Copertina
Autore Susan George
Titolo "Come vincere la guerra di classe"
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2013, Serie Bianca , pag. 176, cop.fle., dim. 14x22x1,4 cm , Isbn 978-88-07-17254-0
Originale"Cette fois, en finir avec la démocratie. Le rapport Lugano II
EdizioneSeuil, Paris, 2012
TraduttoreStefano Valenti
LettoreRiccardo Terzi, 2013
Classe politica , economia , economia politica , economia finanziaria , guerra-pace
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Indice


 13 Lettera di trasmissione


    PRIMA PARTE

 21 L'evoluzione nel corso del passato decennio: a che punto siamo?

 22 Ambiente
 25   Storie meteorologiche dell'orrore

 33 Società
 33   Misurare la diseguaglianza sociale
 35   Che importanza possono avere?
 36   Spesa pubblica e sviluppo sociale
 40   Austerità: ideologia o economia?
 43   Fmi: un'azienda di fabbricazione ideologica?

 45 Finanza
 51   Gli stati oppressi dal debito


    SECONDA PARTE

 64 Buone notizie: esiti inattesi
 64   Primo esito inatteso: un inquietante silenzio e un vuoto politico
 67   Secondo esito inatteso: il ritorno di banche, banchieri e trader
 70   Terzo esito inatteso: il proliferare dei prodotti finanziari
 72   Quarto esito inatteso: il trionfo dei paradisi fiscali
 74   Quinto esito inatteso: l'irresistibile ascesa degli
      High Net Worth Individual
 77   Sesto esito inatteso: tasse, l'arma suprema della lotta di classe
 82   Riassunto delle buone notizie

 84 Rispondere alle grandi domande dei Committenti

 86 Governare la nave del capitalismo

 89 Serve un nuovo mito portante che sostituisca l'Illuminismo
 90   Le narrazioni gemelle: democrazia e diritti umani
 93   Diritti umani, "la letterina a Babbo Natale"
 95   I benefici dell'"identità politica"

 97 La guerra del grande paradigma
 98   Il Modello illuminista
 99   Il Modello economico/elitario neoliberista

103 Difendere il nuovo paradigma
105   Grandi costruttori di consenso
107   Un'altra grande mente al servizio della costruzione del consenso
110   Il Tea Party: un indizio di futuro?
114   Che cosa fanno i progressisti?
116   Sulle tracce del denaro

118 La lunga marcia verso il MEN: inizi di buon auspicio

121 Segretezza, prudenza, rapidità: una strategia per l'Europa
124   Un colpo di stato nell'Unione europea?
127   Nessuna reazione sul fronte Ue

131 Messa a punto e critica sociale

136 La prova matematica della fragilità

139 La giudiziosa scelta del campo di battaglia

141 Una preoccupante evoluzione: la crescita dei movimenti sociali

145 Verso la conclusione: ritornando al Rapporto Lugano I

149 Perché la filantropia è la nuova frontiera

156 L'industria del ventunesimo secolo? Una relazione da ripensare

159 Il rischio di indugiare

160 Un'altra nuova frontiera: investimenti alternativi

162 Finale

167 Note


 

 

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Pagina 22

Ambiente

Oggi dobbiamo confrontarci con molteplici cosiddetti disastri "naturali", con la perdita di biodiversità e con prove di volta in volta più evidenti del cambiamento climatico, cariche di drammatiche conseguenze. Nonostante il successo di alcune bizzarre idee scientifiche e di autori disonesti senza dubbio patrocinati da retrogradi rappresentanti di alcune industrie del diciannovesimo e del ventesimo secolo, negare il riscaldamento globale non è ormai un'alternativa accettabile. Il riscaldamento globale esiste ed è dovuto alla mano dell'uomo. Siamo entrati "nell'era dell'Antropocene", come l'ha definita uno dei massimi esperti di chimica dell'atmosfera e vincitore del premio Nobel, Paul Crutzen, un'era nella quale è l'umanità stessa a influire sui processi fisici, chimici e biologici e sulle caratteristiche del pianeta.

Siamo inoltre arrivati al punto in cui, anche nell'improbabile, ipotetica eventualità in cui tutte le nazioni della terra dovessero fermare domani gli impianti che utilizzano combustibile fossile o gas serra, il cambiamento climatico procederebbe quasi certamente ininterrotto in considerazione dei gas serra ormai presenti in atmosfera e del circuito di retroazione positiva in atto. Nessuno tuttavia può affermare con certezza che le emissioni di CO2 abbiano raggiunto il punto di non ritorno; nessuno sa esattamente quanto possano aumentare le temperature né in quanto tempo.

Il cambiamento climatico sottopone acqua e cibo a una crescente sollecitazione. Inattese aggressioni nei confronti del raccolto cerealicolo mondiale, dovute a siccità, incendi o alluvioni, contribuiscono a repentine carenze di scorte alimentari. Queste condizioni, unite alla diminuzione delle riserve di grano, alla speculazione finanziaria sul cibo e all'intensa riconversione a piantagioni di biocombustibile dei terreni agricoli, un tempo riservati alla produzione alimentare, incidono sull'aumento dei prezzi.

Oltre trenta rivolte dovute a carenze di cibo in località geografiche del tutto diverse le une dalle altre hanno evidenziato nel 2008 come la scarsità alimentare non rappresenti più un fenomeno locale. I costi degli alimenti base diventano sempre più inaccessibili a milioni di persone il cui onere principale è quello alimentare. In base ai calcoli dell'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura delle Nazioni Unite (Fao) nel 2008 altri 100 milioni di persone sono entrati nel novero di coloro che soffrono di fame cronica. Nel 2009 e nel 2010 il costo degli alimenti è diminuito, ma è di nuovo cresciuto nel 2011 quando, in aprile, la Fao ha annunciato che il costo dei cereali aveva toccato l'indice stellare di 265, non lontano dal record di 274 raggiunto nell'anno di crisi 2008. Nel 2012 le riserve di grano sono crollate di diversi milioni di tonnellate a causa della siccità record registrata negli Stati Uniti. Perfino nei periodi di raccolto, quando le scorte sono più abbondanti, l'indice Fao era intorno al valore di 260. Il costo del cibo è destinato a rimanere volatile e la sofferenza dei poveri è destinata a rimanere invariata.

Questa carenza di scorte e il conseguente problema dei costi solleveranno problemi sociali e politici sia nei paesi poveri sia nei paesi ricchi. Le nazioni che possono permetterselo tenteranno di acquistare sui mercati internazionali cereali a qualsiasi prezzo facendo lievitare i costi; altri paesi porranno il bando all'esportazione in contrasto con il carattere e le regole del commercio internazionale. Il valore delle importazioni alimentari ha raggiunto i 1400 miliardi di dollari nel 2012.

Alcuni paesi con economie in forte ascesa e inadeguata produzione alimentare stanno acquisendo attraverso la pratica del land-grabbing - l'accaparramento di territori vergini da deboli ma avidi governi di paesi poveri che conservano riserve di terreno fertile - terre che non sono "libere" come si ritiene convenientemente, ma tradizionalmente occupate da comunità che non ne hanno titolo formale e che vengono con facilità allontanate, se necessario manu militari. Paesi come Cina, Corea del Sud, Arabia Saudita e diversi stati del Golfo possono permettersi di praticare questa nuova forma di colonialismo e contare su queste terre, la maggioranza delle quali in Africa, per produrre cibo sufficiente a soddisfare le proprie popolazioni in qualunque circostanza.

Fin qui i politici hanno dimostrato scarsa capacità e volontà di far fronte a queste nuove realtà, sia nei paesi con eccedenze alimentari sia in quelli con carenze alimentari. Le "Cop" - Conferenze delle Parti delle Nazioni Unite - sui cambiamenti climatici di Copenhagen (2009), Cancun (2010) e Durban (2012) hanno tutte avuto esito negativo. Alcune di queste nuove evoluzioni potrebbero rivelarsi vantaggiose per i Committenti, come vedremo nella Seconda parte del Rapporto Lugano II; tuttavia dovranno tenere presente che le rivolte per il cibo e le sollevazioni popolari potrebbero in alcuni casi rivelarsi una minaccia per gli investimenti.

