Autore Karl-Markus Gauss
Titolo Nella foresta delle metropoli
EdizioneKeller, Rovereto, 2021, Razione K , pag. 288, cop.fle., dim. 13x21x2 cm
OriginaleIm Wald der Metropolent
TraduttoreFabrizio Cambi
LettoreCristina Lupo, 2021
Classe narrativa austriaca , viaggi , storia: Europa












 

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Indice


                        Capitolo 1

- La smorfia di Beaune 9
- Messerschmidt. Un'indicazione 15
- Soliman, l'illuminista imbalsamato. Un addendum 20
- Feuchtersleben. Una pista sbagliata ma bella 23
- Ungargasse 5. Un post scriptum 27

                        Capitolo 2

- La strada del riscatto. Belgrado 33
- L'invenzione della Jugoslavia a Vienna/Landstraße.
  E un'escursione a Jasenovac 44

                        Capitolo 3

- Il grande mondo di Dragatuš. Nella casa di Oton Županičič 55
- Il sogno di Vrzdenec. In viaggio con Ivan Cankar 61
- La Ottakringer Straße. Una passeggiata estiva 67

                        Capitolo 4

- Apparire a Siena 79
- Piccolomini (I Neolatini I) 85

                        Capitolo 5

- I morti di Sélestat 93
- Beato Renano (I Neolatini II) 100
- A proposito di Janus Pannonius (I Neolatini III) 101

                        Capitolo 6

- La pioggia di Brno. Ivan Blatny e la portoghese murava 105
- Anima perduta, corpo salvato. Brno, Spielberg, cripta dei Cappuccini 111
- Swoboda, il filantropo (I Neolatini IV) 118

                        Capitolo 7

- Lost a Bucuresti. Bulevardul Mihail Kogălniceanu 121
- A Văcăresti. Visita a Tudor Arghezi 129
- "L'Europa che non sa di loro..." Rosetti, Rosenthal, Margul-Sperber 136
- Taurinus Olomucensis (I Neolatini V) 146

                        Capitolo 8

- Le quinte di Opole 153
- L'esperantista slesiana. Scheda commemorativa di Jan Fethke 159
- Opole, illusione slesiana 163
- Schlonsacchi, wasserpolacchi, lachi. Digressione sulla confusione 167
- Óndra Lysohorsky e i lachi. Un epitaffio 174

                        Capitolo 9

- La repubblica di piazza San Francesco 181

                        Capitolo 10

- Il lago limpido. Le campane di Slaghenaufi 191
- Il cronista di Patmos 194
- La guardiana di Čara 202
- La vecchia di Ordu Caddesi 206
- Incontro nella cattedrale 209
- Quattro smorfie con il gatto 211

                        Capitolo 11

- I vandali di Fontevraud 215
- St. Genet. A proposito di Fontevraud 221
- Strindberg. Una chiosa su St. Genet 227

                        Capitolo 12

- Le bambole di Arnstadt 231
- Willibald Alexis. A proposito di Arnstadt 238
- Sir Walter Scott. Una nota su Alexis 242

                        Capitolo 13

- Europa-Africa. Viaggio di un cittadino di Bruxelles 245
- Senza parole in due lingue. Il coiffeur Brahym e l'invenzione della
  lingua belga 258
- Louis Paul Boon. Una lettura ripetuta 263
- Karl von Ligne a Beloeil e sul Kahlenberg. Ancora un passo di Iato 270

                        Poet Scriptum

- Post scriptum 279



 

 

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Pagina 9

Capitolo 1





LA SMORFIA DI BEAUNE



Il più grande artista di smorfie che abbia mai visto l'ho visto a Beaune. Il posto è pieno di turisti e uno di loro ci aveva messo in guardia pensando che condividessimo l'illusione di essere dei nomadi del mondo moderno solo perché viaggiavamo per conto nostro e non grazie a un pacchetto tutto compreso acquistato in agenzia. L'odio del turista per i turisti assomiglia a quello della gente di provincia per i provinciali, partorisce progetti curiosi, e quello dell'avventura con tanto di carta di credito è uno dei più affascinanti. Chi vi si dedica lo si incontra dovunque, nel deserto e in alta montagna, provoca bizzarri assembramenti ed è solito fondarsi con la sua flotta su isole remote nel Pacifico che conosce solo lui. Noi non avevamo intenzione di passare la notte a Beaune, un posto affollato appunto di turisti. Ma dopo avere visitato il famoso Hôtel-Dieu ci mettemmo in cerca di un alloggio in questa cittadina che poi non era tanto piccola.

Il cancelliere di Borgogna, quando nel 1443 fece costruire insieme alla consorte Guigon de Salins l'Hôtel-Dieu, secondo le sue stesse parole non si proponeva altro che di salvare le loro anime per l'eternità con un'opera benefica. Per più di seicento anni l'Hôtel-Dieu, il cui sfarzo andava oltre ogni immaginazione, era stato adibito a ospedale dei poveri che lì ricevevano cure mediche e assistenza religiosa. Ai lati della grande camerata gotica, lunga cinquanta metri e larga quattordici, erano disposti i letti da cui i malati, potendo vedere la cappella e l'altare che chiudono la parte frontale della sala, non dovevano alzarsi dal letto per assistere alla Santa Messa.

Lo stanzone ha un soffitto con un arco a sesto acuto. La cosa più interessante nell'elegante copertura sono le travi di legno che sembrano sporgere dalla gola di buffi draghi sputafuoco di fronte ad altre grottesche teste di animali. I loro musi si rifacevano a noti cittadini di Beaune e le teste, ognuna delle quali era associata a una faccia ben conosciuta e stupidamente ghignante di uno del posto, dovevano rivelare qualcosa del loro carattere vizioso così da condannarli per sempre. Restammo stupiti dall'intelligente funzionalità con cui era attrezzata la camerata da un punto di vista medico e per la carica spirituale che si riversava sui malati rivolti all'altare, ma soprattutto ci meravigliammo di scoprire in un edificio, dove si perseguiva seriamente una duplice finalità, quella della cura del corpo e quella del riscatto dell'anima, un'esplosione di follia, di cui erano spettatori i degenti, che si sprigionava sulla volta di legno nella quale si deridevano i ricchi abitanti di Beaune che avevano contribuito alla dotazione e al mantenimento dell'ospedale. Erano raffigurati con i volti ottusi e deformati nella smorfia di una risata oppure con teste di animali che denunciavano la loro avarizia, avidità, grettezza e meschinità.

Lo vidi per la prima volta sotto quel soffitto, Non aveva lo sguardo rivolto verso l'alto, non pensava che lassù ci fosse da scoprire qualcosa, forse addirittura sé stesso. Camminava in gruppo come facevamo tutti nell'Hôtel-Dieu e io ero dietro di lui, mentre procedevamo dalla camerata al cortile d'onore dove si godeva la vista migliore sull'ampio edificio, sulle tegole multicolori, sui lucernari intagliati, sulle lastre d'ardesia e su un pozzo, posto di lato, con decorazioni in filigrana di ferro battuto; andavo dietro a lui che seguiva gli altri, dal cortile d'onore nella sala più piccola Saint-Hugues dove un tempo erano ricoverati i malati e i vecchi bisognosi di cure più lunghe; da lì nella sala Saint-Nicolas dove i degenti più gravi e i moribondi attendevano la fine; tutti insieme visitammo la farmacia, la cucina, i locali dove erano esposti gli oggetti d'uso quotidiano di tempi ormai remoti.

