporto tra la riduzione di ogni profondità abissale, e la diminuzione di spessore e di senso delle stesse immagini in quanto immagini. Allo stesso modo degli abissi del tempo anche quelli dello spazio sono stati oggetto di un'espropriazione. I territori più distanti sono stati scoperti ed esplorati dalle avanguardie scientifiche del pensiero, che vi hanno piantato le loro bandiere a nome di tutta l'umanità, e però riservandosi un diritto quasi esclusivo di accesso e di competenza, e quindi indirettamente anche un diritto supplementare e non dichiarato di prelazione immaginativa. L'introduzione alle epoche più lontane del passato o del futuro così come ai luoghi geografici e astronomici più distanti, è compito degli uomini di scienza, così come un criterio di verità, o almeno di verosimiglianza scientifica, viene imposto ad ogni discorso - anche non scientifico - che ne tratti. Nell'epoca della divisione esasperata dei saperi si moltiplicano i confini che spartiscono i domini di ciò che è noto, e quindi pretendono di prolungarsi in quelli dell'ignoto, nell'impaziente attesa della loro colonizzazione. La materia prima dell'abisso è essenzialmente l'ignoto - il vuoto in quanto vuoto di conoscenza -, che non tollera confini e spartizioni preliminari, nemmeno quelli che dovrebbero separarlo dal noto. Ed è anche certo che l'ignoto non è solo al di là o tanto al di là di un confine, di un contorno indisegnabile, ma anche al di qua. E quello che c'è al di qua non è sempre così piccolo da doversi nascondere in minime lacune, ma ha misure che a volte superano ogni previsione e allora si deve ridisegnare tutta un'intera mappa, tutto un sapere. Valga come esempio proprio un caso batigrafico, e cioè la scoperta relativamente recente di una delle cose più grandi dell'intero sistema solare - le dorsali oceaniche - dentro una carta dei fondali marini che ormai sembrava non avere più niente da nascondere. Nelle regioni più distanti dal pensiero - e del pensiero - non si confondono solo le partizioni delle diverse scienze della natura. Così come c'è un abisso che possiamo dire esteriore - in fondo all'oceano, nello spazio interstellare, nei minimi interstizi della materia -, ce n'è anche uno interiore, che è stato provvisoriamente mappato e nominato con il nome di "inconscio". | << | < | > | >> |Pagina 15La visioneC'è una visione ricorrente, e in qualche modo emblematica, che accompagna la lenta formazione dell'immagine attuale degli abissi marini, principalmente quella prodotta all'interno del discorso scientifico ma non solo quella. Questa visione, più spesso detta che disegnata, è quella di una Terra prosciugata, svuotata dell'acqua dei mari e degli oceani: a volte è una semplice premessa alla descrizione dei fondali marini - "fingiamo di prosciugare il mare per mostrare cosa c'è sotto" -, altre volte è la previsione o la fantasia di una catastrofe globale. Nel caso della finzione didattica così come in quello della fantasia apocalittica, quest'immagine si accompagna spesso a quella di uno scheletro o di un cranio, come se lo scoprimento di ciò che sta nascosto nelle profondità marine si potesse attuare solo al prezzo della morte del mare, e quindi della Terra stessa. La prima occorrenza notabile di questa visione si trova in quella particolarissima ricapitolazione della storia passata e futura del nostro pianeta che è Telluris Theoria Sacra di Thomas Burnet , un testo pubblicato per la prima volta in latino nel 1681, e poi in inglese con il titolo di The Theory of the Earth. Secondo Burnet, la Terra antidiluviana era una sfera perfettamente liscia, una sconfinata pianura senza montagne e senza mari, e la gran massa delle acque stava tutta racchiusa negli strati inferiori, in «the great Abysse [that] spread under it». La faccia della Terra così come oggi la vediamo, con i suoi profili e i suoi contorni irregolari, sarebbe allora quel che resta della catastrofe totale sopravvenuta allo stato di iniziale perfezione, e voluta per punire l'empietà della prima umanità. Il crollo della crosta terrestre avrebbe prodotto la violenta fuoriuscita delle acque sotterranee e il diluvio universale, mentre poi il loro ritiro avrebbe portato allo scoperto i bordi di quella colossale rottura. Alla luce della sua teoria Burnet suppone che ci sia una corrispondenza tra l'aspetto fratto e "rovinoso" delle terre emerse e quello delle terre sommerse: «È ragionevole credere che il fondo del mare sia tanto corrugato, spezzato e irregolare quanto lo sono i continenti. Là sotto ci sono montagne e valli, e picchi e creste rocciose [...]». L'immaginazione prova quindi a fingersi la Terra senza i mari, ma la difficoltà è tale che è quasi più facile dire l'assenza piuttosto che la presenza dell'abisso: [...] supponiamo di prosciugare l'Oceano, e di guardare la sua cavità vuota dall'alto di una nuvola: non ci sembrerebbe uno spettacolo orribile e spaventoso? Con quale meraviglia guarderemmo quell'inferno scoperchiato sotto di noi, quel gran pozzo senza fine? Così profondo, e cupo, e grande. Distrutto e confuso, senza forma e veramente mostruoso! | << | < | > | >> |Pagina 29Più recentemente un'altra scoperta ha riportato alla luce il paesaggio di un mare prosciugato ed è quella relativa alla chiusura dello stretto di Gibilterra e al conseguente quasi completo disseccamento del Mediterraneo, un evento geologico di grande portata datato ad un periodo di circa cinque milioni e mezzo di anni fa. All'inizio degli anni Settanta una nave attrezzata per le trivellazioni oceaniche, la Glomar Challenger, preleva dei campioni di roccia dai fondali del Mediterraneo, e ne ricava la prova della cosiddetta "crisi di salinità del messiniano", cioè del parziale prosciugamento di questo mare alla fine del Miocene. Kenneth Hsü , il geologo che dirige la missione, qualche anno dopo pubblica il libro The Mediterranean Was a Desert, una specie di diario che assomiglia molto a quelli di altre esplorazioni "estreme" di quegli anni, come la discesa di Jacques Piccard nella fossa delle isole Marianne, o le missioni lunari del progetto Apollo. Nonostante Hsü si dilunghi nella descrizione di tante complicazioni tecniche e pratiche allo stesso modo di Piccard, il riferimento a certi eventi straodinari - il fondo del Mediterraneo ridotto ad un deserto di sale, la morte della flora e della fauna marina, l'irrompere delle acque dell'oceano dopo la riapertura dello stretto di Gibilterra - fa comunque immaginare un panorama grandioso e apocalittico.The Mediterranean Was a Desert si distingue per una certa piattezza d'intonazione, che inizialmente passa quasi inosservata - in fondo agli scienziati non si chiede di stupire e di stupirsi - ma poi viene da pensare che tra l'"aridità" della narrazione e quella dell'argomento trattato ci sia qualcosa di più di una corrispondenza metaforica: è come se l'abisso si sia consumato e svaporato non solo in certe epoche