Lo stress idrico è altrettanto rilevante nella scena mondiale, non soltanto a causa della siccità ma anche dell'inquinamento, delle continue "escavazioni" della falda acquifera e del suo crescente sfruttamento industriale e agricolo nei paesi a forte espansione economica, come, per esempio, Cina e India. I mercati e le multinazionali hanno riconosciuto che una nuova fonte di profitti è garantita dalle due principali necessità di base dell'umanità, il cibo e l'acqua. Abbiamo perfino letto di un hedge fund che ha acquistato il diritto d'usufrutto per 95 anni di tre ghiacciai in prossimità di porti del Nord Europa.

Gli affamati e assetati che non hanno strumenti che consentano loro di diventare "clienti" possono ritrovarsi esclusi da questo nuovo gioco economico, vale a dire dall'accesso agli elementi base dell'esistenza umana. Le Nazioni Unite prevedono decine se non centinaia di milioni di rifugiati climatici nei confronti dei quali governi e agenzie internazionali hanno preso provvedimenti irrilevanti o non ne hanno presi affatto. Gravi crisi alimentari accompagnate da migrazioni di massa sono in corso in paesi vulnerabili come quelli del Corno d'Africa, mentre le nazioni ricche hanno problemi finanziari e politici e riducono di conseguenza il contributo alla cooperazione internazionale. Nei prossimi bilanci sono previsti ulteriori tagli agli aiuti allo sviluppo o alimentari.

E per quanto riguarda l'impatto sanitario del cambiamento climatico, la prestigiosa rivista "The Lancet" ha suonato l'allarme: "Il cambiamento climatico è la principale minaccia globale alla salute nel ventunesimo secolo". Questa dichiarazione apre e riassume il rapporto finale della Commissione voluta congiuntamente da "The Lancet" e dall'Institute for Global Health dell'University College London (Ucl), il cui lavoro è durato un anno. Il cambiamento climatico avrà il massimo impatto sui più poveri della terra: farà aumentare le diseguaglianze e gli effetti del riscaldamento globale avranno ripercussioni dirette sulla salute di tutti. Eppure questo messaggio non è stato inserito nelle discussioni pubbliche sul cambiamento climatico. E gli addetti alla sanità hanno appena cominciato a interessarsi a un tema che rappresenterà il punto focale delle loro ricerche e dei piani di intervento generale e di difesa della popolazione.


Storie meteorologiche dell'orrore

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Pagina 33

Società

Come avevamo previsto nel 1999, profonde diseguaglianze sociali e disoccupazione si sono estese nel decennio trascorso in tutto il mondo occidentale e affliggono ora non soltanto le classi povere ma anche sempre più larghi segmenti della classe media.

Il sistema capitalista occidentale sta diventando fragile, instabile e vulnerabile; la sua capacità di reagire con reattività e resilienza a circostanze impreviste diminuisce a vista d'occhio. L'opposizione al sistema si manifesta in luoghi e modi attesi e inattesi. In una fiorente economia di mercato capitalista è necessario stabilire il grado di diseguaglianza sociale tollerabile e ogni nazione deve, per così dire, determinare il proprio "coefficiente di Gini" ottimale.


Misurare la diseguaglianza sociale

Per i Committenti che non conoscono questo utile indicatore, il coefficiente di Gini (introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini) è un numero compreso tra O e 1 che misura la distribuzione del reddito in una determinata società. Un coefficiente O corrisponde a una equa distribuzione. Un coefficiente 1 corrisponde alla massima concentrazione, vale a dire la situazione nella quale una persona percepisca tutto il reddito del paese - entrambi i casi sono evidentemente impossibili. Il coefficiente di Gini non dice niente riguardo alla quantità di ricchezza disponibile limitandosi a misurarne la diseguaglianza della distribuzione.

Che cosa apprendiamo nel consultare questi indici? Dimostrano che società prospere, evolute, ricche, libere e democratiche con fiorenti economie di mercato vantano nel loro insieme bassi coefficienti che variano da 0,20 a 0,30 (paesi scandinavi, Lussemburgo, Germania, Belgio, Austria e altri), da 0,30 a 0,40 (Australia, Irlanda, Canada, Francia, Olanda, Svizzera, Corea del Sud, quasi tutta l'Europa dell'Est) con Italia, Gran Bretagna e Giappone collocati nella parte alta dello 0,30. Qualunque dato inferiore allo 0,40 denota un grado tollerabile di diseguaglianza e una struttura nazionale con un ridotto malcontento sociale.

Oltre lo 0,50 troviamo quasi tutta l'America Latina, tradizionalmente una regione di forti diseguaglianze, oltre che paesi africani come Sudafrica, Zambia e Zimbabwe; mentre le posizioni oltre lo 0,60 sono riservate, con l'eccezione della Bolivia, ai più poveri tra gli stati africani. Il triste primato mondiale è detenuto dalla Namibia con lo 0,74.

Nonostante esista la possibilità di avere un coefficiente basso ed essere tuttavia un paese estremamente povero, come nel caso di Etiopia e Kirghizistan, un basso coefficiente è in genere preferibile se l'obiettivo è registrare mercati funzionanti, sviluppo sociale ed economico e il benessere della popolazione. Nel caso degli Stati Uniti entriamo nel critico territorio della distribuzione diseguale di ricchezza. Il coefficiente 0,45 li colloca al 41° posto con una distribuzione del reddito pericolosamente sbilanciata in favore dei più ricchi. Gli Stati Uniti sono inoltre il paese in cui la disparità di reddito è aumentata nel modo più repentino.

Nessun altro paese ricco registra un livello di diseguaglianza simile a quello degli Stati Uniti, collocati fra Uruguay e Costa d'Avorio, a meno di non prendere in considerazione il minuscolo stato di Singapore. Prima di incontrare un paese europeo o un altro paese socialmente ed economicamente avanzato anche in parte comparabile al punteggio degli Stati Uniti è necessario scendere al 61° posto (Israele, 0,392), al 63° (Portogallo, 0,385) e al 64° (Giappone, 0,381). In base agli ultimi dati disponibili, il rapporto 2010 dello United States Census Bureau, la diseguaglianza negli Stati Uniti era superiore a quella di Iran e Uganda.


Che importanza possono avere?

Qualcuno potrebbe destituire di valore questi dati o chiedersi che importanza possono avere. I cittadini degli Stati Uniti non hanno mostrato segnali di rivolta né si sono messi a marciare su Washington o Wall Street all'urlo di "Tagliate loro la testa". Il movimento Occupy, di cui parleremo nella Seconda parte, è rimasto risolutamente non-violento. Ribadiamo tuttavia che importanza ne ha eccome, non foss'altro perché la diseguaglianza è notevolmente costosa per la società nel suo insieme e può rappresentare un serio inconveniente non esclusivamente per le classi povere e medie ma perfino per i ricchi. Profonde e intrecciate divisioni sociali sono a tal punto costose che sarà sufficiente elencarle senza ulteriori elaborazioni. Leader responsabili e consapevoli dei costi sociali preferiranno di certo evitare fenomeni come l'aumento delle diseguaglianze.

Le persone ricche possono trovare riparo da alcuni di questi fenomeni ma non da tutti. Inoltre, maggiori sono le diseguaglianze di reddito, maggiori saranno le differenze di classe, al punto che coloro che si trovano in cima alla scala sociale avranno poco o niente in comune con coloro che si trovano agli ultimi posti. Perfino la lingua parlata nello stesso paese potrebbe differenziarsi. Una tale condizione può facilmente diventare socialmente, politicamente e fisicamente pericolosa, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri.

Limitandoci ai paesi sviluppati, le conseguenze statisticamente correlate con elevati livelli di diseguaglianza sono le seguenti:

- una ridotta speranza di vita, non soltanto per le minoranze etniche, ma anche per la popolazione bianca indigena;

- una elevata mortalità infantile;

- una elevata incidenza di patologie cliniche come malattie cardiache, tumori, diabete e obesità;

- una elevata incidenza di patologie sociali come malattie mentali, depressione, stress clinico, suicidio; gravidanze minorili o indesiderate; dipendenza da droga o da alcol; crimini violenti, omicidi e suicidi, delinquenza giovanile; bassa qualità educativa; abbandono scolastico, analfabetismo funzionale;

- disintegrazioni familiari, divorzi, violenze domestiche;

- elevata popolazione carceraria.

