Copertina
Autore Giuseppe Genna
CoautoreCarola Susani, Helena Janeczek, Babsi Jones, Veronica Raimo, Donata Feroldi, Alima Marazzi, Federica Manzon
Titolo Tu sei lei
SottotitoloOtto scrittrici italiane
Edizioneminimum fax, Roma, 2008, nichel 33 , pag. 212, cop.fle., dim. 14x19x1,4 cm , Isbn 978-88-7521-159-2
CuratoreGiuseppe Genna
LettoreGiovanna Bacci, 2008
Classe narrativa italiana
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Indice


Io sono loro
di Giuseppe Genna                             5

Surf
di Carola Susani                             23

Lemuri
di Helena Janeczek                           44

In morte di Babsi J
di Babsi Jones                               69

Come nessuna madre avrebbe mai fatto
di Veronica Raimo                            85

La ragazza-cane
di Donata Feroldi                           116

Baby Blues
di Alima Marazzi                            138

Tirare alla cieca
di Federica Manzon                          155

La morte per mezzo di me
di Esther G.                                192

Note biografiche                            207



 

 

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Pagina 23

SURF
di Carola Susani



I.

Ancora non era giorno, i pullman erano fermi sul piazzale a fari spenti. Solo uno, arrivato da poco, sputava ancora fumo e calore nell'aria blu. Quella gente stava scendendo: belle figure, alte, snelle, le spalle larghe. Soprattutto donne. Non sapeva dire perché, degli ucraini, unici fra tutti gli stranieri, si fidava. Forse era il biondo, quel biondo né cenere né platino: biondo paglia, biondo lavoratore. Si era anche messo a nevicare. Ma non dovevano essere abituati al freddo? Perché invece si stringevano nelle giacche corte? Le donne battevano i piedi nelle scarpette, si guardavano e ridevano. Non avevano messo nel conto l'umido, si immaginavano l'Italia sole e mare. La neve toccava l'asfalto tiepido, si scioglieva. Vicino a un lampione, un uomo stava in attesa. Un italiano. Corto. Con le mani in tasca, il giubbotto di pelle marrone. Bel ragazzo, riccio, ma in confronto agli ucraini sfigurava. Lo doveva sapere, perché guardava fisso e sfidava; ma forse quella era la sua faccia. La saracinesca lei l'aveva sollevata da un pezzo. La sua edicola e dall'altro lato il chiosco del bar erano i soli punti di luce calda. Stare tra i giornali la scaldava. Non sarebbe stato meglio per loro arrivare di sera, dopo quel viaggio faticoso andare a dormire, invece che affrontare una giornata lunga, bianca e sciapa: una giornata estranea? I quotidiani locali erano già arrivati. A minuti consegnavano anche quelli da Roma. I clienti erano ancora pochi. Ma che aspettava quel ragazzo? Aveva preso moglie su internet e adesso la incontrava? E qual era? Quella sottile, forte, con i capelli corti, gli occhi tristi e la bocca sorridente? Era alta il doppio di lui, e poi se ne stava andando. Tutte avevano qualcuno: mariti mogli amici o parenti. Solo una si attardava con l'autista, più piccola delle altre, una brunetta. Non sembrava neanche dell'Ucraina, se non fosse per i vestiti così aderenti e ordinati. Il ragazzo si era mosso, forse l'aveva riconosciuta dalla foto, era andato verso di lei. Così sì: erano più o meno alti uguale. Carini. Lui non l'aveva toccata o baciata, si era solo messo al suo fianco e adesso lei si spingeva verso l'edicola e quello di nuovo aspettava.


La ragazza aveva la carnagione giallastra, gli occhi grigi: «Den, Le Monde», aveva chiesto con la voce afona.

La giornalaia aveva scosso la testa: «Den boh, Le Monde lo trovi a Roma, a Stazione Termini, qua no».

