Autore Michael S. Gazzaniga
Titolo La coscienza è un istinto
SottotitoloIl legame misterioso tra il cervello e la mente
EdizioneCortina, Milano, 2019, Scienza e idee 303 , pag. 328, cop.fle., dim. 14x22,5x2,4 cm , Isbn 978-88-3285-085-7
OriginaleThe Consciousness Instinct. Unraveling the Mystery of How the Brain Makes the Mind [2018]
TraduttoreFrancesco Peri
LettoreCorrado Leonardo, 2019
Classe scienze cognitive , mente-corpo , biologia , filosofia , medicina , psicologia , fisica , epistemologia , storia della scienza












 

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Indice


    Introduzione                                        11


    PARTE PRIMA - Verso il pensiero moderno

1.  Rigida, goffa, accidentata.
    La storia delle prime idee sulla coscienza          21

2.  I primordi della filosofia empirista                43

3.  Il ventesimo secolo. Grandi passi avanti
    e aperture verso il pensiero contemporaneo          75


    PARTE SECONDA - Il sistema fisico

4.  Il cervello, un modulo per volta                   109

5.  Verso una prima comprensione
    dell'architettura cerebrale                        143

6.  Dementi ma coscienti                               177


    PARTE TERZA - L'avvento della coscienza

7.  Il contributo della fisica.
    Il concetto di complementarità                     207

8.  Dalla non-vita alla vita e dai neuroni alla mente  231

9.  Flussi effervescenti e coscienza individuale       263

10. La coscienza è un istinto                          293


    Ringraziamenti                                     309

    Indice analitico                                   313


 

 

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Pagina 11

INTRODUZIONE



Immaginate che la vostra coscienza non riesca ad abbracciare più di un singolo momento per volta: un eterno presente senza passato o futuro. Cercate di rappresentarvi la vita come una successione di attimi assoluti, discreti, non integrati dal tessuto del tempo soggettivo. Provate a sentirvi prigionieri di ciascuno dei successivi istanti che, nel loro avvicendarsi, costituiscono una vita normale. Una situazione del genere è molto difficile da concepire, perché di solito la nostra mente è impegnata in un incessante andirivieni tra gli estremi del continuum temporale, come una ballerina sul palco dello Schiaccianoci. Ogni progetto di azione futura si nutre dei momenti che lo hanno preceduto e viene soppesato nel presente sulla base di esperienze pregresse. Stentiamo a figurarci che si possa vivere altrimenti, eppure potrebbe capitare a chiunque: basta una botta in testa. Il passato e il futuro, intesi come semplici nozioni, rimarrebbero accessibili al pensiero astratto, ma perderemmo la capacità di situare la nostra esperienza nella cronologia della nostra persona. Strano ma vero. Niente passato, niente futuro: solo un eterno presente.

Sembra un'alterazione pressoché impensabile del nostro vissuto soggettivo, eppure non è nulla di troppo insolito nel mondo in cui mi accingo a farvi da guida. Tutti i reparti di neurologia sono popolati di pazienti per i quali la normale esperienza della vita cosciente risulta sovvertita, e ciascuno di quei casi ha qualcosa da insegnarci sul modo in cui il cervello, grazie alla sua organizzazione, è in grado di produrre istante per istante quella coscienza che ci pare così preziosa. Ciascuna alterazione esige di essere compresa, di servire da snodo nel processo deduttivo dal quale un giorno si potrebbe ricavare un'ipotesi coerente sul modo in cui il cervello rende possibili le gioie quotidiane della vita cosciente. C'è stato un tempo in cui bastava raccontare storie, descrivere fenomeni bizzarri, ma oggi, nel ventunesimo secolo, enumerare un pittoresco assortimento di patologie curiose non ci basta più. Con questo libro vorrei dare un contributo al progresso degli studi sulla coscienza umana gettando luce sulla maniera in cui il cervello, una delle espressioni più alte del processo evolutivo, è in grado di operare prodigi in virtù del modo ín cui è organizzato. In parole povere, vorrei tentare di spiegare come la materia esprime la mente.

Diversi anni fa, in trasferta per lavoro, mi sono trovato a passare dai controlli di Heathrow, l'aeroporto di Londra. L'agente, uno zelante funzionario britannico, mi ha domandato come da protocollo il mio nome, la mia professione e i motivi che mi conducevano nel Regno Unito. Ho risposto che facevo ricerche sul cervello e che ero atteso a Oxford per un convegno. E lo sapevo che gli emisferi cerebrali, il destro e il sinistro, svolgono funzioni diverse? Altroché se lo sapevo, ho risposto io, non senza una punta di fierezza: non solo avevo sentito parlare di quella scoperta, ma ero uno degli studiosi che l'avevano resa possibile. Mentre esaminava il mio passaporto mi ha domandato quale fosse l'argomento del convegno. "Il problema della coscienza" ho risposto in tono autorevole.

L'agente ha richiuso il documento, me lo ha restituito e mi ha domandato: "E non le viene mai voglia di andare in pensione prima di fare brutte figure?".

No, a quanto pare no. Ci sono persone che sono spinte da un incauto desiderio di interrogarsi come per impulso sulla natura umana. Sessant'anni di lavoro ininterrotto sulle scienze del cervello e della mente mi hanno insegnato, a mie spese, che il problema non è ancora stato articolato in tutta la sua complessità. Eppure è nella nostra natura non poter fare a meno di meditare su noi stessi, su quello che siamo, su che cosa significa essere coscienti. Quando la questione inizia ad assillarci finiamo per passare il resto dei nostri giorni incalzati dal bisogno di trovare una risposta. Eppure, non appena ci si sforza di afferrarlo, l'enigma della coscienza si dilegua tra le nostre dita come un ricciolo di fumo. Perché la storia dei tentativi di spiegare il fenomeno è tanto tormentata? Forse l'inerzia di certe nozioni ereditate dal passato ci impedisce di fare chiarezza sulle sue scaturigini? Si può affermare che la coscienza costituisca il normale stato di funzionamento di un cervello sano? In altre parole che i cervelli, con le loro strutture neuronali, producano coscienza un po' come un orologio da taschino, con le sue molle e i suoi ingranaggi, segna l'ora esatta? La storia del problema della coscienza, scandita dall'andirivieni di un pendolo che oscilla senza posa tra un meccanicismo puro e un mentalismo altrettanto irriducibile, è a dir poco sterminata. Strano ma vero, venticinque secoli di storia umana non sono bastati a svelare l'arcano, o quantomeno a insegnare alla nostra specie come andrebbe strutturata una teoria plausibile dell'esperienza della coscienza individuale. A ben guardare le nostre concezioni di fondo non sono cambiate di molto. Un vero e proprio dibattito sulla coscienza è stato avviato non più di tre secoli or sono da René Descartes , ma le due grandi alternative in gioco - la mente intesa come un aspetto intrinseco del meccanismo cerebrale e la mente concepita come un'entità in qualche modo indipendente dal cervello - risalgono alla notte dei tempi. E non ce ne siamo ancora sbarazzati.

In anni più recenti il tema della coscienza è tornato a far versare fiumi di inchiostro. Eppure, nonostante la mole imponente di nuovi dati raccolti grazie alle moderne tecnologie, pochissime ipotesi sul modo in cui íl cervello esprime la mente (e quindi anche l'esperienza cosciente) sono riuscite a raccogliere ampi consensi, forse nessuna. Nel libro che state leggendo vorrei cercare di sottrarmi a questa stagnazione teorica per dischiudere una prospettiva diversa, un modo nuovo di concettualizzare la coscienza. Strada facendo, come è naturale, prenderemo in esame nozioni di tipo neurologico, ma incontreremo anche scoperte legate alla biologia evoluzionistica e alla biologia teorica, all'ingegneria, alla fisica, senza dimenticare, naturalmente, la psicologia e la filosofia. In materia di cervello nessuno ha mai creduto alle soluzioni facili. Eppure la meta che ci siamo prefissi - svelare come funziona il gioco di prestigio grazie al quale la natura trasforma i neuroni in mente - è tutt'altro che fuori portata. Tenete duro e seguitemi!

Per dirla in poche parole, la coscienza è un istinto. Questa è la mia tesi. La coscienza è un accessorio di serie, tanto è vero che molti organismi, e non solo gli esseri umani, sono dotati per natura di una forma di coscienza. Per meglio dire, l'accessorio di serie sono gli istinti, corredo naturale di tutte le forme di vita organizzate. Anche se la materia di cui sono fatti è la stessa del mondo inorganico che li circonda, gli esseri viventi sono strutturati in modo tale da rendere possibile la vita e, in ultima analisi, la coscienza. Dai batteri agli esseri umani, gli organismi sono attraversati da istinti di ogni sorta. Sopravvivenza, riproduzione, resilienza, andatura, ma non solo: anche facoltà più complesse come il linguaggio e la socievolezza sono istinti. L'elenco sarebbe molto lungo, anche perché gli umani sembrano possedere più istinti rispetto ad altre creature. Se la coscienza è un istinto, però, sembra essere un istinto diverso da tutti gli altri. Ha qualcosa di molto specifico, di particolare. Talmente particolare che soltanto la nostra specie, a detta di alcuni, potrebbe rivendicarne il privilegio. Io credo che le cose non stiano proprio così, ma l'importante è fare un po' di chiarezza. Dal momento che ne siamo tutti dotati, siamo convinti di avere della nostra coscienza un'esperienza immediata, di tipo introspettivo. Invece si tratta di un istinto sfuggente e complesso, radicato nell'organo più impenetrabile dell'universo: il cervello.