Questi effetti sono esacerbati dalla costante pressione psicologica registrata da coloro che non si sentono rispettati; da coloro che sanno di essere ignorati o guardati dall'alto in basso dagli altri cittadini. Effetti simili sono dannosi per coloro che ne soffrono direttamente ma hanno ripercussioni anche sui ricchi. Basti pensare ai tassi di sequestri di persona in paesi come il Brasile o al proliferare negli Stati Uniti di comunità recintate e di Suv (acquistati perché al loro interno le persone si sentono al sicuro), di massacri commessi da individui dotati di armi d'assalto.

Più sorprendente, forse, il fatto che paesi con una diseguaglianza maggiore siano al contempo meno creativi e innovativi, a giudicare dal numero di brevetti per numero di abitanti. Queste correlazioni sono tutte fondate su dati robusti e statisticamente significativi riferiti a una grande varietà di paesi sviluppati. Questa credibilità cumulativa è troppo solida per essere negata.


Spesa pubblica e sviluppo sociale

È una evidente verità economica che esistano forti, costanti e peemanenti legami fra livelli di spesa pubblica da un lato e sviluppo sociale ed economico dall'altro. Le società prospere, quelle con il Prodotto interno lordo (Pil) più alto, oltre ad avere bassi tassi di diseguaglianza fanno anche registrare un'elevata spesa pubblica. Il termine "spesa pubblica" include quella di qualsiasi entità pubblica a qualunque livello, dal comune allo stato, dal regionale al nazionale.

Le statistiche nazionali dimostrano senza eccezione che, storicamente, un'elevata spesa pubblica equivale a una crescita del benessere economico e sociale. Per quanto possa apparire incredibile, o così appariva a noi della Commissione di studio in un primo momento, "circa la metà dei lavori nel mondo è sostenuta dalla spesa pubblica; due terzi di questi sono creati nel settore privato attraverso contratti ed effetti moltiplicatori".

Ma ciononostante, e con poche prove teoriche o pratiche a sostegno, i governi del ricco Occidente e le principali istituzioni, come la Commissione europea, la Banca centrale europea (Bce), molti funzionari del Fondo monetario internazionale (Fmi) e influenti paesi europei come Germania e Francia hanno scelto di combattere le devastanti conseguenze della crisi finanziaria con profondi tagli alla spesa pubblica e una generale austerità dei bilanci governativi. Politiche simili producono temporanei ritorni di capitale grazie a privatizzazioni, diminuzione della pressione sui salari e riduzione delle tasse, ma alla fine i governi che le adottano pagheranno elevati costi sociali generati dalle loro decisioni. Devono scegliere fra il breve e il lungo periodo.

I dati dimostrano che le politiche di "austerità" diventate di recente la "regola aurea" dell'Unione europea non sono economicamente né socialmente utili e saranno strutturalmente inadatte a raggiungere gli obiettivi stabiliti da coloro che le promuovono. Il termine di derivazione tedesca "austerità espansiva" è un ossimoro; quello che il capo economista al Fmi, Olivier Blanchard, ha definito "guidare l'economia globale con il freno tirato".

Dobbiamo quindi chiederci quali siano le reali motivazioni nascoste dietro queste scelte e se queste siano davvero le scelte preferite dai Committenti. L'inflazione non rappresenta un evidente e immediato pericolo sull'orizzonte europeo e i governi - nel caso facessero scelte politiche diverse - potrebbero permettersi di creare più occupazione favorendo un rilancio dell'economia oltre che la creazione di posti di lavoro.

Siamo in grado di dimostrare ulteriormente e in modo inequivocabile il legame esistente fra spesa pubblica e sviluppo economico.

[...]


Se le decisioni dei leader occidentali sono prese in base a motivazioni di ordine ideologico anziché economico, la ragione potrebbe risiedere nella convinzione che il controllo della politica pubblica da parte del mercato - in particolare del mercato finanziario - valga il rischio, compreso quello di tensioni sociali. Rifiutiamo di scegliere fra ipotesi, non è il nostro ruolo. Ma ci sentiamo costretti a sottolineare che, da un punto di vista logico, delle due cose l'una:


o i dirigenti europei - in particolare quelli tedeschi che, insieme con la Commissione europea e la Bce, guidano il processo - non hanno piena comprensione dei fondamenti economici e ritengono davvero che la retorica dell'"austerità espansiva" possa "rassicurare i mercati finanziari" e incentivare investimenti, ripresa economica e, in un arco di tempo imprecisato, un elevato se non il pieno impiego;

oppure questa dirigenza si limita ad assecondare esplicitamente i dettami del capitale, accogliendo senza discuterle le richieste dell'impresa e della finanza, attaccando a testa bassa le conquiste materiali e sociali dei lavoratori degli ultimi cinquant'anni, consapevole che le politiche di austerità determineranno non solo una recrudescenza di sofferenze umane ma un generale deterioramento delle condizioni economiche.


Se la seconda ipotesi è corretta - vale a dire, se si intende pacificare i mercati disciplinando la forza lavoro attraverso riduzioni di costi in favore dell'impresa anche a rischio di una disoccupazione di massa - questa dirigenza eserciterà una pressione costante sul ribasso di salari, contributi sociali e pensionistici aumentando le ore di lavoro; favorirà la privatizzazione dei servizi pubblici e aumenterà la tassazione che pesa sull'80% della popolazione, lasciando intatta quella sul 20% e in particolare sull'1% più ricco. Noi consideriamo tutto questo un gioco pericoloso che può facilmente diventare incontrollabile.

Un approccio, questo, che non può di certo funzionare, se per "funzionare" intendiamo promuovere la ripresa economica. La conferma arriva dai casi dei paesi più colpiti dalla crisi, come Grecia, Irlanda o Spagna, che navigano a vista di crisi in crisi.

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Pagina 52

Quando abbiamo cominciato la nostra indagine abbiamo valutato con attenzione le conclusioni di due economisti della Bank of England i quali calcolavano che nel 2009 il totale dei versamenti dei governi occidentali a banche inglesi, europee e degli Stati Uniti, compresi anticipi e depositi a garanzia, ammontava a 14.000 miliardi di dollari, approssimativamente la dimensione del Pil degli Stati Uniti dell'epoca e del loro attuale debito sovrano.

Ora, tuttavia, sono venute alla luce nuove prove che dimostrano come questi funzionari della Bank of England non avessero accesso a tutti i dati, tenuti, come il resto, segreti. La sorprendente verità circa gli aiuti del governo degli Stati Uniti al settore finanziario non è infatti venuta alla luce prima della metà del 2011 e soltanto grazie al senatore "socialista indipendente", come lui stesso si è definito, Bernie Sanders, il quale ha costretto la Federal Reserve a pubblicare per la prima volta nella sua storia una verifica contabile completa. E questa verifica contabile ha rivelato una scioccante realtà: La sola Federal Reserve ha distribuito oltre 16.000 miliardi di dollari in prestiti segreti non soltanto per salvare banche degli Stati Uniti ma anche numerose banche estere.

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Pagina 56

In situazioni fiorenti il debito pubblico è consacrato a investimenti produttivi - infrastrutture quali strade, ponti, reti di trasporto, scuole, ospedali; ricerca e sussidi sociali per disabili, bambini, anziani, disoccupati e così via. Misure che riducono le diseguaglianze e servono il bene comune.

In situazioni difficili lo stato chiede soldi in prestito, vale a dire emette titoli di stato a medio o a breve termine, per coprire la spesa corrente. E quando un governo comincia a chiedere denaro in prestito per la spesa corrente i guai sono dietro l'angolo.

Il caso del debito sovrano dell'Irlanda è il più lampante e, diciamolo pure, il più grottesco. Il governo irlandese si era limitato ad annunciare che avrebbe rimborsato i creditori delle banche private irlandesi indebitate e al collasso e voilà! Il risultato è stato un incremento del 274% del debito pubblico.

È giusto quindi distinguere tra debito sovrano "buono" e "cattivo". Ma in ogni caso sarebbe meglio evitare l'errore, in cui incorrono i media, di considerare il debito pubblico alla stregua del debito di una famiglia. Mentre una famiglia non può vivere a lungo al di sopra dei propri mezzi, un governo lo fa abitualmente e a lungo.