Aveva preso da una pila il periodico ucraino locale e gliel'aveva offerto sorridendo. Nel gesto di afferrarlo la ragazza aveva proteso un braccino destro tozzo, troppo corto rispetto all'altro, poliomielitico, e l'aveva ritirato in fretta per ficcarsi il giornale sotto il braccio. Ma forse era stata solo un'impressione. Subito si era chinata, solerte come un criceto, a cercare tra i rotocalchi. Aveva tirato fuori Chi. Per pagare aveva gridato al ragazzo in italiano stentato. Lui si era avvicinato, si era levato di tasca quei pochi euro già incazzato. Chissà che colpo quando si fosse accorto del braccino.


Gaetano aveva appoggiato la mano sulla spalla di Galina e la spingeva. Aveva evitato di toccarle i fianchi perché non pensasse male, ma anche così, se fosse stato troppo delicato lei avrebbe capito una cosa per un'altra. O troppo brusco. Forse era stato troppo brusco. Lei si era fermata davanti al pullman, l'aveva guardato. Gaetano ci aveva messo un po', poi aveva capito. Aveva aperto il portello del bagagliaio. C'era dentro un trolley molto grande, verde smagliante, senza polvere.

«È tuo?»

Galina aveva annuito. Non era triste, non sorrideva, la sua faccia non si capiva.

«Be'?»

Voleva fargli passare tutta la giornata sul piazzale?


La luce si andava schiarendo, i brandelli di nuvole si erano ritirati in alto e solo sul contorno luccicavano. Dal lato del bar stava arrivando un uomo, alto, slanciato, con gli occhi piccoli. Era l'autista. Aveva le mani occupate: due bicchieri di plastica bianca che fumavano. Si era fermato davanti a Galina, aveva stretto gli occhi e gliene aveva offerto uno. Lei aveva sorriso. Gaetano non l'avevano proprio considerato. «Oh, ci vogliamo muovere!?» Se n'era andato avanti per conto suo e Galina aveva salutato l'autista con un sorriso che chiedeva scusa, gli aveva lasciato in mano il bicchiere e stava trotterellando con la valigia.

_____


Sulla cappotta della Ford Fiesta c'era ancora la tavola da surf che Gaetano doveva portare ad Antonietta. L'aveva comprata a righe blu e bianche, l'aveva montata sul portabagagli dritta su un lato, così c'era spazio anche per qualcos'altro. La neve le si accumulava intorno. Sembrava la pinna di uno squalo nella schiuma marina. Il trolley vicino al surf però non c'entrava e Gaetano l'aveva spinto con fastidio sul sedile di dietro. Davanti allo sportello mezzo sfondato Galina era rimasta impressionata. Gli occhi le si erano agitati come pulcini fuori dal guscio. Ma non c'era nessuno a cui chiedere aiuto: solo fumo nell'aria, pini marittimi grigi e la neve che stava cominciando ad attecchire. In macchina Galina si era tutta ritirata sul sedile. Il vetro del finestrino era mezzo calato. Aveva cercato di tirarlo su.

«È rotto». Gaetano aveva messo in moto. Galina si era stretta nella giacca di pelle. Il cruscotto era polveroso, sopra c'era la rivista dei testimoni di Geova, carte di caramelle alla frutta, il caricatore del cellulare. Gaetano aveva allungato la mano, aveva afferrato Svegliatevi! e l'aveva lanciato fuori dal finestrino. Lei l'aveva fulminato con lo sguardo; teneva i piedi sollevati, solo il tacchetto degli stivali appoggiato, forse si schifava di toccare la pila delle carte. Tutta quella puzza sotto il naso, tutto quel disprezzo, Galina non se li poteva permettere. Sulla statale grigio chiaro Gaetano cominciò a zigzagare. La neve scendeva a fiocchi, il fondo dell'aria era sbiancato di colpo, la visibilità non era buona. Gaetano si spingeva sull'altra corsia, poi, appena spuntavano i fari di una macchina, accelerava per tornare in carreggiata. Galina stava rigida, le labbra impallidite, le mani ficcate nelle tasche della giacca. Non fiatava. Allora Gaetano cambiò gioco: schiacciava il piede sull'acceleratore, inchiodava. Prima di una curva accelerava, frenava di colpo contro il guard-rail, un centimetro prima di sfondarlo e andare fuori strada. Si faceva un tratto in retromarcia, con l'acceleratore premuto, senza guardare. Poi ricominciava: cambiava marcia e ripartiva a tavoletta. Rideva. Alla quarta frenata brusca, Galina aprì lo sportello e si lanciò fuori, cadde sulle ginocchia, si rialzò, scavalcò il guard-rail e si mise a correre. Gaetano lasciò la macchina sul ciglio della strada con il freno tirato e le andò dietro. Nevicava, ma non faceva freddo.