della Terra, ma un po' alla volta anche nelle sue stesse rappresentazioni. Il bisogno di vedere fino in fondo, di vedere il fondo togliendo l'abisso, fa dire a uno scienziato come Maurice Ewing: «Per me l'oceano non è altro che una nebbia fitta che mi impedisce di vedere il fondo. Ad esser sincero, io lo svuoterei tutto». Tante carte realistiche dei fondali oceanici prodotte in tempi recenti fanno pensare ad una metafora osteomorfa come quella di Goeree. Il termine stesso di "dorsale" attribuito a quelle colossali formazioni geologiche che attraversano il fondo degli oceani ricorda "le vere costole della Terra" che già Maury si proponeva di portare alla luce. È d'obbligo il riferimento alle mappe in rilievo disegnate da Marie Tharp a partire dalla metà del secolo scorso, in cui l'esagerazione delle altezze drammatizza i paesaggi abissali e fa davvero assomigliare le dorsali e i loro fianchi ad uno scheletro, lo scheletro della Terra appunto. Di questi disegni e delle loro implicite ed esplicite visioni si dirà di più nei capitoli seguenti, qui basta la breve descrizione di una carta in cui l'immagine degli abissi esposti è quanto mai terribile proprio perché rievoca e aggiorna la visione di una Terra scarnita e prosciugata. Si tratta di The Floor of the World Ocean di Richard Edes Harrison, pubblicata una prima volta nel 1959 per «Fortune Magazine» e poi ridisegnata e ristampata nel 1961, dopo che gli originali erano andati perduti in un incendio. La carta è una rappresentazione abbastanza inusuale del globo terrestre, e cioè una proiezione ellittica di Briesmeister - una variante di quella di Hammer - centrata sull'Antartide e l'Australia in modo da privilegiare la visione degli oceani piuttosto che quella delle terre emerse. Per mantenere uniti in un'unica figura tutti i mari, Harrison chiude i contorni del Mar dei Caraibi e dell'Artico facendoli sbordare oltre la cornice ellittica del disegno. Il fondo del mare è reso in modo realistico con un tratto sfumato e con una marcata ombreggiatura corrispondente ad un "sole" collocato in alto a destra. La differenza tra le parti di colore più scuro e quelle più chiare distingue i fondali abissali da quelli meno profondi, con un artificio simile a quello già impiegato da Burnet e da Goeree. I continenti sono ridotti al loro contorno, senza alcuna caratterizzazione dell'interno, e, a parte il nome degli stessi continenti e la griglia dei meridiani e dei paralleli, la carta è completamente "muta". L'impressione è quella di vedere la superficie desertica di un altro pianeta, di una Terra differente da quella che conosciamo, di un'epoca lontana nel passato o nel futuro in cui i mari si sono definitivamente prosciugati, le terre si sono appiattite e quel che era sotto - l'abisso - è venuto sopra, quasi fosse stato spinto verso l'alto da una pressione interna. In questa Terra alla rovescia i vuoti, cioè i fondali marini, sono diventati i pieni con le loro differenti catene montuose e le loro valli, e i pieni, i continenti, sono diventati i vuoti. Harrison marca con cura le dorsali e i bordi frastagliati delle placche tettoniche e così di nuovo viene in mente l'analogia tra questa strana Terra e le ossa di un cranio. La visione macabra della terra prosciugata e scarnificata è ambivalente e contraddittoria. | << | < | > | >> |Pagina 37Il disegno[...] La storia di questo conflitto tra pieni e vuoti fissata nei contorni e nel tratto di un disegno può iniziare anche con un disegno vuoto. Un rettangolo bianco incorniciato però non può che essere un paradosso, uno scherzo, e infatti la carta vuota del mare che Lewis Carroll mette in mano allo scombinato equipaggio di The Hunting of the Snark è un gioco, anche se in fondo un po' più serio di quel che potrebbe sembrare. La mappa che Carroll allega al poemetto non è un foglio tutto bianco, altrimenti come si potrebbe capire che è una mappa? C'è un titolo - Ocean-Chart -, c'è una scala metrica, c'è una cornice doppia, e, messi un po' a caso attorno alla cornice, i termini dei generici riferimenti geografici: North, East, South, West, Zenith, Nadir, Latitude, Longitude, North Pale, South Pole ecc. In questa carta al tempo stesso non c'è niente - il rettangolo bianco dentro la cornice -, e c'è tutto - tutte le direzioni e i punti notevoli del globo terrestre -, e poi c'è anche qualcosa, cioè un pezzo qualunque di mare lontano da ogni costa e da ogni isola. La storia finisce quando uno dei membri dell'equipaggio, il Baker, trova finalmente la misteriosa creatura che tutti stanno cercando, e però per sua disgrazia è un Boojum, ovvero la variante letale dello Snark che non è solamente invisibile ma ha anche il potere di far sparire chi ha la cattiva sorte di imbattersi in essa. L'ultima illustrazione, disegnata come le altre da Henry Holiday sotto la supervisione dello stesso Carroll, mostra proprio l'attimo della sparizione: su uno sfondo, che stavolta è nero, si intravedono appena le sottili e discontinue linee bianche che formano il volto del Baker, contratto in un'estrema smorfia di spavento e di stupore. La carta bianca e il ritratto nero, all'inizio e alla fine dello Snark, in fondo sono due immagini speculari del vuoto e dell'abisso: la prima in un certo modo ne rappresenta la superficie superiore, la seconda il fondo. | << | < | > | >> |Pagina 126Nel 1961 la Geological Society of America pubblica il secondo diagramma fisiografico dei fondali oceanici di Bruce Heezen e Marie Tharp: il Physiographic Diagram of the South Atlantic Ocean. Per la prima volta in un disegno della Tharp si vedono le faglie trasformi, un genere di formazioni che qualche anno dopo verranno spiegate da John Tuzo Wilson. La dorsale oceanica non è una frattura continua, ma è spezzata in diversi segmenti slittati tra loro di decine, in alcuni casi anche di centinaia di chilometri. Da ognuno di questi tratti, da una parte e dall'altra, si generano delle fasce di nuova crosta e le superfici di scorrimento tra le diverse fasce, parallele tra loro e per lo più ortogonali alla dorsale, sono appunto le faglie trasformi.Queste faglie insieme ai pezzi di crosta che si dipartono dall'asse della dorsale formano una figura che davvero fa pensare alle "costole della Terra". Nel 1968 Heezen e la Tharp pubblicano la seconda edizione aggiornata del diagramma fisiografico dell'Atlantico settentrionale: la differenza principale di cui ci si accorge confrontando questa versione con la prima è proprio la nuova forma della dorsale, non più incisa solo dalla frattura centrale, ma anche dalla trama parallela delle faglie. L'aspetto complessivo è totalmente differente e dà immediatamente l'impressione del movimento continuo di scorrimento dei fondali: è una figura del tempo geologico, un'immagine dinamica che in un certo modo contiene la forma passata e futura della Terra. Qui il disegno ormai incorpora lo schema, e lo schema tiene assieme tutto il