La parola "mela" è un sostantivo; rimanda a un oggetto reale, fisico. Anche "democrazia" è un sostantivo, ma il suo referente, un certo assetto dei rapporti che strutturano le società umane, risulta più difficile da definire. La mela è una realtà tangibile: mi sarebbe facile mostrarvene una. Se dovessi mostrarvi la realtà materiale della democrazia, invece, avrei qualche problema in più. Che dire allora di "istinto", che pure è solo un altro sostantivo? Mela, democrazia e istinto, oggetti o concetti che siano, costituiscono entità definibili, dei quid che fanno capo al cervello. Ne possediamo a bizzeffe, di questi qualcosa, ma dove si situano esattamente? Forse alcuni si possono caratterizzare come strutture cerebrali vere e proprie, mentre altri corrispondono piuttosto al comportamento di certe strutture preposte a determinate forme di elaborazione? In che cosa consiste propriamente la realtà fisica di un istinto? Parliamo di un'entità tangibile, come la mela, oppure di un'entità imponderabile, come la democrazia?

Gli istinti complessi sono come le democrazie: facili da definire, difficili da localizzare. Emergono dall'interazione di istinti più semplici, ma sono altro da quegli istinti, ai quali non si lasciano ridurre: l'orologio da taschino lavora giorno e notte per tenere il tempo, eppure non sarebbe corretto affermare che il tempo si situa nell'orologio. Per capire che rapporto intercorre tra l'orologio e il tempo occorre descrivere la sua architettura, cioè i principi che governano il modo in cui l'orologio è strutturato: non basta stilare un elenco delle ruote e delle molle. Lo stesso vale per l'istinto della coscienza. Pensare la coscienza come un istinto non significa illudersi che esista una struttura a parte, una specifica rete neurale deputata alla produzione del prodigioso stato di autoconsapevolezza nel quale siamo ben felici di ritrovarci. La realtà è molto, molto diversa. Basta far visita a un reparto di neurologia clinica, forti delle nostre ipotesi. Anche i pazienti affetti da demenza grave sono coscienti: si vede subito. Rimane cosciente perfino chi presenta lesioni cerebrali diffuse, un danno grave che comprometterebbe il funzionamento di qualunque cervello elettronico. In tutte le camere di ospedale che danno ricovero a pazienti con danni cerebrali, localizzati o diffusi che siano, la coscienza continua imperterrita a funzionare. Al termine del giro in reparto viene da pensare che la coscienza non sia affatto una proprietà sistemica, bensì una caratteristica intrinseca di circuiti cerebrali locali.

Nella prima parte del libro vedremo come la natura è diventata una cosa, un'entità distinta dalle nostre persone, una dimensione che sarebbe possibile studiare e capire in termini oggettivi. Passando per Descartes, ripercorreremo la storia di quell'idea dai primordi fino all'epoca contemporanea e ai pionieri della moderna biologia. Può sembrare incongruo, ma il pensiero scientifico moderno ha quasi sempre guardato all'indietro, prolungando le nozioni degli antichi greci e lavorando perlopiù sulla base degli stessi modelli, che vincolano inesorabilmente in un solo sistema il piano mentale e quello fisico. La scienza moderna ha cercato nuove risposte alle domande formulate dai greci, ma neppure quella, per ora, ha trovato il bandolo della matassa. Lo ripeto: occorrono idee di nuova concezione, e il libro che avete tra le mani rappresenta un tentativo in tal senso.

Nella seconda parte del volume, per orientare il nostro viaggio alla scoperta del modo in cui i neuroni producono la mente, presenterò alcune nozioni moderne sul funzionamento del cervello. È sorprendente, dal mio punto di vista, che la metafora del "cervello-macchina", introdotta da Descartes e adottata senza riserve da quasi tutti gli scienziati del nostro tempo, ci abbia indotti a credere che solo la macchina nella sua interezza possa svolgere tante delle funzioni che imputiamo al cervello. Perché in realtà siamo molto più simili a una federazione di moduli dotati di ampie autonomie locali che cooperano in forme concertate. Per capire come si esplica la cooperazione tra questi diversi moduli occorre far luce sull'architettura complessiva del sistema-cervello, una struttura "a strati" di un genere che molti, specialmente gli ingegneri informatici, conoscono già piuttosto bene. Per finire, metteremo alla prova la nuova ipotesi facendo visita a un reparto di neurologia, dove scopriremo che il nostro cervello modulare, grazie alla sua architettura a strati, gestisce la nostra coscienza a partire... dalla totalità dei suoi tessuti locali. Non esiste alcun sistema centralizzato preposto al grandioso miracolo dell'esperienza cosciente. La coscienza è ovunque nel cervello, e nulla, neppure un male devastante come il morbo di Alzheimer, sembra capace di estinguerla del tutto.

Nella terza parte del volume faccio i conti con il più spinoso degli interrogativi alla base dell'annoso dibattito mente/cervello: come si passa dai neuroni alla mente? Come è possibile che la mia o la vostra mente scaturiscano da quei fasci di tessuto umido e gelatinoso? A quanto pare la nostra comprensione del mondo fisico è ancora piuttosto lacunosa. Studiamo separatamente questo o quel livello di organizzazione, ma non abbiamo la minima idea di come i due livelli si rapportino tra loro. Tra la vita e la materia inanimata, tra la mente e il cervello, tra il mondo dei quanti e il mondo dell'esperienza quotidiana esiste uno scarto, un salto nel buio, e lo sappiamo bene. Come procedere per colmare quel divario? Con l'aiuto della fisica: io almeno ne sono convinto.

Da ultimo proverò a spiegare come dall'interazione tra i moduli, gli strati e quei divari proceda il fenomeno che chiamiamo esperienza cosciente. Una volta un professore di psicologia, Richard Aslin, mi ha confidato che l'idea della "coscienza", a suo giudizio, è solo un termine di comodo per designare tutta una serie di variabili correlate alle nostre vite mentali. Parliamo di "coscienza" per descrivere in forma abbreviata le funzioni di una moltitudine di meccanismi innati di tipo istintuale come il linguaggio, la percezione e le emozioni. È ormai chiaro che anche la coscienza va concepita come un istinto complesso. Siamo tutti dotati di istinti di ogni sorta. Il nostro pensiero divaga, salta in continuazione da una cosa all'altra: dapprima un'idea suscita in noi una certa reazione, quindi emerge la sensazione opposta, poi ci vengono in mente la famiglia, un prurito da grattare, la nostra canzone preferita, la riunione che sta per cominciare, la lista della spesa, quel collega antipatico, la partita dei Red Sox e così via. Va avanti in tal modo finché non impariamo a implementare schemi di pensiero lineare, quasi forzando la nostra natura.

Il pensiero lineare cosciente è un esercizio faticoso. Devo concentrarmi per scrivere queste righe. La nostra mente assomiglia a una pentola d'acqua sul fuoco: è difficile prevedere quale bolla verrà a galla in un dato momento. La bolla che affiora per prima diventa un'idea, subito incalzata da altre bolle. Il pelo dell'acqua è agitato senza posa da un'effervescenza incessante. Finché la pentola non smette di sobbollire. A mano a mano che ciascuna bolla affiora per un breve istante, la freccia del tempo infilza il tutto in un'unica sequenza. E se la coscienza, per ipotesi, si potesse descrivere come il sobbollire del nostro cervello, come un'effervescenza di bolle, ciascuna delle quali è dotata di strumenti per scavalcare il divario ontologico e ciascuna delle quali ha diritto a un effimero momento di gloria? Vi pare una metafora astrusa? Continuate a leggere: scoprirete presto se anche a voi questa potrebbe sembrare la descrizione più plausibile. Soprattutto, però, godetevi le bolle di pensiero che affioreranno pagina dopo pagina alla superficie della vostra coscienza.

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IL CERVELLO,
UN MODULO PER VOLTA



                                            Qui, invece, come vedi, puoi correre
                                            per tutto il tempo che vuoi, ma ti
                                            ritrovi sempre allo stesso posto. Se
                                            vuoi andare in un altro posto, devi
                                            correre almeno due volte più veloce
                                            di così! (La Regina Rossa)

                                           LEWIS CARROLL, Attraverso lo specchio



Il nostro cervello è una struttura un po' sbilenca, come il Guggenheim di Bilbao, anche se Frank Gehry vi farà notare che il tetto del museo non pende. Il progetto funziona! Gehry è un genio dell'architettura, perché grazie a lui ci siamo fatti un'idea più ampia del genere di strutture fisiche capaci di svolgere una funzione utile. Lo stesso vale per il nostro cervello. C'è una logica nella follia di certe strutture sghembe: alcuni aspetti li capiamo, altri sono ancora misteriosi. In secoli e secoli di ricerche nessuno è ancora stato in grado di spiegare come l'intricato viluppo di tessuto biologico racchiuso nel nostro cranio riesca a produrre le esperienze di cui è fatta la nostra esistenza quotidiana. A ogni istante si produce nel nostro cervello un numero incalcolabile di processi elettrici, chimici e ormonali, eppure noi percepiamo l'insieme di tutti quei fenomeni come un'unica esperienza fluida e senza suture. Come può essere? Quale genere di organizzazione, nel nostro cervello, rende possibile l'unità della coscienza?

