Copertina
Autore Valerio Gentili
Titolo Bastardi senza storia
SottotitoloDagli Arditi del Popolo ai Combattenti Rossi di Prima Linea: la storia rimossa dell'antifascismo europeo
EdizioneCastelvecchi, Roma, 2011, Analisi 23 , pag. 186, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,7 cm , Isbn 978-88-7615-553-6
LettoreGiorgia Pezzali, 2011
Classe storia contemporanea , storia: Europa , paesi: Germania , movimenti
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Indice


Bastardi senza Storia

Lista delle abbreviazioni                         7

Prefazione, di Cristiano Armati
L'Esercito, un diritto dimenticato?              11


Introduzione                                     19

La Germania                                      43

L'Europa centrale                               109

Epilogo                                         139


Note                                            155

Bibliografia essenziale                         179

Indice dei nomi                                 183


 

 

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Pagina 13

Prefazione

di Cristiano Armati


L'Esercito, un diritto dimenticato?


                                    La difesa della Patria
                                    è sacro dovere del cittadino.
                                    Il servizio militare è obbligatorio
                                    nei limiti e modi stabiliti dalla legge.
                                    Il suo adempimento non pregiudica
                                    la posizione di lavoro del cittadino,
                                    né l'esercizio dei diritti politici.
                                    L'ordinamento delle Forze armate
                                    si informa allo spirito democratico della Repubblica.

                                    (COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA; Articolo 52)



Bastardi senza Storia di Valerio Gentili si apre ponendo all'attenzione dei lettori un importante problema storiografico: è proprio vero - si domanda l'autore - che l'affermazione dei fascismi europei poté verificarsi semplicemente a causa della mancanza di avversari in grado di opporsi militarmente alla trionfale avanzata degli uomini di un Hitler o di un Mussolini?

Una consolidata vulgata storica non avrebbe esitazioni e risponderebbe al quesito in modo positivo. Valerio Gentili, al contrario, dimostra che non fu il monopolio della violenza a spianare la strada del potere alle camicie nere e alla croce uncinata. Al contrario, mentre innumerevoli movimenti di matrice socialcomunista ricorsero alle armi per rispondere colpo su colpo alle aggressioni nazifasciste, l'azione di questi gruppi venne depotenzia o vanificata dall'eccessiva fiducia che le forze riformiste riposero nella tenuta delle istituzioni democratiche e/o dal timore, covato dagli esponenti dei partiti rivoluzionari, di vedersi scavalcare a Sinistra da uomini in grado di imprimere una svolta non soltanto all'autodifesa del movimento operaio ma allo stesso fenomeno della lotta di classe. Sono esattamente questi uomini i «bastardi senza Storia» a cui il lavoro di Valerio Gentili è dedicato: non burocrati né funzionari di partito, ma semplici militanti di base, giovani ribelli e, soprattutto, reduci della Prima Guerra Mondiale: soldati che dopo aver difeso la Patria mordendo il fango delle trincee di tutta Europa si ritrovarono gettati in una «pace» fatta soltanto di ingiustizia sociale e miseria. Bastardi senza Storia si nutre di questo humus per restituire ai suoi lettori le gesta di organizzazioni dai nomi inequivocabili, dalla tedesca Lega dei combattenti rossi di prima linea agli italiani Arditi del Popolo (solo per fare alcuni nomi), e per spiegare in quali circostanze nacquero simboli come le bandiere rosso-nere o gesti, come quello del saluto a pugno chiuso. Si tratta di una storia che ha il sapore di una vera e propria scoperta, non soltanto perché consente di recuperare le radici che legano il fenomeno del combattentismo progressista alle sottoculture politicizzate del sottoproletariato giovanile, ma perché, raccontando il contributo offerto dai soldati alla lotta antifascista e alla guerra partigiana, Valerio Gentili affronta un nervo scoperto degli attuali sistemi politici occidentali. Un problema che, per non perdersi in tanti giri di parole, può essere impostato in questi termini: qual è il ruolo dell'esercito in un Paese democratico? Come può essere impiegato? E soprattutto: chi deve essere chiamato a farne parte?