disegno. La figura della dorsale e delle parti ad essa direttamente connesse, e cioè le faglie trasformi e le fasce di crosta che si allargano lateralmente per centinaia o migliaia di chilometri, ormai riempie e "spiega" gran parte del fondale oceanico, ad eccezione di poche piane abissali in cui le faglie e le fasce affondano e spariscono negli strati dei sedimenti più antichi. Finalmente la Tharp può spostare quel cartiglio che prima copriva un tratto della dorsale medioatlantica particolarmente difficile da interpretare, dove la dorsale stessa si spezza e i suoi diversi segmenti slittano anche di molto tra loro, appunto in corrispondenza di alcune grandi faglie di scorrimento. | << | < | > | >> |Pagina 131Nel 1967 la rivista «National Geographic» pubblica come supplemento al numero di ottobre la prima carta frutto della collaborazione di Heezen, della Tharp e del pittore austriaco Heinrich Berann, cioè quella dell'oceano Indiano. Nel 1968, nel 1969 e nel 1971 toccherà a quelle rispettivamente dell'oceano Atlantico, dell'oceano Pacifico e del mare Artico. La carta con i fondali dei mari antartici non verrà allegata alla rivista ma sarà inclusa invece nell' Atlas of the World del 1975. Finalmente nel 1976, non più su commissione della National Geographic Society ma dell'United States Navy Office of Naval Research, viene pubblicata la carta di tutti i fondali oceanici, anch'essa dipinta da Berann sulla base delle indicazioni di Heezen e della Tharp.Di fronte a questa monumentale impresa grafica c'è da domandarsi del suo significato, che non sembra affatto scientifico ma piuttosto divulgativo, considerata anche la grandissima diffusione della rivista. Il grande pubblico poteva finalmente vedere un'immagine verosimile del fondo degli oceani e rendersi conto dell'estensione e della profonda differenza del mondo degli abissi, quasi un altro pianeta nascosto sotto il nostro. Guardando ognuna delle diverse tavole, ma soprattutto l'ultima, viene spontaneamente da commentarla con il termine "stupefacente». Marie e Bruce volevano vedere di nuovo e per intero la dorsale oceanica, la loro gigantesca creatura distesa sul fondo del mare prosciugato, nell'unico modo in cui era possibile rivederla, cioè con un altro disegno. Non c'è ormai più bisogno di inventarsi altri mostri, non c'è più bisogno di scoprire continenti scomparsi: la dorsale è una delle più grandiose e stupefacenti cose di tutto il sistema solare. L'inquadramento della terra e dei mari nella grande mappa dipinta da Berann è scelto proprio in funzione di una visione completa della frattura che attraversa tutto il pianeta. Partendo da sinistra si vede la dorsale passare tra l'Australia e l'Antartide, poi attraversare l'oceano Pacifico e salire fino al golfo dell'Alaska. Ad est delle Americhe la dorsale riprende a nord dall'Islanda, che è il suo unico tratto emerso, attraversa da nord a sud tutto l'Atlantico e piega sotto l'Africa verso est, infine si congiunge con il tratto che attraversa l'oceano Indiano dal golfo di Aden al Pacifico meridionale. | << | < | > | >> |Pagina 147Nella storia dell'oceanografia più di una volta è capitato di pensare assieme il cielo e gli abissi. Prima le stelle e poi i satelliti sono stati interrogati per sapere le coordinate delle navi impegnate nei sondaggi dei fondali oceanici. L'invisibilità degli abissi marini spesso è stata messa a confronto con la relativa visibilità della superficie dei pianeti del sistema solare, guardata dai telescopi o mappata dalle sonde. Riesce difficile pensare che i satelliti che tutto vedono, non riescano in qualche modo a penetrare l'acqua del mare e a vedere sotto. In realtà qualcosa riescono a vedere, o a sentire, e questo qualcosa è una specie di confusa impronta del fondo. La forza di gravità che agisce sulla massa liquida degli oceani non è uniforme, ma risente delle variazioni di altezza e di densità della crosta solida: in corrispondenza dei rilievi la forza di gravità aumenta - non tanto, ma comunque abbastanza da far salire un po' il livello del mare sovrastante -, mentre in corrispondenza delle fosse si abbassa, e il livello del mare cala con essa.I satelliti sono in grado di rilevare con sufficiente precisione queste minime anomalie e così di vedere appunto l'impronta del fondo del mare sulla sua superficie. Nel 1978 viene lanciato un satellite, il SEASAT, il cui altimetro riesce a misurare la distanza della superficie media del mare con uno scarto dell'ordine di pochi centimetri. Pochi anni dopo William Haxby, un geofisico del Lamont-Doherty Geological Observatory, traduce questi dati in una mappa a colori che mostra, con una certa approssimazione, la forma dei fondali marini, e nella reazione dei colleghi lo stupore si esprime con la solita immagine della Terra prosciugata: «è come se [Haxby] avesse tolto un tappo gigante dal fondo del mare e tutta l'acqua degli oceani fosse uscita». Il grado di risoluzione della mappa prodotta in questo modo non è certo elevato ma è sufficiente a mostrare forme sottomarine della grandezza di 30-40 chilometri, molte delle quali prima del tutto sconosciute: nuove creste, nuove spaccature, nuovi vulcani abissali. In certe zone sembra addirittura di vedere le tracce plastiche della deriva continentale: «"Si consideri la frattura che va dall'estremità [meridionale] dell'Africa alle isole Falkland al largo delle coste dell'Argentina", suggerisce Haxby. "Se si ruota il continente africano seguendo questa frattura, si può vedere bene come l'Africa un tempo si incastrasse perfettamente con il Sud America"». | << | < | > | >> |Pagina 154[...] Ormai ogni immagine legittima degli abissi è tale perché è un prodotto scientifico, più in generale l'immagine condivisa degli abissi è ormai quella che proviene dalla scienza e solo dalla scienza.Oggi raramente un pensiero diverso da quello scientifico scende sul fondo del mare, un po' perché tenuto lontano dal rispetto per la pertinenza scientifica, un po' perché quel fondo sembra ormai meno profondo. Talvolta lo fa nel tentativo di rigenerare lo stupore e il timore per un mondo alieno così vicino e al tempo stesso così estraneo. Un artista e uno storico, Adam Lowe e Jerry Brottom, hanno rielaborato le mappe digitali delle terre emerse e dei fondali oceanici, quelle mappe che sono state incluse nei mappamondi virtuali dei motori di ricerca, così che ormai l'immagine degli abissi è diventata un "luogo comune", letteralmente e definitivamente addomesticata. Lowe e Brotton hanno realizzato una serie di modelli tridimensionali in cui hanno riprodotto la superficie terrestre impiegando diversi e inconsueti metodi proiettivi: In conseguenza delle particolari proiezioni adottate e del loro orientamento, dell'esagerazione delle altezze e delle profondità, e poi dello svuotamento dei mari, chi guarda si trova di fronte ad un mondo che subito gli appare estraneo. Le linee di costa e i confini a