Tutto ciò che esiste presenta una struttura soggiacente, giù fino al livello quantistico, come ha mostrato la fisica contemporanea (torneremo a parlarne nel capitolo 7). L'umanità è impegnata giorno e notte a smontare parti del mondo per cercare di capire come funzionano. Le cose sono fatte di parti, e questo vale anche per i corpi e i cervelli. Si potrebbe affermare in tal senso che siamo fatti di moduli, cioè di componenti dalla cui interazione scaturisce l'intero funzionante, quello che stiamo cercando di esaminare in questo libro. Per afferrarne il principio occorre conoscere le parti e il modo in cui si collegano, ma anche e soprattutto il modo in cui interagiscono.

[...]

Ciascuno di noi sente di essere un'unica entità indivisa (un fatto che pare corroborare sul piano intuitivo l'immagine del telaio di Sherrington), ma una mole di prove sempre più schiaccianti sembra oggi dimostrare che invece, paradossalmente, il cervello non opera affatto in modo olistico. Al contrario, la nostra presunta coscienza indivisa è prodotta dall'operato di migliaia di unità di elaborazione relativamente indipendenti. Chiamiamole per semplicità moduli. I moduli sono reti neurali specializzate (e spesso anche localizzate) che risultano preposte a una specifica funzione.

Una volta il neuroscienziato, fisico e filosofo Donald MacKay ha osservato che è più facile capire il funzionamento di un meccanismo che funziona male. La sua esperienza nel campo della fisica gli aveva insegnato che gli ingegneri trovano più semplice ricostruire il funzionamento di un apparecchio che non opera correttamente, per esempio un televisore dall'immagine traballante. Allo stesso modo, studiare cervelli imperfetti ci aiuta a capire meglio í cervelli sani.

Le prove più irrefutabili a sostegno di una teoria del cervello come architettura modulare sono appunto quelle desunte dallo studio dei pazienti cerebrolesi. Quando il danno è localizzato in maniera precisa, cioè limitato a specifiche aree del cervello, la lesione si traduce nella perdita di alcune abilità cognitive, perché la rete di neuroni adibita a quelle specifiche mansioni non è più operativa, mentre altre strutture, ancora intatte, continuano a funzionare imperterrite, senza perdere un colpo. L'aspetto più affascinante dei pazienti che hanno subito un'alterazione di qualche tipo al livello del tessuto cerebrale è che sembrano tutti pienamente coscienti, a prescindere dal tipo di anomalia che presentano. Se l'esperienza cosciente dipendesse dal corretto funzionamento del cervello nella sua interezza, ciò non sarebbe possibile. Questo aspetto - la natura molteplice e distribuita dei moduli cerebrali - è una componente decisiva della mia tesi, per cui sarà utile cercare di illustrare meglio il grado di modularità del cervello.

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VERSO UNA PRIMA COMPRENSIONE
DELL'ARCHITETTURA CEREBRALE



                                            L'architettura è fatta anche di
                                            moltissime cose che l'occhio del
                                            profano non vede.

                                                                 FRANK GEHRY



Immaginate che i vostri genitori avessero ragione: siete un piccolo scienziato in erba. Per Natale vi regalano una vecchia sveglia e dicono: "Bene, caro il nostro genietto, adesso la smonti e la rimonti, e, già che ci sei, ci spieghi come funziona". Non sarebbe poi così difficile. Il numero delle componenti che si muovono in modo coordinato per svolgere una data funzione (ingranaggi, ruote, molle) è piuttosto limitato, e per giunta sappiamo già di che funzione si tratta. Sarebbe molto più difficile se la ragion d'essere della sveglia vi fosse ignota e se, invece del tutto, aveste a disposizione soltanto le parti.

Per chi studia il cervello umano il grande problema è stabilire come 89 miliardi di neuroni si connettano gli uni con gli altri per consentire a noi esseri umani di mettere a segno le nostre impressionanti prodezze cognitive. Orde di specialisti sezionano, colorano, stuzzicano, mappano e spiano il cervello. Abbiamo raccolto con ogni scrupolo un volume colossale di dati, abbiamo studiato con la massima attenzione i portatori di lesioni, abbiamo esaminato le prestazioni mentali fuori norma degli individui eccezionali per capire quale trucco ci sia sotto e spiegare la magia che le rende possibili, il mistero che stiamo cercando di capire. Ogni anno ventiseimila scienziati si ritrovano in occasione del congresso della Società di neuroscienze per scambiare dati e pensieri, eppure il campo è ancora alla ricerca di una cornice teorica forte per inquadrare tutte quelle informazioni. Che cosa c'è di tanto sfuggente? Che cosa non riusciamo ancora a vedere? Deve esistere per forza un aspetto del problema che finora non siamo riusciti ad afferrare. Intorno alla metà del ventesimo secolo, rivolgendosi alla figlia, il biologo teorico Robert Rosen formulava così uno dei possibili dilemmi: "Grazie al metabolismo, alla replicazione cellulare e alla capacità di autoriparazione, il corpo umano rinnova completamente la materia di cui è composto ogni otto settimane circa. Eppure tu rimani sempre tu, con tutti i tuoi ricordi e la tua personalità. [...] Se la scienza si ostinerà a dare la caccia alle particelle finirà per inseguirle fin oltre il piano dell'organismo, perdendolo del tutto di vista".

In quella pagina Rosen sottolinea che l'organizzazione ha un'esistenza autonoma rispetto alle particelle di materia che costituiscono un sistema vivente. Le componenti strutturali e le funzioni del cervello, in effetti, sono solo una parte della faccenda. A connettere la struttura di un sistema alla sua funzione è un terzo aspetto che spesso tendiamo a trascurare: all'appello mancano l'organizzazione delle parti, gli effetti delle interazioni tra le parti e il rapporto con il tempo e l'ambiente. Il maestro di Rosen, Nicolas Rashevsky , docente di fisica teorica e matematica all'Università di Chicago, parlava a questo riguardo di "biologia relazionale". A poco a poco quelle idee sono arrivate agli studiosi di ingegneria elettronica e di biologia dei sistemi, eppure ancora oggi, mezzo secolo dopo la messa in guardia di Rosen, i biologi molecolari e i neuroscienziati non ne sanno quasi nulla, oppure scelgono di non tenerne conto.

Per quanto riguarda me nello specifico, a iniziarmi a questo modo alternativo dí affrontare l'organizzazione del cervello è stato John Doyle, che al California Institute of Technology era docente di sistemi di controllo e sistemi dinamici, ingegneria elettrica e bioingegneria. La sua prima lezione è stata: ragionando in termini di parti, prima o poi ci si arena. In una scuola ci sono zone di lettura e zone destinate alla refezione, strutture per lavarsi le mani e ripostigli. Lo stesso si può dire di una casa. Però una scuola e una casa non sono la stessa cosa; svolgono funzioni diverse, come ben diverso è il modo in cui le persone abitano quegli spazi. La grande differenza sta nell'organizzazione delle parti, cioè nell'architettura. Michael Polanyi , il grande eclettico britannico di origini ungheresi, ha spiegato che "una macchina, intesa come un tutto, è governata da due principi ben distinti. Il principio superiore è dato dal progetto o disegno della macchina, che imbriglia il principio di livello inferiore dato dai processi fisico-chimici sui quali la macchina si basa". Detto altrimenti, il progetto o disegno della macchina vincola in un modo o nell'altro i fenomeni naturali in modo tale da incanalarli in vista di un particolare scopo. Per esempio, la vostra macchinetta del caffè si compone di parti progettate per cooperare alla produzione di caffè. Polanyi parla a questo riguardo dell'imposizione di condizioni di vincolo alle leggi della fisica e della chimica. Più oltre mostra che anche gli organismi, come le macchine, presentano caratteristiche di tal genere: "In questa luce l'organismo sembra costituire, come una macchina, un sistema che funziona secondo due principi distinti: la sua struttura detta una condizione di vincolo che imbriglia i processi fisico-chimici per mezzo dei quali i suoi organi svolgono le loro funzioni. In altri termini si può definire un sistema a controllo duale". Il progetto o disegno al quale Polanyi si riferisce altro non è che l'architettura dell'organismo, e proprio questa è la nozione chiave per capire íl complesso mente/corpo. È un'intuizione di portata decisiva.




L'ARCHITETTURA DELLA COMPLESSITÀ



Doyle è un maestro dei sistemi complessi: cose come un Boeing 777 o il vostro cervello, entrambi costituiti da una miriade di parti interagenti. Doyle sa meditarli a fondo per stabilire a quali condizioni quei sistemi sono in grado di funzionare in maniera efficiente, rapida e sicura, invece di esplodere, schiantarsi o fermarsi di botto. Non stupisce che il termine "complessità", come il termine "coscienza", non abbia ancora una definizione accettata da tutti. Nel nostro caso basterà richiamare tre dimensioni fondanti della complessità di un sistema. Un sistema si dice complesso se presenta (a) componenti numerose o diversificate, (b) fenomeni di interconnessione o interazione e (c) comportamenti risultanti, alcuni prevedibili, altri meno. I sistemi ingegneristici hanno iniziato a presentare livelli di complessità pressoché simili a quelli dei sistemi biologici. Per esempio, un Boeing 777, stando ai calcoli di Doyle, si compone di 150.000 moduli-sottosistema organizzati in sistemi e reti di controllo ad alta complessità, compreso il migliaio di elaboratori elettronici che fanno funzionare il velivolo. Le componenti dei sistemi tecnologicamente avanzati e quelle dei sistemi biologici altamente evoluti sono di un genere molto diverso, questo è ovvio, ma in termini di organizzazione le architetture che li inquadrano presentano certe analogie.

