Autore Simon Garfield
Titolo Sulle mappe
SottotitoloIl mondo come lo disegniamo
EdizionePonte alle Grazie, Milano, 2016 , pag. 496, ill., cop.fle., dim. 13,7x20,5x2,7 cm , Isbn 978-88-6833-427-7
OriginaleOn The Map [2012]
PrefazioneDava Sobel
TraduttoreMonica Bottini, Sabrina Placidi
LettoreMargherita Cena, 2016
Classe viaggi , storia sociale , scienze tecniche , scienze naturali , geografia , citta': Venezia












 

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Indice


Prefazione                                                                    7

Introduzione. La mappa che si disegnò da sola                                11

Capitolo 1. Le conoscenze delle grandi menti                                 18

  Come gli antichi greci, Eratostene e Tolomeo, compresero per primi
  le dimensioni e la forma del mondo e la nostra posizione in esso

Capitolo 2. Gli uomini che misero in vendita il mondo                        39

  Il giorno in cui la mappa mundi medievale, il più grande tesoro
  cartografico di Gran Bretagna, andò all'asta per poter riparare
  un tetto malmesso

    Mappa tascabile. A.D. 1250: sulla strada per Gerusalemme                 56

Capitolo 3. Il mondo prende forma                                            62

  Gerusalemme è al centro del mondo — e compaiono i Poli

    Mappa tascabile. Hic sunt dracones                                       72

Capitolo 4. Venezia, la Cina e la Luna                                       75

  Di come gli italiani (e poi i tedeschi, e poi gli olandesi) diventarono
  i più grandi cartografi del mondo. E di come un frate veneziano scoprì
  i segreti dell'Oriente e finì sulla Luna

Capitolo 5. Il mistero di Vinland                                            87

  I marinai norvegesi hanno davvero raggiunto e mappato l'America prima
  di Colombo? Oppure la più famosa carta del mondo è solo un'abile
  contraffazione?

Capitolo 6. Benvenuti nella «Terra di Amerigo»                              104

  Dove Tolomeo fa la sua ricomparsa in Europa e l'America prende il nome
  dall'uomo sbagliato

    Mappa tascabile. L'isola della California                               123

Capitolo 7. A cosa serve la proiezione di Mercatore?                        127

  L'aspetto del mondo nel 1569 e oggi, anche se le Nazioni Unite
  preferiscono la proiezione azimutale equidistante

    Mappa tascabile. Un segreto ben custodito: i carichi d'argento di Drake 138

Capitolo 8. Il mondo dentro un libro                                        143

  Dove l'atlante diventa una moda nell'Olanda del Seicento, viene adottato
  dal Times e poi si presta alla propaganda politica

    Mappa tascabile. Leoni, aquile e salamandre                             165

Capitolo 9. Girare una città (senza difficoltà alcuna)                      173

  Le mille mappe di Londra, i primi rilievi delle strade e l'atlante
  stradale Britannia di John Ogilby

Capitolo 10. Le grandi campagne topografiche dell'Ordnance Survey           187

  La Gran Bretagna, stimolata dall'insurrezione giacobita, dà avvio
  all'Ordnance Survey, allargandolo fino all'India. Ma qual è il simbolo
  dell'area picnic?

    Mappa tascabile. Mappa di un omicidio nell'Inghilterra dell'Ottocento   209

Capitolo 11. I leggendari monti del Kong                                    214

  Come un'invalicabile catena montuosa continuò a estendersi, finché
  un ufficiale francese scoprì che non esisteva affatto

    Mappa tascabile. L'imbarazzante caso delle bugie di Benjamin Morrell    230

Capitolo 12. La mappa che fermò il colera                                   234

  Di come anche una mappa contribuì a scoprire la causa dell'epidemia

    Mappa tascabile. Attraversando l'Australia con Burke e Wills            246

Capitolo 13. La X indica dove scavare: L'isola del tesoro                   253

  Le mappe del tesoro nella letteratura e nella vita

Capitolo 14. Il peggiore viaggio del mondo verso l'ultimo luogo da mappare  269

  Di come gli esploratori trovarono il Polo Sud senza una mappa
  e gli diedero i nomi di amici, familiari e nemici

    Mappa tascabile. Dimmi di che colore è la tua strada e ti dirò chi sei  290

Capitolo 15. La signora P e lo stradario A-Z                                295

  La donna che, a quanto si dice, percorse 23.000 strade di Londra
  in realtà potrebbe averne percorse molte di meno

    Mappa tascabile. La mappa più grande di tutte:
                     la metropolitana di Londra                             308

Capitolo 16. Con la mappa in mano: breve storia della guida di viaggio      314

  Le splendide stampe dispiegabili di Murray e Baedeker lasciano
  il posto a una nuova età oscura della cartografia

    Mappa tascabile. J.M. Barrie e una mappa che non si ripiega             329

Capitolo 17. Casablanca, Harry Potter e l'indirizzo di Jennifer Aniston     332

  I Muppet viaggiano senza problemi su una mappa, mentre noi diamo
  la caccia alle star

    Mappa tascabile. Il tesoro di Masquerade                                344

Capitolo 18. Come realizzare un enorme mappamondo                           348

  Partendo da zero... dopo aver gestito per anni una sala da bowling

    Mappa tascabile. La sala delle Mappe di Churchill                       368

Capitolo 19. Il più grande mercante di mappe, il più grande ladro di mappe  374

  Quanto sono allettanti le mappe — e che tipo di mercanti e di ladri
  attraggono?

    Mappa tascabile. Le donne non sanno leggere le mappe.
                     Chi l'avrebbe detto?                                   388

Capitolo 20. Con l'auto nel lago: il navigatore satellitare e il mondo
             in una scatola                                                 395

  Di come in aereo ci siamo abituati a guardare il film più noioso
  del mondo e di come, con il GPS, gli olandesi siano tornati a essere
  i leader mondiali delle mappe

    Mappa tascabile. I canali di Marte                                      408

Capitolo 21. Vai direttamente a Skyrim senza passare dal via                418

  Le mappe nei giochi, dai puzzle a Risiko, e perché i videogiochi
  possono essere il futuro della cartografia

Capitolo 22. La mappatura del cervello                                      434

  Quello che i tassisti hanno da insegnare al mondo delle neuroscienze

Epilogo. Il me-mapping: sempre mappati; ovunque, istante per istante        449

Ringraziamenti                                                              469
Bibliografia                                                                471
Fonti delle illustrazioni                                                   478
Indice analitico                                                            480


 

 

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Pagina 7

Prefazione

di Dava Sobel


Per amore delle mappe

Simon Garfield non avrebbe potuto scegliere un doppio senso più indovinato per dare il titolo al suo delizioso elogio delle mappe: in inglese to be on the map ha il significato letterale di essere segnato su una mappa, ma in senso metaforico significa anche arrivare, aver raggiunto il successo. Trattare in maniera seria di mappe è riflettere sul percorso della cartografia attraverso la storia e i contesti culturali. Accetto con gioia l'invito che questo libro rivolge a ogni lettore e mi immergo nell'attenta lettura delle mappe.

Amo le mappe. Non ne faccio collezione, anche se sotto la mia scrivania c'è una scatola dove conservo come souvenir le piantine delle città che ho visitato a piedi o le cartine che mi hanno aiutato a compiere i miei viaggi da una parte all'altra del paese. Le mappe che mi piacerebbe possedere – le antiche rappresentazioni del mondo conosciuto prima della scoperta delle Americhe, i portolani di chi andava per mare, con le loro rose dei venti e i mostri marini – in ogni caso non potrei permettermele. È bene che stiano dove stanno, nei musei e nelle biblioteche, invece che confinate sulle pareti – o condannate all'umidità – di casa mia.

Cartine e mappe occupano spesso i miei pensieri. Quando lavoro al progetto di un libro ho bisogno di tenere sotto mano una mappa del territorio per aiutare i personaggi a trovare le loro radici. Mi capita di pensarle anche nei momenti più inaspettati: per esempio, sto facendo pulizia nella cartella dello spam della casella di posta elettronica ed ecco che mi rendo conto che la parola «spam» non è che la parola maps scritta al contrario, e che le mappe sono l'esatto opposto dello spam: non ci impongono la loro presenza non richiesta, bensì sono loro che ci chiamano a sé.