Aveva all'incirca la mia età, era un tipo asciutto, con un volto spigoloso, i capelli cortissimi e una barba che gli scendeva curiosamente dal labbro inferiore sul mento, una sottile striscia bianca come un taglio doloroso nella pelle. Pareva molto attento, con il braccio teso indicava qualcosa sulla facciata a una donna che gli stava accanto, poi fece una sorta di smorfia di dolore quando dei bambini reagirono impauriti nel vedere esposte le forbici usate per le amputazioni, uno strumento del diciottesimo secolo. Dopo si unì a un gruppetto di persone che erano andate a fumare nel cortile.

Lo rividi la sera. Dopo aver lasciato l'Hôtel-Dieu, facemmo una passeggiata e uscimmo dalle mura di cinta intorno al centro, rimaste quasi del tutto intatte. La Place Madeleine ha una forma quadrata ed è fiancheggiata da platani, là trovammo l'Auberge Bourguignonne dove, dietro a un'opera in muratura priva di intonaco e con migliaia di pietre chiare in vista, seminascosti c'erano un piccolo hotel e un ristorante. Quando entrammo era quasi tutto occupato. Secondo l'uso francese i tavolini erano molto ravvicinati fra loro, e solo una minima distanza marcava il confine simbolico fra i clienti. Quando ci si siede a un tavolo non si saluta chi occupa quello accanto e non si sta a sentire quel che viene detto a non più di mezzo metro, non si entra nei discorsi altrui, non si invade il campo di estranei, come del resto quelli del tavolo vicino non stanno ad ascoltare noi, ma continuano a occuparsi delle loro cose come peraltro facciamo noi stessi. Su questo accordo si basa la cultura dei ristoranti francesi, dei bistrot, stipati di tavoli e di sedie, luoghi privi di intimità.

L'uomo con la sottile striscia di barba era l'unico che nel ristorante mangiava da solo, me ne accorsi istintivamente ancora prima di prendere posto, senza poter immaginare la situazione spaventosa che si sarebbe poi presentata. Sedeva sulla sinistra, forse quattro metri in diagonale rispetto a me quando lo vidi di sfuggita al di sopra della spalla sinistra di mia moglie, lo guardai in faccia, mentre con la testa faceva continui movimenti come agitato dai sentimenti più diversi e incomprensibili. Quando cominciammo a mangiare il primo, lui era già al secondo, ma pareva intento soprattutto a cercare qualcuno che lo liberasse dalla solitudine che doveva essergli insopportabile. Non sapeva del confine simbolico che occorre mantenere in un ristorante come quello, pensava che la vicinanza potesse significare un invito al cameratismo.

All'inizio provò con la coppia seduta alla sua sinistra, palesemente di Beaune, che aveva poca voglia di apprendere nuove abitudini da uno straniero. Al suo tentativo di attaccare discorso sulle pietanze in tavola reagirono bruschi e dopo poche parole troncarono la conversazione continuando a restargli seduti accanto senza degnarlo di attenzione. Deducemmo poco a poco che doveva essere olandese, il suo francese suonava accettabile, non meno del tedesco con cui si era rivolto a dei turisti alla sua destra. I due tedeschi, una signora elegante sulla cinquantina e un uomo molto alto con una pinguedine incipiente che poteva avere otto o dieci anni meno di lei, si lasciarono coinvolgere in uno scambio di giudizi sulla cucina e sugli alberghi francesi, ma la conversazione finì presto per languire non solo con il vicino di tavolo ma anche fra loro, nel dubbio di essere ascoltati. Uscirono dal locale prima di tutti gli altri clienti, come è solito fare chi vuole tagliare la corda, limitandosi a salutare con un cenno quell'uomo che quella sera avrebbe voluto fare loro compagnia.

Continua così a starsene da solo, cerca di intrattenersi con qualsiasi cosa, esamina ancora una volta la bottiglia di vino, fraternizza con il cameriere, si guarda intorno in cerca d'aiuto, nella speranza di incrociare almeno uno sguardo che non eviti il suo, ma inutilmente, resta in compagnia di sé stesso e per quanto possa aver vissuto finora da solo, non sembra averci fatto ancora l'abitudine. Quando gli portano il dessert, borbotta qualcosa fra sé nel vuoto della sala affollata, compie dei bruschi movimenti con il corpo da una parte all'altra, sporgendosi poi in avanti fin nel mezzo del tavolo per scattare subito dopo all'indietro facendo scricchiolare il bracciolo della sedia.

Dopo aver cambiato di continuo espressione, la faccia gli si trasforma in modo impressionante. Con grandi sforzi tende quasi tutti i muscoli facciali fino a irrigidirsi in una smorfia spaventosa. Tiene il mento spigoloso premuto sul petto, così che le pieghe dell'attaccatura del collo si gonfiano a dismisura e le labbra serrate come per degli spasmi gli chiudono ermeticamente la bocca mentre dal labbro superiore, quasi incisa nella carne, gli scende da entrambi i lati una ruga sul mento che sembra dilatarsi, diviso dalla striscia bianca della barba. Dalle alette aperte del naso vanno a tracciarsi delle pieghe come due grandi incisioni oscillanti verso la bocca dove si congiungono con quella che si spinge sul mento. Anche il naso è arricciato con tale forza che la radice forma con le palpebre, dolorosamente compresse, un unico rigonfiamento deformato su cui spunta un'infinità di piccole pieghe a zampa di gallina.

Sono testimone di un avvenimento psichico elementare, di uno spettacolo grandioso della natura che viene maltrattata. Nella sala è calato un silenzio di tomba, nessun sbattere di stoviglie e posate, né tintinnio di bicchieri o risate e in questa assenza di rumori mi sembra di percepire i muscoli dell'avventore solitario che si contraggono, il digrignare dei denti, il respiro affannoso per la fatica del suo far teatro mettendosi in mostra come dimenticandosi di sé stesso.

Non avevo ancora mai assistito allo spettacolo tanto drammatico di una faccia, neanche da bambino quando nei giorni di vacanza rovinati dalla pioggia organizzavamo il nostro campionato del mondo delle smorfie e i ragazzi della zona si sfinivano pur di superarsi in quel gioco. Il volto di quel cliente solitario sembra dilatato e nello stesso tempo schiacciato, deformato da una forza straordinaria. Quella smorfia che irrigidisce il volto rivela molti significati, una disperazione che altrimenti non potrebbe esprimersi, ma anche una superbia raccolta in sé stessa e, per quanto dopo tanta irrequietezza appaia ora rilassato e immobile con una faccia impietrita e non più sconvolta dai sussulti, mi pare che continui a mutare espressione in ogni momento: ora mi fa pensare che abbozzi una risata, poi pianga, ora mi sembra di vedere la cattiveria fatta persona e dopo di nuovo la sofferenza allo stato puro.

Ma che smorfie assurde stai facendo, mi chiede mia moglie. Quando mi sente telefonare, per la mia tendenza all'imitazione, da persona leggera quale sono, di solito riesce a capire con chi sto parlando e di chi ho preso senza volere la cadenza, la rapidità di parola, il dialetto. Pur non avendo mai visto prima nessuno lasciarsi andare a smorfie tanto parossistiche, avevo però la certezza di conoscere già la smorfia in quanto tale. Ma quella sera come in quelle seguenti non riuscii a capire come stavano realmente le cose.