Di norma la parola "architettura" fa pensare all'arte e alla scienza della progettazione di edifici e di strutture come ponti o autostrade, al loro stile (barocco, art nouveau) e al loro metodo di costruzione (terra battuta, vetro e acciaio). Alcuni penseranno magari a Brunelleschi o a Palladio. Eppure il termine "architettura" designa anche la struttura complessa di un ente, non necessariamente un edificio, né per forza una realtà di ordine fisico. Può trattarsi della struttura di comando di un governo, dei meandri di internet o delle reti neurali che avete nel cervello. Intesa a questo livello più fondamentale, architettura è sinonimo di progettazione vincolata. Sono le condizioni di vincolo di cui parla Michael Polanyi: limiti imposti da un potere di restrizione complessivo. Nel caso di un edificio "progettazione vincolata" significa lavorare nei limiti dei materiali scelti (erba, fango, legno, mattoni, pietra, acciaio), del terreno (zone a rischio di incendio, inondazione, terremoti, uragani; superfici pianeggianti o ripide; tropici o tundra), delle funzioni designate (casa privata, teatro d'opera, stazione di servizio), oltre che, naturalmente, dei desideri del committente (la causa finale aristotelica) ecc. Nel caso del cervello i vincoli architettonici sono dati dai costi energetici, dalle dimensioni e dalle diverse velocità di elaborazione.

I sistemi complessi, biologici o tecnologici che siano, hanno in comune un'architettura altamente organizzata: in altri termini, le componenti del sistema danno luogo a configurazioni specifiche che rendono possibile la funzionalità o il grado di robustezza ricercato. Per limitarsi a un esempio banale, le fibre di cotone di cui è fatto un abito presentano un'architettura altamente organizzata che rende il tessuto funzionale per gli usi dell'abbigliamento. Un tessuto di cotone è robusto nel senso di resistente all'attrito e alle altre forze che lo sollecitano in quanto abito. Rimescolando a caso le stesse fibre, invece, si ottiene la carta, molto meno resistente a quel genere di sollecitazioni. L'architettura molto simile che accomuna tutti i sistemi complessi lascia ipotizzare che questi ultimi condividano certi requisiti universali. Sono progettati per essere "efficienti, adattabili, evolvibili e robusti".




IL ROBUSTO, IL COMPLESSO, IL FRAGILE



In termini di logica progettuale gli animali grandi e piccoli non sono poi così diversi dalla vostra BMW o dal vostro SUV. Capirlo aiuta a chiarirsi le idee sulla natura dei tessuti biologici e sul modo in cui fanno quello che fanno. Doyle e il suo collega David Alderson sostengono che la complessità dei sistemi altamente organizzati non è accidentale, ma deriva da strategie progettuali ben precise (artificiali o naturali che siano) finalizzate alla robustezza: quella che Darwin avrebbe chiamato fitness, o idoneità alla vita.

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LA STRATEGIA PROGETTUALE UNIVERSALE



Nei termini di Doyle è chiaro che la maggior parte dei sistemi biologici presenta un'"architettura a strati". Per capire il fenomeno dell'esperienza cosciente, di conseguenza, occorrerà fare chiarezza sull'organizzazione stratificata del cervello. Di primo acchito, condizionati dall'uso di modelli cognitivisti, certi studiosi potrebbero non cogliere la differenza tra i "livelli" e gli "strati". In un'architettura a livelli i processi sono sequenziali (o "seriali", come direbbe un ingegnere elettrotecnico); in un'architettura a strati, per contro, l'elaborazione è simultanea ("in parallelo"). In un'elaborazione a livelli, come in una staffetta, i passaggi sono successivi. Prima di procedere al livello seguente occorre avere esaurito il precedente. In un'elaborazione a strati, invece, si possono avere tutti i corridori in pista contemporaneamente, ciascuno diretto al proprio traguardo. La differenza è notevole.

Per garantire la robustezza dei sistemi organizzati, siano essi di tipo tecnologico o biologico, l'architettura a strati è la strategia progettuale di riferimento. È semplice, irrinunciabile, potente e straordinariamente efficace. Si può parlare per esempio di un progetto riuscito (che si tratti di sistemi tecnologici, come un Boeing 777, o di sistemi biologici come il nostro cervello) quando l'utente non si rende neppure conto dell'elevato grado di complessità latente. Saliamo a bordo, recliniamo il sedile, tiriamo fuori un libro oppure ordiniamo da bere, senza pensare ai 150.000 sottosistemi o moduli dell'apparecchio, e tantomeno a quello che stanno facendo. Lo stesso vale per i piloti. Non sappiamo neppure che il velivolo si articola in 150.000 sottosistemi. Anzi, se avete saltato il precedente capitolo potreste non sapere neppure che cos'è un modulo. La maggior parte di noi, del resto, non pensa quasi mai al cervello umano, se non quando funziona in modo anomalo. La stratificazione complessa del nostro cervello è talmente ben dissimulata che da duemilacinquecento anni a questa parte stiamo cercando di capire come funziona. Sia nel caso del Boeing sia in quello del cervello l'architettura è strutturata in modo tale da mascherare la complessità. Già, ma in che cosa consiste un'architettura a strati?

Il compito di un ingegnere è garantire un funzionamento efficiente, efficace e affidabile. Già non è semplice montare un pergolato nel cortile di casa, figuriamoci progettare il teatro dell'Opera di Sydney! Dove non solo le parti devono innestarsi le une nelle altre per esprimere un funzionamento efficiente, efficace e affidabile, ma più ingegneri devono cooperare al progetto. Nessun individuo potrebbe mai occuparsi da solo di tutti gli aspetti in gioco. Eppure, se la coordinazione degli ingegneri si fonda su una strategia progettuale mal concepita, il risultato può essere disastroso: come dice il proverbio, "Con troppi galli a cantare non si fa mai giorno".

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Tutto questo Madre Natura lo ha capito milioni di anni fa, tanto è vero che l'evoluzione degli organismi si fonda sulla stessa strategia. I vari sistemi che coabitano nel cervello umano si sono evoluti per funzionare in modo indipendente. L'udito, per esempio, funziona in modo indipendente dall'olfatto: non riceve informazioni sugli odori e per elaborare le informazioni di tipo acustico non ne ha bisogno. Può capitarvi di diventare anosmici, ma continuerete a sentire le api che ronzano.

In un'architettura stratificata ciascuno degli strati di un sistema funziona in modo indipendente, perché obbedisce a un determinato protocollo, cioè a un insieme di regole o specifiche che governano le interfacce, ovvero le interazioni consentite, sia all'interno di ciascuno strato sia tra più strati diversi. Prendiamo di nuovo il caso dei sedili. L'ingegnere può sbizzarrirsi nel design, purché rispetti i vincoli di progetto dettati dalle misure standard: il protocollo che governa lo strato dei sedili di un Boeing. Un simile protocollo riduce a monte le possibilità, ma al tempo stesso garantisce piena libertà nel rispetto di quei vincoli.

In una "pila" di strati sovrapposti ciascuno strato elabora le informazioni in uscita dallo strato sottostante nei termini del proprio specifico protocollo e trasmette il risultato allo strato successivo, oppure retroagisce sul precedente. Lo strato superiore fa altrettanto, secondo il rispettivo protocollo, che può essere lo stesso oppure diversissimo, e trasmette il risultato agli strati ancora superiori. Nessuno strato "sa" quali informazioni lo strato precedente abbia acquisito, né come abbia elaborato quell'input. Non ne ha alcun bisogno, per cui quelle informazioni vengono nascoste (astratte). I protocolli consentono a ciascuno strato di interpretare soltanto le informazioni che riceve dagli strati contigui. Una volta elaborate, quelle informazioni passano a un altro strato, verso l'alto o verso il basso. E qui casca l'asino, perché in un'architettura a strati le informazioni non possono mai saltare i passaggi. In altri termini, un sesto strato non potrebbe mai interpretare le informazioni in uscita dal quarto, perché mancherebbe dei protocolli necessari: è indispensabile far intervenire uno strato intermedio, il quinto. La ragion d'essere di ciascuno strato è servire lo strato successivo mascherando al tempo stesso le operazioni dello strato sottostante.

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IL CONTRIBUTO DELLA FISICA
IL CONCETTO DI COMPLEMENTARITÀ



                                            Chi non rimane sconvolto quando si
                                            imbatte per la prima volta nella
                                            teoria quantistica non può
                                            assolutamente averla compresa.

                                                                    NIELS BOHR



Nel 1868 un fisico, alpinista e docente della Royal Institution, John Tyndall, ha letto un intervento di fronte alla sezione matematica e fisica della British Association for the Advancement of Science. In quell'occasione enunciava un dilemma che suonava così:

Il passaggio dalla fisica del cervello ai relativi fatti di coscienza non è umanamente pensabile. Ammettiamo pure che un certo pensiero si accompagni a un certo processo molecolare localizzato nel cervello: non disponiamo comunque di un organo intellettuale in grado di aiutarci a passare dall'uno all'altro livello per mezzo di un ragionamento, e neppure dei rudimenti di un simile organo. [...] "Che cosa lega questi processi di ordine fisico ai fatti della coscienza?» Il baratro che si spalanca tra le due classi di fenomeni è destinato in ogni caso a rimanere insormontabile.