Per affrontare un simile problema potrà essere utile restringere il campo all'Italia e osservare la questione in prospettiva, notando come, dalla fine del Secondo Conflitto Mondiale ai giorni nostri, si sia passati da un esercito popolare, a cui ogni cittadino italiano aveva il diritto e il dovere di appartenere, a un esercito di professionisti o, per dirlo con una parola politicamente scorretta in tempi in cui il lessico italiano si è appesantito di termini quali escort o contractor, di «mercenari».

I risultati di un simile cambiamento (milioni di coscritti forse sollevati da un dovere ma senz'altro privati di un diritto) sono sotto gli occhi di tutti nel momento in cui, parlando di difesa di «obiettivi sensibili», diventa sempre più facile imbattersi in militari impiegati per strada con ambigui compiti di polizia. Si potrebbe andare oltre e sottolineare come, nel momento in cui l'Esercito restringe a un nucleo di professionisti il suo reclutamento, diventi più semplice per i suoi appartenenti dimenticare di esistere per essere al servizio del popolo, riducendosi a semplice braccio armato dello Stato. Qui il celebre slogan «Arditi non gendarmi» con il quale gli Arditi del Popolo si opposero strenuamente al fascismo ha il potere di saldare il passato al presente, per chiedersi se i partiti progressisti non stiano tornando a ripetere un errore che fu fatale già ai tempi degli anni orribili in cui fascisti e nazisti furono liberi di scatenarsi in un'orgia di morte e distruzione. L'errore, oggi come allora, sarebbe quello di respingere il concetto stesso di Esercito in un territorio strettamente conservatore, regalando alla Destra più reazionaria un sapere e un potere delicatissimo come quello militare. Contro questo rischio, Bastardi senza Storia, con la sua capacità di fascinazione, può essere considerato un valido antidoto. Perché se, come ancora ci ricorda l'Articolo 52 della Costituzione, la difesa della Patria è un dovere «sacro», pensare di poter dormire sonni tranquilli delegando la tutela dei propri diritti a un pugno di dipendenti statali equivale a bestemmiare.

Cristiano Armati

Roma, 27 marzo 2011

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Pagina 17

            Una cosa sola avrebbe potuto arrestare il nostro movimento:
            se i nostri nemici, comprendendo i nostri principi,
            fin dai primi giorni, ci avessero colpito con altrettanta brutalità.

                                                                    ADOLF HITLER



INTRODUZIONE

Guerra di simboli e fenomenologia della violenza politica

È opinione comune, figlia di un'opera trasversale di rimozione storiografica, che la marcia di avvicinamento al potere dei fascismi europei non abbia trovato, sul terreno della violenza politica, nemici in grado di fronteggiare la situazione. Per motivi diversi si è preferito elidere il ruolo giocato, negli anni a cavallo tra le due guerre, da quei movimenti «irregolari» che contesero ai fascisti non solo il mero monopolio della violenza di strada ma un intero immaginario fatto di simboli, liturgie, marce, divise, slogan taglienti e affilati. Cercheremo di scovare all'interno della dicotomia rivoluzione-reazione, attraverso i suoi, a volte labili confini e le sue paludose zone grigie, le tracce dello scontro, manifestatosi con intensità variabile di nazione in nazione, che oppose per le strade d'Europa eserciti di soldati politici, l'uno contro l'altro, armati. Militarizzazione della lotta politica, retaggio del Primo Conflitto Mondiale, crisi economica, disgregazione sociale, disoccupazione giovanile, incapacità della politica di interloquire con settori emergenti della società, ansie e/o speranze rivoluzionarie, crearono quella miscela sociale esplosiva che fece da innesco all'avanzata dei movimenti fascisti in Europa.

In queste prime pagine analizzeremo la «guerra dei simboli» e il loro, variabile ma insopprimibile, potere di fascinazione in luoghi e tempi diversi.

In Italia e Germania l'avanzata dei fascismi si rivelò inarrestabile. In altri Paesi, come Francia e Inghilterra, movimenti che per immaginario e metodo d'azione si richiamavano alla matrice del sovversivismo reazionario non ebbero altrettanta fortuna. Non ci soffermeremo sulla complessa analisi delle cause che determinarono esiti così alterni: oggetto della nostra ricognizione sono quei movimenti che si opposero secondo un preciso schema di «contro-violenza», fisica, verbale, ideale, ai fascismi europei.