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Capitolo 4





APPARIRE A SIENA



Ero a Siena già da tre giorni e passavo da un caffè all'altro per poter osservare da ogni prospettiva la famosa piazza dalla forma paragonata spesso a quella di una conchiglia che dai bordi declina verso il centro. Non pioveva da settimane e sotto il cielo rannuvolato le facciate delle case e dei palazzi apparivano inaridite come se la loro eleganza toscana avesse rubato qualcosa alla sabbia del deserto. Dovunque prendevo un tè freddo o uno dei tanti caffè espresso, insieme al bicchiere o alla tazzina mi veniva presentato il conto che dovevo pagare subito al cameriere annoiato con lo sguardo perso sulla Piazza del Campo. Nella città non c'erano ancora molti turisti, nei caffè all'aperto vedevo solo gente del posto, pensionati che parlavano ad alta voce e gesticolavano a più non posso discutendo animatamente in ogni momento della giornata della partita di calcio del giorno dopo o della pasta del giorno prima. Il pagamento anticipato era richiesto non solo ai turisti, ma anche agli italiani e addirittura ai clienti fissi. Questa norma precauzionale aveva un che di sgradevole e di impersonale, non riguardava comunque lo straniero in quanto tale, com'ero io, e che riconoscevano subito, perché nell'estraneo non vedevano, come da noi, una persona potenzialmente pericolosa, ma sospettavano piuttosto che l'imbroglione potesse essere anche uno di loro.

In questa città, famosa per la sua bellezza, ero venuto per presentare la traduzione di un mio reportage sui rom di un villaggio sprofondato nel fango, un libro sull'odio che si attirano gli abitanti della bidonville e sull'indifferenza che faceva sopportare loro ogni cosa, il fango, l'odio, sé stessi. Dopo la presentazione rimasi ancora due giorni. Conoscevo Siena avendola visitata trent'anni prima e speravo di rivedere me stesso dopo tanto tempo nei vicoli e nelle strade. Quello, dunque, che ero allora e che dentro di sé aveva ancora ciò che poi non sono diventato. L'io del passato è sempre più grande e ricco di quello presente che subisce un processo continuo di rinuncia, di abbandono, di liberazione e di fuga, frutto della riduzione delle molte possibilità di cui disponeva, come pure l'io di domani scaturirà dalle limitazioni di quello di oggi.

La mendicante, che avevo notato subito già la prima sera, cominciava la sua giornata lavorativa alle dieci di mattina e rimaneva nella Piazza del Campo, che attraversava o girava senza sosta, fino alle 22 quando scompariva in uno dei vicoli per andare verso casa. L'immensa conchiglia era il suo territorio. Nelle misere vesti variopinte faceva lentamente avanti e indietro dal Palazzo Pubblico alla fontana oppure, compiendo un cerchio, davanti ai negozi eleganti, ai ristoranti e ai caffè. Era una rom, forse veniva dalla Slovacchia, camminava trascinando i piedi e teneva allungata la mano aperta cercando con insistenza di convincere i più restii, che non riuscivano ad allontanarla e a liberarsi di lei se non dopo averle dato infastiditi un paio di monete. Da come si dedicava al suo lavoro tutto corrispondeva all'immagine che gli abitanti per bene delle belle città si fanno degli svergognati mendicanti rom dell'Europa dell'Est.

[...]


La sera faceva fresco in Piazza del Campo, si stava seduti davanti ai locali fra stufe che venivano su come enormi funghi incandescenti. Stavo cenando all'aperto in un ristorante sopra il quale s'innalzava Palazzo Sansedoni e guardavo dalla parte opposta, verso il municipio e la Torre del Mangia non illuminata. Ero sorpreso invece che i giorni trascorsi lì trent'anni prima illuminassero così poco le mie strade di oggi. Quel che mi era familiare grazie alle tante fotografie e illustrazioni dei libri, non mi faceva ricordare quasi niente di ciò che avevo visto e provato allora. Riconoscevo edifici e piazze, imboccavo con naturalezza la via giusta per arrivare in un posto preciso, ma non rivedevo me stesso, quello che qui aveva soggiornato. E non riaffiorarono ricordi neanche quando mi trovai all'improvviso davanti all'Hotel La Perla in Piazza dell'Indipendenza, dove allora avevo preso alloggio per una settimana in una stanza economica al primo piano.

Intanto la mendicante aveva sgombrato il campo. È naturale che dove non viene eliminata la miseria, sono i miserabili a dover diventare invisibili, questo era lo scopo del muro. Nell'oscurità un settantenne in tuta da jogging girava intorno alla piazza dove due volte l'anno corrono al galoppo i cavalli. Sgambettava con le ginocchia piegate che sembravano sopportare a malapena il peso del corpo magro, e aveva compiuto già sei o sette giri quando da qualche tavolo, mentre passava di nuovo più trascinandosi che correndo, cominciarono a gridargli parole di apprezzamento e incoraggiamento. Ora faceva freddo, ma il bicchiere di vino che tenevo in mano era caldo. Guardavo la piazza che molti ritengono la più bella d'Italia e che una persona religiosa in estasi aveva definito l'anticamera del Paradiso e mi fece piacere che i rom dal limbo in cui dovevano restare nascosti si fossero messi in cammino per diventare visibili dovunque in Europa. La loro presenza fisica è l'unica chance che abbiamo per ricordarci di loro, gli invisibili.

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PICCOLOMINI (I NEOLATINI I)



Era originario di Corsignano, una cittadina vicina a Siena, ma trascorse ventitré anni della sua vita a nord delle Alpi. Le strade lo portarono per mezza Europa e dove arrivava, lasciava qualcosa di durevole, ad esempio in Scozia un figlio, a Basilea i documenti più importanti emanati dal Concilio riunito per anni, in Austria quell'"umanesimo di cancelleria", paradossale agli orecchi di oggi, con il quale lo Stato fece il passo decisivo dal medioevo all'età moderna. Dopo aver viaggiato molto, preferì soggiornare soprattutto a Vienna che nelle lettere descrisse con uno stato d'animo fra ripulsa e fascinazione.

Si deve sapere che le sue lettere circolarono per tutta l'Europa, non solo perché le inviò ai suoi allievi sparsi nelle corti principesche tedesche, francesi, svedesi, boeme e polacche, che formavano l'avanguardia dell'umanesimo italiano in Europa, ma anche perché ogni sua missiva, negli ultimi tempi prima dell'invenzione della stampa, fu copiata molte volte diffondendosi così nel piccolo mondo di eruditi che si stava formando. Queste lettere indicarono lo stile di tutta un'epoca e furono prese a modello per la costruzione formale e l'impostazione retorica degli epistolari, prescindendo del tutto dall'impatto che con esse l'autore desiderava, esigeva, biasimava o rifiutava. Nelle missive da Vienna riferiva fra l'entusiasta e l'inorridito dell'"incredibile quantità di vino" che i contadini portavano ogni anno nella città dalle "loro cascine e dai loro vigneti" e che in una casa su due era sistemata una mescita e "il popolo tiene moltissimo a mangiare e a bere. Quel che ha guadagnato durante la settimana viene speso il primo giorno festivo".