È perfettamente normale per un governo emettere buoni del Tesoro e pagare interessi agli obbligazionisti. Quando una nazione ricca e stabile emette dei bond, questi sono in genere considerati "meglio dell'oro", visto che l'oro non dà interessi. Dipende tutto dal motivo per il quale lo stato ha chiesto denaro in prestito, da quanto è cresciuto il debito sovrano in percentuale sul Pil e se la grandezza del debito minaccia la stabilità del paese e la sua futura capacità di indebitarsi.

Un'altra ragione della crescita del debito sovrano nasce dalla necessità degli stati di coprire le garanzie con le istituzioni finanziarie nel caso le cose andassero male. L'unico strumento disponibile era la creazione di ulteriore debito pubblico e per questa ragione è stato commesso il peccato mortale dell'ortodossia economica, vale a dire chiedere in prestito denaro per coprire la spesa corrente. E nonostante i governi sostengano di "non avere avuto altra scelta", le banche venivano sempre per prime. Alcuni irriducibili insistono nel dire che sarebbe stato sufficiente lasciare fallire gli istituti di credito, ma l'ortodossia capitalista, in cui la bancarotta è sempre una possibilità, è costretta ad arretrare davanti al mantra too big to fail.

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Pagina 59

Sarebbe assurdo se chi acquistasse buoni del Tesoro degli Stati Uniti si chiedesse se sta acquistando il debito del New Jersey, del Nuovo Messico o del Nebraska; sarebbe altrettanto assurdo chiedere in Europa se un eurobond rappresenta il debito della Slovenia o della Francia. Un elemento da non sottovalutare, infine, il fatto che il mercato degli eurobond diventerebbe troppo grande per essere attaccato.

Quando George Bush ha assunto la presidenza degli Stati Uniti nel gennaio 2001, ha proceduto raddoppiando il debito lasciato dall'amministrazione Clinton combattendo numerose guerre costose. Ma il colpo di grazia fu il finanziamento dei salvataggi nel 2008.

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Pagina 77

Sesto esito inatteso: tasse, l'arma suprema della lotta di classe

Un'altra buona notizia, forse la migliore di tutte: la vetta dorata della concentrazione patrimoniale, la vetta inespugnata da decenni se non da secoli, intimidisce non soltanto individui e società ma anche governi invischiati nella crisi. Nessun governo di paesi in cui il debito sovrano è cresciuto a dismisura raggiungendo un'insostenibile percentuale del Pil a causa della crisi economica - dei ricorrenti piani di salvataggio, della contrazione della crescita, della riduzione delle tasse e dell'aumento delle uscite per sussidi di disoccupazione - ha chiesto un aumento del contributo di coloro che si trovano sull'inaccessibile vetta della montagna. Non hanno semplicemente osato farlo. Questi governi hanno invece colto l'opportunità approvando misure di austerità che colpiscono a fondo le classi più povere. L'Europa è concretamente impegnata a trasformare questi programmi in istituzioni giuridiche permanenti, in trattati che sostituiscano gli ordinamenti nazionali.

Esseri umani mortali, quali funzionari pubblici, salariati e stipendiati, pensionati, studenti, contadini e così via, vedono le proprie entrate decurtate e ridotto il proprio potere d'acquisto e assistono al contempo al declassamento dei servizi pubblici su cui facevano affidamento. I governi hanno imparato a ripetere come un mantra ai propri cittadini: "Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità".

È una menzogna. Ma dal momento che la maggioranza delle persone ritiene che un budget familiare e un bilancio statale debbano obbedire alle medesime regole e sanno per esperienza personale che una famiglia non può vivere a lungo al di sopra delle proprie possibilità senza andare incontro a problemi, sono pronti a crederci. La Commissione europea ne è consapevole ed è dunque in grado di imporre misure che provocherebbero altrimenti la furia popolare. Consigliati da multinazionali e confraternite finanziarie, i governi sono determinati a tagliare le spese, a cominciare dai bersagli facili, come sanità, istruzione, cultura e servizi sociali. Per soddisfare le richieste delle multinazionali e sostenuti dalle istituzioni europee e dal Fmi, hanno messo in agenda politiche di controllo salariale e di inasprimento delle condizioni di lavoro in una corsa alla riduzione dei costi dichiarata urgente, almeno da coloro che li pagano.

Un bilancio ha due colonne: una delle uscite, l'altra delle entrate, ma i governi sono stati in genere abili nel tenere la seconda al riparo da occhi indiscreti. Le entrate provengono da contribuenti, consumatori, famiglie e imprese, ma il pubblico non ha idea di chi paga e quanto. E tuttavia, del famoso adagio, "non c'è niente di certo al mondo tranne la morte e le tasse", in molti casi rimane appena la morte. Nei due scorsi decenni i governi occidentali hanno organizzato generose riduzioni delle tasse per multinazionali e famiglie ricche - accrescendo le fila degli Hnwi.

Negli Stati Uniti, il presidente Bush junior ha ridotto le tasse ai ricchi portandole al livello più basso dagli anni venti del secolo scorso. Mentre nel 1961 gli americani con guadagni annuali di milioni di dollari versavano al governo federale il 43% dei loro redditi, nel 2008 i loro pari con redditi equivalenti versavano appena il 23%.

Molti di loro hanno pagato di meno. Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi al mondo, ha pubblicato sul "New York Times" un articolo che era un'invocazione, intitolato Stop Coddling the Super-Rich, basta coccolare i super-ricchi. Nel rispetto assoluto della legge, Buffett raccontava di pagare appena "il 17,4% del mio reddito imponibile - molto meno di quanto paga uno qualunque dei venti collaboratori del mio ufficio, per i quali l'onere fiscale varia dal 33 al 41%, con una media del 36%...".

Il "saggio di Omaha", come è definito da molti con deferenza, ha continuato raccontando come, a causa del modo in cui sono strutturati il sistema fiscale e gli interessi negli Stati Uniti,

per chi fa soldi con i soldi, come alcuni dei miei amici super-ricchi, la percentuale d'imposta potrebbe essere persino inferiore alla mia. Ma se guadagnate soldi da un lavoro, la vostra percentuale sarà sicuramente più alta della mia - e probabilmente di un bel po'.


Coloro che difendono il taglio delle tasse per i ricchi negli Stati Uniti e altrove argomentano che tassare di più i grandi ricchi non cambierebbe di molto le cose dal momento che non ci sono molti grandi ricchi. Queste stesse persone sostengono che se i ricchi fossero obbligati a pagare tasse più alte non investirebbero più, che la creazione di posti di lavoro ne risentirebbe o che - in casi estremi - se fossero tartassati farebbero le valigie e se ne andrebbero. Affermazioni di questo genere sono false o indicano al massimo pericoli marginali. Come dice il leggendario investitore Buffett: "Ho lavorato per sessant'anni e devo ancora conoscere qualcuno che si astiene dall'investire perché i guadagni saranno minori".

La creazione di posti di lavoro era maggiore sia negli Stati Uniti sia in Europa negli anni in cui le tasse erano più alte e progressive. Le società investono in un determinato paese per avvantaggiarsi della qualità complessiva della vita, dei servizi pubblici e di una forza lavoro istruita, produttiva e in buona salute, e non prima di tutto per il livello di tassazione. Se nella fase iniziale di apertura al mercato l'Irlanda, definita all'epoca "tigre celtica", ha ottenuto un notevole successo grazie a un'imposta sulle società del 12,5%, non ha potuto fare nulla quando grandi multinazionali come la Dell Computers hanno deciso di andare a pascolare in distese più verdi, di frequente nell'Europa dell'Est.

[...]

In ogni paese le società più grandi sono necessariamente le multinazionali. Possono facilmente evitare le tasse nelle giurisdizioni a maggiore pressione fiscale utilizzando uno o più paradisi fiscali e fare facili profitti grazie ad aliquote fiscali dallo 0% al 10%. In ogni paese occidentale, il trend è alti margini di guadagno per il capitale, bassi margini di guadagno per il lavoro e smantellamento dello stato sociale. La prova di quanto diciamo è sotto gli occhi di tutti: nonostante le tensioni e la rabbia pubblica, come dice Warren Buffett, i Committenti e i loro pari hanno vinto. Ma, ha aggiunto Buffett, tutto questo potrebbe non essere un toccasana.

