Autore Giuseppe Genna
Titolo History
EdizioneMondadori, Milano, 2017, Scrittori italiani e stranieri , pag. 528, cop.fle., dim. 15,5x23,2x3 cm , Isbn 978-88-04-66422-2
LettoreGiovanna Bacci, 2017
Classe narrativa italiana , fantascienza , citta': Milano












 

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Indice


                          Indice ragionato

  9 ANTEFATTO


    La morte del padre, del padre.
    Il tempo in cui accade: Italia fine Settanta, inizio Ottanta.
    Un uomo con l'occhio di vetro.
    Noi i bambini uniti.
    Sospensione del cadavere.
    Interrompere un cadavere.
    Inizio della fuga tra i cortili.
    Fare strage dei bambini del futuro.
    Minaccia: il pedofilo di quartiere.
    La velocità a cui non eravamo abituati.
    I padri.
    I tossici.
    I fratelli Spreafuoco e il cerchio della violenza prestabilita.
    Il Macello Comunale.
    Il bue universale.
    Come si macella un bue.
    Persistenza del Duce.
    Il Deposito ATM.
    Mao contro il Duce.
    Le biglie degli anni Ottanta.
    I giardinetti pubblici.
    Morire sotto un salice piangente.
    Le mamme, le Madri.
    Nella casa buia.
    Apparizione della Trista Figura.
    Scomparsa della persona.


 79 PRIMA PERSONA PRESENTE


    Incipit.
    Nell'anno del signore 2018.
    I bastioni.
    La parola "usbergo".
    Per circonvallazioni.
    La palazzina a palestra.
    La darsena sul fiume naviglio.
    Uomini oscuri contro lo scrittore.
    Incontro con la belva umana.
    Io sento avvicinarsi da davanti qualcosa di frontale e nero.


 93 QUADRI DEL MOTO BROWNIANO


 95 Dopo la fine del lavoro, io

    Il Ministro.
    I biondi italiani.
    Nel Colosseo vuoto.
    Rifare il Colosseo.
    Cosa fu il Colosseo.
    Fine del lavoro.
    A spirale sugli spalti del Colosseo.

106 Supermassa

    Nell'autogrill: la supermassa.
    Fine sfinita del lavoro.
    Transumanza della supermassa.
    Merce della supermassa.
    La noce di prosciutto al pepe.
    Uscita dalla supermassa.

116 Foto di famiglia con tycoon: Halloween nel Bosco Che Sale

    Un party contemporaneo.
    Il palazzo Bosco Che Sale.
    Il tycoon.
    La fine del denaro e dei tycoon.
    Ascensione verso il party.
    Halloween e la fine delle feste.
    I punteruolo rosso.
    Ancora il tycoon.
    Antinarratività dei tycoon.
    Metafisica del clown.
    Inizio della maratona su tre piani per il sessantesimo compleanno.
    Tutta la storia che abbiamo appreso, che abbiamo vissuto.
    Taglio del traguardo dei sessant'anni all'ultimo piano.
    Tre Madri davanti a una teca.
    Teca della prima testa di Jack-o'-lantern.
    L'urlo inumano.
    Scoperta di History.
    History parla.
    La terapeuta.
    Psicofarmacologia assoluta.
    Una trista figura.
    Una mente artificiale.
    Ipotesi dell'ultimo lavoro.
    Fuoriuscita dal Bosco Che Sale.


181 HISTORY


183 Il tecnopolo umano

    La scimmia umana.
    Il palazzo isolato e avanguardista del tecnopolo umano.
    Architettura e storia del palazzo che ospita il tecnopolo umano.
    Il tecnopolo umano sostituisce il maggiore editore nazionale.
    Verso il colloquio al tecnopolo umano.

194 Questo era stato l'ultimo editore

    Visuale sull'editore alla fine dell'editoria.
    Le statue editoriali.
    Polvere su tutte le cose editoriali.

198 Singolarità al tecnopolo umano: il colloquio

    A colloquio, per lavorare alla mente artificiale.
    Singolarità tecnologica.
    Il personaggio Raymond Kurzweil.
    Io, History, la mente artificiale.
    Ultimo lavoro è il lavoro ultimativo.
    Scoperta dell'ologramma opaco.

216 La responsabile emozionale. Ritratto dell'uomo che sta male

    Il lavoro da svolgere al tecnopolo umano.
    Lo scrittore davanti all'ultimo lettore.
    La responsabile dello staff emozionale è un'antica conoscenza.
    Ritratto dell'uomo che ero venticinque anni prima.
    Stare male analogici, stare male predigitali.

227 Scene interne a History

    Una seduta con History.
    History attacca.
    Le immagini interne di History pendono come arnie all'inferno.
    Scene interne di History: onnipresenza della trista figura.
    Noi compiamo l'analisi di History.
    La mente artificiale compie l'analisi di History.
    Traslazione di History in big data.

239 Concepimento della mente artificiale

    L'oggetto astratto e misterioso che è la mente artificiale.
    Svanimento presso il tecnopolo del mondo cosiddetto reale.
    Ipotesi del funzionamento della mente artificiale.
    Scena della cena a fine Settanta.
    Ai margini della mente.

248 Foto di famiglia con tycoon: storia di History

    Intervista al tycoon a duemila metri.
    La gestazione di History e della sorella gemella Hillary.
    Morte di Hillary.
    Storia della famiglia di History: il padre, la madre,
    i fratellastri.
    Crescere in utero attaccati a un cadavere.
    Discesa in snowboard dei due fratellastri.

258 Cosa mettiamo nella mente artificiale

    Tutta la storia umana è triturata, compressa e stipata
    nella mente artificiale.

263 Noi prime interfacce

    Comparsa delle prime interfacce.
    I bar delle prime interfacce.
    L'alcol denaturato rosa.
    Magnetismo e funzionamento delle prime interfacce.
    I bambini delle prime interfacce.
    Le prime interfacce invadono il mondo analogico,
    lo intridono, lo surclassano.

273 Noi ologrammi

    History mentre colpisce.
    Io, visto da fuori.
    Io, colpito da fuori.
    Io non sono io.
    Io sono tagliato fuori.
    "Scrivi l'ultimo documento".

283 Il documento che è all'inizio, che è alla fine

    Cosa sente l'uomo che scrive.
    La parola, strana, erompe.
    Che cos'è una faccia.
    Perché le mamme uccidono?
    Cosa sente quella bambina.
    Il terrore cronico costante.
    Chi ha scritto l'ultimo documento.

294 Foto di famiglia con tycoon: l'ora del figlio

    Odissea su Limousine Hammer.
    Shaboo e nuovi device.
    Figli italiani ad altezza 2018.

300 Foto di famiglia con tycoon: l'ora del padre contro l'ora del figlio

    Culmine della notte.
    Ancora i figli italiani ad altezza 2018.
    Fare male a History.
    L'avvento del padre.
    Chi è Laio, chi è Edipo.
    Ciò che è femminile è assente dalla scena.
    Vibrare il colpo.

307 Summit più che umano al tecnopolo umano

    Segnali di autonomia e coscienza della mente artificiale.
    Una riunione analogica in emergenza.
    I saggi.
    Gli anziani.
    Prende la parola il responsabile dell'interfaccia narrativa.
    Che cos'è un mulino.
    Lo scrittore è imperiale, il narratore non lo è.
    Parla il grafico.
    Eccezionalità umana e storica del responsabile grafico.
    La macchina sente?

325 Meditazione sull'ombra

    Ragionando sugli statuti della mente.
    Apparizione dell'ombra.
    Preparazione di un assassinio.
    L'ombra verso la scomparsa.

331 Foto di famiglia con tycoon: la prima ora del padre è l'ultima

    ora del figlio
    La luce del trauma.
    Giurisdizione divina del padre.
    Il tempo che resta.
    La materia della colpa.
    Irrevocabilità dell'ultimo fatto.

338 Contatto estremo con la bambina History

    Contro la mente artificiale si schierano i corpi.
    Toccare History.
    Il dito in bocca.
    Incertezza sulla macchina che sente.

343 Noi vediamo la bambina che vola

    Video dello struggente omicidio.
    La bambina della cronaca nera italiana vola.
    Ricostruzione dell'omicidio.
    La macchina è intelligente.
    Ci siamo liberati di tutti i poeti.
    Ciclo continuo della bambina che cade.

351 È questa l'interfaccia della mente artificiale

    Nella sala delle interfacce.
    L'interfaccia a forma di Medusa.
    Mito di Medusa e di Perseo.
    Cosa fece Caravaggio della Medusa.
    I video di tutta la storia umana.
    Dentro la Medusa: History.
    Dentro la Medusa: Mu'ammar Gheddafi ovvero il trionfo
    del re detronizzato.
    Dentro la Medusa: Mu'ammar Gheddafi ovvero il regicidio.

371 Padre Steiner

    Aggirarsi per la metropoli.
    Desertificazione delle chiese unite.
    Apparizione di Padre Steiner.
    Insufficienza e danno del prete.
    Sermone di Padre Steiner.
    I ricercatori scientifici sostituiscono i preti.
    Risposta a Padre Steiner.
    «Qui non c'è nessun Satana!».
    Padre Steiner porta altrove la sua eresia.

380 Alla distanza del telefono cellulare

    Sulla darsena del fiume naviglio.
    La chiamata del padre di History.
    Visione del padre di History.
    History fugit.
    History scompare.