Da allora sono passati centocinquant'anni e non abbiamo fatto grandi progressi. Siamo in grado di capire le scariche elettriche, il modo in cui le molecole si raggruppano e fluiscono, a volte perfino i relativi stati cerebrali, almeno per certi aspetti, specialmente nel campo degli studi sulla visione. Eppure, a differenza di Tyndall, io sono convinto che l'organo a nostra disposizione sia all'altezza del compito. Occorre solo applicare le idee giuste al problema, che consiste nello stabilire come il cervello esprime la mente. In quali termini va concepita questa divaricazione tra la nostra biologia e la nostra mente che ci sta facendo ammattire?

Di solito si parla di uno scarto o di un divario, ma non più di venticinque anni or sono il filosofo Joseph Levine gli ha assegnato un nome specifico: quello di "lacuna esplicativa". Più tardi ne ha parlato nel suo libro Purple Haze, dedicato proprio al rompicapo della coscienza:

Io la vedo così: non abbiamo la più pallida idea di come un oggetto fisico possa costituire il soggetto di un'esperienza; di come possa apprezzare degli stati dotati di caratteri qualitativi, qualunque essi siano, invece di limitarsi a concretizzarli. Guardo il mio portadischetti, che è rosso, e ho un'esperienza visiva di carattere rossastro. Un certo tipo di luce sta rimbalzando sulla superficie del contenitore in cui tengo i miei floppy disk e stimola la mia retina in un certo modo. La stimolazione retinica, a sua volta, innesca impulsi che viaggiano per il nervo ottico, finendo per causare una serie di eventi neurali nella corteccia visiva. Già, ma dove sono gli eventi capaci di spiegare il fatto che io sto avendo un'esperienza della rossezza? Non sembra esistere alcun legame comprensibile tra la descrizione fisica e la descrizione mentale, e quindi risulta impossibile anche spiegare l'una cosa nei termini dell'altra.


Levine ci abbandona sull'orlo del baratro che si spalanca tra il livello fisico dei neuroni che interagiscono e il livello dell'esperienza cosciente, in apparenza più nebuloso. Per esempio, possiamo precisare che il dolore è causato dall'attivazione delle fibre C, oppure spiegare perché ritiriamo la mano prima di avere percepito la scottatura, ma questo genere di rapporti causali non ci insegna nulla sull'esperienza soggettiva, sulla sensazione del dolore in quanto tale.

L'attuale stato del problema mente/corpo ruota intorno a due proposizioni ugualmente plausibili, ma in apparenza incompatibili tra loro: (1) almeno una forma di materialismo o fisicalismo corrisponde a verità, ma (2) il fisicalismo non è in grado di spiegare la coscienza fenomenica, il nudo fatto del sentire, i cosiddetti qualia. Se si propende per l'ipotesi (1) si è materialisti, se si sceglie la tesi (2) si adotta una posizione dualista. Levine, per parte sua, getta ogni cautela alle ortiche e sceglie entrambe le alternative. È un materialista, ma al tempo stesso crede che i fatti fenomenici non potranno mai venire derivati dai fatti fisici. Già, ma è lecito volere la botte piena e la moglie ubriaca? La maggior parte dei filosofi e dei neuroscienziati risponderebbero che non è ammissibile. E allora come cavarsi d'impaccio?

Levine giudica fallace la percezione intuitiva che ci fa scorgere una differenza di ordine ontologico tra gli eventi mentali. (le famose esperienze qualitative) e gli eventi fisici. Il ritardo con cui sentiamo il dolore di una scottatura, per esempio, è un vissuto soggettivo che si spiega con un fatto fisico. Ma non è questo a interessare Levine. Il filosofo ammette che l'esperienza fenomenica è causata dall'attivarsi di certi neuroni, e che la coscienza dev'essere senz'altro un fenomeno fisico, ma afferma: "Due caratteri dell'esperienza cosciente, strettamente legati tra loro, oppongono resistenza a ogni riduzione esplicativa al piano fisico. La soggettività e l'aspetto qualitativo". Se non possiamo colmare quel divario, spiegando come l'attivazione di certi neuroni sia di fatto uguale all'esperienza del dolore, però, significa che "i due termini dell'equazione rappresentano due cose diverse". L'impressione è che Levine abbia recuperato a sorpresa una forma di dualismo.

Sennonché, a distanza di vari anni, il filosofo ha chiarito che non crede nell'esistenza di un vero e proprio divario o di una lacuna, cioè di un vuoto che si spalancherebbe tra il piano dei neuroni e il piano dell'esperienza soggettiva: nel suo libro si limitava a sottolineare che non abbiamo la più pallida idea di come muovere dall'una all'altra cosa. Certo, a pensarci bene la storia della scienza è piena di lacune, ma di solito quelle lacune si possono descrivere in termini di conoscenze ancora insufficienti. A conti fatti Levine è convinto che il divario mente/cervello sia un caso della stessa natura. Detto in linguaggio filosofico, non è una questione di metafisica, ma di epistemologia. Quel divario corrisponde a una carenza nella nostra attuale comprensione del modo in cui fenomeni di quell'ordine si possono e si devono spiegare scientificamente. E chi può dargli torto?

Una posizione ancora più forte è quella del filosofo australiano David Chalmers , convinto a sua volta che esista una "lacuna esplicativa". Inflessibile sostenitore della proposizione (2), Chalmers afferma che il fisícalismo non è in grado di spiegare la coscienza fenomenica, il nudo fatto del sentire, i qualia. In altri termini, è un dualista. Chalmers, però, si autodefinisce un dualista naturalista: da un lato ammette che gli stati mentali sono occasionati da sistemi fisici localizzati nel cervello (questo è l'aspetto naturalista), ma dall'altro è convinto che gli stati mentali siano qualcosa di fondamentalmente distinto dai sistemi fisici, ai quali non possono essere ridotti. Una posizione quantomeno insolita per un filosofo moderno, ma non per i profani. La maggior parte degli abitanti della terra ha posizioni dualistiche.

Eppure nel 1879, modificando leggermente la formulazione del discorso di insediamento pronunciato nel 1874 al momento di assumere la presidenza della British Association, e quasi anticipando íl dibattito sulle origini della vita che affronteremo tra qualche pagina, Tyndall scriveva: "Io credo nella continuità della natura, per cui non posso arrestarmi di botto quando il microscopio smette di essere d'ausilio. In questi casi la mente è sufficientemente autorevole per fare le veci dell'occhio. Oltrepassare il confine dell'evidenza sperimentale e scorgere nella 'materia' [...l il germe della vita, la vita in potenza, è una necessità dell'intelletto". William James è dello stesso avviso quando afferma:

In moltissimi settori della ricerca scientifica il postulato della continuità ha dato prova di un potere addirittura profetico. Per quanto ci riguarda, in altri termini, occorrerà fare del nostro meglio per concepire l'insorgere della coscienza in modo tale da non dare a intendere che costituirebbe l'irruzione nell'universo di una natura di tipo nuovo che fino a quel momento non esisteva.

Altrove aggiunge:

Il principio dal quale, come evoluzionisti, non possiamo recedere in alcun modo è l'idea che tutte le nuove forme dell'essere che si manifestano via via, propriamente parlando, non siano altro che il prodotto di una ridistribuzione di materiali, gli stessi dall'inizio dei tempi. Gli stessi identici atomi che nella loro dispersione caotica formavano la nebulosa primordiale costituiscono oggi i nostri cervelli, provvisoriamente incastrati a formare una curiosa configurazione. E l'"evoluzione" del cervello, correttamente intesa, altro non sarebbe che la storia di quell'incastro e di quel configurarsi. Una storia che non ammette nature di tipo nuovo o fattori che all'alba dei tempi non si davano ancora ma entrerebbero in gioco solo in un secondo tempo.


Si ha come l'impressione che da qualche decennio a questa parte molti abbiano dimenticato che la coscienza umana si è evoluta per gradi da forme precorritrici: non è scattata all'improvviso già bell'e pronta nel cervello del primo Homo vattelapescanus. Più oltre James commenta: "Se il meccanismo dell'evoluzione deve potersi dispiegare senza discontinuità è indispensabile che la coscienza, in una forma o nell'altra, sia esistita già ai primordi dell'essere". Ebbene sì, bisogna risalire tanto indietro. E per gettare un ponte sul baratro che si spalanca tra la mente e il cervello occorrerà affrontare altri grandi interrogativi. Per esempio, domandarsi come la vita possa procedere dalla materia inorganica.

Nel prosieguo di questa sezione scopriremo che per capire la differenza tra materia vivente e non vivente occorre afferrare la dualità costitutiva che inerisce a tutti gli esseri soggetti all'evoluzione: il fatto che sì, ebbene sì, la materia vivente può sempre esistere in due diversi stati simultanei. Scopriremo che la fisica e la biosemiotica possono insegnarci a scavalcare il divario tra i sistemi viventi e i sistemi inorganici senza invocare alcun arbitrario fantasma nella macchina. Le intuizioni ricavate da queste due discipline ci aiuteranno a pensare le sfasature ontologiche in genere, ma specialmente a colmare una lacuna specifica, disegnando un percorso che un giorno potrebbe consentire ai neuroscienziati di venire a capo di un divario mente/cervello annidato in un'architettura a strati governata da protocolli che descrivono le interfacce tra ciascuno strato. Cominciamo con la fisica.




I PRIMORDI DELLA FISICA E L'IMPEGNO DETERMINISTA



La nostra vicenda inizia con Isaac Newton e gli spettacolari esordi della fisica classica nel diciassettesimo secolo.

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8
DALLA NON VITA ALLA VITA
E DAI NEURONI ALLA MENTE



                                            Agli albori del cielo e della terra
                                            non c'erano simboli. I simboli sono
                                            scaturiti dal grembo della materia.