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Riassunto delle buone notizie

Ricapitoliamo ora i sei esiti inattesi della crisi e il perché le classi ricche e potenti dell'Occidente stanno vincendo la guerra di classe:

1. Nessuna severa norma di regolamentazione è stata imposta in nessun campo; niente che si avvicini alla portata del New Deal. La politica pubblica è in larga misura paralizzata.

2. Banche e banchieri sono di nuovo al comando. La crisi era ancora agli inizi e i banchieri usavano il denaro pubblico dei piani di salvataggio per aumentarsi i salari e versarsi munifici bonus. Ex banchieri, conosciuti ora con il nome di "tecnocrati", sono adesso alla guida dei governi dei paesi "peccatori" ed è possibile fare affidamento su di loro perché continuino a restituire il debito ad adeguati tassi di interesse.

3. I prodotti finanziari stanno ancora proliferando e alcuni, in particolare valute e derivati, sono scambiati in quantità superiori al passato. Il flash trading con le sue decine di migliaia di operazioni al secondo è il benvenuto come se fosse altrettanto sicuro dei metodi classici.

4. I paradisi fiscali non solo sono rimasti attivi ma prosperano più che mai. Non è stato fatto virtualmente niente per illuminare gli angoli bui di queste giurisdizioni segrete e nonostante l'invio ad autorità nazionali dietro pagamento di elenchi di clienti da parte di qualche occasionale funzionario scontento, la copertura resta più che mai solida grazie a regolamentazioni pretestuose.

5. Il numero dei super-ricchi e l'entità delle loro fortune individuali e collettive non solo sono in ripresa dalla crisi ma sono significativamente aumentati.

6. I costi della crisi sono sostenuti in modo preponderante dalla gente comune. Nonostante non oseremmo mai dirlo in pubblico, la crisi ha portato con sé un altro esito imprevisto: un rovesciamento della morale convenzionale. Non è il nostro lavoro predicare moralità, convenzionale o meno: desideriamo semplicemente sottolineare come in questo momento i colpevoli siano premiati e gli innocenti puniti. Questo è forse il più straordinario e inatteso degli esiti dall'inizio della crisi.


Nonostante questi esiti della crisi sorprendentemente favorevoli per la finanza e gli Hnwi, non c'è stata opposizione. Nessun intellettuale e politico di un certo rilievo ha osato pronunciare parole sgradevoli come "nazionalizzazione" o "socializzazione" delle banche né tantomeno del settore finanziario. E, fatta eccezione per una frangia ridotta di attivisti sociali disorganizzati e disuniti, queste parole non trovano accoglienza e riteniamo si possa contare sui media perché rimangano emarginate dal dibattito.

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La Dichiarazione universale del 1948 è indubbiamente il primo esempio di intromissione delle Nazioni Unite in materie che non le riguardano e che non dovrebbero riguardarle, in cui promettono tutto a tutti. Naturalmente non promettono costose automobili e grandi case come nel nostro esempio estremo. Ma viene da chiedersi se sia possibile che qualcuno prenda seriamente in considerazione l'idea (se merita di essere definita tale) contenuta in questo spropositato documento:

Ogni individuo ha il diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari, e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. (Articolo 25, 1)

Possiamo immaginare l'interminabile accapigliarsi in un'aula di tribunale circa le circostanze da considerare o meno "indipendenti dalla volontà del giudicato". Ma forse la nostra rabbia intellettuale riguardo alla mancanza di rigore della Dichiarazione dei diritti dell'uomo ci impedisce di coglierne i vantaggi. Potrebbe per esempio fiaccare il desiderio di mobilitarsi in favore di obiettivi concreti, inibire la gente dall'uscire e andare a combattere invece di restarsene a casa ad attendere che qualcosa accada per il semplice fatto che le Nazioni Unite o qualche utopista visionario affermano che accadrà. Eppure la recente tendenza a dichiarare che certe merci, come il cibo, l'acqua o l'energia siano di fatto "diritti" non soltanto è assurda ma estremamente pericolosa per l'economia capitalista. Dal momento che agli occhi dei filantropi un "diritto" è necessariamente universale e applicabile a chiunque, non può essere posto sul mercato perché qualcuno ne sarebbe inevitabilmente escluso - non esisterebbe un mercato altrimenti. Le merci devono avere un prezzo; non sono "beni comuni" - che sono "comuni" proprio perché un prezzo non ce l'hanno. Se le due categorie fossero confuse e mescolate insieme si avrebbe un grande spreco di risorse e di conseguenza una grande penuria. Nemmeno una limitata immissione gratuita di questo genere di merci, ammessa dai sostenitori di questi pretestuosi "diritti", sarebbe tollerabile dal mercato, soprattutto in considerazione della travolgente crescita della popolazione. La recente fantasia secondo cui la terra stessa avrebbe diritti (un'argomentazione usata per dichiarare illegali trivellazioni ed escavazioni minerarie) è un'abnorme assurdità.

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La guerra del grande paradigma

Definiamo ora il compito di "costruire il consenso" e l'obiettivo finale: la necessità di completare la trasformazione da quello che chiameremo "il Modello illuminista" (MI) al "Modello economico neoliberista" o "Modello elitario neoliberista" (MEN, dove la "E" significa sia "economico" sia "elitario").

Un modello che occupa l'intero corso intellettuale e culturale di un determinato periodo in una determinata società può essere definito paradigma - l'insieme di assunzioni solitamente inconsce, inespresse, che costituiscono il fondamento del comportamento conscio; il famoso modello dentro il quale è difficile essere liberi e creativi; l'acqua nella quale il pesce nuota senza sospettare che possano esistere altri ambienti come l'aria. I paradigmi definiscono ciò che è possibile pensare e ciò che non è possibile pensare in determinati momenti storici; i paradigmi operano anche in aree specifiche come le arti e le scienze. Determinano il corso delle cose umane e l'avvento di un nuovo paradigma è naturalmente apportatore di resistenze, dolore, conflitti in ogni campo. Sia sufficiente pensare alla sofferta trasformazione dal mondo geocentrico al mondo eliocentrico con eroi e martiri e l'epica lotta per fare accettare alla Chiesa la verità che fosse la terra a girare intorno al sole e non viceversa.

In questo preciso momento storico - l'Occidente nel secondo decennio del nuovo millennio - lo scontro fra il vecchio e il nuovo ruota intorno a un conflitto di grande importanza sulle idee o, se si preferisce, sui valori che dovrebbero governare la società. Nel conflitto fra terra e sole il criterio era la verità scientifica, anche se le implicazioni umane e religiose erano molto più vaste. Un ruolo simile lo gioca, nella nostra epoca, la teoria scientifica dell'evoluzione. Nonostante le schiaccianti prove scientifiche in favore dell'evoluzione, creazionisti e sostenitori del "disegno intelligente" resistono fieramente e il dato che gli esseri umani condividano il 96% dei propri geni con gli scimpanzé provoca in loro rabbia. In genere, tuttavia, per stabilire la superiorità di questo o di quel modello, i pensatori si rifanno a criteri arbitrari, in particolare morali.


Il Modello illuminista

Esaminiamo separatamente i due paradigmi in lotta oggi per la supremazia.

I difensori del paradigma o Modello illuminista (MI) mettono l'accento sui seguenti punti:

- i valori illuministi promettono una superiore libertà oltre che l'emancipazione dell'umanità dalla tirannia e dall'oppressione. Questi valori negli anni hanno incoraggiato una varietà di iniziative: dall'antischiavismo/antirazzismo o dai movimenti anticoloniali e di liberazione all'imprenditoria, alla promozione dello stato sociale e al voto femminile; dai miglioramenti salariali e delle condizioni di lavoro ai servizi pubblici e sociali e così via;

- per quanto riguarda l'organizzazione sociale, il Modello illuminista mette l'accento sulla sua capacità di fornire in una determinata società il maggiore benessere e la migliore soddisfazione psicologica (felicità) possibile al più esteso numero possibile di persone. Il MI desidera assicurare l'eguaglianza di genere e razziale e le cure in favore dei membri più deboli della società; è conscio delle particolari esigenze di giovani, anziani, malati e disabili;

- per quanto riguarda l'organizzazione politica, il Modello illuminista insiste sul governo costituzionale, la supremazia della legge, le libere elezioni, la separazione del potere esecutivo, legislativo e giudiziario, un sistema di restrizioni che possa contrastare gli eccessi del potere, separazione fra stato e Chiesa, diritti individuali definiti e protetti, come libertà di religione, di espressione, di stampa, di fare famiglia e di riservatezza;

- per quanto riguarda la vita intellettuale e culturale della società, il Modello illuminista incoraggia le arti, il rispetto e la pratica della scienza, promuove la libera ricerca, la razionalità e il confronto. Mette in risalto la necessità di educare i cittadini a uno standard comune in modo che sappiano autogovernarsi e ottenere il massimo da se stessi.