Una mappa può condurci fino al confine di una terra ignota e abbandonarci lì, oppure donarci il sollievo di farci sapere in quale punto esatto ci troviamo.

Le mappe guardano ingiù, come si fa per controllare dove si mettono i piedi. La loro prospettiva verso il basso appare talmente scontata, talmente familiare, da farci dimenticare quanto tempo gli uomini abbiano dovuto trascorrere con il naso all'insù per poterle disegnare. Le regole della cartografia di Tolomeo, redatte nel II secolo dopo Cristo, discendevano dai suoi precedenti studi nel campo dell'astronomia. Egli fece appello alla Luna e alle stelle perché lo assistessero nell'allineamento delle ottomila località note del mondo, e così tracciò le linee dei Tropici e l'Equatore in corrispondenza della traiettoria compiuta dai pianeti nel cielo, basandosi sulla luce di un'eclisse lunare per calcolare con la migliore approssimazione possibile la distanza tra est e ovest. E fu sempre Tolomeo a fissare il nord sul lato superiore delle carte, là dove l'asta indicava una stella solitaria che restava immobile nel cielo notturno.

Come fanno tutti al giorno d'oggi, se sono al volante mi affido alle indicazioni fornite in tempo reale da un navigatore elettronico, mentre per orientarmi quando mi sposto a piedi o con i mezzi pubblici spesso uso le app dello smartphone. Ma quando devo organizzare un viaggio «serio», allora ho bisogno di una cartina vera e propria. Senza una carta non riesco a rendermi conto di dove sto andando. Se prima di partire non controllo se la mia destinazione ha la forma di uno stivale, di una coda di pesce o di una tana di animale non sarò in grado di farmi un'idea del posto in cui mi trovo una volta che ci sarò arrivata. Il fatto di poter vedere prima se le strade sono disposte secondo una griglia ordinata, o se si sviluppano in cerchio intorno a un nucleo centrale, oppure se non rispondono a nessuno schema preciso, mi fornisce già un'idea delle sensazioni che proverò vagando per quelle strade. E se invece non sono diretta da nessuna parte, allora ovviamente viaggiare attraverso una mappa è l'unica via possibile: per andare ovunque o in nessun posto in particolare, tra i meandri del genoma umano, sulla cima dell'Everest, per seguire le traiettorie dei futuri transiti di Venere nei prossimi tremila anni. Grazie a una mappa persino i tesori sepolti, i continenti perduti e le isole fantasma diventano accessibili.

Che importanza può avere se raggiungo o no le destinazioni che ho segnato sulla mappa, quando persino i grandi cartografi del passato non si allontanarono mai dalle loro case? Penso a Fra Mauro, rintanato tra le mura del suo monastero veneziano, intento a dare forma alla sua meravigliosa geografia tessendo insieme gli esili fili forniti da viaggiatori di dubbia attendibilità.

E quanto piacere mi dà l'opulenza visiva delle mappe! La cosiddetta congettura dei quattro colori stabilisce il numero minimo di tinte necessarie a costruire una carta del mondo, ma non fissa nessun limite massimo alla licenza artistica.

Non meno variopinto è, alle mie orecchie, il lessico cartografico. «Latitudine» o «reticolato» sono termini che fuoriescono tintinnanti dalle labbra e gettano la loro rete sul mondo. E «cartouche», il cartiglio o la legenda di una cartina, è una parola che scivola via dalla lingua come un soffio. Alcuni toponimi sono come un gorgheggio; altri come uno schiocco secco o un cinguettio. Viaggerei con molto piacere da Grand-Bassam a Tabou, sul litorale della Costa d'Avorio, anche solo per poterne pronunciare i nomi ad alta voce.

Le mappe hanno il difetto di distorcere, è vero, ma io lo considero una colpa perdonabile. Del resto, come si fa a non sacrificare in certa misura le proporzioni quando si cerca in ogni modo di ridurre una cosa sferica come il mondo in un'immagine piatta su un foglio di carta? Tutte le tecniche di proiezione cartografica, da quella che da Mercatore prende il nome alla proiezione ortografica, a quella gnomonica o quella azimutale, producono inevitabilmente una qualche deformazione in un continente o in un altro. Il fatto che io sia cresciuta con un'immagine della Groenlandia che la dava equivalente per estensione al continente africano non significa che il concetto mi fosse davvero entrato in testa, non più di quanto mi inquietasse la denominazione impropria di Groenlandia («Terra Verde») scelta per un luogo coperto dai ghiacci, quando la vicina Islanda, presunta «Terra dei ghiacci», è invece ammantata di verde. Dopo tutto, le mappe sono una cosa umana.

Ogni mappa, ogni carta racconta una storia. Le più antiche e pittoresche narrano di ricerche e di conquiste, di scoperte, di gloria e di rivendicazioni, e talvolta sono racconti dell'orrore sullo sfruttamento delle popolazioni indigene. Nelle carte moderne le trame delle storie possono farsi più confuse a causa dell'affastellarsi di elementi naturali e antropici, anche se le mappe di ultima generazione possono fungere da ottimi modelli per nuove storie: svuotate dei dettagli topografici, e con la sovrapposizione di dati disparati, possono offrirci un resoconto delle tendenze di voto durante le ultime elezioni, per esempio, o indicare le aree di diffusione di una malattia al primo insorgere di un focolaio epidemico.

Esiste un solo oggetto che sia superiore alla mappa: l'atlante. Ad Atlante (o Atlas), il titano che reggeva la volta celeste sulla sua schiena, si deve il nome di una famiglia di razzi oltre che quello del libro contenente le carte geografiche del mondo. Di bei volumi che portano questo nome ne possiedo diversi, e tutti richiedono un bel paio di braccia forzute per essere trasportati dallo scaffale al tavolo.

Potrei dire magnifiche cose anche dei mappamondi sferici, soprattutto di quelli che andavano un tempo, costruiti e venduti in coppia, un globo a raffigurare la Terra e l'altro a rappresentare il cielo (anch'esso disegnato dall'alto, con la geometria delle costellazioni presentata al rovescio). Ma un globo non è che una mappa gonfiata, reincarnata: nasce unidimensionale, come un insieme di spicchi di terra disegnati o stampati, che poi vengono sistemati e incollati sulla superficie di una sfera in modo da far combaciare i confini del mondo. Se le mappe sono il combustibile che alimenta la vostra passione per i viaggi, allora proseguite questa lettura.

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Pagina 75

Capitolo 4

Venezia, la Cina e la Luna


Alcune mappe hanno l'ubicazione che più si addice loro. La Mappa mundi di Hereford è ancora nella sua cattedrale; il primo globo (e le prime carte) in cui compare l'America si sono trasferiti negli Stati Uniti. Ma che dire di una delle mappe più elaborate e più importanti del mondo, che si trova appesa in un corridoio male illuminato in cima a una spaventosa tromba delle scale a Venezia? Anche in questo caso, c'è una ragione se quella mappa si trova proprio lì.

Se vi recate nell'angolo occidentale di piazza San Marco, salite la scalinata di marmo del Museo Correr, pagate sedici euro per l'ingresso, attraversate con calma diciannove sale piene di marmi, monete e mappamondi, alla fine vi troverete davanti una porta a vetro. Qui si trova la Biblioteca Marciana, la biblioteca civica costruita negli anni trenta del Cinquecento per ospitare un'ampia collezione di manoscritti greci e romani e, in seguito, una copia di ogni libro stampato a Venezia. E qui, tra il museo e la biblioteca, visibile attraverso la porta in vetro ma accessibile solo con un permesso speciale, si trova l'opera di un monaco veneziano di nome Fra Mauro che nel 1459, chissà come, conosceva meglio di chiunque altro la disposizione geografica del mondo.

Fra Mauro visse e lavorò sull'isola veneziana di Murano, che ai tempi in cui fondò il suo studio cartografico, negli anni quaranta del Quattrocento, era già celebre per i vetri. Il monaco aveva viaggiato in lungo e in largo, e per disegnare le prime carte nautiche e le mappe delle rotte commerciali aveva attinto all'esperienza diretta. Per re Alfonso V del Portogallo realizzò un planisfero di forma circolare (inchiostro colorato su pergamena, circa due metri di diametro); l'originale è andato perduto, ma per nostra fortuna ne fu fatta una copia per un signore veneziano.