                                                                          LAOZI


                                            Quando il piano fisiologico e il
                                            piano psicologico, l'aspetto
                                            oggettivo e l'aspetto soggettivo
                                            saranno davvero una cosa sola
                                            l'umanità avrà raggiunto una tappa
                                            importante nella storia del
                                            pensiero.

                                                                    IVAN PAVLOV



Cercando di capire meglio la materia i fisici si sono imbattuti nel principio della complementarità, cioè nell'idea che la materia possa esistere simultaneamente in due diversi stati. L'accettazione di questa dualità non soltanto ha spostato i limiti della fisica, ma ha reso necessaria l'adozione di nuovi modi di pensare che andavano oltre l'immaginazione resa possibile dall'esperienza dei fenomeni naturali. Oggi lo studio della dualità mente/cervello rende necessarie nuove contorsioni del pensiero e dell'immaginazione. Occorrono persone capaci di pensare fuori dagli schemi, schemi cristallizzati da duemilacinquecento anni di intuizioni umane e senso comune. Occorrono menti rodate dal confronto con il flusso e riflusso della fisica moderna, che ha ormai riconosciuto l'importanza della complementarità. Pensatori disposti ad ammettere che gli ultimi millenni della nostra storia sono stati sprecati da studiosi che cercavano risposte nel posto sbagliato: il cervello umano, culmine di un lungo e sofisticato processo di evoluzione.

Figure come Howard Pattee , un fisico formatosi a Stanford che nel corso della sua folgorante carriera alla State University of New York è sconfinato nel campo della biologia teorica. Acuto osservatore del pensiero umano, Pattee è convinto che i filosofi abbiano affrontato il divario mente/cervello a partire dall'estremità sbagliata del continuum evolutivo. Nel corso della sua ricerca Pattee è approdato a una conclusione sorprendente: la dualità è una proprietà necessaria e intrinseca di qualunque entità capace di evolvere.

Howard Pattee non si cura dello scarto tra il cervello materiale e la mente immateriale, ma si spinge ancora più a fondo, perché lo scarto originario, la vera e propria scaturigine del problema, è un fenomeno molto più antico del cervello. Lo scarto di tutti gli scarti è il divario fondamentale tra la materia inorganica e la materia vivente. Il grande problema ha avuto inizio con l'origine della vita sul pianeta terra. Non dobbiamo lasciarci ipnotizzare dall'abisso tra un cervello che sappiamo fisico e una mente che supponiamo eterea: occorre capire anzitutto che differenza corre tra i conglomerati di materia che danno luogo a un oggetto materiale inanimato e i conglomerati di materia di cui è fatto un organismo vivente. Lo scarto tra il vivente e il non-vivente è la divaricazione alla base del divario tra la mente e il cervello, e fornisce un quadro di riferimento per concettualizzare il problema.

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La vita non si limitava a generare altra vita: la vita era in grado di crescere in complessità, di evolversi. Von Neumann ha iniziato a interessarsi ai requisiti logici di una macchina (lui la definiva "automa") in grado di autoreplicarsi ed evolversi in modo autonomo a contatto con un ambiente che consentisse un certo numero di interazioni. Da una serie di deduzioni rigorose inferiva che quell'automa avrebbe avuto bisogno di una descrizione del modo in cui poteva copiare se stesso e di una descrizione del modo in cui poteva copiare quella descrizione, in modo tale da trasmetterla al successivo automa, fresco di assemblaggio. L'automa numero uno, inoltre, aveva bisogno di un meccanismo che gli consentisse di provvedere in pratica alla costruzione e alla copia. Informazione e costruzione, insomma, erano requisiti indispensabili, ma non sufficienti, perché bastavano soltanto a produrre repliche. Un automa capace di evolversi e crescere in complessità, ragionava von Neumann, aveva bisogno anche di qualcos'altro. Lo studioso ne concludeva che l'elemento aggiuntivo doveva consistere in un'autodescrizione simbolica (un genotipo), cioè in una struttura fisica indipendente dalla struttura descritta (il fenotipo). Per collegare la descrizione simbolica al suo referente, però, occorreva anche un codice: soltanto allora i suoi automi sarebbero stati capaci di evolversi. Perché? Lo scopriremo a breve.

Come sarebbe emerso più tardi, von Neumann aveva perfettamente ragione. Aveva predetto il meccanismo della riproduzione cellulare in anticipo su Watson e Crick. Fin dai più lontani primordi, all'origine stessa della vita, quando ancora si parlava di singole molecole e il DNA era un vago progetto di Madre Natura, l'autoreplicazione evolvibile dipendeva da due fattori: (1) la scrittura e la lettura di registri ereditari codificati in una forma simbolica di qualche tipo e (2) una netta distinzione tra il processo di descrizione e il processo di costruzione.

Chiusa quella breve parentesi speculativa, von Neumann si è dedicato ad altri enigmi e altre imprese. Il suo lavoro, però, era rimasto per metà incompiuto: non aveva affrontato il nodo dei requisiti fisici dai quali dipendeva l'implementazione della sua logica. A Pattee non è sembrato vero poter raccogliere la sfida.




LA FISICA DEI SIMBOLI.
PATTEE FA UN PASSO AVANTI



Abbiamo la tendenza a concepire i simboli come entità astratte, non soggette alle leggi della fisica. In quanto scienziati, però, siamo esseri fisici alla ricerca di prove compatibili con le regole e le leggi della fisica. In altri termini, i simboli di von Neumann devono possedere anche una manifestazione tangibile. Quella che Pattee chiama "fisica dei simboli" introduce alcuni problemi. Il primo ha a che fare con la scrittura e la lettura di registri ereditari (le informazioni che costituiscono la descrizione). Una descrizione comporta un processo di registrazione, ma, come ormai sappiamo, una registrazione equivale a una misura irreversibile che esige l'intervento di un misuratore. Pattee ha il merito di aver capito che il problema delle informazioni racchiuse nella descrizione all'origine della vita si sovrappone al problema della misura nella fisica quantistica. Le misure sono sempre soggettive, cioè non possono venire descritte da leggi oggettive, siano esse classiche o quantistiche. Qualunque essere vivente capace di "registrare" informazioni introduce nel sistema un elemento di soggettività.

Il secondo problema ha a che vedere con il rapporto tra il genotipo e il fenotipo. Prendiamo il caso del DNA. Il genotipo è la sequenza che contiene le istruzioni necessarie all'assemblaggio di un dato organismo vivente; il fenotipo sono le caratteristiche osservabili di quell'organismo, come l'anatomia, la biochimica, la fisiologia e il comportamento. Il genotipo interagisce con l'ambiente per produrre il fenotipo. Tradotto in termini di vita quotidiana, prendiamo l'esempio di una casa: il progetto è il genotipo e l'edificio vero e proprio è il fenotipo. Il processo di costruzione fenotipica è l'edificazione della casa sulla base del progetto, che contiene informazioni su che cosa occorre fare e dove occorre farlo. Il fenotipo dipende dal genotipo che lo descrive, ma in termini fisici c'è una differenza enorme tra il genotipo e il fenotipo, e perfino tra il genotipo e il processo di costruzione fenotipica. Tanto per cominciare, il genotipo è non dinamico; è una sequenza statica e monodimensionale di simboli (i simboli del DNA sono i nucleotidi) privo di energia propria o non soggetto a vincoli temporali. Come tutti i progetti, il DNA può attendere anche per anni: vi sarà capitato di vedere CSI: Miami alla televisione. Il genotipo stabilisce che cosa occorre costruire (poniamo un adorabile cagnetto), ma il DNA, di per sé, non assomiglia in nulla a un animale. Per parte sua il fenotipo (l'adorabile cagnetto) è un essere dinamico e consuma energia, specialmente se si tratta di un border collie.

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IL CODICE GENETICO È UN VERO CODICE



Per capire meglio questa articolazione simbolo-materia e le sue implicazioni per la nostra ricerca esaminiamo più nel dettaglio il caso del DNA, forse il miglior esempio di struttura simbolo-materia osservabile in un sistema vivente. Prima di procedere, però, dovremo procurarci un'infarinatura di biosemiotica per capire come funzionano i simboli nei sistemi viventi. La nostra guida sarà il biologo teorico dell'Università di Ferrara Marcello Barbieri.

La semiotica è lo studio dei segni (o simboli) e dei loro significati. Uno dei cardini della disciplina è l'idea che un segno, per definizione, è sempre legato a un significato. Come ci ha insegnato Steve Martin alle prese con la vie parisienne, non esiste alcun rapporto di tipo deterministico tra un segno e il suo significato. Un uovo è un uovo, che sia stato deposto negli Stati Uniti o in Francia, ma il nome con il quale può venire designato non rimane sempre lo stesso. L'oggetto è qualcosa di ben distinto dalla sua rappresentazione simbolica (il suono "egg» o il suono "œuf") e dalla nostra comprensione del simbolo. Barbieri osserva che il rapporto tra un segno e il suo significato è definito da un codice, un repertorio di regole convenzionali che fissano la corrispondenza tra i segni e il loro significato. Il codice è prodotto da un agente, il codemaker o fabbricante di codici. Quando un fabbricante di codici elabora un codice, prende vita anche un sistema semiotico. Riassumendo, "un sistema semiotico è una triade formata da segni, significati e un codice, tutti prodotti dallo stesso agente, cioè dallo stesso fabbricante di codici".