cui tutti siamo abituati sono spariti, e al loro posto c'è un suolo alieno e frastagliato che possiamo guardare girandoci attorno, attratti da un mondo che credevamo di conoscere, ma invece avevamo dimenticato. Il risultato è straniante, soprattutto per l'anomalia della proiezione e le altezze esasperate, ma poi però è la grana minuta della mappa modellata - la sua caratteristica rete di razionalità - a rendersi massimamente evidente, a ridurre ogni profondità e ad espellere l'abisso dal fondo di questo mare fittizio: nella trama discontinua e discreta dei solidi elementari non c'è più niente da vedere, non c'è più niente da temere, se non forse quell'Abisso che ancora si cela dentro il nostro sguardo e le immagini che lo attraversano. '39 Adam Lowe, Jerry Brotton, Re-visioning the World: Mapping the Lithosphere, in Simon Schaffer, John Tresch, Pasquale Gagliardi (eds.), Aesthetics of Universal Knowledge, Palgrave Macmillan, Cham 2017, p. 46; trad. dell'autore. | << | < | > | >> |Pagina 157Il luogoL'idea di uno spazio continuo e di un tempo lineare si è imposta sulla terra e sul mare ormai da tempo. L'abisso conosciuto - e anche quello sconosciuto - ha subito la stessa sorte, e però ha davvero senso per un abitante ipotetico o occasionale delle profondità liquide far riferimento ad un certo tipo di spazio e di tempo, quello che va bene per dei luoghi dove si può andare e tornare, che si possono vedere e rivedere, abitare e spartire? Cosa possiamo dire dello spazio e del tempo abissale? Qual è la forma generalissima degli abissi? Verrebbe da pensare che l'assenza di riferimenti prossimi, l'enorme pressione e la profonda oscurità finiscano con il deformare qualunque sistema di coordinate regolare, almeno per chi vi sta dentro e non si accontenta di pensarlo da fuori. Considerando lo spazio e il tempo in cui viviamo, la loro ampiezza illimitata e uniforme, viene anche da chiedersi se veramente queste proprietà si applichino e resistano alle massime profondità. Tutti quelli che hanno esplorato terre e acque incognite hanno esteso e riempito il reticolo geografico e storico, ma allo stesso tempo hanno anche sempre sperato di evadere da quella che sembra tanto una gabbia, di trovare un varco "sovrannaturale". Torna alla mente quell'illustrazione notissima, "inventata" e pubblicata da Camille Flammarion in L'atmosphère, in cui si vede un missionario medievale sporgere il capo oltre la sfera celeste: in fondo qualcosa del genere, una apertura ontologica o epistemologica, è quel che ogni scienziato spera - o dispera - di trovare in quel che ancora non vede e non sai. Per spiegare lo spazio distante si è fatto ricorso a geometrie differenti da quelle che ci bastano per lo spazio vicino, ma in realtà sappiamo bene che il fondo del mare non è poi così lontano, e poi anche lo spazio non euclideo della fisica alla lunga diventa a sua volta una gabbia, per quanto "spaziosa" e strana, da cui prima o poi si sente il bisogno di evadere. La speranza di trovare un varco nascosto nelle inaccessibili profondità sembra vana, ma potrebbe essere che lo cerchiamo dove non c'è perché guardiamo dalla parte sbagliata, perché non siamo capaci di "stare" là in fondo, dove spesso non sembra esserci niente da vedere e da pensare. Forse il varco non è propriamente negli abissi, ma nell'immagine degli abissi, o meglio e più in generale, nell'abisso dell'immagine, di ogni immagine, quindi molto più vicino di quanto crediamo.
Senza alcuna pretesa di rigore metodologico proviamo comunque a
cercare di capire come sono fatti lo spazio e il tempo abissali, cioè che idea
di spazio o di tempo potrebbe farsi un abitante delle grandi profondità
a partire da quella che si sono fatta gli abitanti immaginari e i pochi veri
visitatori di questo luogo estremo, che forse sarebbe più giusto considerare
come un non-luogo, o addirittura proprio l'opposto di quello che noi
intendiamo per "luogo". Forse chi si è trattenuto più a lungo negli abissi
facendone la propria prima e ultima dimora nella finzione letteraria è il
capitano Nemo raccontato da
Jules Verne
in
Ventimila leghe sotto i mari
e in
L'isola misteriosa.
Per immedesimarci in Nemo dobbiamo viaggiare con lui e anche con Verne,
spostandoci tante volte da un capo all'altro del mondo e della carta del mondo,
perché ogni suo romanzo è un viaggio e il disegno di un percorso su una carta.
Michel Serres
Cerchi e punti formano una geografia consueta, un programma di cammino e navigazione. Il planisfero di Verne è completo: si andrà dovunque. Siamo nell'800, bisogna chiudere gli incontri possibili. Viaggiare, d'altra parte, vuoi dire tenere una rotta e avere una meta, una linea e un punto; vuol dire anche desiderare, subire l'attrazione vettoriale di un polo alla fine del cammino. Anche se la terra è rotonda o si deve raggiungere il porto, Itaca, altra isola del tesoro, il viaggio è sempre circolare. Da rifare. Punti e cerchi, nient'altro che andata e ritorno. Cerchi e punti: il mondo stesso, poli e meridiani, la sfera dei geografi nella rete degli specialisti di geometria. | << | < | > | >> |Pagina 203Gli occhi[...] La prova decisiva dell'esistenza di forme di vita abissali arriva nel 1860, quando viene sostituito un tratto del cavo telegrafico tra la Sardegna e la Tunisia. Sul pezzo lungo quaranta miglia che si tira su si trovano in gran quantità delle incrostazioni di organismi che evidentemente possono vivere alla profondità di posa del cavo stesso, in alcuni tratti anche più di 2.000 metri sotto il livello del mare. Le missioni oceanografiche posteriori a questa prima evidenza dell'esistenza di forme di vita abissale hanno come scopo principale la raccolta e la classificazione del maggior numero di specie marine sconosciute e così, un po' alla volta, il fondo del mare diventa un paesaggio vivo, abitato da esseri viventi semplici e complessi. In un certo senso questo paesaggio è fatto quasi solo di piante e animali, e di animali che assomigliano a piante: dei fondali più profondi, dove la luce non arriva e le piante non vivono, tutto quel che si può vedere e sapere, oltre la misura della profondità, sono i campioni riportati dalle sonde e gli animali catturati con le reti e le draghe. Dei quasi cinquanta grossi volumi che costituiscono il report della missione del Challenger - la prima grande crociera oceanografica durata dal 1872 al 1876, e considerata uno degli atti fondativi della moderna scienza del mare - più di trenta sono dedicati alla zoologia marina, in particolare alle specie bentoniche e abissali scoperte durante la stessa missione. In un certo modo tutti questi volumi formano un paesaggio "animale", un po' come lo sono anche, in formato ridotto, certe illustrazioni di libri dell'epoca dove sono messe assieme a scopo divulgativo tante figure di specie diverse, lasciando il minimo spazio ad un ambiente di cui si sa ancora molto poco. Scoprire che sul fondo del mare c'è