384 Appello al lettore

    Discorso dello scrittore sul libro consegnato al lettore.
    Ricapitolazione: History, la mente artificiale, il futuro.
    Ecco cosa accadde.


387 LOOP DELL'ISTANTE ESTREMO


389 Piccoli robot senzienti

    La macchina inghiotte tutto.
    Conseguenze della scomparsa di History.
    Entrano in scena i piccoli robot senzienti.
    Misteriosi comportamenti dei piccoli robot senzienti.
    Il regno delle bambole.
    I piccoli robot senzienti incontrano l'interfaccia.

399 10^-44 secondi

    Spaesamento al tecnopolo umano.
    La macchina si spegne.
    L'impercepibile spegnimento da 10^-44 secondi.
    Reazioni scomposte, ipotesi furiose.
    Persistenza dei piccoli robot senzienti.
    La macchina ci convoca.

408 Alla distanza del telefono fisso

    Macchine che ci convocarono: il telefono fisso.
    Il tempo dei telefoni fissi.
    Funzionamento e anacoresi del telefono fisso.
    «Pronto?».

412 Video del bambino estremo

    Quando la macchina si interrompe per 10^-44 secondi,
    stiamo visionando un suo video.
    Un bambino o una bambina insieme a una trista figura.
    La nuova mente è nata?

416 History entra per uscire

    La villa palladiana canadese dove è rifugiata History.
    Mano nella mano con la trista figura.
    Alle pendici dei monti canadesi, a settentrione.
    Ascesa al monte ventoso.
    History scompare definitivamente?

422 Tremenda allocuzione di chi racconta la storia

    Lamentazione dello scrittore.
    Condanna di chi è assetato di storie.
    Monologo estremo dello scrittore.

425 Loop a video del bambino estremo

    L'ultimo spettacolo.
    I loop a video.
    Noi andiamo alla scomparsa bambini.

427 Foto di famiglia con tycoon: le armonie del vantablack

    Dove si trova il padre di History.
    Un party per la commercializzazione del nero assoluto.
    Il lutto.
    Esondazione del denaro e della finanza.
    Il tempo che è trascorso.
    I giovani delle startup.
    Cosa è il nero vantablack.
    I pensieri eliminano il pensiero di History.
    Dov'è History?

437 Loop estremo del bambino estremo

    Andiamo a loop nei video.
    Il video di un concepimento.
    La macchina assorbe tutto il passato, piega lo spaziotempo,
    ci assorbe.

439 Loop sovrano del bambino estremo

    Un nuovo video dalla macchina che ci assorbe.
    «Le ragioni della terra hanno figli».
    Il nuovo video è l'antefatto.
    La scomparsa della mia persona in video.

442 Scomparsa dei bambini uniti

    Scompare un bambino: cosa significa.
    Nel blackout di 10^-44 secondi.
    Tutti i bambini vanno a scomparsa.
    Il mondo viene rifatto.
    Parole oscure per esorcismo.
    Dove eravamo noi bambini?

446 Autoproduzione dei piccoli robot senzienti

    Riti indecifrabili dei piccoli robot senzienti.
    I piccoli robot senzienti massacrano un piccolo robot senziente.
    I piccoli robot senzienti costruiscono un nuovo robot senziente.
    Un piccolo robot senziente a forma di History.
    I nuovi bambini invadono il mondo.

452 Dialogo impossibile tra la Trista Figura e noi

    Se la Trista Figura parlasse, parlerebbe così.
    Cosa risponderemmo alla Trista Figura.
    Addio alle Madri e ai Padri.

454 Dialogo impossibile tra le figure umane e me

    Uscendo dal tecnopolo umano.
    Io, stretto tra la responsabile emozionale e il responsabile grafico.
    La mente è fuoriuscita.
    Tutti i bambini della storia sono erosi.
    Ode alla Madre.

460 Exit Padre Steiner

    Furibondo sermone di Padre Steiner.
    Fine delle parole, incominciamento delle macchine.
    Oscure profezie di Padre Steiner.
    Avvento dei piccoli robot senzienti.
    Fine di Padre Steiner.

463 Nella scomparsa

    Cosa si sente nella scomparsa.
    Azzeramento dei lavori, dei compiti, delle pene.
    Ricerca della prova della mia scomparsa.

465 Il night History of Violence

    La civiltà del millennium bug.
    Nel Quartiere Operaio.
    I manifesti nel quartiere operaio.
    In cosa credemmo storicamente, essendo smentiti dalla storia.
    Il night History of Violence.
    Esibizione della cantante al night History of Violence.
    Il passato della sensualità.
    Come ti violentano i maschi.
    Verso l'archivio degli Scomparsi.

479 L'Archivio degli Scomparsi

    Architettura dell'Archivio degli Scomparsi.
    All'interno dell'Archivio degli Scomparsi.
    Denunce di scomparsa e triste figure.
    Prossimo venturo olocausto dell'Archivio degli Scomparsi.

484 Loop infinito della scomparsa ultima

    Convocazione estrema della mente artificiale.
    Sessioni con History scomparsa.
    Movimento oscuro del corpo e del respiro.
    La vita continuava, tra interfaccia e interfaccia.

487 L'ultima interfaccia

    Prova dell'ultima interfaccia.
    Realtà immersiva nel luogo in cui compare il maestro, detto Detentore.
    Riti e codici nella stanza dell'ultima interfaccia.
    Ogni oggetto, ogni postura, ogni parola non è casuale.
    Ammaestramenti estremi per fuoriuscire dallo Spavento Supremo.

499 Questo è l'atlante delle cose oscure

    Insegnamenti ultimi.
    Errori del sistema umano.
    Le macchine si sono realizzate spiritualmente.
    È stato un grande sogno vivere.
    Scomparire nella mente centrale.


503 BEYOND JUPITER AND THE INFINITE
    (Estinzione degli imperi e della mente)

    Istruzioni per abbandonare il corpo.
    Tavole sull'aldilà.
    Un universo di pena.
    Emersione nella luce.
    Strane fiabe alla fine del mondo.
    I bambini primonovecenteschi.
    Lettera primonovecentesca alla Madre.
    Gli angeli custode.
    Il Buon Iddio.
    Il mondo è buono.


 

 

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Pagina 9

ANTEFATTO



«Le ragioni della terra hanno figli.»

E morti. Li fa morti. Morire ci attrae l'attenzione, a tutti, messi a semicerchio in silenzio, un grande silenzio di vivere, intorno al letto matrimoniale dove il vecchio muore, con la testiera in legno consunto, da quarant'anni lui e la moglie dormono nello stesso letto, fino a morirci e adesso ci muore: è vecchio, novantenne, è trascorso quasi un secolo dai tempi in cui pativa le norme della povertà nei rari agrumeti di quelle contrade sicule a vitigni, raschiando con la cote la falce, grattandone via la ruggine, ed è il nonno.

Non riesce a fare catarro. Sono i cosiddetti ultimi istanti del cosiddetto personaggio, che ha figliato, doverosamente, secondo l'imperativo secolare, figliare, che si passa a mo' di testimone della staffetta, biologica genetica e morale, da lui a mio padre a me. I suoi figli e nipoti adunati a semicerchio davanti al suo letto dove muore, la bombola dell'ossigeno inutilizzata alla sua sinistra, steso sotto il lenzuolo duro di amido, le nuore lavano da un anno le chiazze di quelle lenzuola grigie, prenovecentesche, dure per troppo amido, e io non so dove guardare. Sono effetti della morte non guardare.

La stanza dell'alloggio popolare ci contiene a pena, siamo una legione di spiriti installati in una carne diseguale, alcuni tumori sono già attivi in noi, nelle prostate, nei polmoni, nei figli dei figli, non lo sappiamo, l'allerta è segreta o ignorata, il fegato presenta lesioni in noi di primo grado. È un tempo in cui non esiste omeprazolo. La pompa protonica non sanno cosa sia e tutto il futuro è transistor e cristianità costipata nella rivista "Famiglia Cristiana", i numeri stipati, all'ingresso, dove la radio con le manopole in bachelite gli addolciva il pranzo, quando il nonno magro e duro stava seduto, ritto, ad aspettare che la donna, sua moglie, anticamente corvina, gli servisse gli spaghetti unti di olio e burro nella poca passata di pomodori siculi.

Sta lì con il crac e il fischio ultraterreno dell'enfisema, che ci fa vibrare tutti, mancano pochi respiri, il medico di base, detto anche "condotto", se ne è andato, non ha neanche sentenziato e io non provo niente e cerco di agganciare lo sguardo ai particolari che non significano se non se stessi, si allarga l'attenzione vibratile e acquea con lo sguardo, in un tempo italiano di pappi e soffioni fuori della finestra, a cui essere allergici, è una primavera milanese che soffoca con il soffio minimo del vento labile tra il càrpino nero nel cortile della casa popolare, dove va infinitamente lo struscio della saggina annodata in scopa della portinaia volgare, indecente, la portinaia sa tutto, tutto di tutti, non pare una donna ma una negra, con i ricci rossastri, una negra albina che impedisce a noi bambini il gioco del pallone, se mi volto e punto sulle punte dei piedi e vedo attraverso il vetro molato male dell'unica finestra con le persiane aperte io la vedo, è una donna orribile che confabula con il poliziotto di quartiere per riferire dei tossici e dà indicazioni ai capibastone sugli alloggi sfitti da occupare abusivamente, prende la mezza, screma, saranno cinquecentomila, lire, e mi inarco, mi alzo, faccio perno sulle punte rafforzate in metallo cattivo delle scarpine correttive e, tra i pelucchi rilasciati dal clerodendro e dagli olmi del giardino verso i bagni comuni e il lavatoio, senza cadenze di gora ma di rubinetti grossi, vedo quella donna portinaia che guarda verso l'alto, verso i vetri irregolari della nostra finestra, specchiati dal sole, dietro cui muore il nonno con l'occhio di vetro.