Enea Silvio Piccolomini, che discendeva da una famiglia non particolarmente facoltosa, era troppo uomo di mondo perché non gli piacesse quello stile di vita ed era troppo un razionalista nel propugnare la costruzione di uno Stato fondato sulla ragione perché non vi vedesse anche un pericolo. Da nessun'altra parte, scriveva, il numero delle prostitute era più alto di quello di Vienna, cosa che lo sorprendeva più che indignarlo, in quanto a Vienna vigeva comunque il costume che anche le donne dal matrimonio integerrimo non erano insensibili agli approcci di uomini anch'essi dal matrimonio integerrimo e di conseguenza si sviluppavano vivaci relazioni sociali. A lui che attingeva la visione spirituale dal mondo antico e che per primo sviluppò una sorta di progetto europeo elaborando un'idea e una coscienza sovranazionali, di Vienna più di tutto piaceva la frenetica vitalità che gli sembrava animare la città, questa città di stranieri e di immigrati che in poco tempo diventavano viennesi entusiasti e apprezzati, una città in cui i mercanti venuti da fuori e in là con gli anni sposavano le giovani serve, rendendole presto, per loro fortuna, vedove agiate così che potessero sposare gli amanti di gioventù salendo in questo modo in meno di una generazione dalla condizione di servitori a quella di ricche famiglie di commercianti.

Enea Silvio Piccolomini era chiaramente affascinato da questo mondo, era certo un uomo d'ordine essendo il consigliere più influente dell'imperatore asburgico Federico III, ma sapeva sin troppo bene che il vecchio sistema medievale doveva essere spezzato e crollare per aprire la strada al progresso, parola a lui sconosciuta, e cioè uno Stato governato da un regnante di cultura circondato non da aristocratici annoiati, bensì da una cerchia di persone colte e competenti, in grado di consigliarlo in tutto ciò di cui non era a conoscenza, usando una lingua comune con la quale diplomatici, cancellieri, funzionari di cancelleria, eruditi potevano comunicare. Questa lingua era il neolatino.

Come poeta Enea Silvio Piccolomini ha immortalato in versi piccanti le sue vicende erotiche, cosa che gli fu possibile perché l'umanesimo italiano nel quale riscoprì il mondo antico, sviluppò anche l'idea che il soggetto è in quanto tale un individuo legittimato e capace di fare esperienze personali e non vincolate a regole generali. La novella Eurialo e Lucrezia, una tragica storia d'amore in cui il protagonista rispecchia i tratti inconfondibili del conte e cancelliere asburgico Kaspar Schlick e la protagonista femminile quella di una famosa bella donna senese, ebbe 35 ristampe solo nel quindicesimo secolo e influenzò la narrativa erotica per i successivi due, tre secoli. Quando la scrisse, nel 1444, Piccolomini aveva quasi quarant'anni. Due anni dopo, i meriti acquisiti con papa Eugenio IV erano così grandi che in mancanza di altri beni materiali poté essere da lui ricompensato solo con onori di carattere religioso. Così il padre di più figli, l'autore di novelle e poesie erotiche, l'uomo di corte e di mondo, a quarantun anni con riluttanza, si fa ordinare prete e già l'anno seguente è nominato vescovo di Trieste, poi di Siena e dieci anni più tardi papa.

Mi trovavo davanti alla Libreria Piccolomini nel duomo di Siena. [...]

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Capitolo 9





LA REPUBBLICA DI PIAZZA SAN FRANCESCO



Il direttore del teatro era di bassa statura e corpulento, aveva un testone con i capelli scuri e umettati che si arricciavano nel cielo afoso della sera. Indossava pantaloni neri accuratamente stirati e una camicia di seta, anch'essa nera, abbottonata al collo con sopra un gilet con ricami rossi e azzurri, distinguendosi così dagli attori che si muovevano agili sulla scena in calzoni e corpetti bianchi. Guardava tranquillo l'andirivieni di cui portava la responsabilità sapendo ora spronare con gesti imperiosi ora rassicurare. Era tutto un ribollire e uno sgonfiarsi, un ondeggiare e un ritirarsi, un avvicinarsi e allontanarsi continui in quel gruppo in fermento che lui comandava e richiamava alzando le sopracciglia in modo impercettibile, spostava in un punto più distante con un movimento del braccio o attirava a sé con un gesto comprensivo della mano aperta.

Il direttore, un uomo sui trentacinque anni, vigoroso e già esperto, capace di scatti veementi ma anche di osservarsi con ironia, dirigeva non solo gli attori ma pure gli spettatori che si facevano largo numerosi e sembravano considerare rivolto a sé stessi ogni suo gesto perché occupassero solleciti i posti da lui indicati. Nessuno si sarebbe seduto se non dopo essere stato esaminato con calma e alla fine incoraggiato con un'occhiata fulminea quanto benevola. I suoi attori a seconda del caso si facevano coraggio a vicenda o si mandavano al diavolo a squarciagola quando s'intralciavano fra loro o uno finiva distrattamente sulla traiettoria dei passi dell'altro; e non cessavano di andare in fretta e furia dietro le quinte gridando, ridendo, cantando per poi ritornare carichi di nuove attrezzature di scena e correre in ogni angolo dell'auditorio. Il direttore li dirigeva quasi in silenzio perché era il solo a sapere dove occorreva indirizzare quel traffico caotico.

Dopo essere arrivati a Napoli la sera, eravamo andati in un hotel che non godeva di grande fama. Era di cinque piani e ai margini del centro storico, dava sul rumoroso Corso Garibaldi, pochi metri prima di immettersi nella brutta piazza Garibaldi, dove tutta la notte passavano macchine incolonnate che si incalzavano furiosamente agli incroci finché si fermavano per poi sganciarsi l'una dall'altra e dirigersi fuori città. Di fronte all'hotel partiva una strada che imboccammo senza cercare qualcosa in particolare. Dopo circa cento metri ci condusse in una strana piazza. Era bizzarra la forma stessa che ricordava un triangolo tracciato in modo sghembo e traballante, come se la piazza non fosse stata frutto di un progetto ma del caso. No, la piazza San Francesco non era una delle piazze più attrattive di Napoli, nei suoi apparenti limiti strutturali celava però una bellezza che non si manifestava subito: ma riconobbi il segreto di tale bellezza prima ancora che mi cogliesse in tutta la sua forza. La rivelazione del segreto della sua bellezza nascosta era il teatro che trasformava gli spettatori in attori e la piazza in un palcoscenico su cui si rappresentava una commedia che si chiamava "La piazza".

Una strada stretta, percorsa soprattutto da motorini, taglia la piazza San Francesco il cui punto più largo è forse di cinquanta metri. I conducenti si esibiscono in acrobazie, compiono curve più spericolate di quanto sia consentito altrove, guidano senza mani, parlano al cellulare mentre il motorino continua la corsa in libertà, sfrecciano sfidandosi a vicenda, per poi frenare e mettere la mano sulla spalla dell'avversario invece di gettarlo a terra, lasciano ululare il motore da fermo mentre parlano con la gente seduta sulle sedie di plastica nel piccolo bar De Le Torri. Intorno al bar, un edificio a forma di cubo che dà l'impressione di essere stato costruito come ripiego temporaneo ma resta lì nella sua provvisorietà, ci sono dei cipressi con le punte che la sera si staccano nel cielo scuro e convintamente tremano affilate anche in assenza di vento. A distanza di pochi passi dal bar, la Porta Capuana chiude la piazza all'altro capo. È una porta della città del quindicesimo secolo, imponente e a sé stante, che con le sue due torri, l'una si chiama Onore e l'altra Virtù, ricorda l'arroganza di un potere finito da molto tempo: il marmo dell'arco che unisce le due torri riesce con un gioco di prestigio a essere bianco e ad apparire però scuro.