vita e non solo morte dà alla sua esplorazione un nuovo senso e una nuova prospettiva, letteralmente un nuovo punto di vista dal basso che non è più solo quello di un corpo morto ma quello di un corpo vivo, anche se poi non è quello di un uomo ma di un pesce o di un altro animale. Magari un animale con degli occhi: gli occhi di certi pesci, così simili o così diversi dai nostri, a volte piccolissimi a volte enormi, dovevano far pensare a cosa si potesse vedere dove doveva esserci solo il buio e il fango. Una storia dell'immagine e dell'immaginario abissale passa necessariamente anche attraverso degli occhi e delle menti che non sono le nostre. L'idea di un fondo vivo e generatore di vita è talmente forte da produrre uno dei grandi abbagli della storia della scienza, e cioè quello della presunta scoperta di una materia prebiotica originaria "vivente" sul fondo dell'oceano. In un articolo pubblicato nel 1868 su una accreditata rivista scientifica, Thomas Huxley - al suo tempo uno dei più determinati sostenitori della teoria darwiniana dell'evoluzione - descrive gli esperimenti condotti su dei campioni di sedimenti raccolti durante la crociera del Cyclops nel nord Atlantico. Guardando al microscopio il contenuto di quei vasi, Huxley vede delle particelle sferiche inglobate in una massa gelatinosa e attribuisce a questo composto un'origine organica, anzi lo considera qualcosa di più, e cioè l'anello di congiunzione tra la materia inanimata e la materia vivente, la matrice originaria di tutte le più complesse e specializzate forme di vita: Io penso che i granuli e la materia gelatinosa e trasparente in cui sono inglobati siano masse di protoplasma. Tolte le cisti caratteristiche dei Radiolaria, uno Sphærozoum morto sarebbe molto simile a queste masse di «Urschleim» abissale, che penso debba essere considerato un nuovo tipo di quei semplici organismi che Haeckel ha così ben descritto nella sua Monographie der Moneren. Propongo di dare a questa nuova monera il nome generico di Bathybius, e di chiamarla B. Haeckelii, in onore dell'eminente professore di zoologia dell'Università di Jena. [...] L'idea degli abissi marini come cimitero del mare e della terra, come luogo della morte, e poi quella degli abissi invece come luogo della vita e della sua generazione, è come se rispondessero allo stesso bisogno di presenza vivente: in entrambi i casi la vita arriva ovunque, tanto che sia una vita che va a morire o piuttosto che comincia a vivere e a sentire. Poco prima della scoperta o dell'"invenzione" del Bathybius è uno scrittore, Jules Michelet , ad esprimere un simile bisogno con delle immagini potenti. In La mer, un "racconto" di storia naturale pubblicato nel 1860, sembra essere il mare stesso a chiedere la vita: «Chi sa se questo circulus vitale dell'animalità marina, non sia il punto di partenza di tutto il circulus fisico, se non sia il mare animalizzato a dare l'impulso eterno al mare animalizzabile, non ancora organizzato, ma che chiede di esserlo e fermenta di vita ventura?». [...] Così come la visione secca e morta degli oceani anche quella viva e densa ricorre nelle fantasie che accompagnano il discorso scientifico, e non solo quello scientifico, anche quando il mare non è più solo un oggetto di sapere ma è una metafora del sapere stesso, o almeno di un certo modo di intendere il sapere. Abbiamo già detto di come Michel Serres paragoni il sapere al mare, qui possiamo aggiungere di come l'indefinita consistenza e natura dell'acqua marina sia un ulteriore motivo di confronto: «Dal pulito non viene nulla. Dalla separazione non nasce nulla. Tutto emerge da una miscela. Il vivente esce dal pantano. Dalla palude salina. Dal mare e dal sangue». La vita scientifica del protoplasma abissale in realtà è molto breve, e lo stesso Huxley deve ricredersi pubblicamente e ammettere il suo errore. Sono gli scienziati imbarcati sul Challenger che, dopo aver raccolto ed esaminato dei nuovi campioni di sedimenti marini, si accorgono di come quella massa gelatinosa che si forma in determinate circostanze non sia altro che il precipitato inorganico - solfato di calcio - prodotto della reazione dei sedimenti stessi con l'alcool della soluzione usata per conservarli. In quegli stessi anni però, nonostante la rapidissima "estinzione" del Bathybius, il fondo del mare si rivela comunque ricchissimo di forme di vita fino ad allora sconosciute e impensate, in gran parte appartenenti a generi e famiglie differenti da quelle già conosciute e tipiche di acque meno profonde. Lo studio di questi nuovi e strani organismi non è la scoperta di un ambiente separato solo nello spazio ma anche nel tempo, perché la particolarità e la distribuzione delle specie abissali suggerisce l'idea che là sotto il tempo biologico scorra ad una velocità diversa e siano diverse le dinamiche evolutive. | << | < | > | >> |Pagina 219Quel che serve a completare un disegno - l'anello mancante, l'antenato sconosciuto - impegna l'immaginazione disciplinata dalla ragione, mentre quel che non serve davvero e sta ai margini di quel disegno - il mostro - può provocare un'immaginazione più impertinente, e anche la diffidenza e la resistenza della ragione disciplinata. In Ventimila leghe sotto i mari Verne rende bene la spontanea propensione dell'uomo di scienza a spiegare come fatti normali anche gli eventi eccezionali. L'inizio del romanzo è una cronaca degli avvistamenti del Nautilus e delle sue disastrose incursioni, e le apparizioni sono tanto improvvise e rapide che non c'è modo di capire se si tratta di una mostruosità naturale o artificiale. Lo scienziato Aronnax, quello che poi sarà il testimone delle imprese di Nemo e della sua "creatura" meccanica, giudica tanto improbabile che il mostro sia una grande macchina - troppo grande e troppo costosa per essere sfuggita all'attenzione dei governi di tutto il mondo - quanto che si tratti di un grande animale -, troppo grande e troppo aggressivo per non essere mai stato avvistato da nessuna nave e descritto da nessuno scienziato. Dovendo decidersi per una delle due ipotesi - grande macchina o grande animale -, Aronnax comunque inclina per la seconda perché la "mappa" della vita abissale è ancora incompleta, almeno tanto quanto la mappa degli abissi stessi:[...] L'immagine delle profondità abissali si trasforma al seguito della vita accertata o anche solo immaginata. È sufficiente ipotizzare la presenza di vita perché il punto di vista - quello virtuale piuttosto che quello reale - si sdoppi e si proietti seguendola nell'abisso. Già gli stessi occhi delle creature che ci vivono sono la testimonianza, la certificazione che ci sia qualcosa da vedere, anche se non si sa bene cosa, e quando poi gli occhi sono grandi, molto grandi, ci si fa l'idea che ci sia molto da vedere, oppure che quel poco che c'è da vedere sia estremamente importante. Gli occhi dei grandi cetacei sono incredibilmente simili a