La mappa, che include quasi tremila toponimi e una profusione di testi di commento, a dispetto dei consueti errori di collocazione di fiumi e regioni, è un capolavoro della geografia. E anche – in maniera quasi definitiva – una mappa di transizione, a cavallo tra il mondo vecchio e quello nuovo, nonché tra una rappresentazione medievale della terra come un unico «planisfero» rotondo e la proiezione in due emisferi emersa poi nel Cinquecento. È l'ultima grande mappa di un'epoca passata, divenuta storia già nel momento stesso in cui fu incorniciata. Venezia stava per perdere il suo ruolo di «cardine d'Europa», e anche la visione di un mondo racchiuso in una boccia dei pesci quale emergeva dal lavoro cartografico di Fra Mauro si avviava ormai al tramonto. Le caravelle di Colombo sarebbero salpate nemmeno vent'anni più tardi e Mercatore avrebbe tracciato i suoi lunghi viaggi su una mappa che avrebbe dato spazio al richiamo degli oceani navigabili.

La collocazione veneziana della mappa di Fra Mauro appare appropriata anche per un altro motivo. Fonte delle innovative rappresentazioni di Cina, Giappone e Giava erano i diari del più celebre viaggiatore veneziano, Marco Polo. Polo narrò dei suoi viaggi durante l'anno trascorso in carcere a Genova (non sono chiari i motivi della sua prigionia: una delle ipotesi è che avesse finanziato una delle galee da guerra veneziane che attaccarono Genova nel 1298 e che i nemici lo considerassero una preda ambita). Suo devoto ascoltatore fu un compagno di cella, Rustichello da Pisa, e anche se si sospetta che i suoi racconti di viaggio non siano del tutto attendibili (era celebre per le sue capacità affabulatorie e in Rustichello, che era un romanziere cortese, aveva trovato un amanuense ideale), indubbio fu il loro enorme impatto. Già dopo la prima pubblicazione in lingua d'oil nel 1300 il Milione di Marco Polo aveva influenzato i cartografi, e centocinquant'anni più tardi la ristampa veneziana lo rese il libro di viaggi più popolare della sua epoca: i mercanti di Rialto lo consultavano come si farebbe oggi con l'orario dei treni.

Dei viaggi di Marco Polo esistono poche conferme, e sotto molti aspetti la loro rilevanza andrebbe misurata non in termini di scoperte (altri avevano compiuto grandiosi viaggi verso Oriente prima di lui), ma per il loro valore documentale. Come nel caso delle mappe, ci troviamo di fronte non l'esplorazione in sé, bensì la sua impronta storica.

La storia ha inizio quando, intorno al 1260, i fratelli veneziani Niccolò e Matteo Polo lasciano la loro base nel porto di Soldaia, in Crimea, per commerciare in gioielli con i mongoli presso l'attuale Volvograd. Il loro viaggio si prolungò a causa della guerra e mentre si trovavano nella città di Bukhara, in Asia centrale, incontrarono un emissario del Gran Khan Khubilai, che li invitò presso la sua corte. Il Gran Khan chiese ai due veneziani di tornare da lui portandogli olio dal Santo Sepolcro di Gerusalemme e cento validi istitutori da Roma da impiegare come missionari. I fratelli rientrarono a Venezia dopo un'assenza di una quindicina di anni, e Niccolò incontrò per la prima volta suo figlio Marco. Due anni più tardi i tre uomini ripartirono alla volta dell'Oriente.

La descrizione dei viaggi dei tre veneziani offerta da Marco Polo (anzi, da Rustichello) inizia in Terra Santa e prosegue fino all'arrivo nella residenza estiva del Gran Khan nel Catai (nord della Cina). Marco racconta orgoglioso di essere stato un indispensabile consigliere di corte, di essersi recato in India e di aver sentito parlare di Giava e del Giappone prima del rientro in Europa via Sumatra e la Persia. Ma il suo libro è molto diverso dalla letteratura di viaggio come la intendiamo oggi; Polo fornisce pochissimi particolari sugli itinerari percorsi, e attraversa vaste regioni senza fare menzione dei mari e della conformazione dei territori, soffermandosi solo sui commerci: il suo diario ci racconta tanto dell'abbondanza di zaffiri, ametiste, sete, profumi e spezie, quanto di geografia. Si dice che sul letto di morte Polo avesse ammesso di aver raccontato appena la metà delle cose viste, eppure non si è ancora giunti a stabilire con certezza se davvero avesse mai percorso la Via della Seta o se si fosse spinto via mare quasi fino al Giappone. Ma poco importa che non si abbia certezza degli itinerari da lui percorsi, perché il riferimento all'esistenza di quelle terre mistiche in un racconto di enorme popolarità contribuì più di ogni altra cosa ad allargare la visione del mondo dell'uomo europeo del Quattrocento. Per Colombo, che si dice conservasse con estrema gelosia la sua copia delle memorie di Polo, quel testo sarebbe stato obiettivo e ispirazione.

Tuttavia, nessuno fu influenzato dai viaggi di Marco Polo più di Fra Mauro, e infatti numerosi sono i riferimenti al Milione sulla sua mappa. Erano intercorsi quasi due secoli tra le spedizioni di Marco Polo e la rappresentazione iconografica dei suoi racconti realizzata da Fra Mauro, ma in quel lasso di tempo nessuna esplorazione di occidentali aveva soppiantato le descrizioni del Catai fornite dal celebre mercante veneziano. Fra Mauro e il suo collaboratore Andrea Bianco presero come riferimento i toponimi e le leggende riportati da Polo, forse attingendo anche a un affresco dei suoi viaggi presente nel Palazzo Ducale poi andato distrutto in un incendio. Nel 1550 il geografo Giovanni Ramusio scriveva che Fra Mauro si era ispirato anche a una mappa (andata perduta) che Polo aveva disegnato di suo pugno durante il soggiorno in Catai.

L'entusiasmo di Fra Mauro per la novità e la singolarità delle scoperte di Marco Polo risulta ancora oggi contagioso, per esempio quando descrive la grande città di Quinsai (costruita sull'acqua, come Venezia) menzionandone í 12.000 ponti e i 900.000 abitanti; e grande è la sua meraviglia di fronte allo splendore dello Yangtze, con i suoi esotici commerci di porcellane, zenzero e rabarbaro.

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Ma torniamo nell'Italia settentrionale, dove la tradizione veneziana delle esplorazioni stava proseguendo ben oltre Marco Polo. Quarant'anni dopo la realizzazione del planisfero di Fra Mauro, Giovanni Caboto, veneziano al servizio di Enrico VII di Inghilterra, approdava nel Nuovo Mondo e piantava di fianco a quella inglese anche la bandiera di San Marco, mentre suo figlio Sebastiano, che a sua volta rivendicava la sua identità di veneziano, si spinse in regioni inesplorate del Sud America, forse scoprendo una delle prime rotte commerciali attraverso il passaggio a nord-ovest. Alvise Cadamosto, anche lui originario di Venezia, esplorò nuove importanti rotte in Africa occidentale negli anni cinquanta del Quattrocento; è inoltre considerato lo scopritore delle isole di Capo Verde.

Di questa serie di esplorazioni fu presto riportata testimonianza sulle mappe prodotte a Venezia. Andrea Bianco, che ebbe un ruolo importante nella produzione della copia veneziana del planisfero di Fra Mauro, fu autore anche di importanti carte nautiche a uso dei ricchi mercanti patrizi. Alla metà del Cinquecento Giacomo Gastaldi, che trascorse la maggior parte della sua vita lavorativa a Venezia, fu il primo a riportare su mappa numerose regioni del Nuovo Mondo. Fu anche autore di grandi affreschi raffiguranti l'Asia e l'Africa all'interno del Palazzo Ducale, e nel 1548 realizzò quello che è considerato il primo atlante tascabile, pubblicando una versione delle carte tolemaiche comprendente sia il Nuovo che il Vecchio Mondo. A lui si deve anche un'importante innovazione nella tecnica di stampa delle carte geografiche: l'introduzione dell'utilizzo delle lastre di rame al posto delle matrici in legno, con una resa dei dettagli assai migliore.