Per l'ennesima volta, come è stato notato in precedenza, stiamo descrivendo una tipologia ideale. I difensori del Modello illuminista potrebbero riconoscerne per primi le imperfezioni non solo in questa o quella determinata società esistente ma nella storia stessa dei paesi in cui l'Illuminismo è nato, fra le quali la miserabile incursione colonialista, le guerre e numerosi esempi di disumanità.

Il Modello illuminista è in generale fondato sulla nozione di "contratto sociale" messa a punto dal grande pensatore illuminista Jean-Jacques Rousseau nel 1762; fu in seguito fondata sui principi utilitaristi del "maggior bene per il maggior numero" e della "massima felicità per il massimo numero di persone" emersi nel diciottesimo secolo in Gran Bretagna con Jeremy Bentham e John Stuart Mill.

Il Modello illuminista è profondamente interessato alle relazioni dei cittadini fra di loro e con le proprie istituzioni governative. I governi dovranno dunque nascere e restare al potere con il consenso dei governati e tutti i cittadini dovranno godere degli stessi diritti indipendentemente dalle proprie condizioni di nascita o di status, ma accettare al contempo regole e doveri così che siano protetti e si proteggano l'un l'altro, incrementando il bene comune e rimuovendo l'ingiustizia per quanto possibile.


Il Modello economico/elitario neoliberista

Il Modello economico/elitario neoliberista (MEN) si fonda su principi molto diversi e, deve essere riconosciuto, è più difficile da difendere, almeno in pubblico. Detto con onestà, posto di fronte ai valori del Modello illuminista, il MEN non ha alcuna possibilità di prevalere nei confronti della maggioranza delle persone, a lungo incoraggiate ad accontentarsi della mediocrità - la loro e quella degli altri. Il Modello neoliberista non può soddisfare i nobili e socialmente rilevanti obiettivi del Modello illuminista né è in grado di nutrire "l'uomo comune": ricompensa sicuramente le persone capaci e coloro che lavorano duramente, ma di certo non "il maggior numero". Favorisce inoltre la definizione e la ricerca della nozione di "felicità" da parte di ogni individuo per se stesso senza governo o altre definizioni o interferenze esterne.

Il "bene comune" e il "contratto sociale" sono le ultime delle preoccupazioni del MEN - le persone sono in primo luogo individui e devono essere trattate da adulti, non come ingranaggi di un'enorme ruota sociale. Sono inoltre del tutto responsabili della propria condizione e del proprio status. Dunque, se cominciamo con l'accettare gli arbitrari criteri morali del Modello illuminista e a considerarli come l'unica struttura possibile, allora qualunque sistema di misura e di dimostrazione statistica finirà automaticamente con il risultare fuori norma. Se, per esempio, tutti ritengono che la riduzione degli orari di lavoro e l'assistenza gratuita all'infanzia "siano meglio" dell'allungamento dell'orario di lavoro e dell'assistenza retribuita all'infanzia, allora diventerà molto difficile dimostrare la superiorità del MEN usando studi scientifici, statistici, dati sulla crescita economica o sull'occupazione.

Abbiamo fatto riferimento ad alcuni di questi studi, come quelli riferiti a:

- le grandi e crescenti disparità di ricchezza concentrata sempre più al vertice della società;

- la caduta delle quote di valore economico che pesano sul lavoro e il conseguente aumento delle quote riservate al capitale;

- la decrescita della spesa pubblica che si ripercuote direttamente sulla diminuzione degli standard di vita e sul benessere individuale della popolazione.

Questi e altri studi simili dovrebbero essere confinati il più possibile a un pubblico limitato, preferibilmente accademico, dal momento che servono unicamente a far infuriare la popolazione e a vanificare la nostra proposta.

Quello che vogliamo dimostrare è che né la preferenza popolare, né gli elementi scientifici, né i criteri morali arbitrari ma generalmente approvati del Modello illuminista possono essere chiamati a difesa della causa dei Committenti. Enunciazioni dirette, come liberté-égalité-fraternité, e altri slogan simili, non sono il cavallo di battaglia del MEN.

Per promuovere il Modello elitario neoliberista, non ci resta dunque che intraprendere un delicato compito pedagogico che può portare frutti esclusivamente attraverso conosciute tecniche di asserzione, ripetizione, dimostrazione di fiducia in se stessi e - come vedremo in alcuni pratici esempi - di occultamento. E dal momento che alcune persone trovano attraenti i valori dell'Illuminismo e che l'assenza di questi valori rappresenta il punto debole del Modello economico/elitario neoliberista, è necessario definire, promuovere e difendere altri valori. Principi, valori e "verità" del MEN dovranno sostituire quelli del Modello illuminista ed essere costantemente rafforzati.

Questo compito è cruciale. L'obiettivo è imporre convinzione e "senso comune" condiviso invece di tentare di fornire invano prove non disponibili. Fra i principi da ripetere e riaffermare in modo inflessibile includeremmo di certo i seguenti:

- i mercati sono saggi, sanno naturalmente quello che fanno e la soluzione del mercato è di certo preferibile alla regolamentazione e all'intervento del governo;

- l'impresa privata porta a termine qualunque compito meglio di quella pubblica in base a criteri di efficienza, qualità, disponibilità e prezzo;

- il libero mercato, per quanti difetti possa avere, servirà infine l'intera popolazione di qualunque paese e di ogni categoria meglio del protezionismo;

- il capitale è la linfa vitale di un sistema di successo e deve essere libero di circolare in qualunque settore decida di farlo;

- una società davvero libera non può esistere in assenza di libero mercato; ne consegue che il capitalismo è l'habitat naturale della democrazia;

- è normale e desiderabile che attività come la sanità e l'istruzione siano lucrative, fondate sulla scelta di un fornitore offerta a tutti i consumatori. La scelta è democratica;

- le persone dovranno quindi pensare a se stesse innanzitutto come "consumatori", o in un gergo più consono ai tempi, come "committenti", piuttosto che come "cittadini" con un lungo elenco di "diritti". Dovranno concentrarsi su scelte, desideri e bisogni individuali e non su quello che hanno in comune con altri e possono condividere con loro;

- il primo dovere è verso se stessi e verso la propria famiglia; è necessario rispettare la legge e accettare il dovere patriottico di sostenere le forze di sicurezza e in particolare l'esercito e la polizia del proprio paese. Oltre a questo gli individui non hanno particolari responsabilità nei confronti di nessuno che non abbiano scelto e di certo non nei confronti di interi gruppi in astratto (per esempio "i poveri", "i disoccupati", "i disabili");

- la riduzione delle tasse, in particolare per i più ricchi, garantirà grandi investimenti e di conseguenza la creazione di posti di lavoro e prosperità;

- la diseguaglianza non è un "problema" da risolvere, ma una condizione intrinseca a ogni società ed è probabilmente genetica, forse perfino razziale (saranno necessarie nuove ricerche scientifiche su questo argomento);

- esistono intrinseche differenze di valore tra culture diverse e, in generale, "l'Occidente è meglio";

- se le persone sono insoddisfatte della propria condizione non hanno che da rimproverare se stesse, dal momento che il lavoro e la perseveranza sono sempre premiati;

- le persone ricche (con l'eccezione di flagranti casi di grandi eredità) si sono guadagnate il denaro che possiedono. L'imprenditorialità è un grande dono per la comunità e andrebbe alimentata. Dovrebbe essere consentito all'imprenditore conservare per intero, o in buona parte, la ricchezza e usarla come meglio crede, con l'eccezione di particolari azioni legalmente vietate;