All'altro lato della strada si susseguivano case a più piani con la gente affacciata alle finestre che sembrava vivere per il teatro. Grappoli umani erano come arrampicati sui davanzali, gli uomini in canottiera guardavano fumando quanto accadeva sotto, mentre le donne in vestaglia e con i bigodini puntavano lo sguardo convinte e impassibili nell'aria della sera. Per quanto dovessimo considerarli spettatori di una rappresentazione di cui percepivamo lo svolgimento pur non sapendo di che cosa si trattasse, in realtà i protagonisti erano proprio loro. Ognuno si era ritagliato una parte, molti quella di statisti, altri quella di attori che aspettano con discrezione di fare l'ingresso in scena.

Infine di fronte al bar De Le Torri, dall'altra parte della strada, a circa trenta metri da Porta Capuana, arrivammo al palcoscenico principale. Il direttore del teatro aveva fatto cenno di avvicinarci con un garbo tale che dovemmo seguirlo e, dopo aver superato il confine del suo regno delimitato da grandi vasi da fiori, farci assegnare un palco con vista perfetta sul quadrato recintato, nella zona più ristretta del suo dominio, e su tutta la piazza il cui centro spirituale, spostato sul bordo, era da lui rappresentato. "O' Luciano" si chiamava la compagnia da lui diretta e la scena posta al di fuori dell'auditorio consisteva in 24 tavoli all'aperto con sei sedie ciascuno. Sulla più alta delle tre scale, che conducevano all'interno del teatro stava il direttore che quasi immobile sollecitava i dipendenti che scattavano di continuo ai tavoli per portare o togliere bottiglie, piatti, bicchieri, cestini. Tutto si svolgeva a folle velocità e questo era possibile perché ogni movimento era studiato. Ai tavoli era tutto un gridare, i clienti alzavano i bicchieri vuoti, battevano le forchette sui piatti non appena finito di mangiare e cercavano di intercettare lo sguardo dell'impresario per richiamare la sua attenzione sulla loro situazione insopportabile, un coro polifonico che esprimeva protesta e approvazione in una maniera indistinguibile e la contestazione rabbiosa si percepiva alla fine come una forma particolare di consenso.

Distante un paio di passi dal direttore, un uomo robusto, vestito di bianco come il resto della truppa, aveva allestito un banco su cui per ore faceva la stessa cosa con foga inarrestabile: con una mano teneva un colino con cui tirava fuori le cozze da un mastello, le faceva cadere su un pezzo di pane abbrustolito della grandezza di un piatto che con una pinza tratteneva nell'altra mano, poi con un ramaiolo preso al posto del colino versava sulle cozze e sul pane un po' dell'acqua di bollitura e faceva scivolare il pane annaffiato dall'acqua e ricoperto di cozze su un piatto al quale ne sovrapponeva un altro e rovesciando il tutto faceva defluire il liquido. Nel corso dello spettacolo questa operazione fu ripetuta parecchie centinaia di volte, non durava neanche dieci secondi e sembrava l'occupazione preferita dell'uomo che non sentiva pressioni di sorta e si prendeva il tempo necessario per ogni nuova manovra proprio come quando ci si dedica all'attività preferita.

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Capitolo 10





IL LAGO LIMPIDO
LE CAMPANE DI SLAGHENAUFI



Erano le dieci di mattina quando arrivammo a Lavarone. Dopo una delle molte curve, a un'altitudine di 1100 metri, in un avvallamento si aprì davanti a noi il lago. Si vedeva qualche casa solo nella parte superiore, per il resto il lago era contornato da abeti e faggi. D'estate i prati venivano attrezzati e si trasformavano in una spiaggia elegante. Era un mese di marzo eccezionalmente caldo, il termometro segnava già 22 gradi. Il lago di Lavarone ha una larghezza forse di duecento metri e una lunghezza di 350. Nella luce primaverile la superficie ghiacciata sfavillava. Camminavamo in maniche corte e guardavamo l'acqua ricoperta da una pellicola sottile di ghiaccio, liscia e trasparente. Sotto, l'acqua scintillava di azzurro e verde chiaro e credevo di poter contare i ciottoli sul fondale.

Lavarone non denomina un luogo preciso, ma un certo numero di paesini e casali in mezzo ai campi, fra le colline e i boschi. La maggior parte degli hotel si trova nella frazione di Gionghi, distante forse cinquecento metri dal lago, e in quella di Chiesa, più piccola ma più vicina alla riva. Andando in giro per Gionghi ci trovammo davanti alla biblioteca comunale che è intitolata a Sigmund Freud e a quell'ora era chiusa. A partire dal 1900 Freud trascorse spesso le vacanze a Lavarone e alloggiò sempre all'Hotel Du Lac. Ci andava prima quindi della Prima guerra mondiale, quando Lavarone e il Trentino facevano ancora parte della monarchia asburgica e l'Italia era dall'altro lato, dietro il vicino confine del Veneto, e poi vi ritornò quasi ogni mese di agosto dopo che il Trentino e il Sudtirolo erano diventati italiani. Nell'estate del 1923 era nella suite dell'Hotel Du Lac e per notti intere si ispezionò la faringe con lo specchietto a mano senza però riuscire a diagnosticare né a scoprire il tumore alla cavità orale, forse per quella dote particolare che ha l'essere umano di non vedere ciò che è evidente. L'hotel, che con una targa ricorda i giorni felici trascorsi qui da Freud, era chiuso come anche altri alberghi e pensioni che avrebbero riaperto solo a maggio. In quel mese allora sarebbero ritornati i turisti, dapprima quelli più anziani per un soggiorno di cura ma con l'obbligo di frequentare il centro benessere, poi gli escursionisti che appena arrivati si sarebbero affrettati a fare subito le loro gite nelle montagne vicine e infine gli sportivi che qui hanno di che scegliere fra le offerte di ogni tipo. Il luogo sembrava però sopravvivere non solo senza turisti, ma anche senza abitanti. In basso il lago brillava, le strade erano vuote, le veneziane alle finestre chiuse.

A Gionghi, dove finiva la strada, un sentiero portava in una mezzora ad alcune case sulla collina nella frazione Bertoldi. Da lì non ci volle molto ad arrivare a Slaghenaufi, nella solitudine dei morti. Non si sentiva il minimo rumore, anzi sì, era un leggero fruscio, il vento che soffiava dalla pianura, sfiorava di continuo le cime degli alberi che delimitavano l'altopiano dove eravamo arrivati. Dietro quel limite ondulato si estendeva un ampio prato verde bruno e sul morbido terreno erano piantate moltissime croci di legno. In questa zona, che fino al 1918 segnava il confine fra l'Austria-Ungheria e l'Italia, già prima della Grande guerra erano stati costruiti da entrambe le parti, austriaca e italiana, grandi fortilizi affinché la guerra di posizione, che era già stata pianificata, durasse anni. Centomila soldati austriaci e italiani persero la vita sugli altopiani di Folgaria, Lavarone e Luserna sparandosi con l'artiglieria pesante dalle rocce e dalle roccaforti, distanti solo poche centinaia di metri gli uni dagli altri. Nel cimitero militare di Slaghenaufi, da cui si gode una vista meravigliosa su tutta la zona, furono sepolti quasi mille soldati dell'esercito austroungarico. Le croci erano disposte in file regolari senza che questo desse al cimitero un aspetto marziale. La maggior parte delle tombe riportava un nome su una semplice targhetta e per la prima volta nella mia vita mi resi conto di quanto lavoro richiedeva la manutenzione dei cimiteri di guerra, assegnata a un Partito interventista nel Paese nemico di ieri, un lavoro che a Slaghenaufi non riservava la fama di eroi ai 998 soldati uccisi e mutilati, ma restituiva loro la dignità di avere un nome. Vicine le une alle altre erano state composte nella terra le ossa degli Szabo, Unterkofler, Giulic, Olensa, Petrescu, Divaniuj, Stefanovic, In fondo al cimitero c'era una piccola cappella di legno, nascosta sotto i rami scuri di grandi conifere.