L'avvento del nazismo in Germania era realmente ineludibile?

Non vi fu, come solitamente si è indotti a credere, alcuna forma di resistenza organizzata, armata, che gli si contrappose?

Le crescenti fortune politiche nei primi anni Trenta del Mussolini inglese, Sir Oswald Mosley, furono arrestate solo grazie alla tenuta democratica delle forze parlamentari? Fu merito esclusivo della politica mainstream, del Sistema?

Chi contrastò nello stesso periodo per le strade di Parigi le pulsioni golpiste della Croix de Feux e delle leghe di estrema Destra?

L'interpretazione del Mito delle Trincee nell'Europa tra le due guerre è necessariamente univoca? Questo mito si riverberò negli anni della pace precaria fornendo esclusivamente quadri e militanti alle truppe d'assalto della Destra radicale?

Questi sono alcuni degli interrogativi che cercheremo di affrontare scandagliando nel magma storico ciò che a prima vista non risulta chiaro e lineare ma anzi appare come cifra oscura, confusionaria e complessa.

Nel tesissimo clima politico della Germania anni Venti, una neonata Repubblica stritolata dalla crisi economica, in equilibrio sospeso tra Rivoluzione e Reazione (fallimentari colpi di Stato si succedevano ad altrettanto infruttuose insurrezioni) veterani del Primo Conflitto Mondiale costituirono due associazioni di reduci in animosa, reciproca, competizione: la Reichsbanner Schwarz-rot-gold ('Vessillo dell'Impero Nero-rosso-oro') e la Roter Frontkämpferbund ('Lega dei combattenti rossi di prima linea'). La prima di area socialdemocratica (Spd), la seconda legata al parito comunista tedesco (Kpd) erano, entrambe, organizzazioni di massa: due milioni di iscritti per la Reichsbanner, 120mila effettivi dichiarati dalla Rfkb nel 1929, anno in cui venne messa fuorilegge. Negli anni (1929-33) della guerra civile scatenata dall'attivismo violento delle Sa (Sturm Abteilungen) naziste, le Schufos (Schutzformationen, 'Formazioni di difesa') della Reichsbanner e i soldati rossi della Rfkb si opposero strenuamente alle truppe d'assalto hitleriane, come vedremo, contendendogli, palmo per palmo, strade e birrerie, queste ultime luogo simbolo della vita sociale e aggregativa tedesca. Ad esse si affiancarono le formazioni, politicamente miste, dell'Antifaschistiche Aktion (Antifa) e del Kampfbund Gegen der Faschismus ('Lega di combattimento contro il fascismo'), insieme a una pletora di gruppi minori dai nomi battaglieri e minacciosi. Tutti pagarono un alto tributo di sangue alla lotta contro il nazionalsocialismo.

Nella Londra della metà anni Trenta, associazioni di ex-Serviceman, veterani della Prima Guerra Mondiale, ebbero un ruolo di non poco conto nell'organizzare quella parte di popolo che non intendeva assistere passivamente al dilagare fisico e strategico delle black shirts di Sir Oswald Mosley (leader carismatico della British Union of Fascists) nei distretti working-class dell'East End cittadino. Questa guerra per il predominio territoriale ebbe il suo punto di non ritorno nella leggendaria Battaglia campale, il 4 ottobre 1936, di Cable Street. Le camicie nere - benché i consensi tra la classe operaia, così come in Germania, Francia e ancora prima in Italia, non fossero trascurabili - furono costrette a desistere e l'antifascismo militante britannico ebbe il suo battesimo di fuoco.

In Italia, il laboratorio fascista, all'avanzata del moto squadrista si contrapposero nel biennio 1921-22, in difesa del movimento operaio organizzato e sul terreno della violenza politica, gli Arditi del Popolo (Adp), di matrice combattentistica, già il nome richiamava l'esperienza dei Reparti d'Assalto dell'Esercito regio. Gli Arditi corredarono un'incombenza, quella della contrapposizione in armi alla dirompente marcia paramilitare fascista, di liturgie e simboli provenienti dall'esperienza bellica. Teschi, allori, pugnali e gagliardetti neri si sovrapponevano alla tradizionale iconografia operaia accompagnandosi a una fraseologia che esaltava il mito vitalistico dell'azione fino al suo, apparentemente paradossale, corollario: la morte onorevole in battaglia per la causa.