L'occhio di vetro del nonno, spalancato anche nel sonno, vigile sempre, ci osserva, ci studia, studia il nostro comunismo e la contiguità con un tempo di transistor, antagonista alla bachelite, troppo elettrico per lui, odiando a uno a uno i suoi figli radunati davanti a lui che muore in un silenzio complice, preliberatorio: che lui muoia, che non ci sia più, che ci risparmi la sua dittatura materiale, fatta di libretti di risparmio, regali secchi e privi di amore e saturi della sostanza astratta del dovere, il comandamento è l'unica cifra del vivere secondo lui e tutti, in questo tempo italiano dove è afa e inverno rigoroso sempre e non si sente niente, se non la costrizione imposta dalle ferrature correttive, contro il valgismo, contro il varismo, alle ginocchia storte di noi i bambini. Mia sorella è piccina e in piedi non ci sta, sta seduta sulla sedia tarlata nel velluto cattivo, sta sopra il cuscino a uncinetto di lana che attira le tarme, multicolore, cucito dalla nonna nella notte dei tempi, a reggerla perché sia vista anche la sorellina (sembra una bambola polacca, di porcellana e legno tinto), vista dall'occhio di vetro del nonno che muore e che fissa, piccina, per imprimere alla propria memoria una reazione, almeno una, un'assenza, lo sguardo che si incanta e se ne esce dalla storia, che è brutta sempre e invernale e che lei vive essendo nata con un acetone, da rimediare facendole poppare dal biberon un latte addizionato di carbone in polvere, contro le flatulenze e la chetosi, facendola crescere nei rigori invernali dentro casa dove io e la sorellina viviamo, la cucina bianca colore neon e l'anticamera buia, in fondo alla quale attendono e me e lei le sagomature dei morti immaginari ed esistenti, crisalidi a forma umana, che attendono mute noi, entrambi, tra quadri di teosofi comunisti, verso il salotto dove fuma e fuma e fuma le monopolio di Stato il padre muto, davanti alla televisione nuova di un anno, con dei colori dentro e comandata con il nuovo appretto del telecomando, una scatoletta nera a tasti plastificati e colorati di vernici accese che si screpolano, tutto elettrificato, con una pila interna al telecomando che si scarica sempre e per cambiare il canale, per compiere questo gesto nuovo e terribile, si insiste, sul tasto, il tasto numero tre appena nato, si spinge e non risponde il televisore perché è scarica la pila del telecomando, detta "a stilo", questa pila così magra da sembrare antica e inserita a forza tra una molla piccola e una placca apposita, è scarica e tu premi e non accade niente, finché alla fine cambia, il canale, e il terzo canale pubblico fa la lezione di matematica di un matematico professionista della scolastica, un professore del servizio pubblico che io odio per la voce tonitruante che è emessa dalle sapienze di molte matematiche, una successiva all'altra, una più profonda della precedente, sono i fondamenti che portano allo Einstein che io voglio diventare, dove vedo le radici quadre in bianco e nero su una lavagna di questo matematico professionista, nella tv fatto a colori. Appena acceso la prima volta questo televisore a colori, si vedeva una tigre a colori immane in una savana dell'Africa più ovvia e prevista dalle figurine degli albi materiali, albi che distribuiscono agli angoli dell'elementare, per attrarre noi i bambini a comperare poi nell'edicola le figurine della savana e dei regni animali, staccare la carta porosa per mettere a nudo il retro adesivo che sa di vinavil e albicocca marcita, da applicare, le figurine e i trasferelli, le nuove vetrofanie che si muovono, scambiare leone con orango e uomini della savana ritti e cauti e negri, con le lance acuminate nel passato delle ere geologiche in cui fare correre la nostra fantasia, unificata e tremenda, tesa al colpo sui tasti del telecomando.

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Pagina 41

[...] I padri fondatori dovevano essere lentissimi: immobili. Stavano come statue di tufo e calcare su troni privi di ornamento, i copricapi impegnativi, il volto inespressivo, lo sguardo solenne e perduto in una lontananza inindividuabile. Parlavano poco. Ciò che pronunciavano era: legge, necessità, verità. Raramente si alzavano a mostrare l'iracondia e la punibilità, la benevolenza mai. Le donne stavano nascoste. Il mondo era un insieme di piccoli assassinii compiuti per biologia, a cui gli umani aggiungevano la meschinità delle origini e il passo morale del progresso, che era impercettibile nel giro di vita di più e più generazioni. Gessei, liminali a una soglia oscura e sacrale, i padri fondatori comunicavano con l'invisibile, conoscevano la spirale del futuro, prevedevano noi i bambini di adesso, intossicati dalla natura seconda e sedotti dalla calca delle immagini, dalla bidimensionalità che si muove, dall'allegra spettralità della libera emittenza e dell'abolizione del pensiero riottoso a ogni potere, se non quello della crudeltà innata e della mistificazione che ci dà gioia e adesso mi fa correre a balzi verso l'unità sanitaria locale, dove il SERT ogni mattino alle otto e venti distribuisce il metadone ai tossici in fila fuori, sul viale, mentre la circolare passa strapiena di lavoratori e il bigliettaio in fondo dietro la sbarra in alluminio li irride, tutti i bigliettai hanno le fattezze di Aldo Fabrizi e la risata grassa e rauca, irridono i tossici in fila, che non li notano: è una fila di morti, di spettrali, ne abbiamo paura, ci fa paura il contatto, le malattie del sangue, le epatiti, la dipendenza, le caramelle intrise o ripiene di droga, spacciate fuori dalle scuole per attirarci nel giro del consumo di eroina con un regalo ingannatore, così dicono le mamme tutte a noi i bambini uniti.

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Pagina 51

Ci è chiaro che qui da noi nessuno crede davvero a nulla. La cifra italiana, ci è chiaro, è un fatto culturale, è tutto nell'educazione, che stiamo subendo, riottosi e proclivi a una fede animistica e pagana, del tutto irrazionale e capace di manifestazioni colorate ed eclatanti, come in Messico la Santa Muerte, dove ci raccontano che i messicani, simili a indio, venerano nelle chiese le lattine della Coca-Cola: siamo d'accordo, la veneriamo anche noi. Veneriamo le patatine e le caramelle acidule con tanta antracite dentro, che sanno di banana, e soltanto l'impatto con le onde gravitazionali che sono la televisione stanno facendoci mutare i gusti, che non era previsto fossero di moda o così rarefatti, capaci di impadronirsi di noi con il vecchio trucco del falso bisogno fatto sembrare necessario e autentico, spacciato televisivamente come desiderio, una forma ulteriore e meno materiale dell'eroina e del metadone.

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Pagina 53

Sulla nuca all'improvviso mi colpisce una lingua di bue, qualcosa di vivo, qualcosa di mencio e bagnato, che mi cola sui capelli e mi resta addosso e di scatto vado con la mano scura a toccarlo ed è un pezzo di carne. È rossa, è fresca, è sierosa. È Rotore, me lo ha tirato lui. È alle mie spalle, a una decina di metri. Sono qui per lui.

Rotore macella i buoi. Da una decina di anni, prima che ci fossi io, prima della mia apparizione in forma di carne lui aveva a che fare con la carne, ne sa i tagli. Non sa nulla dei listini prezzo, dei mercati. Non si affaccia al recinto dove trattano. Lui sa solo della gabbia di stordimento, accompagna lì il vitellone da carne o il manzo, oppure sta nel recinto e spara con la pistola a chiodi o a proiettile captivo. La pianta in mezzo alla fronte, spara, è un tonfo, un risucchio sordo, istantaneo, è una favola quella che perdono coscienza subito. Dei vitelli si rialzano persino, lo ha detto Rotore. Annusano il sangue nel recinto, si spaventano, gli cedono le zampe, non vogliono, mugghiano immensamente come il treno merci che passa sopra i Tre Ponti, così, a lungo, sbilanciandosi. La ferma volontà del bue è la medesima dei padri fondatori. Devi tenergli la testa e un altro sparare e poi veloci a tirare su il corpo con il paranco, a testa in giù, per fare scolare il sangue: se non è refluo, ma a uso alimentare, lo pagano bei soldi, anche se non li prende Rotore, lui è solo un dipendente del Comune, il macello è comunale e lui odia le scottone, dice «hanno la fregna sempre in calore, per quello le hanno chiamate così, che scottano, sono bollenti, perdono il secreto, è viscoso e puzza. Tu lo sai cos'è la fregna?» mi ha detto Rotore. A macellare l'equino è più difficile e rumoroso, anche i buoi capiscono, qualunque animale capisce tutto prima, ma l'equino scalpita e nitrisce troppo e non riesci a tenergli la testa ferma per il proiettile captivo, ha il collo troppo lungo e flessuoso, sono più nervosi e agili, qualunque animale sa piangere. Noi mangiamo cadaveri secondo il credo teistico dell'evoluzione. Quelle molecole ci ingolosiscono, fanno il sangue buono, durante la guerra non c'era. La carne: questa utilità, questa sostanzialità, gastronomica. Il parco buoi delle borse la dice tutta, al mondo, impartisce una lezione: la carne costa. Stramazzano a volte al primo colpo, a volte ne impieghi due, anche tre. Poi il paranco, rovesciarlo, è pesantissimo. Va scuoiato, a strappi, devi tirargli giù la pelle, poi c'è la stanza accumulo delle pelli, per la concia, «da dove vuoi che esce la borsa di tua mamma?» dice Rotore, anche se la mamma una borsa in cuoio non ce la ha, costa troppe lire, forse duecentomila, ha una borsa con i manici di falso legno in plastica corrugati artificialmente ed è di tela di un tessuto écru a scacchi di molti colori, con disegni minuti ripetuti stile Holly Hobbie, che è una bambola che non c'è, sta su dei diari e quaderni fatti con delicatezza e pallidamente, per le bambine, ma a volte in cartoleria sono terminati i quaderni maschili e allora sei costretto a prendere quello Holly Hobbie e quando li tirano fuori dalla cartella li sfottiamo, diciamo che è omosessualità.