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Pagina 85

COME NESSUNA MADRE AVREBBE MAI FATTO
di Veronica Raimo



«Non puoi capire il miracolo della maternità. Il tuo è il grembo sterile di una grande interprete».

A due giorni dalla prima, mentre Irene gli lasciava tenere la testa poggiata su quel grembo che avrebbe presto scoperto sterile, ma per ragioni più cliniche di quelle che vagheggiava il Maestro, erano state queste le parole con cui la giovane danzatrice dalle belle speranze veniva scaricata dall'uomo a cui da circa sette mesi aveva deciso di dedicare senza riserve il proprio talento (la sua vocazione alla malleabilità) e la propria esistenza (il residuo di ciò che non si trasforma in puro movimento).

«Sto per diventare padre. Questo cambia il corso del nostro incontro. E la pesantezza della vita che mi allontana da te. La gravità che non pesa sul tuo corpo».

«Non sono fatta d'aria, Rudi».

«Sei fatta di movimento».

«Non è quello che adoravi?»

«Sto per diventare padre. Mio figlio sarà il figlio di una madre e di un padre».

«Sarà il figlio di un uomo e di sua moglie».

Facendosi bene i calcoli Irene intuiva che Rudi quantomeno le aveva mentito. Si erano conosciuti in novembre. In dicembre era stata sodomizzata per la prima volta nella sua vita. In gennaio lui le aveva giurato di non avere più rapporti sessuali con sua moglie. A inizio giugno da tanta astinenza era germogliato il seme della paternità.

Come fa tua moglie a contenere un figlio in quella gabbietta d'ossa? Dove ce l'ha nascosto? Dove lo tiene? E tu dove lo trovi lo spazio per entrarci dentro? Ecco cosa avrebbe voluto dirgli, se il problema era davvero una questione di corporalità, d'accordo, mettiamo pure che lei fosse fatta di movimento, ma sua moglie allora, lei neanche esisteva al mondo, era inorganica, era come se avessero dimenticato d'innestarle qualcosa, qualsiasi cosa, sopra a quelle ossa minute e rocciose, almeno un rivestimento, una tappezzeria di cellule termiche che ricoprisse quel triste ammasso calciforme. L'aveva vista solo un paio di volte Carla, un paio di volte che aveva insistito per assistere alle prove e Rudi l'aveva accontentata perché di fronte all'inorganico non è che si possa discutere troppo, e lei si era seduta sprofondando come un ciottolo nel mare scuro del divano ed era rimasta immobile, una cosa da far spavento, senza muovere niente, senza neppure far sollevare un po' di pulviscolo dai pesanti cuscinoni. Un punto fisso al margine della sala prove, una specie di fantasma che scruta l'affaccendarsi dei vivi per coglierne qualche segreto. No, ma in realtà non era nemmeno così, non gliene importava proprio niente a Carla di scoprire i segreti della vita, manteneva uno sguardo azzerato che virava quasi verso l'ebetismo, eppure tutte le danzatrici impegnate nelle prove erano istintivamente attratte da ciò che avrebbe potuto celarsi in fondo a quella voragine di vuoto. Anche Irene non riusciva a fare a meno di fissarla. Rudi naturalmente se ne rendeva conto, non poteva essergli sfuggita una cosa del genere, un maniaco dei dettagli come lui, e allora si divertiva a tormentarla: «Concentrati, Irene, sei sola, sei sola nello spazio, resta concentrata», la prendeva con forza per le spalle, la stessa foga con cui la prendeva a fine prove nello sgabuzzino del teatro, e – costringendola con lo sguardo in direzione di sua moglie – continuava a ripeterle: «Stai concentrata, concentrata, Cristo, che cos'hai in testa oggi?»