Su questo terreno, gli Adp non rappresentano un unicum, le tedesche e più longeve Reichsbanner e Rfkb vestivano uniformi, marciavano al passo, praticavano il culto della bandiera e quello, di dannunziana creazione, dei caduti. Il potenziale emotivo sprigionato dai simboli veniva tenuto in grande considerazione, i colori della Reichsbanner, nero-rosso-oro, richiamavano il vessillo della rivoluzione democratica prussiana del 1848 e si contrapponevano ai colori reazionari della Tradizione, nero-bianco-rosso, adottati dai nazionalisti. Quando il richiamo a un passato democratico sembrò non bastare più e lo scontro politico-militare si fece veramente duro (1930-33), la Reichsbanner divenne il cardine di un Fronte che si autodefinì Esercito della Libertà. L'Eiserne Front ('Fronte di Ferro') aveva l'obiettivo di contrastare i nazisti sul terreno in cui avevano mostrato maggiore maestria, quello propagandistico. Sotto la bandiera del Dreipfeile ('tre frecce'), i giovani aderenti alle Schufos si impegnavano a combattere i seguaci della svastica: a un simbolo d'impatto facilmente riproducibile, la svastica, spregiativamente apostrofata come un simbolo omosessuale indiano, se ne contrapponeva un altro altrettanto efficace. Le tre frecce, con la punta orientata verso il basso da destra verso sinistra, stavano a significare infatti una precisa volontà di potenza: schiacciare quelle forze che, per i socialdemocratici, minacciavano la Repubblica. Ai proclami verbosi, fino ad allora il marchio di fabbrica della Spd, si sostituirono slogan diretti, chiari e concisi, anche la propaganda murale del partito si fece più maschia (nei manifesti elettorali per le elezioni del 1932, la socialdemocrazia si trasforma in un lavoratore nerboruto pronto a prendere a pugni in faccia tutti i suoi nemici). Alla chiamata alle armi nazista, il Sieg Heil e al Rot Front comunista, l'Eiserne Front contrappose il grido Freiheit! ('Libertà!'). Grande sforzo impegnò la Reichsbanner nel contendere la gioventù alle più dinamiche e spregiudicate compagini nazista e comunista, attraverso una precisa ginnastica rivoluzionaria, fatta di adunate, dialoghi mistico-emotivi tra leader e folle - anche qui ritorna l'imprinting dannunziano - incursioni nei bastioni ritenuti sicuri dal nemico. Tutto questo finiva necessariamente per porsi al di fuori delle tradizioni antimilitariste, pragmatiche e razionali della Spd, il cui esecutivo alternava nei confronti del movimento, per considerazioni di natura strumentale, momenti di mal digerita tolleranza a offensive e provvedimenti disciplinari. Mentre i vertici della Spd erano impegnati, infatti, a farsi supremi garanti degli equilibri repubblicani, sottovalutando fino all'ultimo la marea montante nazista e plaudendo, nel contempo, con pervicace piglio legalitario, alla repressione poliziesca della sovversione anarco-comunista - indipendentemente dalla sua oggettiva consistenza come minaccia - tra i ranghi della Reichsbanner, soprattutto tra i giovani, si faceva largo la mistica di una Seconda Repubblica da attuare con criteri non proprio legalitari e ciò era troppo anche per i vertici moderati della Reichsbanner. Né i propositi visionari delle giovani Formazioni di Difesa della Reichsbanner come, d'altro canto, quelli di seconda ondata rivoluzionaria delle giovani Truppe d'Assalto nazionalsocialiste avrebbero mai avuto luogo, pur rappresentando il più alto movente ideale del loro confronto armato e sanguinoso per le strade.