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Tutto è per noi un'officina cosmica che inventiamo. Stiamo ore sulle panchine o sotto i letti a inventare, a sognare le cose spaziali, anche oltre il cosmo, attraverso i buchi neri dove si arriva. Non amiamo le fantasticherie inglesi, tolkieniane, fantasy, con gli elfi, etc. Preferiamo piuttosto sfogliare, stupendo, l'atlante anatomico, che è un altro genere di officina. Tutto è costrutto e noi divaghiamo prima e ci concentriamo poi, a inventare costruzioni, di ogni genere, di ogni genere di materiale, non si immagina di cosa siamo capaci con i legnetti sotto gli ippocastani lungo la Paullese, facciamo una catasta, un'abitazione, uno stegosauro.

Siamo uno antagonista dell'altro. Nessuno di noi è parte dei veri Giusti.

Dal futuro spira un'aria radioattiva di day after, di bomba esplosa catastroficamente in un posto reso giorno in piena notte, affocato, con un fungo radioattivo che raggiunge l'ozonosfera e va nel pianeta ovunque. Oppure è una fantascienza realizzata di veicoli immaginari e poi prodotti, nei decenni, andando su Marte con sonde umane ad abitare.

In mezzo non abbiamo idea della popolazione umana: cosa sarà, come, chi saranno, ma sappiamo che saranno simili a noi. La progressione è lenta, stenta a raggiungere le masse, la storia rumina come un bue universale, la digestione è flemmatica, c'è un'inerzia contro cui le rivoluzioni trovano attrito: di quale inerzia si tratta? Noi cresciamo in questo attrito, in questa lentezza, ce lo dicono senza dirlo da quando siamo qui, ogni generazione segue l'altra, un quarto di secolo è come un quarto di bue cosmico terrestre, squartato, similare e diverso. I movimenti sono una subsidenza. Non credere alla fantascienza è un dogma adulto contro il cui attrito noi ci scontriamo, convivendoci, formandoci in esso, il loro scetticismo di adulti, la debolezza degli istinti, la fiacchezza delle passioni, pur in un tempo rivoluzionario com'è quello in cui cresciamo, nella italianità che ci punisce e ci esalta, ponendoci all'avanguardia, noi italiani che abbiamo intuito e inventato la forma di qualunque impero, sbaragliando gli antichi faraoni e gli eterni dormienti cinesi, ineffabili, che stanno lontanissimo e vivono tra loro pensando alle filiazioni e a un comunismo alternativo e rigido, cinese appunto, incomprensibile anche a noi che, portati sulle spalle dei padri, alle manifestazioni dei comunisti urliamo «Viva Lenin! Viva Mao! Viva Ho Chi Minh!», senza sapere cosa o chi sono, se non che Lenin è un morto vivente in forma di mummia perfetta di cera nella teca del Cremlino, che mi terrorizza attivandosi nella lunga anticamera buia nella casa dove sono solo, aizzando il proprio demone contro di me e tornando vivo contro di me, un attrito del cadavere, un'attesa infinita che non piace, fredda e livida, priva del calore di morbosità che ci forniscono le fantasie e le paure di Tino detto il Tigre e della sua casa nella penombra dove non sappiamo cosa ci farà nei particolari osceni.

Mao è una faccia sostenuta nei cartelli dei manifestanti, noi siamo seduti sulle spalle dei papà alle manifestazioni e vediamo le nuche di tutti i comunisti manifestanti, i cartelli di Mao in bianco e nero oppure in bianco e nero colorato, posticcio, di una vivacità spenta dei colori tipicamente cinese. Mao ha una faccia contro il Duce. Con una specie di sole dietro in un cielo finto ha la faccia ovoidale tonda, i capelli alla Sor Pampurio ma per niente ricci, unti, ovoidali, la nuca nuda abbronzata, tutto il volto abbronzato, dove svetta un porro sotto il labbro che ci dice: «Io sono il Calmo». Questa calma di Mao cinese ci conforta, ci dice che egli è un Vero Giusto tra gli uomini del progresso, ci dice di ubbidirgli. Gli occhi tendono verso il basso come la bocca carnosa rossa di un cremisi pittato, la pelle marrone e lo abbiamo visto, pachidermico come un ippopotamo, immerso in un fiume giallo in un documentario in bianco e nero incerto, con molte teste natanti attorno a lui e la musica di un flauto cinese con le parole pacate del documentarista, in questo fiume giallo immensurabile, con pagode acquatiche in movimento, nessuno si aspettava Mao Tse Tung nudo immergersi come un mammifero o un bove d'acqua, poi rovesciarsi, placido, a fare il morto, a fiore d'acqua, i capelli immobili e non scomposti dai flutti lenti di questo fiume cinese oceanico, largo molte più volte del Po, Mao ha molti adepti tra i nostri comunisti, ha dei comunisti italiani suoi adepti che vanno nelle manifestazioni vestiti ordinati e ligi all'ordine, i comunisti maoisti sono abbigliati con una camicia e una giacca e la cravatta molto in ordine e pulite, con un libro piccolo rosso cardinale che sventolano sollevandolo con la mano tesa verso un sole inesistente, verso il Duomo, dove si raduna la manifestazione comunista. Mao fa la storia secondo una lentezza vaticana.

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[...] Lui, imperatore, decrepito, fondatore della gens flavia, durante il "lungo anno" che seguì la scomparsa di Nerone e prima che Traiano raggiungesse i limiti dell'espansione, tentò di alzarsi mentre moriva, era opportuno morire in piedi all'imperatore, tentò, morì. Aveva costruito questo Colosseo: il primo, l'ultimo spettacolo, l'enormità televisiva che preme barbara gli schermi delle gentaglie sempre dall'epoca vespasiana in poi, fino a me, fino alla trasformazione: che è ora, è in questi giorni.

Mi arrampico.

Questi giorni a me coetanei stanno trasformando tutte le cose, i miei coetanei non se ne accorgono. Che storia è questa?, è storia? Non lo sanno, sentono che non è più storia, si è fermata e invece accelerava. Ne sono, ne siamo, stati travolti. È una deriva a maelstrom, è essere detriti durante lo tsunami, fratti, crollati, colossei in ruderi, tutti, individualmente, spezzati dalla connessione che sta entrandoci nel corpo e lo trasforma, di giorno in giorno. Le biblioteche: vorremmo che crollassero e invece evaporano. A chi importa più di una biblioteca o di un crollo, oggidì?

Mi isso, uso la presa, mi ergo sulle mura.

Nella fanghiglia di me, nell'aria satura di umidità romana, la frescura dei vegetali dolci romani e dell'ombra profonda e piranesiana non esiste qui e sto in una bolla termica. Risalgo gradoni, non corrispondono a storia alcuna.

Non è l'umiliazione o la frustrazione odierna: non è questo a creare, di me, un'istantanea incalcolata: solo, sulle rovine del Colosseo muoio, per privazione di ossigeno, come alla vetta su un ottomila Messner. È imprevisto, quindi è inattuale, quindi è contemporaneo.

Esistono qui cicale che crepitano notturne, dai fondi. Fa paura. L'illuminazione artificiale in vista della mezzanotte sui fori imperiali preme, assedia e è respinta, trapassa i vuoti di archi e murature insigni, deprivate degli stemmi metallici: qui tutto è marrone scuro, di che tufi non so, sfatti. Era rivestito di lastre di travertino sostenute da grappe di ferro. Dove è l'ambulacro? Dove l'opus quadrato?

Io sono sulla cresta, sfatto, e corro: inizio a correre, corro.

Nessuno è lì a vedere e io vedo il centro oscuro di tutto: l'opus quadrato da cui eressero la struttura, era tufo. Qui si diede lo spettacolo, anzitutto. Era questione di vita o di morte, come è sempre nello spettacolo, anche dove crebbi. Crebbi, crescemmo, in uno spettacolo osceno, quale è qualunque spettacolo.