Che senso aveva quell'umiliazione? A che serviva? Obbligarla a guardare sua moglie mentre lui la rimproverava perché stava sbagliando tutti i movimenti. Obbligarla a guardare sua moglie mentre lui le apriva a forza le gambe, gliele tirava su fino a spiaccicarne una contro il viso, lasciandole a quel punto solo una visione dimezzata di Carla che guardava la sua giovane fica inguainata dal body. Quelle gambe che nessuno avrebbe mai potuto spezzare per via della sua vocazione alla malleabilità, quelle gambe che Carla aveva visto spalancarsi e richiudersi e salire verso altezze che le erano proibite, perché la vocazione che era stata riservata a lei era tutta all'opposto: muscoli rigidi e testardi, muscoli che avevano sfoderato troppa caparbietà quando Rudi aveva tentato di plasmarli anni prima, fino a spezzarli per amore. Che senso aveva quell'umiliazione? A chi era rivolta? Non poteva essere per Carla, erano passati troppi anni perché Rudi si azzardasse ancora a giocare con sua moglie in quel modo irrazionale in cui giocano gli amanti. Irene ne era certa. Poteva essere soltanto un omaggio alla sua danzatrice preferita. Una prova di sadismo che rispediva ognuno al suo ruolo.

Rudi era il maestro in queste cose, un amministratore del disagio, sempre in grado di trasformare la debolezza degli altri in un rigurgito di forza. Concentrati, Irene, concentrati. Tanto le sue gambe potevano allungarsi all'infinito. Tanto alla fine avrebbe vinto lei. Neanche quella roccia di granito a peso morto sul divano sarebbe riuscita a incrinare la flessibilità dei suoi arti. Non ho niente da perdere, pensava Irene, la roccia si sgretola, piccole erosioni continue, ma il mio corpo è più forte perché non ha gravità.

Tre mesi più tardi quella mancanza di gravità che aveva attirato Rudi tra le gambe di Irene, lo allontanava da lei come un male oscuro. La piccola Irene, la piccola musa, la piccola danzatrice senza attrito, i piccoli seni, le piccole natiche morbidamente raccolte intorno al suo pene. Come doveva apparire osceno tutto questo a un uomo che stava per diventare padre. Le piccole frasi sussurrate dietro le quinte, sempre ambigue, sempre piene di zozzerie e romanticismo, incapaci di essere altro perché se c'erano delle quinte la trasparenza era strutturalmente impossibile. Sto per diventare padre, Irene. Come se lui non c'entrasse niente nella cosa, come se qualcuno gli avesse fatto un dispetto. Ogni sera, dopo le prove, Rudi afferrava il grosso cipollotto di capelli appuntato sulla nuca di Irene con estrema cura da sua madre, e lo scioglieva fino a far defluire ogni singola ciocca sul suo corpo nudo. Poi l'appoggiava contro il muro dello stanzino e la prendeva da dietro, restando avvinghiato con forza a quelle tenaci liane di capelli. «Voglio sentirmi manipolata», diceva lei. «Voglio che il mio corpo cambi forma tra le tue mani». E il suo corpo difatti diventava qualunque cosa lui volesse.