Tra le fila della gioventù tedesca, quella ribelle e marginale innanzitutto, esercitava grosso fascino l'associazione di veterani comunisti, la Rfkb, che aveva aperto ai giovani attraverso la propaggine del Rote Jungfront ('Fronte della gioventù rossa'). Il nome, Lega dei combattenti rossi di prima linea, non era affatto l'unico rimando all'esperienza di guerra. Gli affiliati, infatti, vestivano una propria uniforme, usavano una terminologia spiccatamente bellica e avevano perfino militarizzato il poi tradizionale saluto a pugno chiuso del movimento operaio (in una variante, pugno chiuso ruotato verso l'interno di 90 gradi e braccio attaccato al busto, che, vedremo riapparire tra i miliziani repubblicani nella Guerra Civile spagnola). Nella Rfkb, si praticava il giuramento dell' Ehre und Treue ('Onore e Fedeltà') alla bandiera rossa, tra i suoi ranghi, non vi era spazio per gli imboscati delle retrovie, l'organizzazione interna rifletteva il modulo combattentistico, con l'unità base della Squadra, avanguardia sul territorio nella lotta sanguinosa contro il nemico politico per il controllo di strade, quartieri, birrerie, estremo baluardo di fronte all'espansionismo aggressivo delle Sa nei distretti operai delle grandi città. Gli squadristi della Rfkb si percepivano come soldati di un Esercito particolare, quello della classe operaia: la loro organizzazione ne rappresentava la truppa d'assalto, i loro inni glorificavano il sacrificio supremo per la causa, la fedeltà fino alla morte all' Esercito proletario finiva per sublimare il precedente sacrificio dei soldati, nella grande guerra, a una causa sbagliata, quella del nazionalismo.

Messa fuorilegge dopo i fatti del sanguinoso primo maggio berlinese 1929, la Rfkb continuò a operare nell'illegalità, affiancata, nella lotta al nazismo, da due organizzazioni di massa, attive sul crinale della legalità, Antifa e Kampfbund. I rapporti col Partito comunista furono spesso turbolenti. La Kpd era un partito di giovani (e anche in base al gap generazionale devono misurarsi le travagliate relazioni con la ben più attempata socialdemocrazia) e negli anni della grande crisi (1930-33) divenne il partito dei giovani disoccupati. Il ruolo che giocò la disoccupazione di massa nello spingere la gioventù ad arruolarsi nelle formazioni paramilitari non è di poco conto. Nello specifico comunista, i giovani dei distretti popolari di Berlino e Amburgo potevano trovare nella militanza dura e pura un mezzo per dare senso a un'esistenza altrimenti vuota, scegliere e accettare le regole cameratesche delle milizia paramilitare significava compiere innanzitutto una scelta di vita. A lungo andare, però, la piaga sociale della disoccupazione avrebbe finito per indebolire le forze del fronte operaio. Mentre, infatti, una certa componente mercenaria è riscontrabile tra i ranghi del paramilitarismo nazista (Sa-Ss) - era accaduto precedentemente in Italia, sia Nsdap che Pnf non avevano problemi economici godendo dei finanziamenti di agrari e industriali - la militanza a Sinistra faceva leva esclusiva sul volontarismo. Le casse delle organizzazioni erano spesso a secco dipendendo dalle sole sottoscrizioni dei militanti e quando, questi ultimi si trovarono senza più un centesimo, afflitti dallo status di disoccupati permanenti, il tracollo economico fu inevitabile. La mancanza cronica di fondi depotenziò - a tutti i livelli, dal semplice manifesto fino all'acquisto di armi - la combattività delle milizie antifasciste concedendo, al contrario, un grimaldello strategico all'opera di sistematica penetrazione delle Sa nei milieu popolari e la lotta per il controllo delle birrerie rappresenta la cartina-tornasole di questa dinamica.