Che cosa trasformò i veneziani in cartografi tanto determinati e fece delle loro mappe l'invidia d'Europa? Il potere, fondamentalmente. La Serenissima intendeva ribadire la sua salda e incontrastata autorità in campo amministrativo e fiscale, e non solo sulla città di Venezia, ma su tutti i territori posti sotto il suo controllo. Le mappe ne fornivano le prove documentali. Ma come vedevano la propria città i celebri cartografi veneziani? Con quello stesso senso di meraviglia che lascia senza fiato il visitatore moderno. Non molto tempo prima che Marco Polo partisse per il suo lungo viaggio, il letterato Boncompagno da Signa descriveva Venezia come una città «senza pari, che ha per pavimento il mare, per tetto il cielo e per pareti il flusso delle acque; una città unica che ammutolisce, poiché non si trova e mai si troverà al mondo un regno di tale sorta». Ma dove non arrivavano le parole, forse potevano arrivare le mappe.

Il più celebre esempio di cartografia urbana di Venezia, nonché la mappa che ne consolidò l'immagine bizantina, brulicante e intrigante, fu prodotta nel 1500 dal pittore e incisore Jacopo de' Barbari. Si tratta di una grande xilografia in sei blocchi lignei raffigurante una veduta aerea della città che mostra quanto fosse agevole intrattenere scambi commerciali con i mercanti veneziani; con quella mappa, inoltre, si fissò per la prima volta l'immagine (veritiera) della città come due pugni che si intrecciano, o quella (ancora più celebre) che le attribuisce la forma di una gigantesca sogliola. Ciò che accresce il pregio dell'opera di de' Barbari è il fatto di raffigurare Venezia vista dall'alto, secondo una prospettiva a volo d'uccello che solo quattro secoli più tardi la tecnologia, grazie alla fotografia aerea, avrebbe reso possibile e di uso comune.

Ma, sopra ogni altra cosa, la mappa di de' Barbari presentava Venezia come luogo dell'immaginazione, un concetto urbano allo stesso tempo mitico e insondabile. Venezia è un luogo in cui il turista (il turista del 1500 come quello del 2000) è destinato a perdersi anche se porta con sé la cartina più benfatta che esista, e le piccole calli e gli intricati sestieri non fanno altro che accrescere il disorientamento. In questa città il navigatore satellitare non serve a niente, così come inservibile è la mappa digitale dello smartphone. Qui non si fa che camminare, sperare, domandare e indicare, e forse l'unico luogo in cui si riuscirà a orientarsi saranno i quattro angoli di piazza San Marco, l'unico punto della città rappresentabile come un reticolo. Anche quando ormai ci saremo abituati da un bel pezzo all'assenza delle automobili, ci saremo fatti spennare da qualche gondoliere, avremo incrociato sul nostro cammino una chiesa contenente i magnifici dipinti di Giorgione, continueremo comunque a perderci e ad approfittare del nostro girovagare senza meta. L'affascinante e antica refrattarietà alla mappatura di Venezia, al pari dei suoi Bellini e dei suoi Carpaccio, ci faranno fare un tuffo indietro nella storia.


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Ma esiste ancora un altro luogo importante ai fini di questo racconto, e si trova a grande distanza dal Catai: la Luna. I15 febbraio del 1971 gli astronauti dell'Apollo 14 Alan Shepard e Edgar Mitchell approdarono sull'emisfero lunare visibile in prossimità di un cratere di trecento metri di diametro formatosi per l'impatto di un meteorite. Tra una partitina a golf e una camminata a balzelloni, i due raccolsero anche qualche campione di roccia; si scoprì che i sassi lunari con cui rientrarono sulla Terra erano un po' più giovani rispetto alle previsioni dei ricercatori del California Institute of Techonology di Pasadena: solo 3,9 miliardi di anni, invece dei 4,5 calcolati dagli scienziati.

L'area di atterraggio del modulo spaziale era nota con il nome di Formazione di Fra Mauro, chiamata così dal cratere Fra Mauro, che con i suoi ottanta chilometri di diametro è uno dei più grandi crateri della Luna. Un nome che non ha niente a che vedere con il suono soave evocato dal mare della Tranquillità, il sito scelto per il primo allunaggio nel 1969; né esiste una versione ufficiale dei motivi che spinsero i membri dell'Unione astronomica internazionale a scegliere proprio il monaco veneziano del Quattrocento per fornire un piccolo ma significativo contributo alla nomenclatura dei sistemi planetari. Tuttavia, non sembra improbabile ipotizzare che fossero degli appassionati di mappe e grandi estimatori del monaco cartografo.

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Mappa tascabile

Leoni, aquile e salamandre


Con l' Atlas Maior di Blaeu l'atlante raggiunse nuovi vertici in termini di chiarezza e completezza. A una cosa, però, l' Atlas Maior non aveva voluto rinunciare: agli animali, che vagavano indisturbati sulle carte geografiche da secoli, di solito a decorare un confine, una distesa di terra senza nome o un oceano, talvolta occupandone l'intera superficie.

Nei Paesi Bassi l'animale cartografico per eccellenza era il Leo Belgicus, un leone che fece la sua prima comparsa nel 1583 e non volle più levar le tende. C'è un motivo dietro la persistenza del Leo Belgicus ed è, semplicemente, che calzava alla perfezione. Il primo a utilizzarlo fu, a Colonia, un cartografo austriaco di famiglia aristocratica, Michael Aitzinger, in un periodo in cui il Belgio e i Paesi Bassi erano annessi all'impero spagnolo e sullo stemma di quasi tutte le province olandesi era raffigurato un leone. A quel tempo di altri esempi di boutade cartografica non ne circolavano molti e il leone incontrò un immediato successo in madrepatria, divenendo un Keep Calm and Carry On in versione cinquecentesca.

La mappa con il Leo Beligicus comparve per la prima volta in forma di cartina pieghevole all'interno di un libro, ma in seguito conobbe varie edizioni e numerosi rimaneggiamenti. Nella versione originale di Aitzinger il leone era raffigurato con il muso rivolto a destra, ansante e con la lingua fuori dalle fauci, la mascella in corrispondenza della Transilvania, mentre sulla sua zampa anteriore sinistra compare il nome Lussemburgo. Anche la Gran Bretagna è oggetto di considerazione politica, dato che il leone avvolge con la coda le città di Norwich, Ipswich, Colchester e Londra. Quando nel 1609 è Claes Janszoon Visscher, incisore di Amsterdam, a darne la sua personale raffigurazione, il Leo Belgicus se ne sta accovacciato e ha un aspetto meno dinamico e feroce; la mandibola è dominata dallo Zuyder Zee e sullo sfondo non compaiono le isole Britanniche, bensì mercanti olandesi, stemmi e vedute di Anversa, Bruxelles e Amsterdam. Invece, quando nel 1611 Janszoon realizza il suo leone cartaceo, la fiera rivolge il muso dall'altra parte e ha il corpo allungato, con lo Zuyder Zee raffigurato in corrispondenza della parte bassa della groppa.

Il corpo del leone subì diversi ritocchi nel corso del tempo, seguendo il mutare dei confini politici e i vari cambi di regime. Dopo il trattato di Münster del 1648 e la fine della guerra degli Ottant'anni, che segnarono la nascita di una repubblica olandese autonoma mentre le province meridionali restavano in mano spagnola, Visscher modificò di nuovo il suo leone. La belva, che ora tornava a volgere il muso verso oriente, aveva un aspetto stanco e trasandato, e sembrava anche meno popolata, se non altro perché adesso raffigurava la sola Repubblica delle Sette Province Unite; anche il suo nome era cambiato, da Leo Belgicus a Leo Hollandicus.