Verso le due eravamo di nuovo in riva al lago, un tempo sorvolato dai colpi di mortaio e dalle granate, e passeggiando sulle sue sponde Freud era andato incontro agli anni di sofferenza mentre oggi esso attira a Lavarone vacanzieri da tutto il mondo per semplice divertimento. Ero sulla riva e memorizzavo i nomi ucraini, ungheresi, polacchi, croati, tedeschi che avevo decifrato sulle croci e cercavo di ricordare le lettere in cui Freud dall'Hotel Du Lac informava gli allievi preoccupati che le sue condizioni di salute fossero stabili. Il ghiaccio copriva il lago intero, non presentava incrinature fino alla riva, era una lastra sottilissima su cui a mezzogiorno si posavano i raggi luminosi del sole e sarebbe bastato lanciare un sasso per mandarla in frantumi. Sotto la lastra vitrea scampanellava la campana di Slaghenaufi.

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Capitolo 13





EUROPA-AFRICA
VIAGGIO DI UN CITTADINO DI BRUXELLES



Si dice che Dio provi un piacere celestiale nel far sfavillare nelle giornate di sole le antichissime vetrate multicolori di Notre-Dame du Sablon. Quando una mattina entrai nella chiesa, mi trovai però immerso nell'oscurità a malapena rotta dalla luce tremolante delle candele. Credevo di essere solo finché nella fila di banchi sotto la cantoria vidi un uomo che, inginocchiato al buio, con i gomiti appoggiati sul ripiano e il volto nascosto fra le mani, parlava in silenzio con Dio. Nella navata laterale c'era la tomba dello sconosciuto Rousseau, il poeta Jean-Baptiste Rousseau, autore di odi dalla rigorosa forma metrica e di velenosi epigrammi, proscritto e uno dei tanti profughi che avevano trovato rifugio e accoglienza a Bruxelles dove erano morti da esuli. Si sentivano soltanto il silenzio denso di devozione e il rumore del traffico sulla Regentschapsstraat che scorreva frusciando nella pioggia.

Dal portone d'ingresso della chiesa vedevo in lontananza sulla destra la rocca imponente con la cupola d'oro. La Regentschapsstraat, a più corsie e indicata anche come rue de la Régence, conduceva direttamente fin lì. Dai tempi del borgomastro Bols, che guidò la città intorno al 1900, tutti i cartelli stradali di Bruxelles erano bilingui, in fiammingo e in francese, come peraltro tutto il resto eccetto gli abitanti. Non ne incontrai uno che non desse a intendere di non sapere una delle due lingue della propria città. Percorsi il viale per qualche centinaio di metri e la fortezza, con un velo di pioggia che le faceva da corona, mi appariva sempre più brutta. Quanto più mi avvicinavo, notavo che il palazzo di giustizia non era solo di cattivo gusto ma addirittura orripilante, una colossale maschera di pietra del potere. Già le dimensioni del palazzo, edificato in onore dell'ingiustizia, erano terrificanti ed enorme mi parve anche la piazza di fronte che porta il nome dell'architetto assetato di gloria che su suo stesso progetto iniziò i lavori di costruzione nel 1866.

Joseph Poelaert, dopo aver ricevuto l'incarico dal re Leopoldo II, fece abbattere tremila case e nel realizzare l'edificio più imponente dell'epoca impazzì. Quattro anni prima che il palazzo di giustizia fosse completato e l'architetto potesse rabbrividire davanti a un monumento, frutto di una sua megalomania che condivideva con il re, morì in uno stato di muto ottenebramento mentale che nessuna fama poté rischiarare. Il suo dispotico committente, Leopoldo II, visse ancora altri venticinque anni sciagurati.

Discendente della dinastia di Sassonia-Coburgo e Gotha, Leopoldo II dedicò la vita per fare di una colonia africana una sua proprietà privata. Fece esplorare il corso superiore del fiume Congo organizzando spedizioni, camuffate da finalità scientifiche e filantropiche, per poi conquistare e schiavizzare la popolazione con spietate campagne militari quando ebbe la certezza che l'occupazione e la carneficina erano assai redditizie. Chi era considerato idoneo doveva sfinirsi per tutta la vita nelle miniere e nelle piantagioni di caucciù e il personale di sorveglianza, composto da soldati belgi e mercenari arabi, aveva l'ordine di sparare agli africani che tentavano la fuga. Poiché Leopoldo amava l'onestà sul piano burocratico, occorreva dimostrare di non aver fatto un uso superfluo delle pallottole e perciò a chi era stato ucciso veniva mozzata la mano e consegnata all'amministrazione coloniale con sede a Léopoldville.

Dieci milioni di africani sono rimasti vittime del progetto di inglobare il Congo nella civiltà europea. La ricchezza del Belgio, che nell'Ottocento era un Paese povero, va fatta risalire alla reggenza di Leopoldo II che per venti anni, da imprenditore privato, depredò il Congo-Belga usufruendo di prestiti statali, prima di lasciare tutto in eredità allo Stato belga dopo essere stato messo al bando dalle grandi potenze per la brutalità da parvenu con cui aveva operato. Quando nel 1909 il feretro di Leopoldo II fu portato con la carrozza di Stato dal palazzo reale al cimitero, si dice che i cittadini di Bruxelles, che fecero ala sulla stessa strada da me percorsa proprio ora, lo fischiarono spedendo il morto nell'eternità nazionale a suon di insulti.

Il palazzo di giustizia è lungo circa 160 metri, largo 150 e alto 120. Ha una superficie di 26.000 metri quadrati e dispone di oltre 245 stanze, fra cui quasi trenta sale riservate alle udienze per esercitare una giustizia rivolta costantemente contro i nemici dello Stato e del re. Il più grande edificio che fu mai costruito nel diciannovesimo secolo in Europa non lesina quanto a spazio lassù sopra la città, perché la rue de la Régence, alla fine della quale fu collocato, rispetto ai vecchi quartieri è già nella zona alta della città posta sulle colline.

Poelaert, ne sono sicuro, era già malato di mente quando cominciò a costruire il palazzo e arrivò a rendersene conto soltanto quando impazzì. La gigantesca costruzione, più grande della basilica di San Pietro, è un caso unico di caos stilistico, che con i pilastri molto spessi, le colonne doriche e ioniche rende pesantissimo quel classicismo attraente solo per chi ha una natura criminale. Il palazzo di giustizia segna la fine non solo del diritto ma anche del traffico, perché la strada si divide proprio davanti, non potendo proseguire di fronte a un dirupo di trenta metri. Sotto c'è il Marolles, il più antico quartiere popolare della città, raggiungibile con una scalinata e da un paio d'anni anche con un ascensore a vetri. Uscii dall'ascensore e mi vidi puntati gli occhi benevoli del dr Joseph Kasa-Vubu, il primo presidente dello Stato congolese. Nel Marolles siamo certo ancora a Bruxelles ma sembra di essere in un altro mondo perché vi convivono l'Africa moderna e le antiche Fiandre, la povertà amministrata dallo stato sociale e la bohème foderata di economia privata, il degrado cittadino che si potrebbe ancora arrestare e la gentrificazione che si è affermata in alcune strade, ma non in tutto il quartiere. Il ritratto ingrandito e a colori di Kasa-Vubu, esposto nella vetrina di un casottino vicino all'ascensore, era rivolto verso i passanti e decorato con i più vari oggetti devozionali africani. Trenta metri sotto il ciclopico palazzo di giustizia di Leopoldo II, il più grande criminale fra tutti i criminali colonialisti, un casottino insignificante portava il nome dell'uomo politico che aveva sottoscritto la dichiarazione di indipendenza della Repubblica del Congo. La cosa mi sembrò adeguata sul piano urbanistico e per ironia della sorte giusta da un punto di vista storico, Purtroppo Kasa-Vubu aveva fatto subito ricorso all'aiuto dei vecchi signori colonialisti che glielo concessero volentieri quando volle spodestare il suo avversario, il primo ministro carismatico Patrice Lumumba che aveva fatto assassinare.