Fedele alla scolastica marxista, la Kpd si proponeva di essere il partito delle avanguardie di fabbrica, il luogo-mito che avrebbe innescato la miccia rivoluzionaria ma la realtà era ben diversa, il partito rappresentava il bersaglio grosso contro cui si indirizzavano gli strali repressivi dello stato weimariano, costretto a operare spesso in condizioni di semi-legalità: per ordine dei vertici socialdemocratici i suoi militanti venivano espulsi dai sindacati, sospette simpatie comuniste potevano costare a un operaio il suo posto di lavoro. Il partito si trovò, così, contrariamente ai suoi desiderata, a esercitare il più alto grado di controllo non sul mondo della fabbrica ma su quello dei quartieri popolari. Quando l'ondata nazista s'infranse sui bastioni popolari, segmenti rilevanti del proletariato marginale - giovani e disoccupati - che vi abitava, transitò per le organizzazioni paramilitari vicine al partito «per colpire i fascisti ovunque li avessero incontrati». Nella rossa Berlino, le gang giovanili di Neukölln, Prenzlauer Berg, Wedding, Kreuzberg e quel lumpenproletariat così estraneo alla vulgata marxista, si distinsero nella lotta di strada alle agguerrite squadre nazionalsocialiste.

Il distinguo capzioso operato dall'esecutivo comunista tra «lotta di massa» e «terrore individuale» e le risoluzioni del novembre 1931 posero fine alla tolleranza del partito verso l'attivismo spontaneo (che in molti casi si era rivelato efficace) dei militanti di base e dei distaccamenti autonomi di quartiere. L'allontanamento, dalla troika che guidava il partito di Heinz Neumann (il Goebbels rosso, come era chiamato per le sue non comuni qualità di propagandista) autorevole difensore dell'autorganizzazione su base territoriale della violenza antifascista, e la sua progressiva marginalizzazione, fino all'espulsione dal partito nel '32, erano il segno che i tempi della malcelata ambiguità nei confronti della violenza spontanea e delle liason con ambienti poco ortodossi, per ciò che concerneva i vertici di partito, si chiudevano definitivamente.

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Nel febbraio dell'anno successivo il nazismo trionfava e mentre Hitler era intento ad assestare il colpo definitivo alla comatosa Repubblica di Weimar, l'esecutivo della Spd si mostrava ancora una volta incerto e timoroso. Alla Reichsbanner venne messa la sordina da quegli stessi leader che avrebbero, invece, dovuto servirsene per vendere cara la pelle ai nazisti, le armi erano pronte, così come i distaccamenti territoriali ma dal centro non giunse nessun ordine per l'insurrezione democratica, la fiducia cieca della Spd nelle morenti istituzioni si sarebbe rivelata fatale. La mozione che chiamava il popolo lavoratore allo sciopero generale e le truppe paramilitari della Reichsbanner alla difesa attiva della democrazia si rivelò minoritaria, la maggioranza preferì controbattere al terrorismo nazionalsocialista attraverso pacifiche dimostrazioni di massa: in 20mila manifestarono il 7 febbraio a Berlino, 15mila a Lubecca il 19 seguente e poi diverse migliaia a Dortmund, Francoforte e in tante altre città. Ovunque, i manifestanti vennero facilmente dispersi dall'azione congiunta di Polizia, Ss e Sa, queste ultime spararono sulla folla facendo diversi morti e feriti. Pochi giorni dopo, il 27 febbraio, la farsa nazista dell'incendio al Reichstag andava in scena, seguita dall'arresto di quattromila tra comunisti, socialdemocratici, anarchici e antifascisti generici. Intanto, alle Sa era affidato il compito di organizzare il sistematico annientamento politico degli oppositori e il 21 marzo, si aprivano i cancelli dei campi di concentramento di Dachau e Oranienburg, seguiti, nei mesi successivi, da un'altra cinquantina di campi secondari. Primi e numerosi reclusi: socialdemocratici e comunisti. La Kpd, il partito autentico vincitore delle elezioni di novembre, l'allora più grande tra i partiti comunisti d'Europa, era arrivato al redde rationem più isolato che mai, sfibrato da oltre un decennio di repressioni concentriche, a ogni livello: nemico pubblico numero uno delle polizie locali, della classe politica di Governo, delle milizie paramilitari di Destra, il sogno di un fronte antifascista dal basso, caldeggiato sia nei ranghi della Rfkb che tra la Reichsbanner, naufragato, di fronte all'odio atavico che opponeva il Ce comunista a quello Spd.