quelli umani, e in una certa misura assomigliano a questi anche quelli di certi grandi cefalopodi: in quegli occhi, in quella mente, inevitabilmente, ci si specchia e ci si immedesima. Il capodoglio, la grande balena, per il solo fatto di sparire alla vista inabissandosi, e poi di riapparire dopo un certo tempo, facendo pensare ad una libertà di movimento e ad un proprio territorio esteso in ampiezza e in profondità, è sempre stata un tramite ideale per la dislocazione e l'espansione dell'immaginazione, perché anche semplicemente sapere che là sotto c'è qualcosa e che qualcuno lo ha visto e lo ha pensato, è già un modo di farsene un'immagine. La balena però non è solo un testimone muto, o la provocazione e il supporto di una proiezione, e davvero porta giù e riporta su qualcosa. Quel che porta giù ce lo racconta Melville in Moby Dick: sono i segni della lotta con l'uomo, qualche volta anche i corpi straziati dei marinai, e poi il corpo e insieme la mente sconvolta di Achab che alla fine va con il mostro in fondo all'abisso. Che le balene portino su qualcosa è un po' più difficile da immaginare, eppure l'uomo ha saputo approfittare anche di questa particolarissima specie di mediazione, di "collaborazione" quasi. | << | < | > | >> |Pagina 235I report delle grandi missioni oceanografiche intraprese tra la fine del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo secolo e dedicate principalmente allo studio della vita sottomarina - in particolare quelle del Challenger, del Travailleur e del Talisman, dell' Hirondelle e del Princesse-Alice del principe Alberto di Monaco, e poi anche quella del Galathea, agli inizi degli anni Cinquanta - includono numerose monografie sulla fauna abissale. Tra queste quelle più impressionanti sono quelle che riguardano i pesci, piuttosto che quelle dedicate agli invertebrati, perché gran parte dei pesci che vivono nelle profondità marine si distinguono per il loro aspetto mostruoso. Se il muso di un animale superiore, di un vertebrato, è sempre in un certo modo la caricatura del volto umano, le condizioni di vita abissali sono tali da trasformare e da esagerare i tratti più caratteristici, in particolare la forma degli occhi e della bocca. La bocca di certi pesci effettivamente è molto strana perché incredibilmente grande in rapporto alla dimensione complessiva dell'animale, perché spesso i denti appuntiti si allungano e si piegano in fuori, perché attorno alla bocca ci sono piccoli organi luminosi per attrarre le prede, e qualche volta questi stanno su delle lunghe appendici che funzionano come delle esche. Dietro la bocca poi c'è a volte una gola enorme, un sacco che può dilatarsi all'inverosimile, perché in quell'ambiente estremo l'occasione di catturare qualcosa è pur sempre rara e non va sprecata per "sazietà". Quelle tavole sono però soprattutto delle collezioni di occhi strani, occhi grandi o grandissimi, oppure piccolissimi o quasi inesistenti. Le diverse e particolari forme di quegli occhi fanno pensare a quanto sia importante vedere proprio dove c'è così poco o quasi niente da vedere. Gli abissi sono pieni di un buio profondissimo, eppure questo buio non è totale: gli organi fatti per vedere ci sono perché ci sono degli organi fatti per fare luce e per mostrare. Gran parte delle creature abissali, i pesci soprattutto, hanno appunto organi di questo genere e la luce che producono serve per cercare e attirare le prede, oppure per farsi riconoscere da altri esemplari della stessa specie.L'immagine visibile degli abissi marini è dunque una smisurata cavità nera punteggiata di deboli luci mobili e intermittenti. Un paesaggio che non è un paesaggio e si potrebbe paragonare allo spazio profondo, se non fosse che qui non ci sono costellazioni, e non c'è nulla di stabile. Alla fine viene da immedesimarsi, non senza provare una certa vertigine, in quei grandi occhi aperti su un quasi-nulla che preme da una parte e dall'altra, da fuori e da dentro. Vien da pensare al significato di una condizione psichica e percettiva minimale,, talmente estrema da poter essere presa ad esempio di qualche argomentazione filosofica sulla natura e l'origine della stessa percezione, della sensibilità e della coscienza. Nel caso di certi pesci ci si accorge di come la vista, piuttosto che acuirsi, sia invece regredita a tal punto da rendere questo senso poco diverso da quello del tatto, quasi una specie di "tatto luminoso". Uno dei casi più stupefacenti è quello dell' Ipnops, un pesce che vive sui fondali abissali e i cui occhi sono ridotti a due larghe e piatte cavità rivolte verso l'alto, rivestite da cellule in grado di rilevare la presenza della minima quantità di luce, ma non più la forma delle cose. | << | < | > | >> |Pagina 248Negli occhi di creature così diverse ed estreme si possono intravedere mondi altrettanto diversi ed estremi, e al limite possiamo scoprirvi anche il nostro, quasi fosse il riflesso di uno specchio speciale. Jacques Piccard si stupisce molto di vedere una sogliola sul fondo della fossa delle Marianne, ma si stupisce forse ancora di più di essere visto da quegli occhi, e di essere visto là in fondo. Jakob von Uexküll, in quello che è il suo libro più famoso, e cioè Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili , fa molti esempi di mondi animali strani, anche se non c'è nessun riferimento ad ambienti abissali per la comprensibile ragione che, tanto ai suoi tempi come oggi, studiare il comportamento animale a quelle profondità è un'impresa quasi impossibiles. L'etologo deve fare un grande sforzo di immaginazione per vedere e accedere a quei mondi, che altrimenti resterebbero del tutto invisibili e inaccessibili, ma poi, da quel punto di vista diverso e decentrato è possibile capire meglio lo stesso ambiente umano, ovvero la varietà e la differenza degli ambienti umani. Di questa resistenza Uexküll ci avvisa fin dall'inizio del suo libro, così come della ricompensa che può aspettarsi chi ha la determinazione e la pazienza di trattenersi in quei mondi chenon sono solo sconosciuti ma invisibili, al punto che molti zoologi e fisiologi negano addirittura il loro diritto all'esistenza. Tale resistenza, certamente strana per chi conosca la varietà della vita animale, è più comprensibile se si pensa al fatto che non è possibile accedere a questi mondi in modo automatico. Abbiamo a che fare con pregiudizi che bloccano a tal punto la porta d'accesso a questi mondi, da non far trasparire alcun riflesso del loro interno splendore. Ripensando allora allo stupore - misto a una certa delusione - che Piccard prova guardando quel pesce, così come all'agonismo distratto di Cameron, non si può non trovare una conferma proprio di questa difficoltà d'accesso e di immedesimazione a cui fa riferimento Uexküll. Spesso i diari e i documentari naturalistici contengono esortazioni a stupire della stranezza di certe creature e di certi ambienti, ma non è