La presenza del Leo nell'iconografia popolare perdurò fino ai primi anni dell'Ottocento, quando presumibilmente incisori e collezionisti se ne stancarono. E, con tempismo perfetto, ecco allora emergere la drammatica e un po' forzata rappresentazione zoomorfica dell'aquila americana, destinata a vita breve. Nel 1833 un incisore di nome Isaac W. Moore disegnò un'aquila sulla mappa di una Confederazione Americana in rapida trasformazione, e la sua opera fu pubblicata a Philadelphia su un manuale di geografia di Joseph Churchman intitolato Rudiments of National Knowledge, Presented to the Youth of United States, and to Enquiring Foreigners. Si tratta di una vera rarità (vale poco meno di ventimila dollari), misura 42 x 53 cm e a ispirarla fu un'illusione ottica causata da un gioco di luci.

[...]

Dunque, verso quale parte del mondo rivolgere lo sguardo per trovare un'espressione cartografica di aggressività? Verso la Russia, chiaramente, sul cui vasto territorio non si distende un'aquila o un leone, bensì una piovra, l'animale che si utilizza su una mappa quando si vuole simboleggiare avidità, cupidigia, ambizione tentacolare senza limiti. Dal punto di vista cartografico la piovra è un animale versatile, perché in realtà si tratta di otto animali in uno. Né in terra né in mare esiste qualcosa che possa eguagliare il suo raggio d'azione circolare: anzi, la piovra è l'unica creatura marina (fatta eccezione per il drago anfibio) che appaia totalmente a suo agio sulla terraferma, persino in Siberia, e anche senza la sua consueta dieta a base di buccini, vongole e altri molluschi. E questo perché divora qualsiasi cosa incontri.

Il messaggio evocato dalla celebre Serio-Comic War Map for the Year 1877 di Frederick Walrond Rose è potente e allo stesso tempo sinistro, una delle più lucide espressioni di minaccia dell'intero panorama cartografico. Una piovra russa ben pasciuta strangola Persia, Turchia e Polonia con i suoi grossi tentacoli. La Germania è rappresentata dal Kaiser, l'Inghilterra è raffigurata come un uomo d'affari che va a colonizzare con una sacca recante i nomi dell'India, del Transvaal e di Suez; sulle spalle di quest'ultimo, uno scozzese in kilt brandisce uno stocco; la Spagna, addormentata, volge le spalle all'Europa; la Francia è un generale armato di cannocchiale, l'Italia una fanciulla con i pattini che gioca con un bambolotto di legno raffigurante il papa, la Turchia un pirata dalla carnagione scura armato di pistola, l'Olanda la terra gentile dei mulini a vento. Un tale abuso di stereotipi dovrebbe essere punibile con il carcere.

La mappa di Rose è un'immagine che resta impressa nella mente, e non sorprende che da allora la cartografia abbia spesso denigrato la natura di piovre e polpi. Per raffigurare l'inesauribile brama colonialistica dell'impero britannico una decina d'anni più tardi un vignettista americano ricorse all'immagine di un John Bull ghignante immerso in acque agitate. È più di una piovra: le sue undici mani si posano sulla Giamaica, sull'Australia, sull'India, su Malta e sugli altri paesi colonizzati, mentre con le braccia tiene strette a sé l'Irlanda e l'Helgoland. Se su alcuni possedimenti sembra esercitare un saldo controllo, altri (l'Egitto per esempio) sembrano sul punto di sfuggire alla sua stretta.

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Ma tutto questo appartiene al passato. Del resto, le mappe cartacee hanno fatto il loro tempo, no? Sono oggetti per incurabili nostalgici. L'Ordance Survey percepì l'avvento della cartografia digitale nei primi anni Settanta, quando cominciò a trasferire i dati su nastro magnetico, pregustando il tempo in cui un escursionista avrebbe spedito un vaglia per ricevere una mappa su misura che gli sarebbe servita per la sua gita imminente in mezzo alle nebbie delle Dales. Purtroppo non potevano prevedere i GPS portatili in vendita a cinquanta sterline, né gli stupidi che si inerpicano sul Ben Nevis all'ora del tè con un'unica tacca ballerina sul loro iPhone.

Ma se invece le mappe avessero un futuro? E se ci fossimo resi conto dei limiti del GPS su uno schermo di piccole dimensioni e volessimo tornare a una visione più ampia? Rimpiangiamo la Gran Bretagna in scala 1:25.000? E se i ragazzi posassero i loro aggeggi elettronici per un minuto e avessero voglia di imbrattarsi e di infradiciarsi armati solo di bussola e di una mappa plastificata appesa al collo? È possibile, come fa piacere pensare a quelli dell'Ordnance Survey, che un giorno si torni alle cartine pieghevoli? E se così fosse, dove andremmo per imparare a usarle?

L'Ordnance Survey, con i suoi oltre due secoli di vita, organizza corsi di lettura delle mappe in posti al chiuso, perlopiù negozi di articoli sportivi e per il campeggio. Nel maggio del 2011, tuttavia, ne organizzò uno in corrispondenza delle coordinate di reticolo SP313271: la caffetteria-libreria Jaffe & Neale's, a Chipping Norton, nell'Oxfordshire.

Dopo aver distribuito delle bussole di plastica attaccate a grosse tavolette da appoggiare sulle ginocchia e alcune mappe, i due rappresentanti dell'Ordnance Survey, Richard Ward e Simon Rose, spiegarono a me e agli altri partecipanti che solitamente erano loro a tenere il corso. Proprio quella settimana, però, erano riusciti a procurarsi una serie di video didattici con protagonista il naturalista e presentatore televisivo Simon King, e così ci mettemmo seduti a guardarli finché non venne il momento di trovare l'orientamento da soli. Era solo propaganda, naturalmente, ma quel genere di propaganda garbata che ti faceva venire voglia di uscire dalla libreria e di incamminarti. King si diceva contento che il suo cellulare gli rendesse la vita più agevole, «ma» aggiungeva «le mappe cartacee sono insostituibili. Solamente aprendo una carta e osservando la relazione tra le varie caratteristiche del terreno ci si fa un'idea chiara del paesaggio [...] Io le adoro!»

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Quelle del tesoro sono la più antica forma di mappa. Un genere iniziato nel Paleolitico sulle pareti delle caverne (porta qui la tua lancia – promette una freccia tracciata col gesso – e una creatura lanosa sarà tua) e ancora ben presenti tra noi, specie nella loro nociva versione digitale («Clicca qui, fortunato vincitore, e finirai nei guai!»). Da bambini le incontriamo nei libri, nei giochi da tavolo e nelle cacce al tesoro, e a scuola scopriamo come fabbricarle dando loro un aspetto antico con i fondi di caffè. Da adulti, non è troppo diverso. Immersioni accuratamente progettate sono tuttora condotte lungo le coste del Pacifico, dove antichi galeoni potrebbero aver vuotato il loro prezioso carico, anche se per guidare le ricerche usiamo i sonar, al posto delle pergamene. Ci piacciono i rompicapo e ci piacciono le ricompense: e una mappa del tesoro, con la sua seducente capacità di orientare, rivelare, sconcertare e rendere, da un istante a un altro, disgustosamente ricchi, appaga alcuni dei principali istinti umani.

Se avete dubbi, provate a consultare l'archivio delle mappe del tesoro della Biblioteca del Congresso a Washington: contiene l'elenco dettagliato di oltre cento guide e carte nautiche. Include, tra le altre, la carta di distribuzione dei relitti elaborata dal ministero della Marina neozelandese, con venticinque naufragi avvenuti vicino alle coste tra l'aprile 1885 e il marzo 1886, e un elenco di 147 naufragi nei Grandi Laghi tra il 1886 e il 1891 con descrizioni delle imbarcazioni colate a picco, il punto approssimativo in cui si sono inabissate e il valore del carico non recuperato.

Altri documenti sono più romantici. Come una «mappa di celebri pirati, bucanieri e corsari che solcarono i mari nei secoli XVII e XVIII... dalle coste orientali dell'America Centrale a Ceylon». O una «carta dell'antica Baia di Choctawhatchee e di Campo Walton, che mostra i presunti luoghi del sepolto e affondato bottino di capitan Billy Bowlegs, pirata, nonché i tesori perduti, i navigli affondati e le ricchezze di vari altri pirati e predoni del mare che si crede abbiano frequentato queste acque».