Per le tre frecce dell'Esercito della Libertà, il Fronte Rosso della Lega dei combattenti di prima linea e le bandiere sovrapposte nel cerchio dell'Antifa, la partita era chiusa. Sergei Chakotin, il propagandista visionario inventore del logo a tre frecce del Fronte di Ferro, allievo di Pavlov, studioso attento e affascinato dalle tecniche di propaganda bolsceviche e naziste, costretto alla fuga dalla Germania di Hitler riparò in Francia, a Parigi, dove mise le sue conoscenze sul potenziale di mobilitazione totale ed emotiva delle masse al servizio del movimento socialista locale. Il Partito socialista francese (Sfio) vinse le elezioni nel 1936 con la coalizione di Fronte Popolare, sotto l'egida delle tre frecce. Il simbolo comparve anche tra i socialisti belgi e quelli austriaci (sempre per influenza di Chakotin) e tra reparti della milizia repubblicana nella Guerra Civile di Spagna. Poi la scomparsa.

Nel secondo dopoguerra, dopo la vittoria sul nazismo, le milizie paramilitari di Sinistra dei decenni precedenti caddero nell'oblio storiografico, motivazioni politiche diverse ma interessi coincidenti. A Destra, la loro esistenza - e consistenza - contraddiceva il presunto monopolio, rivendicato in questa area politica, su un certo combattentismo, simulacro di una forma mentis fuoriuscita, insieme ai reduci, dalle fangose trincee della Prima Guerra Mondiale. A Sinistra, esse potevano rappresentare l'ingombrante, fallace passato del quale la cattiva coscienza di taluni socialismi europei era impaziente di sbarazzarsi. Sia la moderata Spd tedesca, partito a vocazione governativa, che il Psi italiano, dalla fraseologia massimalista e rivoluzionaria, seppur in presenza di contesti e referenti diversi, ebbero pesanti responsabilità nello spuntare le armi di una contro-risposta militare all'affermarsi dei fascismi nei due Paesi. Sul comunismo italiano pesava l'impostazione settaria degli esordi, mentre a quegli eredi tedeschi della Kpd, divenuti rispettabile partito-Stato a Est, probabilmente non avrebbe fatto piacere riemergessero i legami informali del partito, negli anni del crepuscolo di Weimar, con l'universo sotterraneo e lumpenproletariat delle gang e, più in generale, della devianza giovanile. Il 4 ottobre 1936, il giorno che a Londra una buona fetta di proletari dell'East End sbarrò la strada agli squadristi di Mosley, il direttivo cittadino del Partito comunista aveva esortato i militanti a partecipare a un comizio al centro, Trafalgar Square, precettandoli dal prendere parte attiva alla difesa della zona Est ma la base comunista non ebbe dubbio: scelse le barricate - e alcuni pagarono con l'espulsione dal partito.

I simboli di cui abbiamo parlato finora: tre frecce, svastica, logo dell'Antifa (aggiungiamo anche il fulmine cerchiato con la punta rivolta verso il basso, simbolo delle camicie nere inglesi adottato recentemente in Italia dal movimento studentesco neofascista Blocco Studentesco) abbandonato l'agone della politica mainstream e di massa, sarebbero tornati a scontrarsi, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, con buona dose di violenza, nel mondo underground delle aggregazioni giovanili e di strada.

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Il nostro viaggio attraverso l'Europa dell'antifascismo militante si conclude in Italia, a Roma, nei giorni della Resistenza all'occupazione nazista della città. Questo salto temporale di alcuni anni, infatti, può esserci utile per rispondere a una domanda: se la lotta partigiana, oltre ad essere stata un esempio di ribellione morale al regno della prevaricazione (caratteristica sulla quale si è spesso inceduto negli anni), ha comunque costituito una lotta fisica e armata condotta pressoché autonomamente da un improvvisata milizia di popolo contro le soverchianti forze di un Esercito di mestiere e ben armato (lotta di cui, per giunta, è stato riconosciuto, a posteriori, il valore nella sfera squisitamente militare sia dai tedeschi che dagli Alleati), da dove proveniva l'insieme di tecniche e conoscenze necessarie per metterla in atto?