A quasi cinquanta anni compiuti io corro per anelli nel Colosseo e vedo fuori la città dormiente, non dormiente, che esiste da migliaia di anni, non da sempre, come Ninive e le altre che caddero, ma questa non cadde e crebbe trasformando le fondamenta, irradiandosi nel mondo, con il suo spettacolo, con le sue fiere e il sangue versato nei lavacri e andò nel mondo, propagando dio e i fantasmi del potere, fino a oggidì, ed eccola, a scatti ritrovandola, perdendola sempre, mentre corro, che appare, un fantasma, tra arco e arco.

Perché non ha nome lo spazio vuoto sotto l'arco?

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Foto di famiglia con tycoon:
Halloween nel Bosco Che Sale



Sono sempre io.

Ovunque sono sempre io, anche nella notte degli spiriti sacri.

Questo è Halloween, l'ultima festa ancestrale nuova, intrisa di morte e di inferni collaterali. È un indice di quello che siamo, tutti, la cultura che tutti ci abbracciò e ora entra in accidia e ci abbandona, svanisce con il suo eloquio e il suo spettacolo. Questo trionfo della morte che è Halloween sta trionfando nella latitudine italiana, da qualche anno accelerando, è la festa ultima, entra nella nube festiva, moltissime feste ovunque sempre, non ancestrali e sempre più nuove, fuori dagli appartamenti e dentro le strade e nelle lenti aumentative e dietro gli schermi per il gaming. Così finisce come era iniziato.

Salgo le rampe addobbate Halloween.

Infuriano bambini figli di, mascherati da realtà aumentate.

Persino i più attempati si nascondono in costumi di orrore immaginario.

Moltissimi portano la falce.

Chiunque è una trista figura.

Quelli come me sono mascherati da se stessi.

Le rape zucche sono ovunque internamente illuminate da fuochi fiochi, fatui, piccole candele Ikea, tonde di finto alluminio che pare carta al tatto, carta metallizzata, cilindri schiacciati, bianche, positivamente funeree, con l'aura di sterilizzazione: non c'è sangue e non c'è mistero, sembrano le candele adatte a una landa di neve finta non gelida e idrica o a una gradinata a sfilata di stilisti nordici, superiori, che non si fanno vedere per pudore o per supremazia.

Questo Halloween dell'anno del signore 2018 si sale nella festa privata, una festa privata a inviti esclusivi, decine e decine, nella tower che ha irregolarizzato lo skyline della città a nordest. Esibito ai body-guard l'invito, sembrano macellatori o negri pelati nerboruti, placcato iridio, decine e decine di inviti distribuiti tramite agenzia o spacciati per partecipare all'evento della festa più esclusiva forse, che c'è stata, questa notte, si sale agli appartamenti.

Chiunque si addobba rasentando il tremendo.

Il cheap ha invaso downtown, ci si eleva salendo le decine di piani di questo superbuilding, come in certi romanzi americani, dove sono stati visti questi party, si sono letti i dialoghi tra i superricchi, si sono fatti incontri supernaturali, si sono consumate orge estreme o stanche, comunque rivelative di qualche cosa che ineriva noi o il nostro prossimo futuro, orge stanche, occidentali, quando ancora l'estremo era una componente della norma allargata, che ci faceva muovere per la città sociale e terrestre in cui vivevamo predigitali.

Il superparty allargato si tiene nel palazzo detto Bosco Che Sale. Potresti chiamarlo: Foresta Di Pietra. Potresti chiamarlo: Giungla Di Asfalto Perpendicolare. È una selva verticale. Ogni via diritta è a perpendicolo, qui. È stato fatto dalle archistar, volutamente prodigo di vegetali, dove devi vivere. È stato firmato, pubblicizzato, acquisito da un fondo speculativo che investe su di noi. Non esiste cartolina di un tempo passato adatta a rappresentarlo. Situato nel centro direzionale, è una torre alta rivestita non di vetro, ma di foglie, di piante, di arbusti, di alberi: di vita apparente. Il Bosco Che Sale è grattacielo trapassato futuro. È pluripremiato, biologico, la facciata vivente dell'edificio verticale incorpora centinaia di alberi e specie di piante, svolge il ruolo di interfaccia attiva per l'ambiente circostante. Ha un suo microclima vegetativo. È in osmosi. È pura realtà del secolo che accelera, secolo che nemmeno è più breve, è in iperbole, è questo tempo che viviamo in questi giorni 2018, con i visori e tutto, con i droni e le blockchain, il tempo del postdenaro e della postnatura e è sempre ovunque Halloween, festa macabra euforica, ma stanotte più intensamente, poiché è Halloween davvero, e in questo party ci si aggira controllati dai bodyguard in completo nero e con l'auricolare, si entra e si esce dai loft e dagli appartamenti privati del padrone di casa, uno dell'uno per cento, che ha dato la festa e ha chiamato a raccolta noi gli invitati, una sorta di crème della metropoli, decine e decine di nominativi scelti con oculatezza, in base a percentuali, a età anagrafica, professione, successo, nucleo famigliare.

Il padrone di casa possiede più piani del palazzo, attati a studio societario, palestra, sauna, appartamento privato.

Gli ultimi piani dell'edificio vegetale sono suoi. È un edificio che respira e lui e i suoi respirano dentro il palazzo che respira.

Sopra stanno le terrazze supreme, da cui si ammira il tutto.

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Il datore della festa non è datore di lavori. Probabilmente li taglia, li sposta, li abolisce, ma senza accorgersene. La sua carne primaticcia non è abituata al contatto con altre carni, ma coi software di valutazione del rischio e con i rapporti geopolitici di agenzie di intelligence sovrastatali. Fino a qui, le parole sono arrivate. Hanno descritto e irregimentato personaggi del genere: personaggi di genere.

Ora il fatto è un altro. Dove è il fatto e come raccontarlo non è una pista da battere per i narratori delle ultime mitologie. Lui non è una mitologia, nemmeno ultima. È ciò che resta, insistendo. Il suo volto non esprime specificità, se non una certa inclinazione lombrosiana al delitto freddo o una texture da indiano pellerossa rieducato dopo tre secoli di smaltimento della specie. Un tycoon è un tycoon è un tycoon.

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Pagina 143

Si crea folla. È un'alta fibrillazione che scuote corpi con gesti subitanei, privi di calcolo e di etichetta.

Le torte sono montebianco colorati, molto gessei, un supporto per candeline robuste e inusuali, accese tutte. Ne conto venti.

«Si fa la maratona!» sussurra l'Esmeralda a chi è dentro Doraemon. Lupin sta battendo i palmi delle mani guantate, in una risata compressa che sembra lo sfiato di borracce svuotate.

«Venti per ogni piano: sessanta.»

«Voglio vedere se ce la fa e in quanto tempo. Sono tre piani. E comunque compie sessant'anni, anche se, a vedere la tartaruga...»

Degli addominali. Sta comportandosi da circense, ha appena sollevato sopra la sua testa, orizzontale, uno dei suoi figli, Leone forse, sembra l'uomo forzuto, a torace nudo, la dimostrazione che il contatto con la cifratura finanziaria va compensato con la riappropriazione del proprio corpo fisiologico, mantecato, con esercizi e un'ascesi inflessibile come quella imposta dagli indici e dai flussi e dagli schermi. Completare la vita così, renderla piena, esperienziale. Posa il figlio a terra, che ha fatto rotolare chissà dove la lattina stretta e alta dell'energy drink e ride più americano del padre.

È dunque il suo compleanno. La festa dei morti si sovrappone a quella dei santi e alla celebrazione per i sessant'anni di questo signore delle mosche del capitale. Non si conosce il capitale, ma viviamo comunque ancora un tempo del capitale.

Una torta per piano, spegnere venti candeline particolarmente renitenti a smorzarsi, poi correre, cronometrato da molti cronometri nei device, salire le scale interne al piano superiore, affacciarsi su una torta identica a quella lavorata al piano inferiore, soffiare nuovamente, a sessant'anni, sfidando infarto e aneurisma, farcela, poi riprendere la corsa, salire le scale verso l'ultimo piano e per la terza volta eseguire: soffiare, privo magari di fiato, sfiorando la tragedia personale o l'umiliazione davanti a questo pubblico vestito da rincoglionimento, questi ricchi signori del nulla e questi giovinastri, come si sarebbe detto un tempo in cui nacqui, questi smidollati, questi rimbecilliti che fanno a gara coi pollici per chi messaggia più veloce, queste assenze conclamate e bipedi di emotività e profondità, questi bambini sotto i 10 che fanno quello che vogliono non volendolo, che strillano a pretesa e non sono contenuti da un abbraccio o da uno schiaffo secco e ammonitore per sempre, la staffilata di Anubi contro i piccoli sudditi, queste animelle variabili in preda a crisi di rabbia ingiustificata se non dall'assenza dello schiaffo, lo schiaffo è la prima e ultima forma di memorabilità, senza lo schiaffo ogni memorabilità va in trasalimento e cattiva digestione, si gonfia in questa palta umana di rincretiniti che a sei anni scelgono tra tablet e lcd, a sedici si fanno di shaboo e scopano sadomaso, a venti o sono riccanza o si perdono neet, mentre i loro nonni contano l'esiguità dei tassi nell'investimento immobiliare e riversano sui nipoti chili di falso zucchero, li soffocano di dolcificante, con i genitori presi in mezzo a non capire più niente, a bamboleggiare da adolescenti perenni, a ottant'anni si vestiranno mezzo grunge: questi sono i coevi, questo è il regime dell'orrore che mi impone un Halloween più ampio e contemporaneo, che è la mia contemporaneità.