Quest'ultima mappa, con particolari su tesori nascosti tra il 1700 e il 1955, fu pubblicata nel 1956 ed era reperibile da «Mr Titler, Wayside Miss, per dollari uno in franchigia postale». Ma la più ampia possibilità di scelta fu certamente quella prospettata da una certa Ferris La Verne Coffman, che non solo vendeva singole mappe del tesoro del golfo del Messico e dei Caraibi, ma realizzò un vero e proprio Atlante delle mappe del tesoro con quarantun differenti porzioni dell'emisfero occidentale e 42.000 croci che indicavano tesori finiti sott'acqua o sottoterra. «Di questi mi è riuscito di autenticarne circa 3500» assicurava l'instancabile signora Coffman. Vostro per soli 10 dollari, direttamente dall'esploratrice. Il catalogo di queste mappe è accompagnato dalla prudente e un po' comica prefazione di Walter W. Ristow, direttore della sezione Mappe della Biblioteca del Congresso: «La Biblioteca non si assume alcuna responsabilità quanto alla precisione o imprecisione delle carte geografiche, e non dà alcuna garanzia che chi le consulterà sarà condotto a ricchezze materiali». Le carte, insomma, sono da considerare fine a se stesse, un piacere che va al di là della cupidigia.


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Robert Louis Stevenson amava non solo le mappe del tesoro, ma le mappe in generale. Gli piaceva l'idea stessa di mappa, e la sensazione che provava tenendone una in mano. Gli piaceva l'assegnazione dei nomi, e che possano ricondurci a casa o farci smarrire. Gli piaceva, infine, che potessero portarlo dove non era mai stato nella realtà, o in spazi che esistevano solo nella sua mente. «Mi dicono che al mondo ci sono persone che non hanno alcun interesse per le mappe, ma crederlo mi riesce difficile», confessa nel 1894 in Il mio primo libro: L'isola del tesoro, in cui parla di come ebbe l'ispirazione per il suo più celebre romanzo. Che altro gli piaceva nelle mappe? «I nomi, i contorni dei boschi, i percorsi delle strade e dei fiumi, il tracciato preistorico dell'uomo ancora ben riconoscibile in cima a un colle o in fondo a una valle, i mulini e le rovine, gli stagni e i traghetti, magari il Monolite o il Circolo Druidico nella brughiera; tutte inesauribili fonti d'interesse per chi abbia occhi per vedere o un briciolo d'immaginazione per comprendere!»

Un singolare dettaglio circa L'Isola del tesoro è che la mappa non è quella che Stevenson consultava scrivendo il romanzo.

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Capitolo 14

Il peggiore viaggio del mondo verso l'ultimo luogo da mappare


Il 10 settembre 1901 Ernest Henry Shackleton , Robert Falcon Scott e l'equipaggio della Discovery decisero di fare una sosta fuori programma durante il loro viaggio verso l'Antartide.

[...]

Per molto tempo l'Antartide è stata descritta come l'ultimo luogo della Terra ancora da mappare, e romanticamente ci piace pensare che sia ancora così. Non ci stancheremmo mai delle sue storie straordinarie e terribili, e ben venga se nel corso della narrazione diventano ancora più grandiose, più eroiche e mitiche. Dal punto di vista cartografico si tratta di storie impressionantemente recenti, ed è strano pensare che appena poco più di un secolo fa sulle carte il continente, con i suoi quattordici milioni di chilometri quadrati di superficie, restava in gran parte bianco e silenzioso.

Le mappe che ancora ricordiamo dell'epoca di Shackleton, Scott e Amundsen non erano state disegnate da professionisti, e nemmeno dai celeberrimi esploratori polari.

[...]

Forse ci ricorderemo che, nel II secolo a.C., Cratete di Mallo aveva immaginato il mondo come suddiviso in quattro gigantesche isole separate da un torrido oceano. Di questi continenti, solo il suo era abitato, anche se si riteneva probabile che gli altri tre fossero altrettanto ospitali. Abbiamo visto inoltre come, intorno al 114 d.C., Marino di Tiro, il grande ispiratore di Tolomeo, nel suo dizionario dei nomi geografici avesse utilizzato il termine «Antartico» per indicare una regione situata al polo opposto dell'Artide.

Oggi la geologia ci permette di conoscere molte più cose (o, perlomeno, ci fornisce delle teorie avanzate) sulla storia dell'Antartide. È possibile che un tempo fosse un territorio lussureggiante solcato da fiumi brulicanti di vita e abitato da anfibi e grossi rettili. Le recenti scoperte di vari tipi di fossili su alcune rocce esposte fanno pensare a condizioni climatiche più simili a quelle dell'Amazzonia che non a un deserto di ghiaccio, nonché alla possibilità che vi esistessero dinosauri e pinguini alti quasi due metri. Tale ipotesi concorda con l'idea che un tempo il continente antartico facesse parte del Gondwana, il «supercontinente» australe che in origine avrebbe compreso l'America del Sud, l'Africa, l'India e l'Australia. Si ritiene che questo fosse situato nella zona equatoriale e che poi si sia lentamente spostato verso sud prima di frammentarsi a causa del movimento delle placche tettoniche. Le prime terre a distaccarsi furono il Sud America e l'Africa, mentre l'India, l'Australia e l'Antartide continuarono a spostarsi verso il Polo Sud, giungendo a destinazione circa cento milioni di anni fa. La deriva proseguì: all'incirca trentacinque milioni di anni dopo l'India e l'Australia si spostarono verso nord, mentre l'Antartide rimase dov'era. Il processo di glacializzazione del continente iniziò tra i dieci e i venticinque milioni dí anni fa.

In epoche più recenti, nessun'altra regione del mondo è stata oggetto di ipotesi tanto contrastanti. In Occidente la possibilità che esistesse un continente australe di favolosa abbondanza iniziò a farsi strada in età medievale, sebbene gli europei non conoscessero la leggenda (forse vera) del marinaio polinesiano Ui-te-Rangiora, che intorno al 650 d.C. si sarebbe spinto sino ai confini dell'Antartide a bordo della sua canoa, incontrando un vasto oceano di ghiaccio. Quando poi le mappae mundi lasciarono il posto alle esplorazioni vere e proprie, la faccenda perse un po' della sua attrattiva e l'Antartide di fatto scomparve dalle carte geografiche. Quando, nel 1497, Vasco da Gama doppiò il capo di Buona Speranza all'estremità meridionale del continente africano, la possibilità che esistesse un continente australe attaccato a un territorio temperato fu smentita una volta per tutte. Poi, nel 1531, il cartografo francese Oronzio Fineo pubblicò una celebre xilografia del mondo suddivisa in due sfere accoppiate a formare un cuore: le particolarità di quel planisfero sono il fatto di raffigurare per la prima volta la Groenlandia come un'isola e l'incredibile corrispondenza tra il profilo costiero dell'Antartide e quello che effettivamente oggi vedremmo se non fosse coperta dai ghiacci, il tutto accompagnato da un commento di una certa modestia: «Terra non ancora del tutto esplorata».

A ogni modo, nel corso dei tre secoli successivi la raffigurazione cartografica dell'Antartide restò un confuso guazzabuglio di ipotesi. Tutti continuarono a considerarla una regione della Terra Australis, una vasta area dai profili mutevoli situata nell'emisfero meridionale che, di volta in volta, poteva comprendere la Terra del Fuoco, l'Australia, la Nuova Zelanda e qualsiasi altra terra emersa nella quale si fossero imbattuti casualmente i navigatori del Pacifico. In latino il termine australis significava semplicemente «meridionale», e nelle mappe sei-settecentesche di solito era utilizzato nell'espressione «Terra Australis Incognita» (forma abbreviata di «Terra Australis recenter inventa sed nondum piene cognita», che Ortelio aveva spalmato per tutta la lunghezza sulla parte inferiore del suo planisfero nel 1570). Nelle mappe di quel periodo spesso viene indicato un Polo Sud (o «Polo antartico»), ma in quasi tutti i grandi atlanti di Blaeu, Mercatore, Janssonius e Hondius le scritte non denotano un territorio bianco, ma in seppia o in verde, una distesa oceanica, come se il continente fosse scomparso dalla faccia della Terra. E tale rimase finché il capitano James Cook non suggerì che potesse essere diversamente.