Nelle precedenti pagine sono stati elencati i nomi di alcuni tra i principali organizzatori delle formazioni di autodifesa operaia tra le due guerre: cessata quella comune esperienza, i loro destini come individui furono diversi. In seguito alla vittoria nazista in Germania, Neumann fuggì dal Paese e, dopo un incerto pellegrinare, finì i suoi giorni a Mosca, dove nel 1937, venne eliminato dalla Polizia staliniana. Mierendorff organizzò il fronte interno di resistenza al nazismo cooperando sia con elementi civili che militari in occasione del fallito attentato a Hitler e putsch del 20 luglio '44. Thälmann, invece, fu arrestato dai nazisti il 3 marzo 1933 e, rinchiuso per più di undici anni, morì in un lager, a Buchenwald, nell'agosto del '44, ucciso da alcune Ss con un colpo di pistola sparato alla nuca. L'ordine di esecuzione era giunto direttamente da Hitler. Dall'infinita prigionia, il leader comunista scrisse: «Chi si pone per obiettivo quello di accendere i cuori degli altri con la sua fiamma interiore, costui getta una sfida al mondo dell'incomprensione, della negazione, al mondo ostile. Solo la lotta, infatti, ha un senso nella vita». In suo onore prese il nome di Thälmann la prima centuria di volontari tedeschi che accorse in Spagna per difendere la Repubblica e combatté con valore nelle Argonne. In Austria il generale Körner venne perseguitato e rinchiuso prima dalle squadre fasciste di Dolfuss poi dai nazisti. Deutsch riuscì, invece, a fuggire e partecipò all'epopea spagnola guidando le truppe repubblicane col grado di generale. Dalla Francia, Pivert, sfruttando il suo ruolo governativo, fece di tutto per far affluire armi al Poum spagnolo ma i suoi propositi incontrarono come ostacolo principale l'ipocrita posizione adottata dal suo stesso Governo col quale, infatti, finì per rompere ogni rapporto. Anche dall'Italia, uomini che per primi avevano fatto dell'antifascismo militante la loro bandiera, nei battaglioni degli Arditi del Popolo, accorsero in Spagna per partecipare alla prima, grande, internazionale, battaglia campale contro il fascismo. Essi misero la loro esperienza militare, maturata nelle trincee della guerra e/o sulle barricate della rivoluzione, al servizio delle giovani truppe di volontari che da ogni parte del mondo accorrevano sul fronte spagnolo per difendere la Repubblica:

La guerra era una tipica guerra di movimento per bande, che si spostavano di villaggio in villaggio: si tentava di conquistare un villaggio e se ciò non riusciva si scappava indietro fino al villaggio precedente. Noi cercammo di cambiare questo metodo e sul fronte di Aragona scavammo le prime trincee. Furono queste prime trincee che ci permisero il 28 agosto di resistere a un attacco scatenato in forze con autoblindo, mitragliatrici, cannoni [... ] effettivamente la trincea ci dava una superiorità nuova sugli altri, che non erano abituati a trovare truppe in trincea che resistevano in campo aperto.


«Oggi in Spagna domani in Italia», così recitava lo slogan antifascista coniato da Carlo Rosselli ed, effettivamente, tra mille peripezie e difficoltà, in seguito allo sfortunato epilogo spagnolo, molti tra i vecchi Arditi furono in testa nell'organizzare la lotta partigiana in Italia. Alcuni, come il leggendario comandante di Parma Guido Picelli, erano caduti sul fronte spagnolo, altri come il livornese Ilio Barontini e lo spezzino Umberto Marzocchi, per fare degli esempi, ebbero ruoli di primo piano nel movimento resistenziale. Nella città di Roma, tutto ebbe inizio coi combattimenti dell'8 settembre 1943, per dirla come lo scrittore e partigiano Vasco Pratolini:

Là dove si innalza la piramide di Caio Cestio e dove, accanto ai granatieri, sulla stessa linea di fuoco, qualcuno di noi, per la prima volta nella sua vita, aveva imbracciato un fucile, un mitra o lanciato una bomba a mano, costì, su codesta linea di fuoco, era cominciata la Resistenza italiana.

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