difficile capire che si tratta per lo più di formule retoriche, oppure di inconsapevoli richiami a ripensare un'esperienza che non si è ancora davvero intesa nel suo senso più ampio. Per parlare degli ambienti animali Uexküll li chiama anche "mondi". Martin Heidegger conosce bene e apprezza il lavoro di Uexküll, ma dà alla parola "mondo" un altro significato e afferma che l'animale ne è essenzialmente "povero". Per un animale essere "povero di mondo» significa che niente gli è accessibile in quanto ente, mentre invece per l'uomo "avere un mondo" vuol dire avere accesso a tutto principalmente in quanto ente: in questo sta la differenza profonda tra l'animale e l'uomo, che l'animale è invariabilmente povero di mondo, mentre invece l'uomo non può che produrre e vivere sempre in un Mondo. Questa condizione che Heidegger descrive come una povertà però non è da intendersi tanto come una totale mancanza ma piuttosto come una radicale differenza, e tra il Mondo dell'uomo e quello dell'animale si apre un vero e proprio abisso incolmabile, una distanza che può essere solo marginalmente esplorata, ma non mai pienamente abitata: Non si tratta, infatti, semplicemente di una alterità qualitativa del mondo animale nei confronti del mondo dell'uomo, e tantomeno di differenze quantitative riguardo ad ampiezza, profondità e vastità - non si tratta di questo, se e come l'animale prenda quanto gli è dato in modo diverso, bensì se l'animale possa, in generale, apprendere qualcosa in quanto qualcosa, qualcosa in quanto ente, oppure no. Se non lo può, l'animale è separato dall'uomo da un abisso. Di "abissale" questo abisso, così come tutti gli abissi, ha quindi principalmente la speciale caratteristica di metterci di fronte ad una domanda piuttosto che alla possibilità di una risposta e di un'impresa risolutiva. Lo sguardo scambiato con quello di un animale che vive dove non c'è quasi nulla da vedere, da sentire, da pensare, dove questo quasi nulla si estende indefinitamente nello spazio e nel tempo, dove la vita è - a volte letteralmente - appesa ad un filo sottile, è un'occasione rara e propizia alla riflessione sulla differenza della condizione umana. Immaginarsi il modo di essere degli altri esseri animati, e perfino di quelli inanimati, per poi immaginarsi di nuovo da fuori e da dentro quello dell'uomo stesso, è quello che Heidegger chiama "trasposizione", preferendo questo termine a quello di "immedesimazione": | << | < | > | >> |Pagina 256L'immagine di due occhi che guardano nell'abisso, o che ci riguardano dall'abisso, è una visione ricorrente, c'è in quasi ogni storia che racconta di un'immersione reale o irreale nelle profondità marine: sono gli occhi chiusi dei morti annegati che sognano il mare, le orbite vuote dei teschi sul fondo che guardano e non vedono, gli occhi delle balene che vedono quello che l'uomo non può vedere, gli occhi della sogliola che guarda Piccard e quelli di Piccard che guarda la sogliola, e poi gli occhi "aumentati" di Cameron che però non vedono niente, e poi ancora gli occhi di Beebe che vedono il proprio riflesso, "si" vedono quando non c'è nient'altro da vedere attraverso le finestrelle della batisfera.C'è un altro racconto di H.G. Wells in cui l'uomo si vede visto dagli occhi di creature abissali. Nell'abisso non è certo una delle storie migliori dello scrittore inglese, l'invenzione è inverosimile, l'aspetto del "mostro" tutto sommato è più risibile che terribile, una figura fin troppo umana. Però in un certo senso contiene la chiave di lettura di tutti gli altri racconti di Wells, e forse anche di ogni altro racconto di fantascienza, per quanto mette in massima evidenza un meccanismo - tipico di questo genere, ma non solo di questo genere - di speculazione e di proiezione distante, vertiginosa. La batisfera con cui si immerge Elstead, il protagonista, non è molto diversa da quella di Beebe e dal batiscafo di Piccard, solo più grande, e anche qui la prima parte del racconto è dedicata alla descrizione dettagliata del mezzo e del suo funzionamento. Dopo aver richiuso i portelli e calata in acqua la sfera il tempo della narrazione si sdoppia in quello dell'acquanauta e quello di chi rimane invece a bordo della nave: per chi sta su l'attesa dura meno di un'ora, mentre per Elstead il viaggio in fondo al mare sembra durare un tempo lunghissimo, come si capisce poi da quel che racconta una volta tornato in superficie. Appena arrivato sul fondo Elstead guarda fuori dal portello di vetro e vede un'oscurità profonda, punteggiata dalle luci di certi strani piccoli pesci che sembrano attirati dalla sua sfera. Dopo un certo tempo si accorge però della presenza di qualcosa di più grande che si avvicina, quindi accende i fari e finalmente vede una creatura davvero strana, che non si sarebbe mai aspettato di vedere. La descrizione è minuziosa e comincia dalla testa, vagamente somigliante a quella di un rettile ma con una fronte e un cranio grandi come quelli di nessun altro rettile terrestre, e soprattutto con una faccia che sembra vagamente un volto umano, o piuttosto la caricatura di un volto umano. | << | < | > | >> |Pagina 269D'altra parte che cosa sono la sfera immaginata da Wells, e poi la batisfera di Beebe e i batiscafi di Piccard e di Cameron se non dei grandi occhi? La loro forma è proprio quella dell'organo della vista, con un involucro cavo, un vetro tondo e un interno che dev'essere buio, che deve sparire perché sia possibile guardare fuori. Per ridurre al massimo la presenza visibile dello scafo, e quindi per assimilare il più possibile quest'occhio artificiale all'occhio naturale di chi sta dentro, Beebe addirittura fa dipingere l'interno di nero. Un occhio meccanico, dunque, o piuttosto una macchina fotografica sui generis la cui pellicola è la retina stessa del pilota. E allora vien da chiedersi qual è il senso di un equipaggio umano nel momento in cui gli scienziati cominciano a disporre davvero di macchine fotografiche comandate a distanza, in grado di scendere e di fotografare il fondo del mare. Che differenza c'è tra una visione diretta e una visione differita dell'abisso, al di là del bisogno umano di spostare in là, sempre più in là i limiti della propria presenza?La prima fotografia degli abissi è una fotografia finta, un'altra invenzione di Verne che nella sala di comando del Nautilus si immagina l'ennesimo improbabile dispositivo ottico, un set fotografico appunto: [...] | << | < | > | >> |Pagina 280La cosa più stupefacente che vedono Beebe, Piccard e quei pochi altri che scendono nelle acque più profonde, è un'oscurità totale che non ha paragoni sulla terra e nemmeno in cielo, una massa di nero pieno che preme contro la piccola sfera di luce, di spazio e di tempo che li contiene e li protegge. Questo nero, che allo stesso tempo sembra recedere e avanzare, attira lo sguardo per un tempo indefinito, poi lo respinge, e questo non tanto perché non c'è