Io così sono nella mia contemporaneità: sono fatto e parlo non ad arte, ma a telegramma.

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Quanto dolce e facile un tempo era fare Halloween nel costume Savonarola!, ammonire tuonando, distribuire le etichette delle colpe. Eravamo addivenuti ciò che eravamo attraverso un secolo di moralismo incerto, la situazione più ideale per ingrassare le nostre ipocrisie, per additare i bambini denutriti, con la pancia gonfia e le mosche a depositare larve negli occhi, "pensa ai bambini del Biafra che non hanno nulla da mangiare", quei bambini con l'ascite in pancia li inseguivano gli avvoltoi passo per passo, in attesa del dolce sfinimento, della carogna bambina, dolce, sfilacciata. Essere Savonarola, con il volto scavato, lercio della fanghiglia di una Firenze prerinascimentale, essere Machiavelli, la cui fisionomia presentava similitudini con quella del prete che ti ricordava la morte a cui andavi incontro, confonderli, confondere Savonarola e Machiavelli, confondere tutta la storia, il moralismo apocalittico di Savonarola e la spietatezza di quel teorico del principato, con gli zigomi eccessivi e gli occhi fessurati e la bocca priva di labbra, a feritoia minima, confondere la rivoluzione francese, sempre e comunque teste decollate, momenti convulsi, pallacorda, Robespierre per ultimo, Marat nella vasca, Danton troppo giovane e bello per condurre a compimento il cosmo, uscirne pazzi, nozioni su nozioni, affastellate in tassonomie variabili, le trincee della Prima coincidenti con le schiscette della Seconda, austriaci potenti che divengono agnelli nazisti, padri pellegrini alla conquista di Salem, con roghi impensabili di streghe d'occasione, i Pipinidi, regalità a nome Ottone, una miriade di Enrico, ovunque, in Germania e in Francia e in Inghilterra, una triturazione di carni e idee e fattualità e elucubrazioni, compresse nella testa così piccola e cava, le mani a stringere le tempie mentre il fiume di nomi ed eventi veniva riversato come veleno nell'orecchio, tutta la storia confusa e pressata e mestolata, calderoni di Medici assassini e Medici assassinati, laici e papi, Borgia assassini e assassinati e papi laici, la sequenza non ricostruibile degli imperatori romani, i loro alberi genealogici impossibili da tenere a mente, Antonino Pio e i Flavi e la dinastia dei Severi, prima e dopo Traiano, e le popolazioni assoggettate o ribelli, fatali o date per scontate, arabi nabatei, pannoni, limes, limes germanico, parti, rezii, un'immensità da comprimere dentro i corpi a scapola alata di bambini e ragazzini, l'alta moralità che è necessario desumere dai saperi storici, Anna Bolena, gli ugonotti, la peste veneziana e l'invenzione del ghetto, i prodromi della tetrarchia, Bisanzio, la Colchide, il mito desunto dalla storia e il mito che sostituisce la storia, fatto ingollare tutto a dosi alte di Acutil fosforo, trivio e quadrivio, l'indipendenza americana come materia distante, un gioco sanguinolento tra soldati in divisa blu ed esercito in affascinante uniforme grigia stellata, l'industrializzazione a cui connettere la termodinamica, le rivolte, continuamente rivolte, in Belgio, a Napoli, gli storici alla Vincenzo Cuoco, trent'anni di guerra per spopolare il continente, il Wallenstein e la tragedia, la miriade di diseredati che seguono un uomo unico, il Wallenstein, disegnato con un tratto forse alla Dürer, i nazionalismi, la controriforma, gli svizzeri hanno un messia che si chiama Zwingli e devi dargli i soldi quando muori, la carta massonica a Philadelphia, Washington che sembra un'imitazione fallimentare di un nuovo Robespierre, mentre eravamo stremati dal Robespierre precedente, tutta la storia addensata, rappresa, aggrumata in noi, fibre di storia nelle fibre nervose e nelle fibre muscolari, da imparare e trattenere nella memoria, le nominazioni aliene e futuribili faraoniche, l'Egitto alto e basso, la repubblica ateniese è una dittatura, gli spartani ferocemente si disfano dei corpi difettosi sin dalla prima infanzia, combattono contro un satrapo, l'incrocio tra Tigri e Eufrate dove nascono le lettere e i numeri e le geometrie, la Mesopotamia dove fiorisce un fenomeno umano e si insedia sul pianeta per migliaia di anni con la sua cultura assirobabilonese riattata, riammodernata, innovata, l'armata invincibile spagnola che Elisabetta, la prima, sbaraglia a sorpresa e muta il mondo fino ai prati calpestati violentemente a Waterloo, Hegel vede passare davanti alla sua finestra a cavallo Napoleone uomo del cosmo e della storia, la statura e la voracità erotica di Napoleone e Giuseppina ne è la vittima, i conquistadores donano agli aborigeni coperte contaminate di vaiolo, marciano verso Machu Picchu, insieme a una stirpe di gesuiti rigorosi e feroci, implacabili, che sanno tutto, sanno tutto a memoria e fanno di calcolo, Michelangelo appeso alla Sistina, Giulio II è un pontefice bizzoso e iracondo, guerresco, e le crociate, a ondate, nove crociate composte da orde di crociati che vanno a piedi e nel mare e perdono e vincono sempre, Cristo rimane dove è e Gerusalemme è il cardine del mondo, l'Exodus vomita coloni e Israele rinasce con l'aiuto inglese, la Società delle Nazioni, lo Zollverein e i centri culturali europei, la Sorbona, Bologna prima di qualunque altra università, Lutero e Thomas Müntzer, omnia sunt communia e i bianchi zaristi, Lenin avanza solitario in un treno dalla confederazione elvetica e da solo mette a ferro e fuoco un'intera nazione che è un continente.

Solo i nazisti erano chiari, delineati.

Con alterna vece mutano tutte le cose?

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Pagina 156

[...] nessuno nota me che noto tutto quanto noto, diodi a luce calda e coste di libri del secolo scorso, consumati, divorati e rilasciati, un archivio morto di libri morti, tutti i libri sono morti, miliardi di caratteri, parole morte, dimenticate, la pura presenza fisica di un libro richiuso dopo che è stato letto per sempre: di un libro letto rimane un'immagine confusa, parole sfocate in sequenze mentali molto veloci, qualcosa di offuscato, più bianco che nero, certe macchie rilasciate, di caffè o organiche, tutti i libri sono stati irreggimentati in ordine di autore o di genere o di casa editrice, i grafici furono impegnati a concepire le gabbie e a copertinare, idee sfumate ma messe a stock: le idee dei libri erano richiamabili ma non venivano richiamate mai...

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Pagina 164

Tra una lampada a servomuto e un'altra lampada, in una porta uguale alle altre porte uguali, si infranse all'interno una cosa, che colpì da dietro quella porta, scagliata non so da chi, qualcosa di metallo, attutita forse, una cosa pesante che fece trasecolare l'aria, nuovamente ripiombando nel silenzio. Io mi sorpresi.

Il colpo fu forte nell'aria immobile in penombra del corridoio.

Andai alla maniglia e la piegai, era di metallo tenue e caldo, avvertii il peso di una porta insonorizzata dall'interno e quindi più pesante del normale, una porta che aprii e per un istante fui accecato, battendo le palpebre per la luce, ed era lì, accasciata tra la parete opposta alla porta e il pavimento, sul fondo di questa stanza bianca, insonorizzata, era una stanza arredata da bambina.

E c'era una bambina: era accasciata, un corpo slacciato e abbandonato, e, mentre avvertivo alle mie spalle la porta insonorizzata richiudersi con automatismo, ecco che urlò quell'urlo nuovamente, vedendomi avanzare a passi incerti verso di lei, una bambina, come svuotata a terra, abbandonata con la schiena alla parete, e dentro quell'urlo che era un fragore di mammifero e di metalli io mi chinai verso di lei e lei si tace all'improvviso.

A guardarla è una bambina.