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Pagina 138

BABY BLUES
di Alina Marazzi



Oggi ho fatto l'ecografia e ho visto la faccia del bambino. Era impressionante, si vedeva il naso, la bocca, una mano. Tutto raggomitolato, non posso credere che è nella mia pancia. Un essere diverso da me sta vivendo dentro me. Un alien. Scrutavo l'immagine sullo schermo e non riuscivo a collegarla con la mia pancia. Per la prima volta forse ho realizzato che tra pochi mesi nascerà mio figlio. In ospedale ci sono andata da sola, come al solito.

Sono così stufa, ormai non riesco più a fare niente. Mi sembra che l'estate sia trascorsa in un lungo tempo di incerta attesa, in cui non sono riuscita a combinare niente, con la mente appannata e la sensazione di galleggiare, sempre. La sera mi addormento appena mi siedo sul divano e poi non riesco nemmeno a spostarmi nel letto. Che palle la gravidanza. Tutti mi dicevano che mi sarei sentita così bene, fisicamente e anche mentalmente, a me sembra di non avere più il cervello. Cerco di andare avanti con le ricerche per la tesi, e non ho un minimo di concentrazione.

Sara mi ha dato i vestitini di Rocco quando era piccolo, così ho passato tutto il giorno a tirare fuori roba dal sacco e metterla a posto, lavare, piegare... ho già riempito quattro cassetti con body, tutine, canottiere calzine, maglie magliette... ma di quanta roba c'è bisogno per un bambino? E dopo passerò tutto il tempo a fare queste cose? Però sono belli i vestitini, così piccoli, sembrano fatti per una bambola, fanno tenerezza. Anna dice che poi bisogna lavare sempre tutto con il Napisan, per igienizzarli. Secondo me contiene candeggiante, quindi è meglio di no. E quante volte al giorno bisogna cambiarli poi?

Sono arrivati i risultati delle analisi, per fortuna va tutto bene, ero così in ansia. Credo che non sarei stata in grado di sopportare l'idea di un figlio non completamente sano. Prima non ci pensavo, davo per scontato che essendo un evento naturale fosse per forza senza complicazioni, la gravidanza. Poi quello della malformazione, dell'«errore genetico» è diventato un pensiero fisso.

Ormai sto esplodendo, non pensavo che il corpo umano potesse trasformarsi così! Tornerò mai come prima? Riuscirò mai più a rimettermi i jeans? Sembra impossibile. Un poco mi faccio ridere: cammino e guardo in basso e non riesco a vedermi i piedi. Ora so come si sentono quegli uomini col ventre sfondato. Tutto sommato non sono ingrassata moltissimo, solo quindici chili! Tutti dicono che ci si impiega circa un anno a tornare come prima, e in molti casi comunque non si ritorna esattamente al peso (e la forma!) di prima. Speriamo che non mi vengano le smagliature – per ora non ne ho: sono orribili.

Come è lungo questo ultimo periodo, non vedo l'ora che nasca, di guardarlo in faccia, ormai sono così curiosa! Mi sembra di averlo aspettato così a lungo, di averlo sognato così tanto. E come sarà? Bello, brutto, biondo, bruno... mi piacerebbe che avesse gli occhi verdi, come P.


ottobre

Quanti dubbi su dubbi, quante ansie, quanti pensieri, quanti momenti dispersivi... È snervante.

Mi sento così sola. Davvero la gravidanza è un lungo periodo di solitudine e tristezza. È strano perché in realtà si è già in due, sei tu con il bambino. E invece ci si sente soli. Continuo ad avere pensieri neri, non sul bambino, ma su di me, e sulla nostra relazione, sulla relazione con P. Mi sembra che sia così lontano da me, non ha mai voglia di parlare, di stare un po' con me, di aiutarmi a preparare un po' di cose per l'arrivo del bambino. Ma è possibile che debba preoccuparmi sempre io di tutto, recuperare la carrozzina e tutto il resto? La cosa peggiore è la sensazione che non potrò più fare niente di mio, che sarò sempre sola, triste, stanca e affaticata.