La biosemiotica è lo studio dei segni e dei codici riscontrabili nei sistemi viventi. Il concetto di base è l'idea che "l'esistenza del codice genetico implica che ogni cellula costituisca un sistema semiotico". Barbieri sottolinea che la moderna biologia non ha accettato questa premessa fondamentale della biosemiotica perché tre dei concetti basilari della biologia moderna risultano incompatibili con quel postulato. Anzitutto c'è la descrizione della cellula come computer. Secondo questa metafora i geni (informazioni di tipo biologico) si apparentano a un software, mentre le proteine sarebbero l'hardware. I computer lavorano sulla base di codici, ma non sono sistemi semiotici, perché i codici vengono introdotti dall'esterno del sistema per opera di un fabbricante di codici, mentre in un sistema semiotico, come ora sappiamo, il codemaker è parte integrante del sistema. L'idea della cellula-computer sottintende in secondo luogo che il codice genetico sia stato creato da un codemaker esterno al sistema: la selezione naturale. Gli esseri viventi, da questo punto di vista, non sarebbero quindi sistemi semiotici, e l'espressione "codice genetico" risulterebbe puramente metaforica.

Il secondo punto di attrito tra la moderna biologia e la biosemiotica è il fisicalismo, cioè l'idea che ogni cosa sarebbe riducibile a quantità di ordine fisico. I biologi esigono che tutti gli elementi in gioco (DNA, molecole, cellule, organismi) debbano obbedire a leggi che determinano il loro comportamento, mentre in un codice semiotico i simboli non sono connessi in modo inesorabile ai loro significati da leggi fisiche di stampo deterministico, ma piuttosto da regole blande che funzionano in modo non deterministico.

Il terzo punto problematico è il principio (controverso) secondo cui l'innovazione biologica sarebbe sempre il prodotto di una selezione naturale.

Barbieri obietta che i biologi, lavorando sulla base di ipotesi così esclusive, perdono di vista un aspetto fondamentale: non sono in grado di pensare l'origine della vita. L'evoluzione per mezzo della selezione naturale esige in partenza la trascrizione di registri genetici e l'assemblaggio di proteine, ma quelle operazioni, a loro volta, devono pur derivare da qualcos'altro. Barbieri insiste sul fatto che i geni e le proteine riscontrabili nei sistemi viventi sono fondamentalmente diversi dalle altre molecole. Tanto per cominciare, sono prodotti in un modo del tutto particolare.

Nel mondo inorganico, fatto di oggetti come i computer e le rocce, la struttura delle molecole è determinata dai legami che si formano in modo spontaneo tra gli atomi. Quei legami, a loro volta, risultano determinati da fattori interni, cioè dalle caratteristiche chimiche e fisiche inerenti a quegli atomi. Il sogno di qualunque determinista.

I sistemi viventi non funzionano così. I geni sono stringhe di nucleotidi dalla struttura sofisticata e le proteine sono stringhe di amminoacidi dalla struttura non meno complessa. Strutture del genere non si formano in modo spontaneo nelle cellule. Ad aggregare gli atomi non è l'amore a prima vista di un'attrazione irresistibile. A fabbricarle è invece il lavoro di una classe di molecole specializzate, l'intero sistema formato dall'acido ribonucleico e dalle proteine, che coadiuvano il processo creando i necessari abbinamenti. Un aspetto decisivo per la ricerca sulle origini della vita, come sottolinea Barbieri.

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RIASSUMENDO



La materia vivente si distingue dalla materia inorganica per l'indirizzo completamente diverso che ha imboccato. La materia inanimata obbedisce alle leggi della fisica classica. La vita, fin dai suoi primordi, appare legata a doppio filo con le regole, i codici e il carattere arbitrario delle informazioni simboliche. La distinzione e il rapporto di interdipendenza tra le informazioni simboliche e la materia ha reso possibile un'evoluzione non preordinata, e quindi la vita come la conosciamo. Le informazioni in merito a eventi riusciti verificatisi nel passato sono state immagazzinate sotto forma di registri simbolici, i quali sono a loro volta misure intrinsecamente probabilistiche. Eppure il fenomeno della vita dipende da questi simboli arbitrari e probabilistici, senza i quali non potrebbe esplicarsi materialmente sul piano del mondo fisico. Il carattere costitutivamente arbitrario dei simboli e delle misure ha movimentato le cose, cioè ha introdotto un elemento di imprevedibilità, combinandosi con il carattere invece prevedibilissimo delle leggi fisiche per dare luogo alla vita, sempre più ordinata e sempre più complessa con il passare del tempo.

La distinzione tra soggetto e oggetto non è soltanto una bizzarra curiosità, ma ha inizio al livello dei fenomeni fisici, prendendo le mosse dallo scarto tra il carattere probabilistico delle misure simboliche e la certezza delle leggi materiali. Più tardi la stessa distinzione viene esemplificata dalla differenza tra il genotipo (la sequenza di simboli costituita dai nucleotidi che formano il DNA di un organismo) e il fenotipo, cioè la struttura fisica e materiale prescritta da quei simboli. Di strato evoluzionistico in strato evoluzionistico, quella linea di frattura segue il nostro sviluppo, fino a esprimersi nella distinzione tra la mente e il cervello.

Negli ultimi duemilacinquecento anni il dibattito sul pensiero e sulla coscienza ha insistito sul cervello umano; più di recente, sul cervello umano pienamente evoluto. Così facendo siamo risaliti fino al divario esplicativo, ma senza riuscire a spingerci oltre. È giunto íl momento di esplorare lo scarto tra la materia vivente e la materia non vivente come lo presenta Howard Pattee. Se riuscissimo a capire che cosa ha gettato un ponte su quell'abisso, cioè come la vita è riuscita a conseguire la chiusura semiotica, forse riusciremmo anche a trovare un modo per colmare il divario esplicativo tra la mente e il cervello. Peraltro con la benedizione di William James, che è arrivato a prendere in considerazione una teoria da lui stesso detta polizoismo: "Ciascuna cellula cerebrale è dotata di una coscienza individuale sua propria, inaccessibile a qualunque altra celulla, dal momento che le coscienze individuali sono sempre reciprocamente 'eiettive'". La singola cellula implementava un processo molto rudimentale capace di connettere un "sé" soggettivo all'oggettività della meccanica. La chiusura semiotica, il nesso che colma il divario tra la materia vivente e la materia non vivente, esiste in tutte le cellule. Prendendo coscienza di questo fatto e tentando di capire quali fenomeni entrano in gioco potremmo forse iniziare a inquadrare la coscienza da un punto di vista diverso e a ricercarla in altri luoghi. Non sto affermando che le singole cellule siano coscienti: mi limito a ipotizzare che potrebbero implementare alcune varianti del processo di elaborazione dal quale dipendono anche i processi di elaborazione sottesi all'esperienza cosciente, o comunque processi di ordine simile.

Siamo rimasti paralizzati dal divario esplicativo perché le esperienze soggettive della mente non si sono lasciate ridurre all'attivazione neurale della materia grigia. L'esperienza e la materia ci appaiono come due proprietà irriducibili e complementari di un solo sistema. Sappiamo che neppure la più scrupolosa osservazione esterna della struttura, delle funzioni, delle attività e delle attivazioni neurali del cervello può cambiare il fatto che il modo in cui il soggetto esperisce quelle attivazioni dall'interno è sostanzialmente diverso da quanto si può osservare. L'attivazione dei neuroni e perfino íl fatto che dei neuroni si stiano attivando costituiscono dei dettagli estranei all'esperienza o alle intuizioni del soggetto. L'individuo che percepisce e pensa non ha accesso ai meccanismi oggettivi della percezione, del pensiero ecc. Come abbiamo scoperto nel capitolo sull'architettura a strati, i dettagli non indispensabili per l'individuo vengono astratti, mascherati, sottratti alla vista. La funzione dei neuroni, inoltre, non può essere derivata dalla loro struttura senza sapere già qualcosa di quella funzione, né dalla funzione si può derivare la struttura. Anche sapendo tutto su uno dei due aspetti si può non sapere nulla dell'altro. Si tratta di due strati distinti e irriducibili governati da protocolli diversi. Pattee è convinto che tutto questo sia strettamente legato al principio di complementarità, e che nessun modello unico possa spiegare in un colpo solo la struttura oggettiva e la funzione soggettiva. Il taglio epistemico, la frattura soggetto/oggetto, si riproduce imperterrita al livello del cervello umano. Pattee ribadisce che "i nostri modelli degli organismi viventi non riusciranno mai a eliminare la distinzione tra il sé e l'universo, perché la vita ha avuto inizio con quella separazione e l'evoluzione ne dipende".

Come stupirsi del fatto che il nostro pensiero si imbatta a ogni piè sospinto nella dualità tra due modi complementari di comportamento e due livelli di descrizione? La frattura tra soggetto e oggetto è parte integrante di tutti i grandi dibattiti filosofici: fortuito/prevedibile, esperienza/osservazione, individuo/gruppo, natura/cultura, mente/cervello ecc. La compresenza di due modi complementari è un fattore ineludibile e necessario ogni volta che si tratta di spiegare il nesso tra i modelli soggettivi e i modelli oggettivi dell'esperienza. Quella dualità inerisce alla vita stessa, era già presente ai suoi primordi ed è stata conservata dall'evoluzione. "È in gioco una complementarità universale e irriducibile" scrive Pattee: "Nessuno dei due modelli può venire derivato dall'altro o ridotto all'altro. In virtù della stessa logica per cui il modello oggettivo di uno strumento di misurazione, per quanto dettagliato, non può produrre la misura effettuata da un soggetto, nessun modello oggettivo del cervello materiale, per quanto scrupoloso, è in grado di produrre il pensiero di un soggetto".