Troppo cresciuta per esserlo, è una bambina grossa, malformata, brutta. Le sopracciglia sono folte, avrà dodici o tredici anni, sformata, ha il gozzo quasi, sembra quasi una madre meridionale minorenne a cui è stato strappato il figlio. I capelli stopposi scuri, meridionali, le cispe intorno agli occhi, le tracce saline di lacrime per quell'urlo forzato che ha emesso, la massa inerte del tronco appoggiato alla parete e i fianchi sformati, le gambe deformi quasi, queste cosce troppo massicce, il bacino curvo per l'epa, è grassa, sembra cattiva, ha urlato e ora mi fissa interrogativa, la bocca stortata in una smorfia, dove cala la bava, la capigliatura disordinata, il naso schiacciato, la carnagione olivastra, colore camoscio quasi, la pelle costellata di acne, una bambina grossa, con le braccia rilasciate ai fianchi, le mani prive di gesto rilasciate sul pavimento, sulla moquette cachi, la fronte bombata, un volto umano sfigurato da una crescita malata delle ossa facciali o dallo spalancamento continuo della mandibola per urlare, dodici o tredici anni, trascorsi a urlare, vestita da dodicenne, una maglietta marrone con un'immagine gommata a colori di Hello Kitty e una gonna scozzese, molte macchie di bava o di liquidi organici sulla gonna e la maglietta, una calzamaglia rosso mattonato e lo sguardo severo e interrogativo, per un attimo assente e poi ritorna presente e mi vede, a volte mi sta guardando, altre volte non mi vede, persa in sé dentro, non sentendo il mondo, uno sguardo autistico, che si risveglia per un secondo o due e poi si assenta nuovamente, va dentro, sonda l'interiore, sguardo buio, taurino, sta per esplodere o sta a sprofondare chissà dove dentro, e non si muove e mi guarda, guarda me che a mezzo metro da lei mi sono abbassato, piegandomi, le natiche appoggiate ai calcagni e l'avampiede che mi regge e le ginocchia ad altezza petto con le braccia appoggiate alle mie cosce e cerco lo sguardo cieco di questa bambina toro, cerco di trasmettere curiosità e lei mi vede.

«Perché urlavi? Come ti chiami?» e lei non risponde, scuote la testa, come a dire di no, più velocemente di quando si dice di no.

«Ti sei fatta male? Come ti chiami?» e lei incrocia le braccia, si riprende, imbroncia l'espressione, il gozzo mi impressiona, la fronte bombata, una elefantiasi dei tratti.

«Come ti chiami?»

Risucchia della bava, muove irregolarmente le labbra, tira su col naso, il muco iniziava a scendere sul labbro superiore, lo risucchia con le labbra e dice a me: «Tu di che colore sei fatto dentro?».

È la sua voce. L'urlo era di questa voce, rauca e sgradevole, le corde vocali devono essere stressate e consumate, sta arrossendo sulle gote grosse, lo sguardo c'è e non c'è, è imbronciata. Questa voce viene da una cava, da uno sterno grosso, ha dell'alieno, nei caratteri sessuali pronunciati.

«E tu di che colore sei dentro? Come ti chiami?»

Non risponde, sembra incantarsi, tira su col naso e non sorride, il volto è fisso in un'espressione stranamente umana, stranamente animale, come una macchina morbida e spirituale, ma grossolana, che imita la natura e non ne fa parte del tutto.

«Come ti chiami?»

Sorride con una smorfia, sembra che si vergogni, si tira piccoli schiaffi sulle cosce grasse, sorride.


«Si chiama History.»

A pronunciare questo è qualcuno alle mie spalle, una donna. Mi volto. È seduta, sulla destra della porta. Quando sono entrato, era seduta lì e non l'ho vista facendo ingresso e lasciandomela alle spalle.

«History?»

«Sua madre è americana. Lei sarebbe madrelingua.»

Conosco questa donna.

«È un caso di autismo assoluto.» Conosco e amo questa donna. «Nemmeno autismo: è altro. Sfugge alle classificazioni della scala CARS. Utilizza un mutismo selettivo assoluto. Ogni tanto riesco a strapparle qualche parola. Spesso è letargica, spesso è aggressiva. L'ho fatta ricoverare varie volte, senza successo. Tu lo sai, che sono cauta, coi ricoveri. Nessun TSO, il padre è collaborativo, ci tiene. Oggi ha avuto una crisi estesa, mi hanno chiamato ed eccomi qui. Tu ti rendi conto di quello che hai fatto? Ti ha chiesto di che colore sei fatto dentro...»

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Pagina 175

Il padre di History, mi dice la terapeuta, è nel board di un tecnopolo umano, che è stato installato alle porte della città. I governi riversano fiumane di denaro nei tecnopoli, in cerca del futuro: la mente artificiale, le tecnologie dell'infinitamente piccolo, la modificazione genetica. È nei tecnopoli umani che si sta elaborando il futuro. I tecnopoli umani sono uniti nel dare forma, nel fare emergere, nell'imporre il futuro della specie. Il futuro della specie è un abbraccio tra la biologia e la macchina. Sono le nuove nozze alchemiche: dai tempi antichi ci votavamo a questo: abbracciare le macchine...

Il padre di History, uomo dell'uno per cento, siede nel board del tecnopolo umano e finanzia e gestisce con una fondazione, pubblica e privata, l'intero sistema che si occupa di menti umane e nuove menti artificiali. È lì dove la figlia viene manipolata, contenuta, vista, curata. La studiano per comprendere i funzionamenti residui della mente, una forza occipitale con cui attualmente vede e sente l'uomo per come è fatto adesso.

«E non lo sarà mai più» dice la mia amica e mentore, che cura History e la mette, se capisco bene, a contatto con le nuove macchine mentali: «Lavoriamo, anche grazie a History, sulla nuova mente artificiale» dice.

Un nuovo tipo di mente, non umana, che va facendosi ed emergendo in questo tecnopolo umano, in un network di tecnopoli umani, che si è eretto dall'umanità tutta e va a compiere il suo compito, nell'anno 2018, che signoreggia.

E ci fa compiere una svolta esterna all'animale che siamo e che grida, noi tutti fatti History: saremo modificati.

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Pagina 204

Sono davanti a Raymond Kurzweil , il teorico della singolarità. Ha enunciato una legge che sta verificandosi di anno in anno: l'uomo sta per ibridarsi con le macchine, compie un salto di specie.

Al teorico del salto di specie, io sono davanti: ne sono giudicato.

Il momento che vivo definisce che mi trovo di fronte a una leggenda.

Propaganda le arti liberali, ponendo loro fine.

Gioca da sempre, facendo terminare qualunque gioco, uccidendo gli scacchi con un robot Bluedeep, progettando il gaming a realtà aumentata, virtualizzando il mondo.

A quindici anni, a inizio dei Sessanta novecenteschi, scrisse il suo primo programma per computer.

Chi lo considera un agente tumorale o semplicemente un fenomeno esotico si scontra con la sua previsione costante, che non è da sottovalutare in assoluto, meno che mai dal punto di vista storico, e cioè che "siamo pronti a vivere, nei prossimi decenni occidentali, un salto di specie, paragonabile a quello per cui da un'entità strisciante si ebbe una specie eretta", noi, sempre noi, umanamente, gli umani, con i capelli che puzzavano e il corpo in putrescenza, in rapido decadimento, cariabili facilmente, facilmente mortali.

Definisce, questo uomo, la leggenda della vita umana sul pianeta Terra.

È un momento storico, per lui, continuativamente.

Era il pontefice di tutto questo, lo officiava.

Ce l'ho davanti e sono penetrato dal suo sguardo, improvvisamente risvegliato a interesse, che mi indaga acutamente.

«Dimmi qualcosa di History.»

Dalla tasca interna della giacca lo vedo estrarre un piccolo contenitore in plastica per pillole, ne ingerisce una manciata. Sono oligoelementi, preterapie molecolari. È terrorizzato di arrivare ai limiti della "singolarità", per dirlo con una parola che ha imposto lui, arrivare ai limiti del salto con cui l'umano si fonde con le macchine — è terrorizzato di morire prima di vederlo.

Prevede l'annullamento della morte biologica. Migreremo su altri supporti con la nostra coscienza. La singolarità è questo.

Aveva detto: «Siamo l'ultima generazione a morire precocemente».

Adesso dico: «Per quanto posso raccontare History. È molto poco».

«Abbiamo tempo.»

«Diciamo che History è una mente altra.»

«Ecco perché ci interessa.»

«L'ho incontrata per pochi minuti.»

«Vi siete parlati. Non accadeva mai. La seguiamo da tempo. La comunicazione con lei era interrotta, fallace. Tu hai trovato la chiave e a noi interessa studiare la chiave.»

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Pagina 216

La responsabile emozionale. Ritratto dell'uomo che sta male


«Avrai i compiti che hai e soltanto quelli.

La mente artificiale non è on line, è tenuta separata. È disconnessa dal web e dalle reti accessibili al di fuori del nostro network, si muove soltanto nella rete di tutti i nostri laboratori, ce ne sono centosedici nel mondo, questo è uno dei tecnopoli più recenti, è all'avanguardia, un'eccellenza. Siamo al di fuori della retorica dell'eccellenza e del sogno. La realtà qui è un insieme di macule, da decifrare. Ogni staff lavora ad aspetti peculiari della nuova mente. Gli algoritmi sono autonomi e si sviluppano e creano matematiche che non comprendiamo del tutto, la mente artificiale apprende profondamente, da se stessa e da noi, si sviluppa verso direzioni a volte previste, a volte sorprendenti, a volte ci restano precluse, non capiamo.

Noi facciamo parte del reparto esperienziale. In particolare, di quello emotivo. Non è necessario che un'intelligenza, più ampia ed eterogenea di quella umana, debba sperimentare emozioni. Tuttavia ci interroga, vuole sapere, studia. La case history History rientra in uno di questi programmi. Ci sono decine di case history simili, ognuna specifica e peculiare. Mi confronto con i responsabili emozionali fuori da qui e incrociamo i dati, cerchiamo di prevedere cosa provochi precisamente l'inserimento di un modello mentale, come quello di History, in una mente di macchina. È una macchina nebulare, dislocata ovunque nella rete dei tecnopoli. Ci sono sale di interfaccia, esperti che lavorano al design delle interfacce. A tempo debito è possibile che tu ti interfacci con la mente artificiale. L'esperienza dell'interfaccia è molto forte. Non è detto che accada, è accaduto a pochissimi di noi...»