niente da vedere, ma proprio perché c'è il niente da vedere, ed è troppo, perché ogni niente parziale viene assieme con tutto il niente, con tutto quello che è stato - un ente - e non è più, con tutto quello che non è ancora o non sarà mai o non è mai stato.Laggiù si ha l'occasione di sentire la misura o la dismisura dell'ignoto, ovvero, per usare un'efficace espressione di un uomo di scienza come Paul Feyerabend , per avere la «sensazione delle potenze enormi e largamente imperscrutabili che ci circondàno» e che ci premono da fuori, e da dentro, si potrebbe aggiungere. Un vetro lucido messo davanti ad una materia nera funziona come uno specchio nero, cioè come quegli specchi che certi pittori - o certi maghi -- usavano per nascondere quello che normalmente si vede e vedere quel che normalmente si nasconde. Quando un pittore usava uno specchio nero per guardare un paesaggio, doveva togliersi di mezzo per vederlo, ma in quell'immagine scura e attenuata continuava a vedere sé stesso perché dentro quel vetro si confondevano la proiezione ottica e quella psichica, il mondo esteriore e il mondo interiore. La visione di tutto quel nero attraverso la finestrella di una batisfera alla fine è insopportabile perché si vedono le tenebre che ci stanno attorno e poi anche quelle che ci portiamo dentro, e non si sa dire se queste tenebre, se questi abissi siano distinti oppure uniti, cioè se in fondo non siano un'unica tenebra e un unico abisso. | << | < | > | >> |Pagina 310Ma quanto profondi sono gli abissi, quelli che stanno fuori di noi e quelli che stanno dentro di noi? E non è forse che ad una certa profondità la materia di cui sono fatte le tenebre interiori ed esteriori in qualche modo cambia di consistenza, di più, cambia di stato?La notte è serena? È un fondo d'ombra. È tempestosa? È un fondo di fumo. L'illimitato si rifiuta e si offre allo stesso tempo, chiuso all'esperienza, aperto alle congetture. Innumerevoli sfarfallii di luce rendono più nera l'oscurità senza fondo: luccichii, gemme, astri, presenze costatate nell'ignoto, demoniache sfide ad andar a toccare quegli splendori. Sono indizi della creazione nell'infinito, biffe segnanti la distanza dove non vi sono più distanze, l'impossibile eppur reale numerazione dei piani verso l'abisso. Abbiamo visto che chi ha cercato di misurare le massime profondità quel fondo lo ha abbassato, e poi alzato e abbassato di nuovo. Abbiamo visto che chi ha cercato di disegnarlo ha dovuto aumentare fittiziamente la sua profondità per poterla vedere, ma ha anche dovuto prosciugarlo e svuotarlo delle sue tenebre liquide. Assimilando l'abisso all'invisibile e all'indicibile ci siamo resi conto che non è possibile tenerlo fuori dai confini di una scienza ben normata, perché questa scienza non è solo premuta dal vuoto di sapere che sta all'esterno ma anche da quello che si spinge all'interno nelle lacune e nelle porosità del sapere stesso e delle sue rappresentazioni. In realtà una certa disposizione scientifica non vuole o non può sopportare il pensiero del niente e riesce a vedere sempre e solo l'ente, e quindi non sa pensare l'abisso fino in fondo. Infine abbiamo visto che l'abisso è indistinto e indivisibile, perché quel che si sa non è mai abbastanza da permetterci di disegnare su una carta i suoi confini esterni e le sue partizioni interne. Non c'è ragione per non pensare a relazioni misteriose tra i diversi domini dell'ignoto, quelli esteriori superiori e inferiori, e quelli interiori. Così come non c'è ragione per non pensare e immaginare: «Dappertutto l'incomprensibile, in nessun luogo però l'inintelligibile». Gli scambi possono aver luogo alle massime profondità, ma anche alla superficie, magari sulla superficie di una pagina scritta o di un foglio disegnato. Anzi, a ripensare a tutti i racconti e a tutti i rapporti scientifici, vien da credere che proprio nei libri e nelle carte questi scambi siano più facili, e che ogni viaggio sia solo il pretesto per un testo, che ogni viaggio parta e finisca in un disegno. «La fantasticheria, che è il pensiero allo stato di nebulosa, confina con il sonno, il quale può dirsi la sua frontiera». I lavoratori del mare è a suo modo una mappa dell'immaginazione notturna, un saggio sulle visioni prodotte dalla notte aerea e dalla notte liquida. Gaston Bachelard affronta proprio la questione dell'immaginazione e dell'immaginario liquido in Psicoanalisi delle acque (L'Eau et les rêves), uno dei capitoli della sua indagine sulla rêverie, cioè appunto quel «pensiero allo stato di nebulosa» che precede e accompagna ogni altro genere di pensiero più "solido" e il pensiero scientifico stesso. | << | < | > | >> |Pagina 332Al termine di questa disordinata e lacunosa esplorazione dell'immaginario abissale, dove si può dire di aver avuto davvero l'impressione di incontrare l'abisso? In realtà sembra che alla fine si sia avverato il sogno di tanti scienziati di prosciugare il mare, che un poco alla volta l'abisso sia sceso sempre più in basso, e poi ad un certo punto si sia rovesciato in alto, tanto più in alto, ritirandosi definitivamente oltre i confini dell'universo. Viene però anche da pensare che in certi momenti è sembrato di poterlo intuire o intravedere almeno per un poco, e questo non è accaduto tanto immedesimandosi nelle memorie di quei pochi che davvero sono scesi fino in fondo - o hanno finto di farlo -, ma piuttosto nei racconti di chi ha immaginato il fondo lasciandolo in fondo, o talvolta nelle carte di chi lo ha disegnato per lo più "alla cieca". Pieno d'abisso è il romanzo di Melville, soprattutto quelle pagine in cui il racconto è costretto in superficie e non può scendere sotto con la balena. In un passo di Moby Dick, l'autore suggerisce una relazione intima e speciale tra il libro, il mare profondo e il grande animale:Quando Brahama, o il dio degli dèi [...] decise di ricreare il mondo dopo una delle sue periodiche dissoluzioni, egli generò Visnù a presiedere all'opera, ma i Veda, o libri mistici, la cui lettura sembra fosse indispensabile a Visnù prima di cominciare la creazione e che perciò dovevano contenere qualcosa come consigli pratici ai giovani architetti, questi Veda giacevano in fondo alle acque, e allora Visnù si incarnò in una balena e, scandagliando giù dentro di questa fino alle estreme profondità dell'abisso, riportò a galla i libri. Piene d'abisso e di vuoto sono poi la carta bianca di Carroll, e poi i fogli polari delle prime edizioni della General Bathymetric Chart of the Oceans, e poi ancora le carte di Marie Tharp, apparentemente piene di segni e in realtà piene di vuoto. Pieni d'abisso e di notte sono gli occhi dei pesci abissali così come sono disegnati nelle tavole delle monografie scientifiche, grandi occhi fatti per vedere dove non c'è niente o quasi niente da vedere, buchi neri in cui l'occhio umano si specchia e sprofonda. E poi ci sono i disegni di Victor Hugo. | << | < | |