- nel caso specifico degli Stati Uniti, coloro che non praticano nessuna religione o, cosa ancora più grave, che si dichiarano atei, andrebbero considerati quantomeno sospetti e inattendibili;

- la scienza è sempre contestabile e non è mai in grado di presentare altro che teorie. Queste possono sempre essere confutate, in particolare in riferimento a dottrine come l'evoluzione che sono in conflitto con il precetto religioso. Alcune recenti affermazioni scientifiche, circa il riscaldamento globale e il cambiamento climatico dovuto alla mano dell'uomo, per esempio, andrebbero messe seriamente in discussione. Creare il dubbio è in genere sufficiente a togliere questioni come queste dall'agenda, dalle prime pagine e dai telegiornali;

- in cambio della loro libertà, che è un dono prezioso, le persone dovranno essere responsabili di se stesse e non attendersi né carità né sussidi governativi. Andrebbero tuttavia incentivate le contribuzioni caritatevoli dal momento che la carità è un altro modo di sostituire il pubblico con il privato;

- questo modello non è crudele e critiche a questo proposito sono ingiustificate. Coloro che siano davvero bisognosi e senza risorse non per colpa loro dovranno essere sostenuti dallo stato, anche uno stato minimo, e non dovrà essere consentito che muoiano di fame o di freddo.

[...]


In breve, per far crescere il MEN neoliberista è necessario provocare riflessi e non riflessioni. Mentre commercianti, manager e agenzie pubblicitarie parlano in continuazione di "pensare in modo libero e creativo", noi riteniamo che tutto questo debba essere limitato il più possibile.

Se così non fosse le persone non avrebbero fede nelle soluzioni ai loro problemi offerte dal MEN: benefici del mercato libero, economia monetarista, privatizzazione dei servizi pubblici, taglio delle tasse per le fasce alte, freno ai sindacati, indebolimento delle conquiste storiche dei lavoratori, politiche di contenimento dello stato sociale e disprezzo nei confronti dei destinatari dell'assistenza pubblica e delle fasce povere in generale. Vorremmo aggiungere a queste soluzioni apertura e rispetto nei confronti dell'attività imprenditoriale, del supremo valore nazionale della "competitività" e, come ripetono in continuazione la defunta Costituzione europea e il suo rimpiazzo, il Trattato di Lisbona, "una concorrenza libera e priva di distorsioni all'interno e fra gli stati".


Grandi costruttori di consenso

L'importanza del consenso e della "costruzione del senso comune" non fu riconosciuta fin quando le due nozioni non diventarono centrali nel ventesimo secolo grazie a due grandi pensatori. Una delle nostre guide filosofiche alla costruzione del consenso è paradossalmente un marxista, Antonio Gramsci. Costretto in un carcere fascista, negli anni venti concepì e sviluppò la nozione di "egemonia culturale". Questo concetto descrive la strada che una classe sociale che voglia governare deve necessariamente percorrere se vuole esercitare il dominio ideologico. Gramsci metteva l'accento sul fatto che una classe dominante non può governare soltanto tramite violenza, forza e oppressione, quantomeno non a lungo: deve far proprio quello che oggi chiameremmo il soft power, vale a dire l'abilità di persuadere, convincere e attrarre tramite cultura, valori e istituzioni.

Questo obiettivo non può essere raggiunto dall'oggi al domani ed è necessario che la potenziale classe dominante intraprenda la "lunga marcia attraverso le istituzioni". Nei decenni passati, il Modello elitario neoliberista - prima negli Stati Uniti, poi in Europa e infine altrove - ha percorso un lungo cammino che gli ha consentito di stabilire la propria egemonia culturale seguendo - consapevolmente o meno - il consiglio di Gramsci.

Ha poca importanza se i promotori del MEN abbiano letto o sentito parlare di Gramsci: persone come i Committenti hanno contribuito a far fare grandi progressi a questo modello negli ultimi trent'anni. Ora è profondamente radicato nella psiche di decine, se non centinaia di milioni di persone. La sua affermazione in casa, negli Stati Uniti, è stata straordinaria - sia sufficiente prendere in considerazione il fenomeno del Tea Party -, ma questo paradigma ha fatto grossi progressi anche nell'Europa occidentale, negli ex satelliti dell'Unione Sovietica, in Europa orientale e perfino in Australia o in Cina.

Negli anni sessanta il presidente repubblicano degli Stati Uniti Nixon poteva ammettere in pubblico e senza vergognarsene: "Adesso siamo tutti keynesiani". La rivista mainstream della classe media "Time Magazine" nel 1965 (dopo la sua morte) nominò John Maynard Keynes "Uomo dell'anno". Non c'è oggi figura pubblica con voce in capitolo che non sia neoliberista, mentre si fatica a trovare un keynesiano, per non parlare di un marxista.

Il modello elitario/economico neoliberista gode se non di egemonia quantomeno di un saldo predominio non soltanto fra le élite americane, ma anche nelle menti di decine di milioni di americani comuni - e anche di europei - e dunque del potere politico. Perfino i repubblicani moderati, una specie in via di estinzione, si dicono convinti che "le élite liberal" e i "media liberal", acquartierati sulla costa orientale e quella occidentale del paese, promuovano nel paese le loro diaboliche parole d'ordine. Una valutazione oggettiva può misurare l'offensiva di destra nelle università e nelle aule di tribunale così come nei media e nelle stanze del Congresso e della Casa Bianca. La destra repubblicana ha adesso propri media come Fox news e talk show radiofonici che non fingono nemmeno di essere obiettivi, come chiede loro il pubblico. Imporre al popolo le idee neoliberiste e far credere al pubblico che siano loro: questa è l'agenda.


Un'altra grande mente al servizio della costruzione del consenso

Così come Antonio Gramsci ha definito la natura e la necessità dell'egemonia culturale in termini politici e sociologici, altrettanto il nostro secondo eroe, il professore Friedrich von Hayek , ha dato al neoliberismo le sue credenziali e la legittimità economica, legale e accademica. La durevole influenza di Hayek fornisce un'eloquente testimonianza del valore a lungo termine dell'investire in ideologia e della comunicazione. Il suo contributo pionieristico per rimpiazzare il Modello illuminista con il Modello elitario neoliberista è diventato chiaro nel corso degli ultimi decenni. Oggi possiamo verificare che alcune delle sue idee riguardanti, per esempio, la libertà di mercato sono messe in pratica in tutto il mondo, difese perfino in alcune costituzioni come il Trattato dell'Unione europea di Lisbona. Altre idee di Hayek sono state considerate per molti anni troppo estreme eppure oggi hanno l'ardire di esprimerle molte più persone di quante abbiano mai osato farlo e la crisi finanziaria ne ha rafforzato la rilevanza.

Hayek, un economista austriaco in fuga dal nazismo e finito a insegnare alla University of Chicago, credeva, per esempio, che ogni autorità centralizzata, non importa come inizi e quanto sia ben intenzionata, è in fondo potenzialmente totalitaria perché interviene costantemente e finisce con lo scegliere al posto della popolazione nonostante sia fondamentalmente incapace di determinare quello che gli individui vogliono e di cui necessitano. Perché guardare a un'autorità centralizzata quando le quotazioni del mercato possono fornirci le informazioni di cui abbiamo bisogno riguardo ai desideri del pubblico? È il mercato l'agente deputato a farlo.

Un'ulteriore innovazione di questo grande economista, saggista e filosofo è il suo concetto di "legge negativa". Detta in modo diverso, il compito della legge non è prescrivere quello che la gente deve fare, ma stabilire quello che non deve fare. Non dovrebbe dare a nessuno il potere positivo di effettuare azioni di intervento. La legge negativa è giustificata e fondata sulla libertà individuale che implica essere liberi dalla volontà di chiunque altro, inclusa la volontà del legislatore, tranne quando il legislatore decreta che certi atti siano da vietare.