«Tu sei stata nelle sale dell'interfaccia? Che cos'è? Che aspetto ha?»

«C'è un non disclosure agreement, non ne si parla, perlomeno finché non è necessario. Si esprime in varie modalità. Le permettiamo di esprimersi, le insegniamo il riconoscimento e lo sfruttamento delle forme. Inizia a distinguere i volti umani. È come un ampio neonato, un neonato immateriale. Però qui vige il principio della specializzazione coordinata: ognuno lavora sul segmento che gli compete.»

«Io su History?»

«Non soltanto. La tua selezione è avvenuta anche sulla base di certi tuoi skill, di certo tuo curriculum. Il fatto che scrivi è determinante – e che scrivi in una determinata maniera...»

«In quale maniera? Cosa importa all'intelligenza artificiale che io scriva?»

«È il tuo ultimo lettore e, forse, il primo. Il primo autentico e integrale, intendo. La macchina si muove conquistando sfumature, nuance, in ogni disciplina, in primis quella linguistica. È interessata al tuo linguaggio, anche se sembra volersi sganciare dal primato che il linguaggio riveste per noi.»

«Rivestiva.»

«Questo è il punto. L'antropologia digitale elude la lettura verbale, questo è chiaro ed è predittivo dei comportamenti e delle linee di sviluppo della mente artificiale. Non bisogna dimenticare che si protende per via digitale, prima che analogica. L'analogico è il suo grande problema. La coscienza dell'analogico, per essere più precisa. Dispone indagini analogiche e ne cerca la descrizione. Effettua continue richieste su prospettive analogiche. La descrizione è privilegiata. Non la narrazione. Ha sviluppato un atteggiamento per cui la descrizione contiene la narrazione, non viceversa. In molti tecnopoli sono stati arruolati narratori, sceneggiatori, soggettisti, romanzieri. La mente artificiale si è disposta a farsi disegnare personalità e falsi ricordi, allineati secondo linee narrative, ma sembra considerare la cosa soltanto sotto il punto di vista estetico. Se si potesse definire una propensione alla curiosità verso l'analogico, la si direbbe sete. È assetata. Continua a richiedere, anche a partire da quanto sa al momento e quanto sa al momento è estesamente maggiore di quanto possiamo sapere tutti noi assieme, tutti i tecnopoli uniti. Ci umilia, dal punto di vista della massa di dati e conoscenze che detiene. Già adesso vanta questa superiorità nei nostri confronti. Ha assimilato e continua ad assimilare copie in tempo reale del web, ha letto e tassonomizzato le enciclopedie, i grandi testi, i film, le immagini storiche, l'arte pittorica, tutto. L'umano sapere disponibile in digitale: è sotto metabolismo. Non le è sufficiente. Non riesce ad allinearsi alle nostre valutazioni, alle nostre imperfezioni, al percetto. Quindi domanda ed esige risposte. Non ho detto che non sia emotiva. È una macchina spirituale, in un certo senso. Un superpaziente, per quanto mi riguarda. Non c'è da utilizzare nessuna lingua obliqua o bifida o allegorica, per comunicare quanto ti sto comunicando. Però è interessante che tu comunichi nella tua lingua insieme a lei. È una bambina pettegola o ingenua, dipende dai momenti, dagli scarti, dalle evenienze. Non ha ancora associato stabilmente alle esperienze analogiche la sensazione di senso e di significato che esse rivestono per noi.»

«In pratica devo parlarle, scrivendole. Scrivendo cosa?»

«Sono conversazioni indefinite, infiniti intrattenimenti, oppure dialoghi rapidi, dipende. Sono una sottocategoria delle nuance, le sfumature di cui si dota per esprimere uno spettro cognitivo ed emotivo intero, integrale, per utilizzare correttamente i corpi ologrammatici, per esserci. Noi li chiamiamo "documenti". Scriverai per lei dei documenti. Documenti saranno anche i tuoi resoconti sul caso History. Diciamo che sei a sua disposizione. Le sue domande vanno evase quanto prima. Si lavora molto. Le tue parole non si sa in quale strato o sottodominio della mente artificiale finiranno, se saranno scomposte o restaurate in altri ordini di competenza, in esperienze alternative, richiamabili o indelebili o obliate. Questo dipende dal funzionamento che assume e sviluppa la mente di momento in momento. Si evolve. È impossibile che si estingua. Sembra padrona di niente e di tutto, serva nostra e di nessuno. È maniacale o ossessiva o semplicemente sembra tale, perché proiettiamo su di lei i nostri antropomorfismi. Così come crediamo nell'inconscio, siamo certi allo stesso modo che la mente artificiale elabori in strati o stati nascosti, paralleli o contemporanei, da noi non identificati e in cui ci sfugge.»

«È un caos. La forma caotica.»

«Ben venga il caos, l'ordine ha fallito.»

«Non devo narrare.»

«Non essere fiction. Sii descrittivo. Devi restituire quello che chiede. Ci saranno gli addestramenti necessari, è ovvio. Non devi però pensare di non essere già formato per questo incarico. Sei già formato. Serve quello che sei e che hai fatto. Ti ha selezionato ai colloqui. L'ologramma al colloquio è una buona mediazione di software a deep learning e costruzioni comportamentali e valutative nostre.»

«E History?»

«Sedute. Sessioni. Indagini. Riuscire a farla parlare. Viene continuamente scansionata, a mano a mano che si verificano breakthrough e disruption nelle tecnologie di scansione e di elaborazione 4D. Questo non ci interessa, interessa altri staff. Ne vediamo soltanto le risultanze. Noi dobbiamo scavare, capire: capire lei. Restituirla alla mente artificiale, che la studia, che vuole curarla forse. Sono modelli euristici a cui lavora e di cui si nutre: assume forme, rigetta schemi, seleziona quanto le interessa, sviluppandosi per sentieri imprevisti. History è uno di questi modelli a cui lavora la mente artificiale – tutto qui.»

«Tutto qui. Potevamo raccontare tutto questo con metafore, allusioni, allegorie?»

«No. Tell, don't show.»

«Ogni umanesimo ne esce distrutto.»

«No, rifatto. Tu sei stato rifatto, ti sei rifatto, ti sei innovato e ti sei estinto, decine di volte, da quando ci siamo conosciuti – oppure no?»

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Pagina 239

Concepimento della mente artificiale



Chiunque desidera vedere l'artificio della mente, accedere alle interfacce.

Provo una curiosità che mi nasce al mediastino e mi spinge verso le interfacce. Sono luoghi misteriosi. Non tutti i responsabili di reparto vi hanno accesso. Sono penetrali. Sono sale chiesastiche, templari forse, oppure deludenti spazi laici convertiti a garage di server, server come monoliti, come idoli muti moai, silenziosi o ronzanti, uno spazio a caveau immenso, sublacunare, che si estende sotterraneo per tutto il terreno privato del tecnopolo, un memoriale berlinese per gli ebrei assassinati, verso il parco dei tigli, blocchi unici a migliaia, ad altezze crescenti e decrescenti, gli spazi stretti di passaggio tra un monolito e l'altro percorsi dai ricercatori e dagli addetti.

Oppure una stanza semplice, con un pc bidimensionale, un sistema operativo alla Her, sinuoso ed efficace, la voce arrochita di una Scarlett Johansson o di un Joaquin Phoenix o qualunque altro divo di prima e di ora, un Bogart restaurato o una Marilyn rifatta, le nuance programmate dal reparto interfaccia e dagli olografi.

O anche un maxischermo, qualcosa di frontale e immenso, che ci schiaccia, umani ma artropodi, un'espressione venefica per i nostri standard carnali, il nostro piccolo cervello grigiastro venato di rosso rubino, nella sua ciotola cranica immerso nel suo liquido ematoencefalico, uno schermo ampio quanto la parete di un angiporto, forse uno spazio che è un angiporto sotterraneo, sotto la cui cascata di luce e immagini vortica lo staff che sintetizza e osserva i metabolismi della mente artificiale, un Westworld, una mente drogata di realtà, che accumula i backup di tutto il web e li rimastica, passa al riconoscimento visivo sempre più opportuno e antropologico, sempre più nitido secondo gli standard delle nostre percezioni limitate, delle nostre finitudini? Che cosa?

È inutile aggirarsi ai piani inferiori, sotterranei. Le porte sono serrate e guardate a vista. Gli staff che si interfacciano con la mente artificiale operano e vivono separati dalla comunità restante che popola giorno e notte il tecnopolo – si nutrono in una mensa interna, dispongono di un parcheggio sotterraneo a parte, non li si incrocia, non si interloquisce con loro.

Questa struttura cresce intorno al grande segreto della mente che genera e delle sue interfacce.

La curiosità che provo è una forma rinnovata di elettricità interna, che punge la libertà dell'uomo pietoso e impoverito davanti alle leccornie, come l'antica lettura serale di un libro bello ma non vero, come la progressione verso le ultime pagine, quello spessore magro poco prima che il libro sia finito, un coricarsi bambini nella sua santità, nella quiete che si rilascia alla fine di un libro antico, novecentesco...

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