Accadde nel 196o. A differenza di Lumumba, che aveva eliminato, Kasa-Vubu intendeva la guerra di liberazione nazionale come lotta tribale per acquisire i privilegi dei Bakongo cui anch'egli apparteneva. Eppure l'uomo che ha lasciato una devastante eredità che affligge ancora oggi il Congo con una guerra tribale dopo l'altra, continua ad avere a Bruxelles sostenitori africani e belgi. Joseph Kasa-Vubu aveva studiato per diventare teologo cattolico ma era poi stato a lungo funzionario delle imposte nell'amministrazione coloniale e, dopo aver assunto la carica di presidente, aveva pensato di esercitare il potere basandosi sulle capacità militari di un giovane ufficiale tristemente noto per la crudeltà e l'avidità. Dopo qualche anno questi lo cacciò via, coprendolo di ingiurie e con l'accusa peraltro giusta di corruzione perché voleva sfruttare da solo le immense ricchezze del sottosuolo piuttosto che condividerle con la cricca di Kasa-Vubu.

Mobutu Sese Seko, come si chiamò da presidente l'ufficiale golpista, è il fantasma africano di Leopoldo II, non solo perché in Congo fece egualmente trucidare milioni di persone ma anche perché governò il Paese, denominato ora Zaire, come una gigantesca impresa privata. Alla fine del potere durato più di trent'anni il suo patrimonio personale investito in Svizzera e in altri Paesi europei era consistente quanto l'intero debito dello Stato in cui la popolazione pativa la fame per gli interessi da pagare alle banche internazionali. Il Leopoldo africano si è così tanto identificato con quello belga da far erigere in suo onore una monumentale statua equestre nel centro della capitale Kinshasa, la Léopoldville di un tempo. Quando fu demolita dai dimostranti, Mobutu considerò l'attacco al monumento di Leopoldo un'aggressione a sé stesso e sfruttò la situazione per tenere sotto controllo e tormentare il suo popolo in modo ancora più folle.

La Hoogstraat è una strada stretta, lunga un chilometro, che attraversa il Marolles francese e taglia quasi in linea retta quello fiammingo. È la più antica di Bruxelles e già al tempo dei romani doveva avere più o meno il tracciato attuale. Nel nome di Marolles echeggia il ricordo delle monache dell'ordine Maricallen che nel diciottesimo secolo cercarono di avvicinare la marmaglia, nel quartiere delle prostitute e dei piccoli malviventi, ai precetti religiosi e ai valori morali. Lo scrittore fiammingo Louis Paul Boon, uno dei grandi esponenti del realismo sociale europeo del ventesimo secolo rimasto quasi sconosciuto, in uno dei suoi foschi reportage su Bruxelles dopo la Seconda guerra mondiale ha descritto il Marolles come una giungla di miseria e di malattie. Ma per gli abitanti di Bruxelles di oggi il Marolles non è considerato il Bronx, evitato da chi si preoccupa della propria sicurezza, e neppure un mondo pericoloso perché socialmente svantaggiato. Ogni brussellese va fiero del Marolles perché vi nota ancora qualche traccia del sentimento antichissimo della ribellione, dell'ironia e della cultura urbana di cittadini emarginati che gli abitanti di oggi sentono in qualche modo come protobrussellesi e i loro indomiti antenati.

Questi primi brussellesi hanno creato un dialetto che sta scomparendo in un Paese dominato dai suoi eterni conflitti linguistici. In questo dialetto entrambe le lingue nemiche, la francese e la fiamminga, erano fuse fra loro e mescolate con l'antico spagnolo, introdotto dagli ebrei sefarditi, che come molti altri rifugiati ed emigranti avevano messo radici nel Paese, no, nella città, neppure, nel Marolles. Bruxelles è una grande città composta di molti agglomerati e ancora oggi si afferma spesso che i suoi abitanti possono passare tutta la vita nel loro quartiere senza avere mai visto la città, antica e signorile, la metropoli di un regno e di un impero coloniale, di un moderno Stato europeo e dell'Unione degli Stati europei. Se la gente del Marolles non si è trasferita nella città e nel mondo, è stato comunque il mondo che è andato in quel quartiere: Marolles è il piccolo mondo della vecchia multiculturalità, che cominciò a svilupparsi nella prima età moderna, l'epoca dei viaggi di esplorazione, dei commerci con i Paesi lontani, delle guerre e delle epidemie e di masse di fuggiaschi, di studenti in movimento da una sede all'altra, di immigrati in cerca di lavoro che si spostavano ovunque. Il Marolles è l'eredità composita della vecchia Europa, così eterogenea perché non aveva ancora scoperto che poteva infilarsi nella stretta uniforme degli Stati nazionali. Questa cultura piena di vita che ci è stata tramandata dal passato deve far fronte ora ai velocissimi flussi di immigrazione di emarginati provenienti da tutti i continenti e rifondare i canoni della vecchia multiculturalità.

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SENZA PAROLE IN DUE LINGUE
IL COIFFEUR BRAHYM E L'INVENZIONE
DELLA LINGUA BELGA



Monsieur Brahym scattò in piedi spaventato quando entrai nel suo piccolo negozio. La modesta costruzione di due piani non era distante dal trafficato Boulevard du Midi e si trovava nel mezzo di un'area vuota che non era una piazza ma, a seguito di errori nei progetti urbanistici, nient'altro che un campo nel centro cittadino. Mi aggiravo già da un po' in quella zona particolare, che pur nel cuore della città, era in un quartiere in demolizione abbandonato dai suoi abitanti, finché vidi una casa che sulla facciata chiazzata d'umido riportava la scritta a grandi caratteri: Coiffeur Brahym. In quello stesso momento mi ricordai del fastidio che avevo provato appena alzato nel guardarmi allo specchio vedendomi più vecchio di dieci anni, con i capelli grigi, radi e arruffati. Così entrai nel negozio di parrucchiere.

Monsieur Brahym era seduto a un tavolinetto basso insieme a due uomini che come lui stavano davanti a un bicchiere di tè, stretto e con decorazioni verdi, Indossava come loro pantaloni neri, camicia bianca e una giacca marrone scuro. Forse mi guardò così impaurito perché quel giorno ero l'unico cliente su cui nessuno dei tre avrebbe più scommesso, o forse perché si rese conto che, entrato coraggiosamente nel suo piccolo mondo magrebino, mi aveva dato l'impressione di una persona indolente, occupata a quanto sembrava a passare il tempo coni suoi amici. Monsieur Brahym aveva in testa una bustina bianca ricamata, un copricapo che nell'abbigliamento di un parrucchiere mi parve inappropriato, Anche le teste rasate dei suoi compagni non deponevano a favore dell'arte del maestro che esaminò con attenzione il mio ciuffo di capelli e scosse il capo dispiaciuto, come se gli causassi problemi troppo complicati. Invece di avere un buon taglio di capelli, ottenni un bicchiere di tè decisamente troppo dolce.