Abbiamo visto come esploratori e cartografi abbiano in odio gli spazi bianchi, e pertanto non dovrebbe meravigliarci il fatto che, non potendosi basare su dati concreti, abbiano cominciato a lavorare di fantasia. A intervalli regolari nella parte bassa delle mappe apparivano isole leggendarie. Il primo ad avvistarne fu Francis Drake nel 1578, quando i venti di burrasca spinsero verso sud la Golden Hind e il corsaro inglese, trovandosi di fronte quello che presumibilmente era l'arcipelago della Terra del Fuoco, ribattezzò quelle terre isole di Elisabetta e le proclamò possesso della sua regina. Ma Drake non fece che inaugurare una moda. Fra il Cinquecento e l'Ottocento alle isole di Elisabetta si aggiunsero la Isla Grande, la Royal Company Island, l'isola di Swain, le isole Chimneys, l'isola di Macey, l'isola di Burwood e la New South Greenland di Morrell, tutte galleggianti intorno all'Antartide, tutte inserite in mappe divenute poi popolari, tutte scoperte da fieri esploratori (quasi tutti inglesi), e tutte rigorosamente inesistenti.

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Pagina 412

Lowell non era un pazzoide, bensì un astronomo serio (membro dell'American Academy of Arts and Sciences, e prima ancora diplomatico di carriera: aveva rappresentato gli interessi degli Stati Uniti in Corea e Giappone). Tuttavia, nel 1894 cominciò a essere ossessionato da una teoria che suonava più o meno così: Marte era in difficoltà, l'acqua si stava esaurendo; era abitato da esseri intelligenti, e che fosse abitato e che i marziani fossero intelligenti, lo si desumeva dal fatto che essi avevano costruito lunghi canali rettilinei per raccogliere l'acqua dalle calotte polari, dove i ghiacci si stavano sciogliendo. Lowell cominciò a pubblicare queste teorie nel 1895, mentre le sue mappe apparvero sui quotidiani nazionali, dove furono oggetto di serio dibattito. Si diffuse una specie di mania per Marte: la fantascienza aveva trovato un trampolino apparentemente reale, e la grande immaginazione di H.G. Wells , Ray Bradbury e altri avrebbe incontrato terreno fertile fra i lettori. Chiunque sembrava credere alla vita marziana come suggerivano le mappe, persino alla possibilità di una futura colonizzazione.

Percival Lowell fu il primo astronomo a fornire per quei canali una spiegazione appropriata, però non fu il primo a vederli o rappresentarli. L'onore spetta a Giovanni Schiaparelli , l'italiano che diede il maggiore contributo alla nomenclatura delle località di Marte. Anche lui sulle proprie carte del pianeta aveva tracciato lunghe linee rette tra loro collegate, anche se ciò non lo indusse mai a dire se si trattasse di corsi d'acqua o di altri fenomeni; li aveva denominati canali, quindi potevano essere un fenomeno naturale e non opera di marziani armati di vanga. Addirittura, secondo alcuni quei canali non erano altro che un riflesso dei vasi sanguigni dell'occhio di chi osservava al telescopio.

Mentre si afferma nel mondo l'improbabile visione della vita su Marte (durò esattamente settant'anni, dal 1895, anno del libro Mars di Lowell, fino al giorno in cui, nel 1965, la sonda Mariner 4 inviò le prime fotografie e registrò un'atmosfera rarefatta e decisamente inospitale), vediamo come era rappresentato Marte prima dei telescopi giganti e delle sonde spaziali. Si trattava per lo più di un luogo di forme spettrali e ombre, spesso oscurato dalla polvere e soggetto alle trasformazioni stagionali, sufficientemente lontano e insignificante da assorbire tutte le illusioni e le nomenclature fantasiose che si potevano collocare sulla sua superficie.

Il comportamento astronomico di Marte era stato studiato già prima di Tolomeo, mentre Copernico e Tycho Brahe ne tracciarono con precisione i moti orbitali. Tuttavia le prime carte di cui siamo a conoscenza furono probabilmente realizzate a Napoli nel 1636 da Francesco Fontana: erano di pessima qualità, poiché erano poco più che un punto nero ombreggiato in mezzo a una sfera. Fontana denominò quest'area ombreggiata «pillola», tuttavia in seguito venne fuori che altro non era se non una banale illusione ottica. In ogni caso, nel 1659 si registrò un autentico progresso con l'olandese Cristiaan Huygens , il quale tracciò un disegno di quella che oggi è nota come Syrtis Major, un'area dalla forma triangolare che ha pressappoco le dimensioni dell'Africa. Il primo a individuare le calotte polari di Marte fu Giovanni Cassini (un italiano trasferitosi in Francia, l'uomo che diede inizio alla dinastia di cartografi a cui si deve la triangolazione della Francia); poi ogni decennio portò telescopi sempre più perfezionati e disegni più accurati, fino a che, all'inizio dell'Ottocento, gli astronomi tedeschi Wilhelm Beer e Johann von Mädler tentarono di realizzare la prima mappa completa basata sulla proiezione di Mercatore, fissando al centro un meridiano fondamentale come longitudine zero.

Beer e Mädler non diedero un nome alle aree principali della loro mappa, ma altri furono meno timidi. Nella sua carta il dilettante britannico Richard Proctor proseguì la tradizione imperialista attribuendo il nome di importanti astronomi britannici a quelli che sembravano mari, isole e continenti; il sistema restò valido fino al 1877, quando Schiaparelli realizzò la propria carta reticolata, attribuendo più di trecento nomi alla superficie del pianeta, la maggior parte dei quali ispirata alla geografia terrestre e ai miti classici. Perciò lo stretto di Herschel II, così nominato da Proctor, divenne Sinus Sabaeus, mentre la baia di Burton (che doveva il nome all'astronomo irlandese Charles Burton) fu ribattezzata foce del canale Indo. Il 1877 fu evidentemente una buona annata per le osservazioni astronomiche, perché Marte era alla minima distanza sia dalla Terra che dal Sole; in quell'anno furono avvistati per la prima volta i suoi satelliti nani, Fobos e Deimos. Inevitabilmente la carta di Schiaparelli era inesatta, e in particolare denotava un problema di prospettiva, giacché quelli che oggi per noi sono vulcani lui li chiamava laghi. Tuttavia l'opera di Schiaparelli si basava su principi scientifici e la forma essenziale è più o meno precisa. Curiosamente, la sua mappa ricordava la ricostruzione vittoriana della mappa disegnata da Eratostene nel 194 a.C.

E infine i canali furono avvistati. Nel Peggior viaggio al mondo Apsley Cherry-Garrard scrive che nel 1893, appena prima dell'inizio dell'età eroica delle esplorazioni antartiche, si credeva di sapere «di più sul pianeta Marte che su una vasta area della nostra Terra». Ma non era vero, e imperversava ancora la massima incertezza. A Flagstaff giungevano astronomi e anche qualche giornalista, tutti speranzosi di vedere ciò che avevano visto Schiaparelli e Lowell, e ci fu chi individuò addirittura lievi tracce e il vago indizio di una vegetazione arida. Ma il più influente di tutti, l'astronomo greco Eugenios Antoniadis, nel 1930 realizzò a Parigi la mappa di Marte più dettagliata dell'epoca precedente l'era spaziale, e concluse che non c'era alcun segno di vita intelligente. Lasciò comunque uno spiraglio, attribuendo ai canali «un fondamento di realtà», perché le ripetute osservazioni avevano individuato delle evidenti «striature». E così l'affascinante prospettiva prevalse fino al 1965, anno in cui gli americani inviarono delle sonde spaziali e la NASA iniziò a mettere insieme una mappa basata su un collage di foto sgranate che mostravano un paesaggio brullo disseminato di rocce e ricoperto da una polvere sottile, refrattario a ogni forma di vita, sul quale non si vedevano canali di nessun tipo.

Il primo atlante ufficiale di Marte realizzato dalla NASA, pubblicato nel 1979, si affidava in larga misura alle immagini del Mariner 9, la prima sonda spaziale che nel 1971-1972 compì un'orbita completa attorno al pianeta, nonché a quelle del Viking, che atterrò su Marte a metà degli anni Settanta.