Ignorare uno dei due lati significa perdere di vista il nesso che li lega. Ma per colmare il divario occorre riconoscere la natura duale e complementare dei simboli. Il nesso dovrà consistere in meccanismi descrivibili nei termini della fisica, ma la risposta non sarà probabilmente facile o confortante, né psicologicamente appagante, né per i deterministi, né per chi crede agli spiriti. Forse, come la meccanica quantistica, sarà una teoria che nessuno capisce fino in fondo, una verità che trascende la nostra intuizione e la nostra immaginazione. Come ha ammonito una volta Feynman , "Non sta a noi dettare alla natura come deve comportarsi. Abbiamo imparato la lezione. Ogni volta che formuliamo un'ipotesi sul suo comportamento e poi andiamo a misurare scopriamo che ci batte in astuzia. Può sempre vantare un'immaginazione più fertile della nostra e trova modi più scaltri per fare quello che deve fare in un modo diverso da quello che avevamo previsto".

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PROSPETTIVE FUTURE



Ripercorrendo per sommi capi la storia del pensiero umano e della ricerca scientifica sul problema della coscienza ci siamo imbattuti in equivoci di ogni sorta. Il riduzionismo dogmatico ha preso piede soltanto con Descartes e con l'avvento dell'idea che "il cervello è una macchina che occorre smantellare per cercare di capirla" (la procedura standard della scienza in genere), e quel riduzionismo continua a prevalere ancora oggi nel campo delle neuroscienze. Anche in questo caso quella che io chiamo Scuola di Chicago ha invitato a una maggiore cautela, delineando una possibile formulazione alternativa che tiene conto della natura evoluzionistica degli organismi e del fatto che le macchine sono un sottoprodotto del cervello umano, non viceversa. La materia vivente ha qualcosa di diverso, di specifico. Semplificando al massimo, non si limita a soggiacere alle interazioni descritte dalla fisica classica, ma possiede un carattere intrinsecamente arbitrario reso possibile dalle informazioni simboliche immagazzinate sul lato buono dello Schnitt, scritte in forma fisica e nondimeno arbitrarie.

Quando i primi esiti della ricerca sui pazienti sottoposti a callosotomia hanno iniziato a circolare, la domanda, inevitabile, è stata: che cosa possiamo imparare da queste scoperte sul problema della coscienza? Quando mi hanno presentato al noto psicologo sperimentale William Estes come lo studioso che aveva scoperto il fenomeno del cervello diviso, lui mi ha detto per scherzo: "Ottimo, così adesso abbiamo due cose che non capiamo invece di una sola". Eppure è l'enigma del quale non mi sono mai più liberato, proprio come rimango ossessionato dall'argomento di Polanyi secondo cui un elenco di parti non basta a descrivere il funzionamento di un tutto. Se vogliamo capire come quei fatti gettano luce sul problema della coscienza, entrambi gli aspetti, l'elenco delle parti e il modo in cui quelle parti cooperano per esprimere una funzione, esigono una spiegazione di ordine più complesso.

Nel corso degli ultimi trent'anni abbiamo investito miliardi di dollari nello studio delle aree cerebrali, del ruolo che svolgono e del modo in cui si connettono tra loro. Eppure la localizzazione non ci porterà a una spiegazione esaustiva del fenomeno della coscienza, anche se i moderni studi sul cervello ci insegnano che certe specifiche regioni anatomiche sono correlate a determinate capacità mentali. Quegli studi arricchiscono il repertorio già esteso delle cose che sappiamo sul conto del cervello, ma non sono in grado di spiegare i processi cerebrali, uno dei cui prodotti è appunto la coscienza. L'approccio struttura-funzione ha molto da insegnare sul modo in cui il cervello compartimentalizza le sue molteplici specializzazioni, ma non è in grado di spiegare come certe reazioni elettro-chimiche si traducano in esperienze vissute. Struttura e funzione, come ormai sappiamo, sono proprietà complementari: dall'una non si può dedurre alcunché sull'altra. Esaminando un neurone senza sapere già in partenza a che cosa serve non si impara nulla sulla sua funzione. Viceversa, sapere a che cosa serve un neurone non dice ancora nulla su come un neurone si presenta. Senza conoscenze pregresse è impossibile dedurre la funzione dei neuroni dalla loro struttura o derivare la struttura dalla funzione. Struttura e funzione sono due strati ben distinti, reciprocamente irriducibili, governati da protocolli diversi.

La ricerca sulle parti del cervello deve farsi più ambiziosa e prendere in considerazione anche il neural design, l'architettura cerebrale nel suo insieme. La ricerca della struttura che produce la coscienza, alla maniera di Descartes e di tanti suoi predecessori, non porterà alla luce alcun Santo Graal delle neuroscienze, perché la coscienza è una proprietà inerente a tutto il cervello. Asportate grossi pezzi della corteccia: la coscienza presenterà contenuti diversi, ma continuerà a sussistere. A differenza di tante altre capacità mentali, come l'espressione verbale o l'elaborazione dei dati visivi, la coscienza non è compartimentalizzata in un'area del cervello, ma rappresenta piuttosto un aspetto costitutivo di tutte le sue diverse capacità. A costo di ripetermi, la prova più inconfutabile del fatto che la coscienza non è localizzata in un punto preciso sono i pazienti sottoposti a callosotomia: separando i due emisferi del cervello, ciascuna delle due metà continua a esprimere una specifica esperienza cosciente.

L'idea che la coscienza emani da più fonti indipendenti è controintuitiva, ma sembra che il cervello funzioni proprio così. Una volta assimilato questo nuovo concetto, la sfida consiste nel capire come i principi in base ai quali è strutturato il cervello consentano alla coscienza di emergere nella forma che conosciamo. Questo è il compito delle neuroscienze di domani.

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PRIMA DI CONCLUDERE



Quando ho iniziato a scrivere questo libro alcuni dei pensieri che ho delineato nelle sue pagine non mi erano ancora del tutto chiari. Il dubbio che non mi dava pace era: davvero la coscienza è un istinto?

Nel suo classico L'istinto del linguaggio Steven Pinker richiama all'ordine la comunità scientifica, e lo fa a ragion veduta. Come è possibile che la mente e il cervello siano entrambi un prodotto di meccanismi biologici ma possano anche venire modificati dall'esperienza? Quel libro sviluppa un'utile cornice per ragionare sui limiti dell'apprendimento e sul fatto che alcune componenti della nostra mente derivano dalla selezione naturale. Pinker ha inoltre acutamente osservato che concettualizzare certi aspetti superiori dell'essere umano (come la capacità del linguaggio) in termini di istinti suscita immediate resistenze.

Inserire il fenomeno della coscienza in quella lista - che già include l'ira, la timidezza, l'affetto, la gelosia, l'invidia, la rivalità, la socievolezza ecc. - non serve ad aggiustare le cose. Gli istinti, come sappiamo, sono evoluti a poco a poco, rendendoci sempre più adatti a vivere nel nostro ambiente. Aggiungere la coscienza al catalogo degli istinti equivale ad affermare che quella preziosa esclusiva dell'essere umano, che tutti consideriamo inestimabile, non è una dotazione miracolosa legata allo speciale hardware della nostra specie. Equiparare la coscienza a un istinto significa ricollocarla nel grande mondo della biologia, con la sua storia, la sua ricchezza, le sue alternative, il suo continuum.

[...]

Rileggendo James per scrivere questo capitolo, ritrovo uno schema compatibile con le mie idee sui moduli e gli strati. James sembra dare a intendere che gli aspetti strutturali degli istinti siano moduli inquadrati in un'architettura a strati. Ciascun istinto è in grado di funzionare in maniera indipendente, specialmente nei comportamenti più semplici, ma gli istinti possono anche operare di concerto, come una federazione. I singoli istinti possono dare vita a sequenze coordinate che rendono possibili azioni più complesse, suscitando l'impressione di istinti di livello decisamente superiore. La successione a valanga di quelle sequenze è quella che chiamiamo coscienza.

[...]

La cosa più sorprendente che ho scoperto strada facendo è che noi esseri umani non riusciremo mai a costruire una macchina capace di imitare la nostra coscienza personale. Le macchine inanimate a base di circuiti al silicio funzionano in un certo modo; i sistemi viventi a base di carbonio funzionano in modo diverso. Le prime obbediscono in forme deterministiche a set di istruzioni, i secondi agiscono per mezzo di simboli che comportano per loro natura un certo grado di incertezza.

Si finisce così per concludere che il tentativo di imitare l'intelligenza e la coscienza nelle macchine, il grande obiettivo di fondo degli studi sull'intelligenza artificiale, è destinato in partenza a fallire. Se i sistemi viventi operano in base al principio della complementarità - cioè l'idea che il lato fisico della medaglia trova riscontro in un lato simbolico arbitrario fatto di simboli prodotti dalla selezione naturale - i modelli puramente deterministici delle strutture alla base della vita non hanno speranza di rendere giustizia all'originale. Nei modelli di intelligenza artificiale il ricordo di un evento risulta chiaramente localizzato e può venire cancellato premendo un tasto. In un sistema vivente, stratificato per definizione, ciascun aspetto di un meccanismo può venire scambiato con un altro simbolo, purché capace di svolgere correttamente un certo ruolo. Ed è così perché la vita funziona in questo modo e consente, anzi esige, la complementarità.

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