Queste idee erano un tempo totalmente inaccettabili, mentre oggi sono più frequenti e apertamente sostenute come non accadeva dagli anni venti. Fa inoltre parte dell'intelaiatura della dottrina di Hayek l'idea che non sia compito dello stato decidere che un gruppo debba pagare in modo che un altro gruppo possa godere di certi vantaggi; per esempio, che i ricchi siano tassati in modo da fornire scuole e ospedali per i poveri. Hayek risponderebbe alle critiche sostenendo che la "giustizia sociale", come i "diritti umani", è una perniciosa illusione perché poggia su decisioni arbitrarie che possono condurre infine alla tirannia e alla schiavitù.

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I governi in Europa hanno risposto alla crisi continua con programmi di austerità globali che non solo rispettano ma rafforzano i principi essenziali del neoliberismo. Le misure uniformemente stringenti imposte su un crescente numero di stati europei hanno seriamente eroso i valori illuministi, inclusa la solidarietà intergenerazionale e internazionale oltre che i diritti umani individuali. Le persone si sentono deprivate, abbandonate e si ritraggono in se stesse o nella famiglia.

Hanno inoltre cominciato a cedere davanti all'inevitabile (o a quello che ripetutamente è indicato loro come l'inevitabile): il taglio dei benefici pensionistici, del budget all'istruzione e delle agevolazioni per il lavoro giovanile; la crescente pressione sul salario e sulle condizioni di lavoro, la deriva verso la sanità privata o lo stop a politiche di controllo del cambiamento climatico e del degrado ambientale.

L'attuale Unione europea, in contrasto con il periodo durante il quale larghi trasferimenti di "fondi strutturali" erano sistematicamente resi disponibili ai membri più deboli dello stato, ha stretto i cordoni della borsa e porta avanti al contempo il proprio odio etnico nei confronti della popolazione "inferiore" che vive nei paesi del "Club Med". La nozione che uno stato membro, per esempio la Germania, debba pagare parte dei debiti di un altro, per esempio la Grecia, o perfino tollerare che le sue banche private che hanno investito in bond greci ad alto rischio debbano accettare le perdite è ufficialmente rigettata ai più alti livelli. Governi e media popolari educano con grande cura la pubblica opinione e hanno successo nell'inculcare sentimenti simili nella maggioranza della popolazione: la violenza verbale nei giornali accende la rabbia popolare ed è affiancata, ai vertici, da una sorta di ripulsa nietzscheana dei deboli da parte dei forti. Le parsimoniose formiche non vogliono assumersi la responsabilità delle prodighe cicale. Anche tra queste ultime, in molti hanno cominciato a ripetere che loro e i loro paesi hanno "vissuto al di sopra delle proprie possibilità". La maggioranza ritiene che le misure di austerità per abbattere il debito nazionale siano, per quanto incresciose, inevitabili.

Se la popolazione non capisce che i debiti eccessivi nella maggioranza dei paesi europei si sono accumulati a causa degli enormi e continui favori finanziari nei confronti delle banche e del rifiuto di tassare gli strati più ricchi non potrà mai mettere in discussione il dovere di pagare. È facile incoraggiare incomprensioni simili attraverso un giudizioso e costante uso dei nostri cari e vecchi amici: l'ideologia e la comunicazione. Le rivolte fin qui hanno avuto vita breve, non sono state unitarie e hanno ben presto lasciato posto alla disperazione.

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Nessuna reazione sul fronte Ue

Avremmo potuto attenderci una furiosa accusa di colpo di stato di massa contro i governi degli stati membri e contro le loro popolazioni, ma non è accaduto. Lo sbrindellato Modello sociale europeo costruito sull'Illuminismo, e gradualmente migliorato dai conflitti sociali, pare destinato a finire nel silenzio, o come dice il poeta, "non con un bang ma con un piagnucolio". Il six-pack e il nuovo trattato hanno una solida base legale, sono stati democraticamente approvati e la Commissione e il Consiglio, a guida neoliberista, sono in posizione di forza. Il modello di segretezza, prudenza, rapidità ha ancora una volta dimostrato il suo valore ed è ora in grado di annunciare un altro successo. E le buone notizie non sono finite. Nella speranza di non sovraccaricare di dati i Committenti, non possiamo omettere un altro passo radicale fatto in direzione del Modello economico neoliberista da un altro trattato. Il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) è stato ratificato nel settembre 2012 e con i suoi 500 miliardi di euro di capitale sottoscritto rappresenterà il nuovo meccanismo di salvataggio europeo dei paesi in difficoltà.

In teoria "rivolto alla stabilità finanziaria dell'area euro", il Mes è di fatto una ricetta legale con la quale obbligare i contribuenti a salvare le banche in perpetuità, un fondo permanente per il settore privato che sostituisce un paio di fondi contemporanei stabiliti dalla Ue e dal Fmi all'inizio della crisi del debito sovrano.

Il Mes toglie di mezzo le rimanenti tracce di democrazia. E anche il Mes, in merkelese, è "vincolante ed eterno", dal momento che gli stati membri - tutti i paesi dell'eurozona - accettano "irrevocabilmente e incondizionatamente" di pagare entro sette giorni la richiesta di denaro del Mes. Il Consiglio generale della Bce, non eletto, potrà incrementare il capitale del Mes a suo piacimento e il Mes, così come il suo personale, non potrà essere portato in giudizio a qualunque livello per le sue azioni.

La parte più interessante del meccanismo è la completa concessione di potere alle banche. Nemmeno Henry Paulson, ex presidente di Goldman Sachs e segretario al Tesoro di Bush, ci era riuscito. In Europa, il cruciale articolo 123 del Trattato di Lisbona rende la Bce del tutto indipendente dai governi: per questa ragione può concedere prestiti a banche private all'1%, le quali possono in seguito concedere prestiti agli stati membri a interesse libero - di solito superiore all'1%. In altre parole, è una licenza a stampare denaro concessa alle banche private. Qualunque problema sopravvenga interverrà il Mes a saldare il debito.

Mario Draghi, dal 2002 al 2005 vicepresidente e membro del management Committee Worldwide della Goldman Sachs, e attuale presidente della Bce, non appena nominato ha concesso alle banche un sorprendente regalo di Natale. Il 21 dicembre 2011, senza chiedere il permesso a nessuno, Draghi ha creato e distribuito un fondo di 500 miliardi di euro, seguito da un regalo di Capodanno di altri 500 miliardi di euro. Nessuna condizione; le banche possono fare quello che vogliono del denaro - pagare bonus o dividendi, metterlo in paradisi fiscali, prestarlo ai governi, oppure no. In questo modo l'articolo 123 rende la non eletta Bce indipendente dai governi eletti mentre il Mes lascia ai banchieri non eletti la possibilità di chiedere denaro. Mario Draghi fa quello che gli è richiesto di fare e sarà in carica fino al 2019.

Tutti questi strumenti legali, dei quali pochi europei sono a conoscenza, servono il MEN e sacrificheranno molti servizi pubblici e programmi sociali sull'altare della "competitività", parte integrante della strategia di Lisbona, ammodernata e rinnovata nel 2010 per altri dieci anni. Un ammodernamento che servirà sicuramente a offrire ulteriori opportunità per ridurre salari e costi sociali.

Anche i media hanno giocato un ruolo prestabilito. Sono rimasti ammirevolmente silenziosi nel percorso dal six-pack al Trattato sulla stabilità e poi al Mes. Nonostante le misure decretate in questi strumenti siano alquanto lineari, possono apparire tecnicamente complesse se nessuno si preoccupa di spiegarle. Gli alleati neoliberisti nei media non hanno interesse a creare un caso di quanto avviene dietro le quinte a Bruxelles; danno una mano a controllare le proteste fino a quando non sarà troppo tardi per intervenire. Un futuro roseo si prospetta per il Modello economico neoliberista.

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Raccomandiamo il saggio consiglio di don Fabrizio, il principe di Salina, immortale protagonista del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: "Bisogna che tutto cambi affinché tutto resti com'è". O, rafforzando un'altra metafora, è ora di usare due pugni d'acciaio indossando due guanti di velluto.

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Il mercato globale non includerà mai tutti. Lo scopo del mercato non è "creare lavoro" come molti commentatori, inclusi i sindacati che dovrebbero conoscere la risposta meglio di altri, ripetono alla nausea, anche se è utile che le persone lo credano. Lo scopo del mercato è consentire la creazione di valore e dunque di profitto. Il lavoro è incidentale, un sottoprodotto dell'attività economica capitalista.

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