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Capitolo 22

La mappatura del cervello


Quando Albert Einstein morì nell'aprile del 1955, il suo cervello finì sul tavolo di un anatomopatologo nel giro di ventiquattr'ore. Naturalmente la domanda cruciale era se il cervello di un genio potesse avere lo stesso aspetto di quello di un comune mortale. È risultato che alcune parti dell'encefalo dello scienziato apparivano più strette rispetto alla norma, mentre altre erano più ampie; alcune aree erano pressoché inesistenti, ma erano compensate con altre che chiaramente un tempo erano state particolarmente attive. All'epoca i risultati sollevarono un bel polverone, perché la nostra comprensione del cervello umano era solo agli albori. Riuscivamo a padroneggiare la teoria della relatività e la teoria quantistica, ma ci mancava ancora una chiara comprensione di come il nostro cervello riuscisse a farlo.

Adesso la situazione sta gradualmente cambiando. Grazie alla tecnologia, la mappatura del cervello sta attraversando una fase eccitante, in cui riusciamo letteralmente a vedere cose che vent'anni fa erano solo teoriche. Questo è in parte dovuto al lavoro dello stesso Einstein. Così adesso, per esempio, iniziamo a capire che cosa ci permette di leggere le mappe e dove è localizzata questa funzione cerebrale.

Scoprire che il celebre scienziato tedesco non sapeva guidare suscita sempre una certa ilarità: probabilmente, però, la sua mente era occupata in altre faccende. Ogni volta che prendeva un taxi (magari per raggiungere l'aeroporto di Newark, che distava un'ora dal suo ufficio a Princeton) c'era una cosa di cui poteva essere relativamente sicuro: la persona al volante aveva un cervello più sviluppato del suo. O perlomeno, lo era una determinata parte, quella preposta a selezionare rapidamente la strada più veloce tenendo in considerazione la situazione del traffico, i blocchi stradali e l'ora. Quell'area cerebrale era più sviluppata perché i tassisti che trasportavano Einstein (o almeno i migliori di loro) avevano studiato una grande mappa dello stato del New Jersey, inconsciamente l'avevano scomposta in un sistema di molecole, cellule e neuroni, che avevano poi riassemblato nel giusto ordine, per poter condurre il loro prezioso passeggero all'impegno successivo.

Quando Einstein arrivò a Londra all'inizio degli anni Trenta per tenere una conferenza alla Royal Albert Hall trovò una situazione identica: i tassisti avevano stipato nel cervello l'intero stradario della città. Ed era plausibile supporre che in loro quell'area cerebrale fosse maggiormente sviluppata rispetto a chi, per esempio, continuava a perdersi nel tragitto dalla porta di casa ai negozi (a quanto pare un'altra caratteristica dello scienziato). Tuttavia questa teoria è stata comprovata solo di recente: è una storia non scevra di eleganza scientifica che comprende sia le mappe pratiche d'uso comune sia il concetto più ampio del modo in cui le leggiamo e memorizziamo, ossia il software e l'hardware.

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Pochi mesi dopo la sua conferenza a Londra ho incontrato Clark nel suo ufficio a Bloomsbury. Mi mostra altre diapositive: sezioni di cervello con contorni che ricordano un rilevamento topografico, immagini di lunghi filamenti sottili, gli assoni, e di coloratissimi fasci di assoni, i tratti. C'è anche una mappa di diffusione, che mostra il movimento delle molecole d'acqua presenti nei tessuti del cervello. E poi l'immagine di Einstein, che ha elaborato il coefficiente che determina il processo «dipendente dal tempo» nel quale le molecole, col passare del tempo, si allontanano sempre di più dalla loro posizione iniziale.

Perché è importante? Poiché i movimenti microscopici delle molecole d'acqua nel tessuto biologico esaminato – più lento è il movimento, più scura è l'area che compare nell'immagine – suggeriscono una concentrazione di struttura che può essere mappata nel tempo. Agli inizi degli anni Novanta la Risonanza Magnetica di Diffusione ha rappresentato una vera rivoluzione, permettendo di individuare i danni al cervello a poche ore di distanza da un ictus. Poi è arrivata la trattografia, una tecnica che consente di tracciare mappe delle direzioni delle fibre neurali del cervello, permettendo lo studio delle cosiddette sindromi da disconnessione come il morbo di Alzheimer e persino del normale processo di invecchiamento.

L'apparecchiatura per la risonanza magnetica che ci permette di ottenere queste immagini sembra provenire da un altro pianeta. Ma utilizzarla a fini clinici e sperimentali offre un grande vantaggio: a differenza di altre forme di diagnostica per immagini, quali i raggi X, è ritenuta priva di rischi per il paziente.

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Tutto questo ci conduce a qualcosa di davvero eccitante. I progressi nella mappatura del cervello hanno portato all'equivalente della mappatura del genoma umano: il Progetto Connettoma Umano, patrocinato dall'Istituto Nazionale della Salute statunitense, si prefigge di costruire una mappa completa dei circuiti neuronali del cervello umano in buona salute. A differenza del Progetto Genoma, che mostra ciò che ci rende quello che siamo, la mappatura neurale chiarirà come elaboriamo e memorizziamo le informazioni, e che cosa determina il nostro comportamento. Questa «anatomia del pensiero» comporta l'acquisizione di circa 150 trilioni di connessioni neurali, e per fare questo a fine 2011 la Divisione di neuroimaging del Massachusetts General Hospital ha utilizzato con entusiasmo una modernissima apparecchiatura per la risonanza magnetica («ha il quadruplo di bobine e di flusso di acqua di raffreddamento» rispetto alla macchina che ha sostituito). I ricercatori si sono prefissi di mappare il cervello di 1200 persone, di cui circa la metà gemelli, a partire dalla metà del 2012.

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Epilogo

Il me-mapping: sempre mappati, ovunque, istante per istante


Nel quartier generale di Google Maps a Mountain View, in California, si trova ogni genere di intrattenimento che ci si aspetterebbe in un tipico ufficio situato all'avanguardia dell'egemonia mondiale: biliardino, tennis e hockey da tavolo, un'abbondante offerta gratuita di snack di qualità. Nel campus che lo ospita, il Googleplex, si trovano anche un'area picnic, un orto, piste ciclabili, stanze da massaggio, un autolavaggio, una lavanderia a secco, un asilo nido, un campo di beach volley, un ricovero per cani, un ambulatorio medico e un dentista, un parrucchiere e un servizio autobus ecologico per andare dove si vuole, sempre che il servizio di sicurezza lo permetta. Ci sono anche rappresentazioni umoristiche, per esempio il gigantesco doughnut in un'area picnic e l'enorme segnaposto rosso davanti all'edificio che ospita Google Maps.

All'interno di questo edificio troviamo altri riferimenti scherzosi, tra i quali un cartello stradale verde appeso sopra un box, con una scritta alla Douglas Adams: «Benvenuti sulla Terra! Per lo più non pericolosa!»; sul retro, invece, si legge: «State lasciando la Terra. Prima della partenza si prega di controllare le scorte di ossigeno e lo schermo antiradiazioni. Tornate presto!» E poi ci sono i cartelli indicatori: sono due, alti circa un metro e mezzo, il legno volutamente rovinato e scrostato perché sembrino vecchi di cent'anni, come se indicassero un sentiero del Midwest o una posta a cui legare il cavallo. In realtà risalgono ai primi anni Duemila, il periodo in cui, affermandosi come l'ultima rivoluzione nel settore cartografico, Google Maps ha reso del tutto inutili cartelli come quelli; in effetti, risulta difficile pensare a un avvenimento di portata simile dopo la nascita della Grande Biblioteca di Alessandria intorno al 330 a.C.

I cartelli indicano i nomi delle varie sale riunioni del Googleplex, nomi ormai superati, proprio come l'oggetto che i cartelli rappresentano: Eratostene, Marco Polo, Leif Ericsson, Sir Francis Drake, Ortelio, Vasco da Gama, Vespucci, Magellano, Livingstone, Stanley, Lewis e Clark, Shackleton, Amundsen, Buzz Aldrin. Chissà, magari un giorno su quelle assi di legno verranno aggiunti anche i nomi di Jens e Lars Rasmussen, i due fratelli inventori di Google Maps; oppure quello di Brian McClendon, il principale responsabile della nascita di Google Earth.

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