Tra poche settimane è il termine, manca poco. Poi ci sarà anche lui, il mio bambino, Mattia, per sempre nella mia vita. Mi commuove l'idea che sarò mamma. Io, sarò capace? Mi affiderò all'istinto materno... se è vero che esiste!


novembre

La sensazione di solitudine continua, sarà data dal fatto che non riesco a vedere nessuno: le amiche senza figli hanno ritmi diversi dai miei (già da ora!), le amiche con figli sono prese dalle loro cose e non si riesce nemmeno a fare una chiacchierata al telefono. P. sembra vivere in una bolla, una realtà separata dalla mia, nella perenne attesa di un lavoro. I miei sono lontani e forse, tutto sommato, è meglio così. Già le telefonate di mia madre mi danno sui nervi, figuriamoci se fosse qui. Speriamo che l'arrivo del bambino cambi le cose. Chissà, magari P. sarà preso alla sprovvista e tornerà a interessarsi di me, di noi.

Bisogna pulire tutto, tutta la casa. Bisognerebbe farlo adesso, altrimenti poi come faccio a portare qui il bambino? Sono preda di una sorta di ossessione per la pulizia e per l'ordine, come se dovessi sistemare tutto prima dell'arrivo del bambino, come se poi non ci sarà più tempo per fare niente... P. mi dice che sono diventata noiosa, che parlo solo di quello e che non mi interesso a niente altro, lui compreso. Invece sono io che mi sento non capita, non vista da lui. A me sembra che lui non si renda conto di quanto stia per succedere: un figlio... Ho la sensazione che tutto ricadrà sulle mie spalle e non sono sicura di potercela fare. E quello che gli dico tutto il tempo, gli chiedo di aiutarmi, lui si innervosisce e mi tratta male.

Oggi è arrivata una bella notizia: hanno chiamato P. per un lavoro. Dopo tanti mesi l'ho visto nuovamente di buon umore. Sono così contenta, sono sicura che da ora le cose andranno meglio, anche tra noi.

Oggi, di nuovo, ho fatto ordine negli armadi, nei cassetti, cercando di fare posto a tutto quanto è arrivato nuovo, lettino, giochi, altri vestitini. Ho buttato via un sacco di carte e di cose accumulate negli anni, cose della mia vita passata, e mi è venuta un po' di nostalgia per il tempo che non tornerà più, per come ero e non sarò mai più. Poi ho cercato di pensare a quanto sta arrivando, che è più bello, importante e nuovo di tutto ciò che mi è accaduto prima. Ma ugualmente avevo il magone. Comincia ad assalirmi la paura del parto, ora che il momento si avvicina: passo tutto il tempo a fare gli esercizi di respirazione e leggere libri sull'argomento, dovrei essere preparata! In certi momenti, come questo, vedo tutto nero, è come se si ergesse un muro davanti a me, come se avessi la sensazione che tutto si fermerà. È assurdo, un cambiamento maggiore di questo non potrebbe esserci, eppure... ora mi sento imprigionata. Non avevo mai veramente pensato di fare figli, poi una felicità immensa nel sapere che ero incinta. Ogni tanto invece mi assale questa sensazione di perdita, di indeterminazione, spiacevole. Forse è solo la paura del parto.

Sono andata a visitare la sala parto dell'ospedale e l'ostetrica mi ha mostrato tutti i vari «accessori»... dio mio, sembrava proprio la sala delle torture! Il lettino ginecologico, la sedia, la sbarra a cui ci si può appendere per spingere, la vasca per il parto in acqua, e poi mille altri strumenti... E lei parlava in tono rassicurante e mi spiegava tutto, tutte le tecniche, ma intanto io ascoltavo solo le urla disumane che provenivano dal corridoio a fianco: urla delle donne in travaglio, sembrava un girone infernale.

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