Fu una conversazione stimolante quella che Monsieur Brahym e i suoi amici fecero con me anche se non saprei dire in quale lingua. Qualcosa di quel che dicevano mi ricordava la lingua che finora avevo preso per francese, mentre per la pronuncia dilatata dei dittonghi poteva passare per olandese; era una situazione simile a quella di due giorni prima al mercato delle pulci di Vossenplein. Nel sentire parlare gli immigrati mi pareva di avvertire la mancanza della lingua del Paese: quella belga. Nella Bruxelles magrebina si può tentare comunque di capire ed essere capiti in francese e in olandese e si coglierà questo sforzo negli interlocutori, mentre quando ci si rivolge ai vecchi residenti nella lingua sbagliata prevale in noi la difficoltà se non l'impossibilità di capire e in loro la bieca soddisfazione di non essere capiti.

La mattina ero andato alla Casa internazionale della letteratura Passa Porta per concordare con la direttrice ciò che avrei dovuto tener presente nel mio reading riguardo al carattere e alle abitudini della città. Mi mostrò ogni cosa, il piccolo locale per i preparativi, cui si accedeva con un paio di rampe di scale dalla sala delle conferenze, nel quale gli autori potevano ritirarsi con il moderatore o il traduttore con tanto di panini e bevande prima della lettura; la libreria, che era ben fornita e faceva parte della Casa della letteratura; la galleria di fotografie degli autori che avevano già fatto le loro esibizioni, memorabili o malriuscite. Era una signora simpatica, avrà avuto un paio d'anni meno di me, grassottella, con i capelli corti incolori e occhi luminosi che esprimevano calore. Mi ero rivolto a lei in francese e all'inizio non mi ero reso conto che non mi aveva risposto in questa lingua ma in olandese e non potendo seguirla eravamo passati direttamente all'inglese. Nessun vallone che vive a Bruxelles parlerebbe mai in fiammingo e nessun fiammingo in francese, a meno che non vi sia costretto per ragioni ufficiali o per lavoro. "Tu stridi e sibili in due lingue", scrisse il poeta fiammingo Willem M. Roggeman su Bruxelles e gli abitanti fiamminghi e valloni della città, le cui lingue materne sono l'olandese e il francese, preferiscono parlare con gli stranieri in inglese piuttosto che nella lingua nazionale che non è la propria.

Del resto la maggior parte dei valloni non capisce neppure l'altra lingua della sua città e del suo Paese. A Bruxelles, dove rispetto ai fiamminghi sono la maggioranza, i nomi delle strade sono riportati in due lingue, ma se a un vallone si dà l'indicazione in fiammingo, quello non può essere d'aiuto perché in effetti non sa che con l'impronunciabile Huidevettersstraat si intende la rue des Tanneurs. Per parte loro i fiamminghi conoscono la traduzione francese dei nomi olandesi, ma preferirebbero farne a meno; se coerentemente possono affermare la loro ignoranza di fronte agli stranieri, d'altra parte lo Stato belga li costringe a usare l'odiato francese per molti adempimenti di carattere civico e burocratico. Come i tedeschi e i cechi a Praga dopo il 1900, i valloni e i fiamminghi convivono a Bruxelles da sempre, e come a Praga, e più che mai a Trieste, anche gli scrittori hanno superato solo raramente il confine linguistico invisibile, traducendo ad esempio le opere dei loro colleghi fiamminghi in francese o di quelli valloni in olandese.

È curioso questo autismo linguistico delle due nazioni guida in uno Stato multinazionale che sostiene generosamente la piccola minoranza tedesca nella regione di Eupen e Malmedy. Il fiammingo Simon Stevin, un importante matematico del Rinascimento che pubblicò lavori pionieristici di statica, nei suoi studi linguistici eseguiti con serietà e grande passione, volle fornire la prova che la lingua parlata da Adamo e Eva era stato il fiammingo e tutte le altre lingue del mondo si sarebbero sviluppate da questa lingua primigenia dell'umanità. D'altro canto i giacobini francesi, quando presero il potere nel Paese, decretarono il francese lingua della libertà, della democrazia e dei diritti umani ma fra questi non contemplarono quello sulla lingua materna di un altro Paese.

Per tutto il diciannovesimo secolo, anche quando il Belgio era diventato uno Stato autonomo, l'élite vallona con una strategia di politica linguistica mirò a ridurre il fiammingo a un dialetto contadino, disprezzato perché considerato anche lingua dei preti e i babbei di campagna dovevano essere liberati dalla loro influenza. Dopo la Seconda guerra mondiale si aggiunse il fatto che sui fiamminghi gravò il sospetto generale di essere stati collaborazionisti degli occupanti tedeschi e così centinaia di migliaia di loro, proprio quando erano politicamente dalla parte del movimento operaio, cambiarono poco a poco lingua. Ma la Vallonia che con l'industria gettò le basi di una supremazia economica e culturale dei belgi francesi, da tempo è una delle zone europee di crisi. E il regionalismo, con cui in molte nazioni si intende smembrare la compagine dello Stato favorendo l'accorpamento di zone ricche e di zone povere e provocando la reazione delle fasce agiate, ha dato origine a un potente movimento politico in cui la ribellione per le vecchie ingiustizie si combina in modo esplosivo con una nuova politica aggressiva alimentata dall'egoismo sociale.

Non serve allora una toponomastica bilingue di strade e località: in Belgio non sono un segno di tolleranza, ma di una benevola indifferenza, l'ammissione che in questo Paese tutto deve essere doppio, perché nella stessa città vivono due genti diverse in due mondi diversi. Per questo a Bruxelles c'è un corpo di vigili del fuoco fiammingo e uno vallone a seconda di chi segnala l'incendio e mentre l'ambulanza fiamminga soccorre chi è colpito da infarto sulla Huidewettersstraat, quella vallona accorre per assistere chi si è sentito male nello stesso posto nella rue des Tanneurs.

Così litigano, no, non litigano neppure, si sono organizzati piuttosto in una confortevole condizione di reciproca ignoranza che gli uni vorrebbero contestare agli altri. "Il n'ya pas de Belges", i belgi non ci sono, questa è la ragione di Stato su cui si fonda lo Stato belga che valloni e fiamminghi si sono suddivisi fino all'ultimo dei paesi con le costruzioni burocratiche più assurde. La tolleranza dei brussellesi è celebre, gente di oltre cento Paesi diversi vive in questa città che è la capitale dell'Unione Europea, ma non sembra esserlo per i fiamminghi e i valloni. Si potrebbe supporre che fiamminghi e valloni sono così ben disposti verso i molti immigrati e gli stranieri perché non riescono a sopportarsi fra loro e in questa bella città non vorrebbero essere lasciati soli con l'altro gruppo etnico.

A raccontarmi tutto questo non fu monsieur Brahym che mi spiegò invece come si deve preparare correttamente il tè e in quale momento della bollitura vada aggiunto lo zucchero, Parlava con una pronuncia gutturale delle consonanti mescolando le due lingue nazionali con altre. Si dice che non ci sarebbero i belgi? Sì che ci sono.

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